N. 16 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 1998

                                 N. 16
  Ordinanza emessa il 7 luglio 1998 dal Consiglio di Stato, sezione IV
 giurisdizionale sul ricorso proposto dal comune di Cagliari contro il
 Ministero delle finanze ed altro
 Riscossione delle imposte - Imposte comunali di consumo - Servizio di
    riscossione affidato all'I.N.G.I.C. (Istituto  nazionale  gestione
    imposte  di  consumo)  mediante appalto - Controversie relative ai
    rapporti pendenti (nella specie: aggi di  riscossione)  tra  detto
    ente  e il comune - Definizione in via equitativa, anche in deroga
    alle disposizioni contrattuali, da parte di apposita  commissione,
    su iniziativa di una sola delle parti senza il consenso dell'altra
    parte,  in  assenza  di  oggettiva  impossibilita'  di definizione
    secondo diritto e indipendentemente dalla rilevanza economica  dei
    rapporti  stessi  -  Ingiustificata  deroga ai principi in tema di
    decisione  equitativa  dei  rapporti  giuridici  -  Incidenza  sul
    diritto  di  difesa  e  sul  diritto  di  proprieta',  nonche' sul
    principio di liberta' di iniziativa economica privata.
 (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649, artt. 3 e 4).
 (Cost. artt. 3, 24, 41 e 42).
(GU n.4 del 27-1-1999 )
                          IL CONSIGLIO DI STATO
   Ha pronunciato la seguente ordinanza  sul  ricorso  in  appello  n.
 507/1979,  proposto dal comune di Cagliari, in persona del sindaco in
 carica,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.   Federico   Melis,   ed
 elettivamente  domiciliato presso l'avvocato Paolo Stella Richter, in
 Roma, via Mordini n. 14;
   Contro  il  Ministero  delle  finanze,  in  persona del Ministro in
 carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello  Stato,
 ed  elettivamente  domiciliato  presso quest'ultima, in Roma, via dei
 Portoghesi n. 12;
   Nonche' contro l'I.N.G.I.C. (Istituto nazionale gestione imposte di
 consumo)  in   persona   del   legale   rappresentante   in   carica,
 rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Paolo  Spada,  ed  elettivamente
 domiciliato presso  lo  studio  di  quest'ultimo,  in  Roma,  via  E.
 Gianturco  n.  1, per l'annullamento della sentenza del t.a.r. per la
 Sardegna, 24 gennaio 1979, n. 14, resa tra le parti;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visti gli atti di costituzione  in  giudizio  del  Ministero  delle
 finanze e dell'I.N.G.I.C.;
   Viste  le  memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
 difese;
   Visti tutti gli atti della causa;
   Data per letta alla pubblica udienza del 7 luglio 1998 la relazione
 del consigliere Rosanna De  Nictolis  e  uditi  l'avv.  Paolo  Stella
 Richter  -  su  delega dell'avv. Melis per - l'appellante, l'avvocato
 dello Stato Vincenzo Nunziata per il Ministero delle finanze e l'avv.
 Giovanni Sciacca su delega dell'avv. Spada per l'I.N.G.I.C.;
   Ritenuto e considerato quanto segue:
                            Fatto e diritto
   1. - A seguito della soppressione delle imposte comunali di consumo
 l'I.N.G.I.C.,  appaltatore  del  servizio  di  riscossione  di  dette
 imposte  nel comune di Cagliari, adiva la commissione di cui all'art.
 3 d.P.R.  26 ottobre 1972, n. 649, competente a definire  i  rapporti
 pendenti  tra  comuni  e  appaltatori  in  relazione  alle imposte in
 parola. La commissione, con delibera adottata  nelle  sedute  del  10
 dicembre 1974 e del 21 maggio 1975, dichiarava dovuta all'I.N.G.I.C.,
 da  parte  del  comune  di  Cagliari,  la  somma  complessiva  di  L.
 233.533.146 milioni; tale delibera veniva approvata con  decreto  del
 Ministro  delle  finanze  23  maggio  1975, registrato alla Corte dei
 conti il 18 dicembre 1975.
