N. 16 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 1998
N. 16 Ordinanza emessa il 7 luglio 1998 dal Consiglio di Stato, sezione IV giurisdizionale sul ricorso proposto dal comune di Cagliari contro il Ministero delle finanze ed altro Riscossione delle imposte - Imposte comunali di consumo - Servizio di riscossione affidato all'I.N.G.I.C. (Istituto nazionale gestione imposte di consumo) mediante appalto - Controversie relative ai rapporti pendenti (nella specie: aggi di riscossione) tra detto ente e il comune - Definizione in via equitativa, anche in deroga alle disposizioni contrattuali, da parte di apposita commissione, su iniziativa di una sola delle parti senza il consenso dell'altra parte, in assenza di oggettiva impossibilita' di definizione secondo diritto e indipendentemente dalla rilevanza economica dei rapporti stessi - Ingiustificata deroga ai principi in tema di decisione equitativa dei rapporti giuridici - Incidenza sul diritto di difesa e sul diritto di proprieta', nonche' sul principio di liberta' di iniziativa economica privata. (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649, artt. 3 e 4). (Cost. artt. 3, 24, 41 e 42).(GU n.4 del 27-1-1999 )
IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello n. 507/1979, proposto dal comune di Cagliari, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Federico Melis, ed elettivamente domiciliato presso l'avvocato Paolo Stella Richter, in Roma, via Mordini n. 14; Contro il Ministero delle finanze, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliato presso quest'ultima, in Roma, via dei Portoghesi n. 12; Nonche' contro l'I.N.G.I.C. (Istituto nazionale gestione imposte di consumo) in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Paolo Spada, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo, in Roma, via E. Gianturco n. 1, per l'annullamento della sentenza del t.a.r. per la Sardegna, 24 gennaio 1979, n. 14, resa tra le parti; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero delle finanze e dell'I.N.G.I.C.; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Data per letta alla pubblica udienza del 7 luglio 1998 la relazione del consigliere Rosanna De Nictolis e uditi l'avv. Paolo Stella Richter - su delega dell'avv. Melis per - l'appellante, l'avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Ministero delle finanze e l'avv. Giovanni Sciacca su delega dell'avv. Spada per l'I.N.G.I.C.; Ritenuto e considerato quanto segue: Fatto e diritto 1. - A seguito della soppressione delle imposte comunali di consumo l'I.N.G.I.C., appaltatore del servizio di riscossione di dette imposte nel comune di Cagliari, adiva la commissione di cui all'art. 3 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649, competente a definire i rapporti pendenti tra comuni e appaltatori in relazione alle imposte in parola. La commissione, con delibera adottata nelle sedute del 10 dicembre 1974 e del 21 maggio 1975, dichiarava dovuta all'I.N.G.I.C., da parte del comune di Cagliari, la somma complessiva di L. 233.533.146 milioni; tale delibera veniva approvata con decreto del Ministro delle finanze 23 maggio 1975, registrato alla Corte dei conti il 18 dicembre 1975. Avverso la delibera della commissione e il decreto ministeriale il comune di Cagliari proponeva ricorso al t.a.r. per la Sardegna, deducendo: 1) violazione dell'art. 4 d.P.R. n. 649 del 1972, perche' l'I.N.G.I.C. avrebbe omesso di notificare al comune l'istanza con cui adiva la commissione; 2) eccesso di potere per erroneita' dei presupposti e violazione del principio del contraddittorio, perche' il comune, non avendo ricevuto la notifica dell'istanza, non sarebbe stato posto in condizioni di far valere le proprie ragioni innanzi alla commissione; 3) violazione dell'art. 78 del r.d. 14 settembre 1931, n. 1639 e degli artt. 324 e 328 del r.d. 30 aprile 1936, n. 1138, in quanto la commissione in violazione di dette norme, avrebbe aggravato la posizione debitoria del comune di Cagliari. L'I.N.G.I.C., nel costituirsi in giudizio, eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, vertendosi in tema di rapporti contrattuali fonti di diritti soggettivi; l'incompetenza del t.a.r. adito, dovendosi ritenere competente il t.a.r. Lazio; l'inammissibilita' e l'infondatezza nel merito del ricorso. Il t.a.r. adito, con la sentenza in epigrafe, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Ha interposto appello il comune di Cagliari. Si sono costituiti il Ministero delle finanze e l'I.N.G.I.C., chiedendo la reiezione del gravame. La causa e' passata in decisione all'udienza del 7 luglio 1998. 