N. 853 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 aprile - 12 novembre 1998

                                N. 853
  Ordinanza   emessa   il   2   aprile   1998  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il 12 novembre 1998)  dal  tribunale  di  Bergamo  nel
 procedimento penale a carico di Curnis Costante ed altri
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Conseguente irripetibilita' delle dichiarazioni indizianti  rese
    nel  corso delle indagini preliminari nei confronti degli imputati
    - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa  -  Lesione
    del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e
    di obbligatorieta' dell'azione penale.
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni  rese  da  detta
    persona  nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il
    giudice  salvo  l'accordo  delle  parti  -  Irragionevolezza   con
    incidenza  sul  diritto  di  difesa  -  Lesione  del  principio di
    indefettibilita'   della    funzione    giurisdizionale    e    di
    obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P.  1988,  artt.  210, comma 4, e 513, comma 2, sostituito dalla
    legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 25, secondo comma, 101,  102,  primo  comma,  111  e
    112).
(GU n.48 del 2-12-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Nel  procedimento  penale  n.  551/1996 r.g. trib. nei confronti di
 Curnis Costante ed altri 21, imputati come in atti;
   Pronunciando  sulla  eccezione   di   legittimita'   costituzionale
 formulata  dal  pubblico  ministero nell'odierna udienza in relazione
 agli artt.   210, comma 4,  c.p.p.  e  513,  comma  2,  c.p.p.  (come
 sostituito dalla legge  n. 267/1997);
   Sentiti i difensori degli imputati;
                             O s s e r v a
   1.  -  All'odierna  udienza,  aperto  il  dibattttnento,  le  parti
 formulavano le rispettive richieste  istruttorie.  Ammesse  le  prove
 dedotte,  si procedeva all'istruzione dibattimentale mediante l'esame
 degli imputati in procedimento  connesso  Tombini  Fabrizio,  Belotti
 Giuliano,   Cavagnis  Tiziana,  Prestini  Silvia,  Zambelli  Oscar  e
 Carobbio  Mirko,  nei  confronti   dei   quali   si   era   proceduto
 separatamente, avendo gli stessi ottenuto la definizione del processo
 mediante riti alternativi.
   Tutti i sunnominati imputati in procedimento connesso si avvalevano
 della facolta' di non rispondere, loro riconosciuta dagli artt. 210 e
 513 c.p.p.
   Il   pubblico  ministero  chiedeva  pertanto  procedersi,  a  norma
 dell'art.  513 c.p.p. cosi' come modificato  dall'art.  1,  legge  n.
 267/1997,  all'acquisizione  dei  verbali delle dichiarazioni rese al
 pubblico  ministero  ed  al  g.i.p.  dai  summenzionati  imputati  in
 procedimento connesso nel corso delle indagini preliminari.
   I   difensori   degli  imputati  (nel  presente  procedimento)  non
 acconsentivano alla acquisizione.
   Il pubblico ministero,  richiamando  una  precedente  pronuncia  di
 questo  tribunale  in data 22 dicembre 1997 (di cui produceva copia),
 sollevava, quindi, eccezione di legittimita' costituzionale in ordine
 agli artt. 210, comma 4 c.p.p. e 513, comma 2  c.p.p.,  in  relazione
 agli  artt.  3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 101, 102, primo
 comma, 111, 112 della Costituzione.
   2.  -  Interpretazione  dell'art.  513  c.p.p.,   come   sostituito
 dall'art.  1, della legge n. 267 dell'8 agosto 1997.
   Rileva  il  tribunale  che  l'art 513 c.p.p., cosi' come sostituito
 dall'art. 1 legge n. 267  del  1997,  dispone:  "1.  Il  giudice,  se
 l'imputato  e'  contumace  o  assente  ovvero  rifiuta  di sottoporsi
 all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia  data  lettura  dei
 verbali  delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero
 o alla polizia  giudiziaria  su  delega  del  pubblico  ministero  al
 giudice   nel   corso   delle  indagini  preliminari  o  nell'udienza
 preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate  nei
 confronti  di  altri  senza il loro consenso.  2. Se le dichiarazioni
 sono state rese dalle persone indicate nell'art.  210, il giudice,  a
 richiesta  di  parte,  dispone,  secondo  i  casi,  l'accompagnamento
 coattivo del  dichiarante  o  l'esame  a  domicilio  o  la  rogatoria
 internazionale  ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con
 le garanzie del contraddittorio. Se  non  e'  possibile  ottenere  la
 presenza  del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi
 suddetti,  si  applica  la  disposizione  dell'art.  512  qualora  la
 impossibilita'  dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al
 momento delle dichiarazioni.  Qualora il dichiarante si avvalga della
 facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali
 contenenti le suddette dichiarazioni  soltanto  con  l'accordo  delle
 parti.  3.  Se  le  dichiarazioni  di cui ai commi 1 e 2 del presente
 articolo sono state assunte ai sensi dell'art. 392  si  applicano  le
 disposizioni di cui all'art.  511".
   La  norma  prevede  dunque  che, qualora una delle persone indicate
 nell'art. 210 c.p.p. (imputato in procedimento connesso)  si  avvalga
 della   facolta'  di  non  rispondere,  si  puo'  dare  lettura  (con
 conseguente acquisizione al fascicolo per il dibattimento) delle  sue
 dichiarazioni predibattimentali, indicate nel comma 1, dell'art. 513,
 soltanto se sussista l'accordo di tutte le parti del processo.