   Avverso la delibera della commissione e il decreto ministeriale  il
 comune  di  Cagliari  proponeva  ricorso  al  t.a.r. per la Sardegna,
 deducendo: 1) violazione dell'art. 4 d.P.R. n. 649 del 1972,  perche'
 l'I.N.G.I.C. avrebbe omesso di notificare al comune l'istanza con cui
 adiva  la  commissione;  2)  eccesso  di  potere  per  erroneita' dei
 presupposti e violazione del principio del  contraddittorio,  perche'
 il  comune, non avendo ricevuto la notifica dell'istanza, non sarebbe
 stato posto in condizioni di far valere le  proprie  ragioni  innanzi
 alla  commissione;  3)  violazione dell'art. 78 del r.d. 14 settembre
 1931, n. 1639 e degli artt. 324 e 328 del r.d.  30  aprile  1936,  n.
 1138,  in quanto la commissione in violazione di dette norme, avrebbe
 aggravato la posizione debitoria del comune di Cagliari.
   L'I.N.G.I.C., nel costituirsi in giudizio, eccepiva il  difetto  di
 giurisdizione  del  giudice  amministrativo,  vertendosi  in  tema di
 rapporti contrattuali fonti di diritti soggettivi; l'incompetenza del
 t.a.r.  adito,  dovendosi  ritenere  competente  il   t.a.r.   Lazio;
 l'inammissibilita' e l'infondatezza nel merito del ricorso.
   Il t.a.r. adito, con la sentenza in epigrafe, dichiarava il proprio
 difetto di giurisdizione.
   Ha interposto appello il comune di Cagliari.
   Si  sono  costituiti  il  Ministero  delle  finanze e l'I.N.G.I.C.,
 chiedendo la reiezione del gravame.
   La causa e' passata in decisione all'udienza del 7 luglio 1998.
   2. - La sentenza appellata ha affermato che nella specie i rapporti
 tra comune  di  Cagliari  e  I.N.G.I.C.  in  ordine  al  servizio  di
 riscossione  delle  imposte di consumo erano regolati da un contratto
 di appalto, fonte di un  rapporto  paritetico  e  dunque  di  diritti
 soggettivi. L'attivita' della commissione di cui al d.P.R. n. 649 del
 1972,  volta  a  definire i rapporti pendenti relativi alle soppresse
 imposte comunali  di  consumo,  non  ha  carattere  autoritativo,  ma
 meramente  ricognitivo,  mirando  ad  accertare l'esatta estensione e
 contenuto dei diritti delle parti derivanti dall'appalto di  gestione
 delle imposte di consumo.
   Tale  attivita'  ricognitiva  non e' idonea a degradare a interessi
 legittimi i diritti soggettivi che vengono accertati. Ne consegue che
 sussiste la giurisdizione del giudice  ordinario  sia  in  ordine  al
 sottostante  rapporto  privatistico  di  appalto,  sia in ordine alle
 controversie che insorgano  in  relazione  all'attivita'  ricognitiva
 posta in essere dalla commissione.
   3.  -  L'appellante critica la sentenza, osservando che l'attivita'
 della commissione di cui al d.P.R. n. 649 del 1972 non  e'  meramente
 ricognitiva, ma ha carattere autoritativo, in quanto l'art. 3, d.P.R.
 n. 649, attribuisce alla commissione il potere di definire i rapporti
 pendenti   "anche  in  deroga  alle  disposizioni  contrattuali".  In
 concreto,  poi,  la  commissione,  nella  definizione  dei   rapporti
 pendenti,  si  e'  attenuta  a  propri criteri di massima, ampiamente
 discrezionali, con il risultato di non limitarsi all'accertamento dei
 rapporti, ma di modificare sostanzialmente  i  diritti  delle  parti.
 Tutto  cio' comporta che la commissione ha speso poteri discrezionali
 e autoritativi, che hanno degradato i diritti soggettivi a  interessi
 legittimi, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.
   L'appellante prospetta, altresi', un palese vizio di illegittimita'
 costituzionale  delle  norme in commento, in relazione agli artt. 25,
 41 e 102 Cost., per violazione  dei  principi  di  immutabilita'  del
 giudice  naturale,  di  liberta'  dell'iniziativa  economica  e della
 autonomia contrattuale.