2. - La sentenza appellata ha affermato che nella specie i rapporti tra comune di Cagliari e I.N.G.I.C. in ordine al servizio di riscossione delle imposte di consumo erano regolati da un contratto di appalto, fonte di un rapporto paritetico e dunque di diritti soggettivi. L'attivita' della commissione di cui al d.P.R. n. 649 del 1972, volta a definire i rapporti pendenti relativi alle soppresse imposte comunali di consumo, non ha carattere autoritativo, ma meramente ricognitivo, mirando ad accertare l'esatta estensione e contenuto dei diritti delle parti derivanti dall'appalto di gestione delle imposte di consumo. Tale attivita' ricognitiva non e' idonea a degradare a interessi legittimi i diritti soggettivi che vengono accertati. Ne consegue che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sia in ordine al sottostante rapporto privatistico di appalto, sia in ordine alle controversie che insorgano in relazione all'attivita' ricognitiva posta in essere dalla commissione. 3. - L'appellante critica la sentenza, osservando che l'attivita' della commissione di cui al d.P.R. n. 649 del 1972 non e' meramente ricognitiva, ma ha carattere autoritativo, in quanto l'art. 3, d.P.R. n. 649, attribuisce alla commissione il potere di definire i rapporti pendenti "anche in deroga alle disposizioni contrattuali". In concreto, poi, la commissione, nella definizione dei rapporti pendenti, si e' attenuta a propri criteri di massima, ampiamente discrezionali, con il risultato di non limitarsi all'accertamento dei rapporti, ma di modificare sostanzialmente i diritti delle parti. Tutto cio' comporta che la commissione ha speso poteri discrezionali e autoritativi, che hanno degradato i diritti soggettivi a interessi legittimi, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo. L'appellante prospetta, altresi', un palese vizio di illegittimita' costituzionale delle norme in commento, in relazione agli artt. 25, 41 e 102 Cost., per violazione dei principi di immutabilita' del giudice naturale, di liberta' dell'iniziativa economica e della autonomia contrattuale. 4. - Nell'ordine logico delle questioni, occorre anzitutto esaminare la prospettata eccezione di illegittimita' costituzionale. 4.1. - Non si puo' ritenere che la commissione di cui all'art. 3 del d.P.R. n. 649 abbia natura di giudice speciale, istituito in contrasto con l'art. 102 della Costituzione. Se cosi' fosse, le decisioni della commissione dovrebbero avere autonoma rilevanza, e il procedimento innanzi alla commissione dovrebbe precludere la possibilita' di adire altre autorita' giurisdizionali: ma nulla di tutto cio' e' nel d.P.R. n. 649. La decisione della commissione deve essere recepita con decreto ministeriale, che e' un atto giustiziabile nelle sedi competenti. Si deve percio' ritenere che la commissione non sia ne' un giudice speciale, ne' un collegio arbitrale, ma un organo amministrativo con compiti di carattere tecnico-estimativo, di natura preparatoria rispetto al provvedimento conclusivo che e' di competenza del Ministro delle finanze (in tal senso v. Cass., s.u., 4 febbraio 1985, n. 643, secondo cui e' da escludersi che gli interessati possano esperire avverso dette deliberazioni "il ricorso per Cassazione, ai sensi dell'art. 111 della Costituzione, mentre la tutela giurisdizionale delle loro posizioni resta garantita nei confronti dell'indicato decreto ministeriale a norma dell'art. 113 della Costituzione"). 4.2. - Neppure sussiste violazione dell'art. 25 Cost., perche' l'istanza alla commissione non impedisce di adire l'autorita' giudiziaria, e perche' la definizione dei rapporti pendenti da parte della commissione non e' obbligatoria, ne' avviene di ufficio, ma si basa sulla iniziativa di parte, che ha carattere facoltativo. In difetto di istanza di parte (art. 4 d.P.R. n. 649/1972) la commissione non puo' attivarsi. 