   A  ciascuna  delle  parti processuali viene, pertanto, conferito il
 potere di vietare la lettura e  l'utilizzabilita'  a  fini  probatori
 delle dichiarazioni in questione.
   Ritiene,   inoltre,   questo   tribunale   che  si  ponga  altresi'
 preliminarmente   una   questione   di   conformita'    al    dettato
 costituzionale  degli artt.  210, comma 4, e 513 c.p.p nella parte in
 cui attribuiscono, alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello  stesso
 art.  210  c.p.p.,  la  facolta'  di non rispondere alle domande loro
 rivolte in dibattimento.  Tale questione e'  rilevante  nel  presente
 processo  poiche'  tutti  gli imputati in procedimento connesso sopra
 indicati si sono avvalsi di tale facolta'.
   Siffatta disciplina legislativa si appalesa, ad  avviso  di  questo
 collegio,  in contrasto con alcuni principii di rango costituzionale,
 di talche' va sollevata questione di  legittimita'  costituzionale  a
 norma  dell'art.  23,  legge  n.  87/1953,  nei  termini proposti dal
 pubblico ministero (e gia' esposti dal tribunale di Bergamo in alcune
 pronunce).
   Per  motivi  di  comodita'  espositiva  e'  preferibile  affrontare
 dapprima la questione  concernente  la  nuova  disciplina  introdotta
 dall'art.    1 della legge n. 267/1997, sebbene quella riguardante il
 combinato disposto di cui agli artt. 210, comma 4, e 513  c.p.p.  sia
 logicamente preliminare.
   3.  -  Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art.
 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997.
   Appare evidente nel caso di specie, la rilevanza della questione di
 legittimita' costituzionale del disposto di cui al vigente art.  513,
 comma 2 c.p.p., poiche' l'esame ex art. 210 c.p.p., degli imputati in
 procedimento connesso Tombini, Prestini, Belotti, Cavagnis,  Zambelli
 e  Carobbio e' stato ammesso dal tribunale essendo stato ritenuto non
 manifestamente superfluo o irrilevante detto mezzo di prova; va, poi,
 osservato  che  la  norma  in  questione  subordina  la   lettura   e
 l'acquisizione  al  fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni
 precedentemente rese dai sunnominati -  che  si  sono  avvalsi  della
 facolta'  di  non  rispondere - al consenso delle parti e che tutti i
 difensori degli  imputati  si  sono  opposti  a  tale  lettura.  Tali
 dichiarazioni,  in  applicazione  della  impugnata norma, non possono
 quindi trovare ingresso nel dibattimento.
   4. - Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
 dell'art.  513, comma 2 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n.
 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle
 parti la lettura dei verbali  contenenti  le  dichiarazioni  rese  al
 pubblico  ministero  dalle  persone  indicate  nell'art.  210 c.p.p.,
 qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere.
   Contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma,  25,  secondo
 comma,  101, secondo comma, 102, primo comma, 111, primo comma, e 112
 della Costituzione.
   4.1. - Irragionevolezza della norma.
   La legge n. 267/1997 ha, in buona sostanza, reintrodotto  un  vizio
 di  manifesta  irragionevolezza analogo a quello gia' censurato dalla
 Corte costituzionale nella sentenza n. 254 del 1992, con la quale era
 stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma
 2 c.p.p. (nella formulazione all'epoca vigente) nella  parte  in  cui
 non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura
 dei  verbali  delle  dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo
 articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., ove queste
 si fossero avvalse della facolta' di non rispondere.
   La nuova formulazione  dell'art.  513,  comma  2  c.p.p.,  prevede,
 infatti,  una  diversa  utilizzabilita'  degli  atti a seconda che si
 tratti di dichiaranti in relazione ai quali non e' possibile ottenere
 la presenza o procedere all'esame (in uno dei modi indicati nel comma
 medesimo  della  citata  disposizione)  per   fatti   o   circostanze
 imprevedibili al momento delle dichiarazioni, ovvero che si tratti di
 dichiaranti  che  si  presentano al dibattimento, ma che si avvalgono
 della facolta' di non rispondere.
    Ed, invero, mentre nel primo caso e' consentito  al  giudice  dare
 senz'altro   lettura   (ex   art.  512  c.p.p.)  delle  dichiarazioni
 predibattimentali rese dalle persone indicate nell'art.  210  c.p.p.,
 tale  possibili'ta'  e'  preclusa  nella seconda ipotesi, allorquando
 anche una sola delle parti non vi acconsenta.
   E'  innegabile,  tuttavia,  che nella categoria degli atti divenuti
 imprevedibilmente  irripetibili  sono  sicuramente  da  ricomprendere
 anche    i    verbali    contenenti    le    suddette   dichiarazioni
 predibattimentali di persone, indicate nell'art. 210 c.p.p.,  che  si
 siano  avvalse  in dibattimento della facolta' di non rispondere. Che
 l'irripetibilita'  dell'atto  sia  imprevedibile   (soprattutto   nel
 momento delle precedenti dichiarazioni) e' evidente, ove si consideri
 che  essa dipende da una scelta rimessa al mero arbitrio del soggetto
 (giova rammentare a tale proposito che  la  Corte  costituzionale  ha
 ritenuto  che determini un oggettiva ed imprevedibile irripetibilita'
 dell'atto il tardivo esercizio della facolta' di astensione da  parte
 di prossimo congiunto dell'imputato: sent. n. 179/1994).