   4.  -  Nell'ordine  logico  delle  questioni,   occorre   anzitutto
 esaminare la prospettata eccezione di illegittimita' costituzionale.
   4.1.  -  Non si puo' ritenere che la commissione di cui all'art.  3
 del d.P.R. n. 649 abbia natura  di  giudice  speciale,  istituito  in
 contrasto  con  l'art.  102  della  Costituzione.  Se cosi' fosse, le
 decisioni della commissione dovrebbero avere autonoma rilevanza, e il
 procedimento  innanzi  alla  commissione   dovrebbe   precludere   la
 possibilita'  di  adire  altre autorita' giurisdizionali: ma nulla di
 tutto cio' e' nel d.P.R.  n. 649. La decisione della commissione deve
 essere  recepita  con  decreto   ministeriale,   che   e'   un   atto
 giustiziabile nelle sedi competenti.
   Si  deve percio' ritenere che la commissione non sia ne' un giudice
 speciale, ne' un collegio arbitrale, ma un organo amministrativo  con
 compiti  di  carattere  tecnico-estimativo,  di  natura  preparatoria
 rispetto  al  provvedimento  conclusivo  che  e'  di  competenza  del
 Ministro delle finanze (in tal senso v. Cass., s.u., 4 febbraio 1985,
 n.  643,  secondo  cui  e'  da escludersi che gli interessati possano
 esperire avverso dette deliberazioni "il ricorso per  Cassazione,  ai
 sensi   dell'art.   111   della   Costituzione,   mentre   la  tutela
 giurisdizionale delle loro posizioni resta  garantita  nei  confronti
 dell'indicato  decreto  ministeriale  a  norma  dell'art.  113  della
 Costituzione").
   4.2. - Neppure sussiste  violazione  dell'art.  25  Cost.,  perche'
 l'istanza   alla  commissione  non  impedisce  di  adire  l'autorita'
 giudiziaria, e perche' la definizione dei rapporti pendenti da  parte
 della  commissione non e' obbligatoria, ne' avviene di ufficio, ma si
 basa sulla iniziativa di parte,  che  ha  carattere  facoltativo.  In
 difetto   di  istanza  di  parte  (art.  4  d.P.R.  n.  649/1972)  la
 commissione non puo' attivarsi.
   4.3. - Vi e', tuttavia, un aspetto della disciplina in commento che
 da' adito a perplessita': la commissione puo' essere adita sulla base
 dell'iniziativa di una sola delle  parti  del  rapporto  di  gestione
 delle  imposte  di  consumo,  senza  necessita'  del  consenso  anche
 dell'altra parte, e cio' basta  ad  attribuire  alla  commissione  il
 potere di decidere anche in deroga alle disposizioni contrattuali.
   In  sostanza, si attribuisce alla commissione il potere di definire
 i rapporti tra le parti secondo criteri equitativi, ma il  potere  di
 decidere  secondo  equita' e' attribuito direttamente dalla legge sol
 che vi sia il consenso di una sola delle parti, e non di entrambe.
   Tutto cio' rappresenta una indubbia anomalia.
   4.3.1. - La disciplina sarebbe, ad avviso del collegio  compatibile
 con  la  Costituzione  se si limitasse a prevedere che la commissione
 puo' essere attivata su iniziativa di una sola delle  parti,  purche'
 la  commissione  avesse il dovere di decidere secondo diritto: in tal
 caso si avrebbe  una  sorta  di  arbitrato  obbligatorio,  ovvero  di
 definzione  transattiva  obbligatoria,  che,  sebbene ai limiti della
 legittimita' costituzionale, potrebbe comunque essere giustificata in
 considerazione   della   transitorieta'   ed   eccezionalita'   della
 disciplina,  e  in  considerazione della circostanza che la parte non
 soddisfatta  potrebbe  sempre  impugnare   la   deliberazione   della
 commissione,  che,  se  resa  in  base  a diritto, sarebbe pienamente
 sindacabile in sede giurisdizionale.