4.3. - Vi e', tuttavia, un aspetto della disciplina in commento che da' adito a perplessita': la commissione puo' essere adita sulla base dell'iniziativa di una sola delle parti del rapporto di gestione delle imposte di consumo, senza necessita' del consenso anche dell'altra parte, e cio' basta ad attribuire alla commissione il potere di decidere anche in deroga alle disposizioni contrattuali. In sostanza, si attribuisce alla commissione il potere di definire i rapporti tra le parti secondo criteri equitativi, ma il potere di decidere secondo equita' e' attribuito direttamente dalla legge sol che vi sia il consenso di una sola delle parti, e non di entrambe. Tutto cio' rappresenta una indubbia anomalia. 4.3.1. - La disciplina sarebbe, ad avviso del collegio compatibile con la Costituzione se si limitasse a prevedere che la commissione puo' essere attivata su iniziativa di una sola delle parti, purche' la commissione avesse il dovere di decidere secondo diritto: in tal caso si avrebbe una sorta di arbitrato obbligatorio, ovvero di definzione transattiva obbligatoria, che, sebbene ai limiti della legittimita' costituzionale, potrebbe comunque essere giustificata in considerazione della transitorieta' ed eccezionalita' della disciplina, e in considerazione della circostanza che la parte non soddisfatta potrebbe sempre impugnare la deliberazione della commissione, che, se resa in base a diritto, sarebbe pienamente sindacabile in sede giurisdizionale. 4.3.2. - Ma quando la norma, oltre ad obbligare una delle due parti a sottostare alla definizione da parte della commissione attivata su iniziativa unilaterale dell'altra, la costringe anche a subire una definizione che puo' avvenire in deroga alle disposizioni contrattuali, allora si impone alla parte non consenziente una definizione del rapporto non secondo diritto, ma secondo equita', in relazione alla quale la parte non ha rimedi giurisdizionali. Di fronte a una definizione equitativa, la parte puo' infatti sollevare contestazioni solo in ordine al procedimento seguito, ma non anche in ordine al merito del giudizio equitativo (arg. da artt. 339, comma 2 e 3, e 829, comma 2, c.p.c.). Nel vigente ordinamento, in materia contrattuale la definizione equitativa, anziche' secondo diritto, dei rapporti tra le parti, riposa di regola sul consenso di entrambe le parti: v. art. 114 c.p.c. (decisione del giudice secondo equita'); 822 c.p.c. (arbitrato secondo equita'); 1349 c.c. (determinazione dell'oggetto del contratto rimessa ad un terzo) e 1965 c.c. (transazione). Quando non e' richiesto il consenso delle parti, occorre, tuttavia, che vi sia una situazione di oggettiva impossibilita' di definire il rapporto secondo diritto: art. 1226 c.c. (liquidazione equitativa del danno); ovvero la mancanza di usi o di patto delle parti in ordine alla misura della prestazione: 1733 c.c.; 1736 c.c. La definizione secondo equita' puo', infine, essere imposta per legge in considerazione del modesto valore economico del rapporto (art. 113, comma 2, c.p.c., in ordine alla decisione secondo equita' del giudice di pace, nella cause di valore non superiore a lire due milioni), ma non anche in relazione a rapporti di ingente valore. Mai e' prevista una definizione secondo equita' in difetto di accordo delle parti volto alla sostituzione dell'equita' al diritto, o quando e' oggettivamente possibile una definizione secondo diritto, o quando il rapporto tra le parti e' gia' regolato dal loro accordo o dagli usi, o quando, come nella specie (si parla di circa 234 milioni secondo i valori del 1975) si tratta di liti di notevole valore economico. 4.3.3. - Nel caso di specie, invece, si attribuisce alla commissione il potere di definire i rapporti tra le parti, anche in deroga alle disposizioni contrattuali, e senza l'accordo di entrambe le parti, purche' vi sia l'iniziativa di una sola di esse; si prescinde dall'esistenza del contratto, e da qualsiasi valutazione circa la possibilita' o meno di definire il rapporto secondo diritto. Appare, pertanto, non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 3 d.P.R. n. 649 del 1972, nella parte in cui attribuisce il potere di definire i rapporti pendenti "anche in deroga alle disposizioni contrattuali" senza che vi sia il consenso di entrambe le parti a siffatta deroga, e senza che ricorra una situazione di oggettiva impossibilita' di definire il rapporto secondo diritto, e a prescindere altresi' dalla rilevanza economica del rapporto, in relazione agli artt. 3, 24, 41 e 42 Cost., per violazione: del principio di parita' tra le parti del rapporto, alterandosi l'equilibrio contrattuale, attraverso l'attribuzione ad una sola di esse del