   Trattandosi  di  situazioni  identiche, la diversita' di disciplina
 e',  dunque,  sfornita  di  qualunque  ragionevole   giustificazione,
 poiche'  in  entrambi  i  casi  l'atto  e' divenuto imprevedibilmente
 irripetibile e tanto dovrebbe bastare perche' il giudice se ne  possa
 avvalere ai fini di una decisione giusta.
   La  mera  eventualita'  che  delle  dichiarazioni possa essere data
 lettura, ove  tutte  le  parti  lo  consentano,  non  fa  venir  meno
 l'irragionevolezza della disciplina di cui al nuovo art. 513, comma 2
 c.p.p.,  atteso  che l'ostacolo frapposto alla formazione della prova
 consiste in un insindacabile potere rimesso di fatto al libero volere
 di tutte le parti (comprese quelle che, in ipotesi, non abbiano alcun
 interesse processualmente rilevante in ordine alla prova stessa),  di
 guisa  che  ciascuna  di  esse potrebbe opporsi all'utilizzo di prove
 irrilevanti rispetto alla propria posizione - ma rilevanti rispetto a
 posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un  impedimento  al
 regolare esercizio della giurisdizione.
   4.2. - Principio di non dispersione della prova.
   Nella  pronuncia sopra citata (n. 254/1992) la Corte costituzionale
 osservo'  che  nel  vigente  codice  processuale  e'  rinvenibile  un
 fondamentale   criterio   tendente   contemperare   il  rispetto  del
 principio-guida  'dell'oralita'  con   l'esigenza   di   evitare   la
 "perdita",  ai  fini  della  decisione, di quanto acquisito prima del
 dibattimento e che in questa sede sia divenuto irripetibile.
   Nella successiva  sentenza  n.  255/1992  la  Corte  ha,  altresi',
 affermato  che  "...  l'oralita',  assunta a principio ispiratore del
 nuovo sistema, non  rappresenta,  nella  disciplina  del  codice,  il
 veicolo  esclusivo  di  formazione della prova nel dibattimento; cio'
 perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che
 rimanere quello della ricerca della  verita'  ...  di  guisa  che  in
 taluni  casi  in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente
 e' dato rilievo nei limiti ed  alle  condizioni  di  volta  in  volta
 indicate, ad atti formatisi prima e al di fuori del dibattimento". La
 Corte  ha,  quindi,  individuato,  siccome emergente da vari istituti
 processuali, il c.d. principio di non dispersione dei mezzi di prova,
 non compiutamente o non genuinamente acquisibili col metodo orale. Si
 pensi ad esempio al testimone (gia' sentito nella fase delle indagini
 preliminari) che opponga un irremovibile rifiuto a deporre;  in  tali
 casi  il  legislatore,  posto nell'alternativa di disperdere la prova
 testimoniale precedentemente acquisita o  rendere  utilizzabile  tale
 atto  anteriormente  formato,  ha  optato  per questa seconda scelta,
 consentendo la lettura delle dichiarazioni gia' rese in precedenza.
   Se  cosi'  non  fosse, quello dell'oralita' diverrebbe un principio
 fine a se stesso,  sul  cui  altare  verrebbe  sacrificato  lo  scopo
 essenziale  del  processo  penale,  che  consiste nella ricerca della
 verita' e nella pronuncia di una decisione giusta.
   Anche sotto questo profilo la norma impugnata pare quindi priva  di
 giustificazione, ponendo in essere una irragionevole preclusione alla
 ricerca della verita'.
   4.3.  -  Inesistenza  di  un  principio  dispositivo.  Principio di
 indefettibilita'   della   giurisdizione.   Principio   del    libero
 convincimento del giudice.
   La  Corte,  nella  sentenza n. 111 del 1993 ha, inoltre, affermato:
 "... La configurazione del potere istruttorio  conferito  al  giudice
 dall'art.  507  come  eccezionale,  e  quindi da escludere in caso di
 decadenza  o  inattivita'  delle  parti,   discende,   nella   logica
 presupposta  dai  giudici  remittenti, dall'assunzione dell'immanenza
 nel nuovo codice, come conseguenza della scelta  accusatoria,  di  un
 principio  dispositivo  in  materia di prova. Si tratta, pero', di un
 assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel
 tessuto normativo concretamente  disegnato  nel  codice.  E'  per  la
 verita'    incontroverso    che   sarebbe   contrario   ai   principi
 costituzionali di legalita' e obbligatorieta'  dell'azione  concepire
 come  disponibile  la  tutela giurisdizionale assicurata dal processo
 penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame
 strutturale e funzionale tra lo strumento processuale  e  l'interesse
 sostanziale  pubblico  alla  repressione dei fatti criminosi che quei
 principi intendono garantire; dall'altro,  contraddire  all'esigenza,
 ad  essi  correlata,  che  la responsabilita' penale sia riconosciuta
 solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile
 della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo  che
 il  nuovo  codice  non conosca procedure in cui la concorde richiesta
 delle parti vincoli, il giudice sul merito della decisione; prova  ne
 sia   che   ad   un  simile  esito  non  conduce  neanche  l'istituto
 dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sent.  n. 313 del 1990).