potere di scegliere di derogare al diritto a favore dell'equita'; del diritto di difesa delle parti, su cui si fonda la pretesa a che i propri interessi siano regolati e decisi secondo diritto, e possano essere regolati secondo equita' solo in base ad una libera scelta dell'interessato, o quando vi sia l'oggettiva impossibilita' di definizione secondo diritto; del diritto di difesa sotto ulteriore profilo, in quanto la decisione secondo equita' e' insindacabile nel merito, non essendo controllabile secondo i parametri del diritto (artt. 339, commi 2 e 3 e 829, comma 2, c.p.c.); di talche' l'opzione di definire i rapporti secondo una decisione insindacabile in diritto deve essere rimessa alla libera valutazione degli interessati, perche', ove imposta, si traduce in una menomazione del diritto di difesa; del principio di libera iniziativa economica e di autonomia contrattuale, perche' una volta che le parti abbiano dato, attraverso il contratto, un determinato assetto ai propri interessi, la definizione dei loro rapporti deve avvenire secondo i patti, e una definizione transattiva o equitativa che si discosti dai termini pattuiti non puo' che riposare sul consenso di entrambe le parti; del principio di libera iniziativa economica e di autonomia contrattuale sotto altro profilo e del divieto di espropriazione senza indennizzo perche' una definizione equitativa imposta, a fronte di interessi in gioco di ingente valore economico, puo' tradursi in una sensibile menomazione dell'autonomia privata e in una espropriazione senza indennizzo. 5. - Quanto alla rilevanza della questione, giova osservare che oggetto unico del presente grado di giudizio e' il problema se vi sia o meno giurisdizione del giudice amministrativo in ordine all'impugnazione degli atti (delibera della commissione e decreto ministeriale di approvazione di detta delibera) con cui vengono definiti i rapporti pendenti in tema di soppresse imposte comunali di consumo. La soluzione della questione di giurisdizione e', ad avviso del collegio strettamente dipendente dall'esito del giudizio di costituzionalita'. 5.1. - Va premesso che il ragionamento del giudice di primo grado e' corretto nella parte in cui afferma che nel caso di specie la gestione del servizio di riscossione delle imposte di consumo e' regolata, come risulta dagli atti di causa, da un contratto di appalto, da qualificare contratto di diritto pubblico, fonte, come tale, di diritti soggettivi, di cui non puo' conoscere il giudice amministrativo. 5.1.1. - La soluzione non cambierebbe se si qualificasse il rapporto di riscossione delle imposte in termini di concessione di funzione o servizio pubblico. Anche con siffatta qualificazione, andrebbe negata la giurisdizione del giudice amministrativo: e, invero, l'art. 5, legge 6 dicembre 1971, n. 1034, pur attribuendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di concessioni di beni e servizi pubblici, in cui, come e' noto, coesistono diritti soggettivi e interessi legittimi, tuttavia fa salva la giurisdizione dell'autorita' giudiziaria ordinaria sulle controversie concernenti indennita', canoni ed altri corrispettivi. Nel caso di specie, in cui i rapporti pendenti tra comune di Cagliari e I.N.G.I.C. attengono ai compensi dovuti dal primo al secondo (aggi di riscossione), vertendosi in tema di controversie su corrispettivi, si tratterebbe comunque di questioni sottratte al giudice amministrativo (salvo a vedere se spettino al giudice ordinario, ovvero alla Corte dei conti, ove si ritenga che le questioni attinenti all'aggio di riscossione rientrino nelle materie di contabilita' pubblica (Cass., 27 febbraio 1985, n. 1721; Corte conti, sez. II, 11 gennaio 1993, n. 2). 5.2. - Ritenuto che siano sottratte in ogni caso alla giurisdizione del giudice amministrativo le questioni relative ai corrispettivi dovuti in base al servizio - appalto o concessione che sia - di riscossione delle imposte comunali di consumo, resta da stabilire se gli atti di definizione ai sensi del d.P.R. n. 649 del 1972 siano atti di mero accertamento e paritetici, o atti autoritativi. Nel primo caso, vanno ritenuti inidonei a degradare i diritti soggettivi a interessi legittimi, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice amministrativo; ragionamento contrario vale nel secondo caso. 5.3. - La sentenza appellata ha senz'altro ritenuto che la delibera della commissione e il conseguente decreto di approvazione ministeriale siano atti di natura ricognitiva, privi di carattere autoritativo. L'appellante replica che avendo la commissione il potere di definire i rapporti anche in deroga alle disposizioni contrattuali, e avendo la stessa in concreto deciso sulla base di criteri di massima ampiamente discrezionali, si e' in presenza di atti autoritativi che degradano i diritti soggettivi a interessi legittimi. 5.4. - Sulla base dei termini della questione di giurisdizione sin qui esposti, appare evidente la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale ai fini della soluzione di quella di giurisdizione. Ove la norma censurata venisse dichiarata costituzionalmente legittima, e restasse percio' in vita nei suoi termini attuali, sarebbe inevitabile la conclusione che, potendo la commissione definire i rapporti pendenti in deroga al contratto, secondo valutazioni tecnico-discrezionali, non sindacabili nel merito, gli atti impugnati vanno qualificati come atti autoritativi, in relazione ai quali vi sono situazioni soggettive di interesse legittimo, e possono farsi valere solo vizi di legittimita' (violazione del procedimento previsto dalla legge per la definizione dei rapporti pendenti; eccesso di potere per illogicita', irrazionalita', erroneita' dei presupposti di fatto, in relazione ai criteri di definizione dei rapporti, e quant'altro). Dalla affermazione della legittimita' costituzionale della norma deriverebbe, pertanto, una pronuncia di sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente necessita' di accoglimento dell'appello e di annullamento con rinvio della sentenza impugnata. Ove, invece, la norma censurata venisse dichiarata incostituzionale (ovvero venisse pronunciata una sentenza interpretativa di rigetto che ritenesse la norma legittima a condizione che vada interpretata nel senso che la deroga alle disposizioni contrattuali puo' avvenire, da parte della commissione, solo con il consenso di entrambe le parti o in caso di oggettiva impossibilita' di definire i rapporti secondo diritto), ne conseguirebbe che gli atti di definizione dei rapporti pendenti hanno natura ricognitiva e paritetica, e, vertendosi percio' in tema di diritti soggettivi, andrebbe negata la giurisdizione del giudice amministrativo. Ne conseguirebbe una pronuncia di rigetto dell'appello, con conferma della sentenza impugnata. 6. - Per quanto esposto, va ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' degli artt. 3 e 4, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649, nella parte in cui consentono alla commissione ivi prevista di definire i rapporti pendenti in tema di soppresse imposte comunali di consumo "anche in deroga alle disposizioni contrattuali" che regolano il servizio di gestione di dette imposte, sulla base dell'iniziativa di una sola delle parti, e dunque senza il consenso di entrambe ad una definizione del rapporto in deroga alle pattuizioni contrattuali, e anche quando non vi e' l'oggettiva impossibilita' di definire i rapporti pendenti secondo diritto, e a prescindere altresi' dalla rilevanza economica del rapporto, per contrasto con gli artt. 3, 24, 41 e 42 Cost., nei termini suesposti. Gli atti vanno trasmessi alla Corte costituzionale, con sospensione del presente giudizio in attesa della definizione dell'incidente.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' degli artt. 3 e 4, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649, nella parte in cui consentono alla commissione ivi prevista di definire i rapporti pendenti in tema di soppresse imposte comunali di consumo "anche in deroga alle disposizioni contrattuali" che regolano il servizio di gestione di dette imposte, sulla base dell'iniziativa di una sola delle parti, e dunque senza il consenso di entrambe ad una definizione del rapporto in deroga alle pattuizioni contrattuali, e anche quando non vi e' l'oggettiva impossibilita' di definire i rapporti pendenti secondo diritto, e a prescindere, altresi', dalla rilevanza economica del rapporto, per contrasto con gli artt. 3, 24, 41 e 42 Cost., nei sensi di cui in motivazione; Sospende il presente giudizio; Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della segreteria della sezione la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 luglio 1998. Il presidente: Catallozzi L'estensore: De Nictolis 99C0022