 Ma un principio dispositivo non  puo'  dirsi  esistente  neanche  sul
 piano  probatorio,  perche' cio' significherebbe rendere disponibile,
 indirettamente, la stessa res iudicanda. Ed anche qui la  riprova  si
 ha  nell'altro  rito speciale in cui maggior spazio e' riservato alla
 volonta' delle parti, e cioe' nel giudizio abbreviato,  dato  che  in
 esso  l'accordo  di  queste  sulle  prove utilizzabili non vincola il
 giudizio sulla loro concludenza; ed  anzi  non  puo'  neppure  essere
 inteso  - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentt.  n. 92
 del 1992 e  56  del  1993)  -  come  assolutamente  preclusivo  delle
 integrazioni   probatorie   eventualmente  necessarie,  pena  la  sua
 incompatibilita' con i principi costituzionali. Ma l'assunzione di un
 principio dispositivo in materia di prova non trova  riscontro  nella
 normativa  positiva  neanche  sul  terreno del giudizio ordinario, il
 metodo  dialogico  di  formazione  della  prova  e'  stato,   invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel   suo  particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale .... Ma e'  soprattutto  dall'art.
 507  che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti
 in materia di prova. Questa Corte ha gia' avuto modo di  dire,  nella
 sentenza  n.  241  del 1992 che tale norma - inserita ''in un sistema
 processuale imperniato su un ampio riconoscimento  del  diritto  alla
 prova  e  nel quale l'aquisizione del materiale probatorio e' rimessa
 in primo luogo all'iniziativa delle parti'' - conferisce  al  giudice
 il  potere-dovere  d'integrazione,  anche  d'ufficio, delle prove per
 l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza,  per  qualsiasi  ragione
 dell'iniziativa  delle  parti impedisca al dibattimento di' assolvere
 la funzione di assicurare la piena conoscenza da  parte  del  giudice
 dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una
 giusta  decisione  ...  Il potere conferito al giudice dall'art.  507
 e', dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale  ...    E'
 del  resto evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato garantire
 l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o
 le deliberate inerzie del pubblico ministero  conferendo  al  giudice
 per  le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli
 l'imputazione ..; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale  il
 potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica".
   In  sostanza,  nella  predetta  pronuncia  la Corte ha riconosciuto
 incompatibile  con  i   principi   costituzionali   di   uguaglianza,
 legalita',  obbligatorieta'  dell'azione  penale,  un processo penale
 ridotto a "... tecnica di  risoluzione  delle  controversie  nel  cui
 ambito  al  giudice  sarebbe  riservato  essenzialmente  un  ruolo di
 garante  dell'osservanza  delle  regole  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte,  ed  il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i
 fatti reali  onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu'  possibile
 corrispondente  al  risultato  voluto  dal  diritto sostanziale ma di
 attingere - nel presupposto di  un'accentuata  autonomia  finalistica
 del  processo - quella sola ''verita''' processuale che sia possibile
 conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e  nel
 rispetto  di  rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al
 modello" (cfr. sent. n. 111 del 1993).
   Sotto questo profilo e'  innegabile  che  il  potere  insindacabile
 concesso  alle  parti  (di  acconsentire  o  meno  alla lettura delle
 dichiarazioni predibattimentali) dalla norma  impugnata  e'  tale  da
 consentire  alle stesse di disporre ad libitum della prova e, quindi,
 del processo stesso.
   Va, poi,  sottolineato  che  la  disciplina  dell'utililizzabilita'
 delle  dichiarazioni  predibattimentali dell'imputato in procedimento
 connesso che  si  sia  avvalso  della  facolta'  di  non  rispondere,
 introdotta  dalla  Corte  con  la  citata  sentenza  n. 254 del 1992,
 tendeva a bilanciare  due  valori  diversi:  l'esercizio  dell'azione
 penale,  ma  soprattutto,  da  un  lato,  l'esercizio  della funzione
 giurisdizionale e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa.
   La nuova disciplina legislativa consente, invece,  all'imputato  di
 opporsi   alla   lettura   di   dichiarazioni   accusatorie  (benche'
 imprevedibilmente irripetibili) rese  a  suo  carico,  permettendogli
 cosi' di disporre a piacimento del processo, potendo financo giungere
 a paralizzare l'esercizio della giurisdizione - e prima ancora quello
 dell'azione  penale  -  nei  suoi  confronti,  specie allorquando non
 sussistano altri elementi di prova a carico.
   Detto ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo'
 che essere ritenuto irragionevole.
   La   stessa  Corte  costituzionale  (sent.  n.  111  del  1993)  ha
 considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico  ministero
 (organo  cui  pure  la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate
 esclusivamente all'applicazione della legge: cfr.  sent.  n.  88  del
 1991) di disporre del processo, disponendo della prova.
   Non si puo', allora non considerare parimenti illegittimo l'analogo
 potere  riconosciuto  dalla  legge  a  soggetti  privati - quali sono
 l'imputato e la parte civile -  che,  come  tali,  orientano  i  loro
 comportamenti secondo logiche meramente individualistiche.
   Il  precetto  di cui all'art. 101, secondo comma Cost. proclude una
 esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo nel
 processo penale, in ragione della  indisponibilita'  degli  interessi
 pubblici  e  delle  posizioni  soggettive  che  di esso costituiscono
 l'oggetto; la  disponibilita'  della  prova  renderebbe  disponibile,
 indirettamente, la stessa res iudicanda.
   Come  precisato  dalla  Corte  nella  piu'  volte  citata  sent. n.
 111/1993 "il metodo dialogico di  formazione  della  prova  e'  stato
 invero,  prescelto  come  metodo  di  conoscenza  dei  fatti ritenuto
 maggiormente  idoneo  al  loro  per  quanto  piu'   possibile   pieno
 accertamento   e   non  come  strumento  per  far  programmaticamente
 prevalere  una  verita'  formale  risultante   dal   mero   confronto
 dialettico  tra  le  parti sulla verita' reale: altrimenti ne sarebbe
 tradita la  funzione  conoscitiva  del  processo,  che  discende  dal
 principio  di  legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito
 dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   La Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di  dichiarazioni
 di ricusazione fondate sui medesimi motivi - ha di recente avuto modo
 di  ribadire (sent. n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio di
 indefettibilita' della giurisdizione, ricollegabile a  vari  principi
 costituzionali  fra  i  quali  l'art.  101  della Costituzione". E la
 Corte, confrontando il principio suddetto con quello  di  uguaglianza
 inteso  come  "canone  di  coerenza  dell'ordinamento  giuridico, cui
 devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...",  ha  aggiunto:
 "E  qui  va  riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore
 per quanto attiene alla individuazione delle  scansioni  processuali,
 tuttavia  nel  rispetto  del  principio di ragionevolezza perche' non
 venga compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo.  Si'  che
 sono  da  censurare  pure  alla  luce  del  principio di razionalita'
 normativa, istituti o regole quando si presti  ad  un  uso  distorto,
 recando  cosi'  lesione  dell'efficiente  svolgimento  della funzione
 giurisdizionale".
   Va, poi, aggiunto e  la  formazione  di  un  razionale  e  motivato
 convincimento  giudiziale  -  artt. 101, secondo comma, e 111 Cost. -
 non  e'  solo  parte   integrante   dell'esercizio   della   funzione
 giurisdizionale, ma e' lo scopo stesso del processo.
    Ad  avviso  del tribunale, la normativa impugnata, introducendo il
 potere delle parti di disporre della prova consente di sottrarla alla
 razionale  e  motivata  valutazione  del   giudice,   in   tal   modo
 impedendogli  di  formarsi  un  convincimento che si avvicini il piu'
 possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo  la
 pronuncia di una giusta decisione.
   Vale  anche  notare  che, almeno nella materia dell'utilizzabilita'
 delle prove processuali penali, quando, come nel caso di  specie,  la
 legge  devolve  a  soggetti  privati  (quali  sono  gli imputati, gli
 imputati in procedimento connesso e la  parte  civile)  la  decisione
 ultima   e  definitiva,  oltre  che  immotivata  ed  incontrollabile,
 sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata  dalla  legge
 stessa  la  regola  secondo  cui il giudice e' soggetto soltanto alla
 legge: per il tramite formale di una norma  giuridica  il  giudice  -
 nell'esercizio  della  funzione  che  gli  e'  propria  - viene fatto
 soggiacere alle decisioni di altri.
   4.4.  -  Principio  della   obbligatorieta'   dell'azione   penale.
 Principio di legalita'.
   Circa  la  funzione  ed  il  ruolo del pubblico ministero, la Corte
 (nella sentenza n. 88 del 1991) richiamando la  precedente  pronuncia
 n.  84 del 1979, ha rammentato che: "l'obbligatorieta' dell'esercizio
 dell'azione penale ad opera del p.m. ... e' stata  costituzionalmente
 affermata  come  elemento  che  concorre  a  garantire,  da  un lato,
 l'indipendenza del p.m.  nell'esercizio  della  propria  funzione  e,
 dall'altro,  l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale;
 sicche' l'azione e' attribuita a tale organo senza consentirgli alcun
 margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso  ufficio.
 Piu'  compiutamente il principio di legalita' (art. 25, secondo comma
 Cost.) che rende doverosa la repressione  delle  condotte  violatrici
 della  legge  penale,  abbisogna,  per la sua concretizzazione, della
 legalita' del procedere; e questa, in  un  sistema  come  il  nostro,
 fondato  sul  principio  di  uguaglianza dei cittadini di fronte alla
 legge  (in  particolare,  alla  legge   penale),   non   puo   essere
 salvaguardata  che  attraverso  l'obbligatorieta' dell'azione penale.
 Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente
 possibile se l'organo cui l'azione  e'  demandata  dipende  da  altri
 poteri:   sicche'  di  tali  principi  e'  imprescindibile  requisito
 l'indipendenza del p.m. Questi  e'  infatti,  al  pari  del  giudice,
 soggetto  soltanto  alla  legge  (art. 101, secondo comma Cost.) e si
 qualifica come ''un magistrato  appartenente  all'ordine  giudiziario
 collocato  come  tale  in  posizione  di  istituzionale  indipendenza
 rispetto  ad  ogni  altro  potere'',  che  non  fa  valere  interessi
 particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale
 all'osservanza  della  legge (cfr.   sentt. nn. 190 del 1970 e 96 del
 1975). Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale e', dunque,
 punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema
 costituzionale, talche' il suo venir meno  ne  altererebbe  l'assetto
 complessivo.   Di   conseguenza   l'introduzione  del  nuovo  modello
 processuale non lo ha scalfito, ne' avrebbe potuto scalfirlo ...
   Per altro verso, l'eliminazione di ogni  contaminazione  funzionale
 tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della
 prova  e  di  liberta'  personale  -,  non  comporta  che,  sul piano
 strutturale ed organico, il  p.m.  sia  separato  dalla  magistratura
 costituita  in  ordine  autonomo  ed  indipendente. Nell'architettura
 della delega, infatti, il ruolo  del  p.m.  non  e'  quello  di  mero
 accusatore,  ma  pur  sempre  di  organo  di  giustizia  obbligato  a
 ricercare tutti gli  elementi  di  prova  rilevanti  per  una  giusta
 decisione ''ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato'' (cfr.
 dir. n. 3 ...).
    Coerentemente  a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che
 il potere-dovere del p.m. di estendere le proprie  indagini  a  tutto
 cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa tende
 ''nel  rispetto  assoluto  dei principi dei sistema accusatorio e del
 ruolo di 'parte' del p.m., ad evidenziare  la  natura  ordinamentale,
 giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione'' (Relazione al
 progetto  preliminare,  91);  ed  ha  poi  confermato tale natura nel
 redigere il nuovo art.  190  dell'ordinamento  giudiziario  (art.  29
 testo  allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449). Il principio di
 obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al
 controllo di legalita' effettuato dal giudice: ed in esso e'  insito,
 percio',  quello  che in dottrina viene definito favor actionis. Cio'
 comporta  non  solo  il  rigetto  del   contrapposto   principio   di
 opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione penale
 facoltativa  ...;  ma  comporta, altresi', che in casi dubbi l'azione
 vada esercitata e non omessa".
   Occorre rammentare che gli atti  compiuti  dal  pubblico  ministero
 sono bensi' atti formati in assenza di contraddittorio, ma sono anche
 atti  compiuti  da  un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la
 cui azione  e'  rivolta  esclusivamente  all'applicazione  imparziale
 della  legge (sent. n. 88 del 1991). Si tratta, altresi', di atti che
 godono di particolari garanzie processuali  quanto  alla  rispondenza
 alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali.
   Proprio   per  questa  loro  particolare  affidabilita',  la  legge
 conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m. nella fase
 delle indagini, con riferimento sia  ad  atti  che  spiegano  i  loro
 effetti  all'interno  di tale fase (es.: esercizio dell'azione penale
 nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori
 dalla fase delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza  di  non
 doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che
 incidono   profondamente   su   diritti  costituzionali  primari  dei
 cittadini (es.:  emissione di decreti di perquisizione  e  sequestro,
 adozione di misure cautelari personali).
   Non  solo,  ma  l'utilizzazione  delle  risultanze  emergenti dalle
 indagini - tra le quali  le  dichiarazioni  dei  coimputati  o  degli
 imputati in procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa,
 ma e', in base all'art. 112 Cost., obbligatoria.
   Tutto  cio'  premesso,  ritiene questo tribunale che costituisca un
 irragionevole ostacolo all'esercizio dell'azione  penale,  oltre  che
 una  evidente  contraddizione  ordinamentale,  disporre  che atti sui
 quali il pubblico ministero ha fondato il  doveroso  esercizio  della
 sua  funzione,  quando  siano divenuti imprevedibilmente irripetibili
 siano utilizzabili in dibattimento solo subordinatamente al  consenso
 di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli stessi imputati
 nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in
 base alla legge i propri effetti.
   Risulta   cioe'  irrazionale,  da  un  lato,  imporre  al  pubblico
 ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo,  elementi
 di  prova  circa  il  fatto,  imporgli  di chiedere misure cautelari,
 introdurre meccanismi  di  garanzia  contro  l'inerzia  del  pubblico
 ministero,   e   poi,   quando   quegli   elementi   siano   divenuti
 imprevedibilmente     irripetibili,     conferire     al     soggetto
 controinteressato  il  potere di disporre a suo piacimento della loro
 utilizzabilita' secondo logiche  che,  per  la  natura  del  soggetto
 investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche,
 privatistiche e, comunque, insindacabili ed immotivate.
   5.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 degli artt. 210, comma 4 e 513 c.p.p. nella parte  in  cui  prevedono
 che  l'imputato in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni
 accusatorie a carico di soggetti non presenti all'atto di  assunzione
 davanti  al  pubblico  ministero, possa avvalersi, nel dibattimento a
 carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere.
   Ritiene, infine, questo collegio condivisibile  l'opinione  di  chi
 afferma  che  le  discrasie  e  le  contraddizioni  che  connotano la
 disciplina introdotta con l'art. 1, legge n. 267 del  1997  -  ed  in
 particolare  quella di cui al comma 2 dell'art. 513 c.p.p. - siano da
 attribuire alla creazione legislativa di un vero e proprio conlllitto
 - in quanto tale irragionevole - tra diritto di difesa  ed  esercizio
 della funzione giurisdizionale.
   Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto
 all'assunzione  delle  prove  nel  contraddittorio delle parti e, per
 altro verso il diritto degli  imputati  a  non  sottoporsi  all'esame
 dibattimentale  -  entrambi  espressione del piu' generale diritto di
 difesa  -  la  legge  finisce  per  sacrificare   l'esercizio   della
 giurisdizione:  in nome del diritto al contraddittorio ciascuna parte
 puo'   vietare   ad   libitum   l'utilizzabili'ta'  di  dichiarazioni
 predibattimentali di un  altro  soggetto  (imputato  in  procedimento
 connesso   nei   cui   confronti   si   procede  o  si  e'  proceduto
 separatamente) il quale, esercitando il proprio  diritto  di  difesa,
 abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo, avvalendosi della
 facolta' di non rispondere.
   Emerge,  pertanto: 1) l'irragionevolezza del meccanismo poiche' gli
 artt. 2, 3, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102  e  111  della
 Costituzione   fondano   il   principio   di  indefettibilita'  della
 giurisdizione penale e, in particolare, di un giudizio finalizzato ad
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del processo, affinche' possa essere emessa una giusta decisione;  2)
 che  il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione,
 ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i  diversi  soggetti;
 3)  che  il  conflitto  in  questione e' stato erroneamente risolto a
 tutto danno della giurisdizione.
   E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta'  di  mentire)
 possono  essere  indirettamente  tutelati,  in  tanto  in  quanto non
 consentano  di  bloccare  ne'  l'esercizio  dell'azione  penale,  ne'
 l'esercizio  della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo
 ad astenersi dal collaborare con gli organi  preposti  alla  verifica
 della  responsabilita'  penale.  Quindi  i  contemperamenti rivolti a
 risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti  non
 possono che essere ricercati su altri piani.
   Il  sistema  processuale  introdotto  nel  1988  -  tendenzialmente
 accusatorio - ha fatto proprio e valorizzato come  principio  cardine
 quello   dell'oralita',   ossia   della  formazione  della  prova  in
 dibattimento, cioe' nel contraddittorio  delle  parti  di  fronte  al
 giudice  che  decide  nel merito del processo.   Cio', tra l'altro in
 armonia con  il  disposto  dell'art.  6,  comma  2,  lett.  d)  della
 Convenzione    per    la    salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo.
 L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella
 formazione della  prova,  del  resto,  e'  apparso  uno  degli  scopi
 fondamentali  che  hanno  mosso  l'azione  del  legislatore del 1997.
 Seppure  a  mezzo  di  meccanismi  processuali  irrazionali e' palese
 l'intenzione di  costruire  il  contraddittorio  come  diritto  delle
 parti.
   E'  pero'  evidente  che  una  delle condizioni per lo sviluppo del
 contraddittorio  nel  dibattimento  e'  che  il  soggetto  sottoposto
 all'esame sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli
 vengono  rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede
 al soggetto medesimo il potere insindacabile di  vanificare  l'altrui
 diritto all'esame e controesame.
   Mentre  la  concessione  alle  parti di un diritto di veto rispetto
 all'acquisizione  delle  dichiarazioni   predibattimentali   divenute
 irripetibili  (rese  in  assenza  di  contraddittorio  dalle  persone
 indicate nell'art.  210 c.p.p.) finisce per  ledere  irreparabilmente
 il  razionale  esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della
 giurisdizione  e  lo  scopo  stesso  del   processo,   l'acquisizione
 immediata  di  tali  dichiarazioni  finisce  per ledere il diritto di
 difesa delle parti inteso come diritto all'esame ed al controesame.
   Cio' posto - considerando come fondamentali  principi  del  sistema
 processuale  quello  del  diritto  al  contraddittorio e, dall'altro,
 quelli di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale,
 funzione   conoscitiva   del    processo    e    del    dibattimento,
 indefettibilita' della giurisdizione - appare irrazionale riconoscere
 all'imputato in procedimento connesso, nei cui confronti si procede o
 si e' proceduto separatamente, che abbia reso al pubblico ministero o
 al  g.i.p.  dichiarazioni  che  costituiscono  elemento  indiziante a
 carico di determinati soggetti, la facolta'  di  non  rispondere  nel
 dibattimento che si celebra a carico di quei soggetti.
   In  tali  termini non appare manifestamente infondata, in relazione
 agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione la questione  di
 legittimita'  costituzionale degli artt. 210, comma 4 e 513, comma 2,
 c.p.p.
   E' appena il caso di sottolineare che un'eventuale declaratoria  di
 illegittimita'  costituzionale  delle  norme  predette  e  nei limiti
 suindicati consentirebbe a tutte le parti di  esercitare  il  proprio
 diritto  all'esame  - con le correlative ed eventuali contestazioni -
 mentre non introdurrebbe ovviamente per gli imputati in  procedimento
 connesso,   nei   cui   confronti   si  procede  o  si  e'  proceduto
 separatamente, l'obbligo di  dire  la  verita',  con  le  correlative
 sanzioni.
   In  sostanza,  l'unica  via  razionale  aperta  alla  soluzione del
 problema in  questione  e'  quella  di  ritenere  che,  a  fronte  di
 dichiarazioni  indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri,
 il diritto di difesa del dichiarante si  affievolisca  di  fronte  al
 diritto  di  difesa  dei  chiamati  in  causa,  ai  quali deve essere
 riconosciuta la possibilita' di interrogarlo in ordine  alle  accuse,
 direttamente od indirettamente, rivolte loro.
   La  ragionevolezza  di  tale  affievolimento  si  apprezza anche in
 considerazione del fatto che, quando in  sede  penale  -  indagini  o
 dibattimento  -  un  soggetto  indagato  o imputato rivolge accuse ad
 altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in  quel
 modo preciso il proprio diritto di difesa, con tutti i benefici e gli
 inconvenienti  del  caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria
 (art. 112 Cost.)  di approfondire quelle affermazioni, con  tutte  le
 conseguenze  in  termini  sia  di  eventuale  sacrificio degli altrui
 diritti  individuali  in  sede cautelare, sia di dispendio di energie
 degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le  conseguenze
 di  un tale comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino
 - non e' possibile  esimere  il  dichiarante  da  una  assunzione  di
 responsabilita'  che  comporti,  quanto meno, l'obbligo di rispondere
 alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame.
   Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non  e'  del  tutto
 obliterato, posto che egli manterrebbe (in quanto non assume la veste
 di  testimone)  la  facolta'  di  dare  versioni diverse, ritrattare,
 perfino  mentire,  facolta'  pure  essa  ritenuta,   fino   ad   oggi
 espressione del diritto di difesa.
   Al  legislatore  rimarrebbe,  comunque,  sia  la  valutazione se il
 dichiarante-accusatore debba o no  essere  equiparato  al  testimone,
 sia,   in   caso  contrario,  la  decisione  circa  l'introduzione  -
 ovviamente  opportuna  poiche'  costituente  una  forma   di   tutela
 dell'effettivita'  del  contraddittorio  -  di  un nuovo reato contro
 l'amministrazione della giustizia, avente come fattispecie  obiettiva
 il  rifiuto  di  rispondere a domande rivolte nel corso dell'esame ad
 imputati in procedimento  connesso  che  abbiano  reso  dichiarazioni
 indizianti a carico di altri, in assenza di questi ultimi.
   E'  chiaro,  infine,  che,  qualora  venisse  ritenuta  fondata  la
 questione di legittimita' di cui qui si discorre, verrebbe  meno  uno
 dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina
 dell'acquisizione  delle dichiarazioni degli imputati in procedimento
 connesso e si determinerebbe immediatamente, in base  a  questo  dato
 nuovo,  la  necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale
 di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il  potere  di
 interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi
 -  a  questo  punto  illegittimamente  -  si  rifiutasse  comunque di
 rispondere.
   Ritiene  il  collegio  che  tutti  i   motivi   che   rendono   non
 manifestamente  infondata  la  questione  concernente l'attuale testo
 dell'art. 513, comma 2 c.p.p., non possano che  essere  ribaditi  con
 forza anche con riferimento a questa nuova situazione.
   Si  deve  concludere,  quindi,  che,  ove  si  ritenesse fondata la
 questione  di  legittimita'  concernente  l'art.   210   c.p.p.,   si
 proporrebbe  altresi  -  in  quanto non manifestamente infondata - la
 questione  di  legittimita'  dell'art.  513,  comma  2  c.p.p.  (come
 sostituito  dall'art.  1,  legge  n. 267 del 1997) nella parte in cui
 subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle  dichiarazioni
 predibattimentali rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p che
 comunque  si  rifiutino  di  rispondere  nel dibattimento a carico di
 altri soggetti.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11  marzo  1953,  n.  87,  ritenuta  la
 rilevanza e la non manifesta infondatezza;
   Solleva:
     I)  per  violazione  degli  artt. 3, 25, secondo comma, 101, 102,
 primo comma, 111, 112 della Costituzione, questione  di  legittimita'
 costituzionale  degli artt. 210, comma 4 e 513 c.p.p., nella parte in
 cui prevedono che le persone indicate nell'art. 210 c.p.p., le  quali
 abbiano  reso  al  pubblico  ministero  o  al giudice per le indagini
 preliminari dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a
 carico di determinati soggetti, possano avvalersi, nel dibattimento a
 carico di questi soggetti, della facolta' di non rispondere;
     II)  per  violazione  degli artt. 3, 25, secondo comma, 101, 102,
 primo comma, 111, 112 della Costituzione, questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  513, comma 2 c.p.p., cosi' come sostituito
 dall'art. 1, legge n. 267 del 1997,  nella  parte  in  cui  subordina
 all'accordo   delle   parti   la   lettura   dei  verbali  contenenti
 dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice per le indagini
 preliminari dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora  esse
 si  siano  avvalse  della  facolta'  di non rispondere o, nel caso di
 accoglimento  della  questione  sub  I),  si   siano   rifiutate   di
 rispondere;
   Sospende il processo;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata, a cura della
 cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica nonche'  al  Presidente  della
 Camera dei Deputati;
   Dispone    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale.
     Bergamo, addi' 2 aprile 1998
                       Il presidente: De Bortoli
                                         I giudici: Nobili - Bellaviti
 98C1293