   4.3.2. - Ma quando la norma, oltre ad obbligare una delle due parti
 a sottostare alla definizione da parte della commissione attivata  su
 iniziativa  unilaterale  dell'altra,  la costringe anche a subire una
 definizione  che  puo'   avvenire   in   deroga   alle   disposizioni
 contrattuali,  allora  si  impone  alla  parte  non  consenziente una
 definizione del rapporto non secondo diritto, ma secondo equita',  in
 relazione alla quale la parte non ha rimedi giurisdizionali.
   Di  fronte  a  una  definizione  equitativa,  la parte puo' infatti
 sollevare contestazioni solo in ordine al  procedimento  seguito,  ma
 non  anche in ordine al merito del giudizio equitativo (arg. da artt.
 339, comma 2 e 3, e 829, comma 2, c.p.c.).
   Nel vigente ordinamento, in  materia  contrattuale  la  definizione
 equitativa,  anziche'  secondo  diritto,  dei  rapporti tra le parti,
 riposa di regola sul consenso di  entrambe  le  parti:  v.  art.  114
 c.p.c.      (decisione  del  giudice  secondo  equita');  822  c.p.c.
 (arbitrato secondo equita'); 1349 c.c.  (determinazione  dell'oggetto
 del contratto rimessa ad un terzo) e 1965 c.c. (transazione).
   Quando non e' richiesto il consenso delle parti, occorre, tuttavia,
 che  vi sia una situazione di oggettiva impossibilita' di definire il
 rapporto secondo diritto: art. 1226 c.c. (liquidazione equitativa del
 danno); ovvero la mancanza di usi o di patto delle  parti  in  ordine
 alla misura della prestazione: 1733 c.c.; 1736 c.c.
   La  definizione  secondo  equita'  puo', infine, essere imposta per
 legge in considerazione del modesto  valore  economico  del  rapporto
 (art.  113, comma 2, c.p.c., in ordine alla decisione secondo equita'
 del giudice di pace, nella cause di valore non superiore a  lire  due
 milioni),  ma  non  anche  in relazione a rapporti di ingente valore.
 Mai e' prevista una definizione secondo equita' in difetto di accordo
 delle parti volto alla sostituzione dell'equita' al diritto, o quando
 e' oggettivamente possibile una definizione secondo diritto, o quando
 il rapporto tra le parti e' gia' regolato dal loro  accordo  o  dagli
 usi,  o  quando,  come  nella  specie  (si parla di circa 234 milioni
 secondo i valori del 1975) si  tratta  di  liti  di  notevole  valore
 economico.
   4.3.3.   -   Nel  caso  di  specie,  invece,  si  attribuisce  alla
 commissione il potere di definire i rapporti tra le parti,  anche  in
 deroga  alle disposizioni contrattuali, e senza l'accordo di entrambe
 le parti, purche' vi  sia  l'iniziativa  di  una  sola  di  esse;  si
 prescinde  dall'esistenza  del  contratto, e da qualsiasi valutazione
 circa la possibilita' o meno di definire il rapporto secondo diritto.
   Appare, pertanto, non  manifestamente  infondata  la  questione  di
 costituzionalita'  dell'art. 3 d.P.R. n. 649 del 1972, nella parte in
 cui attribuisce il potere di definire i rapporti pendenti  "anche  in
 deroga  alle  disposizioni contrattuali" senza che vi sia il consenso
 di entrambe le parti a siffatta  deroga,  e  senza  che  ricorra  una
 situazione  di  oggettiva  impossibilita'  di  definire  il  rapporto
 secondo diritto, e a prescindere altresi' dalla  rilevanza  economica
 del  rapporto,  in  relazione  agli  artt.  3, 24, 41 e 42 Cost., per
 violazione:
     del principio di parita' tra le parti del  rapporto,  alterandosi
 l'equilibrio  contrattuale,  attraverso l'attribuzione ad una sola di
 esse del  potere  di  scegliere  di  derogare  al  diritto  a  favore
 dell'equita';
     del  diritto  di difesa delle parti, su cui si fonda la pretesa a
 che i propri interessi siano regolati e  decisi  secondo  diritto,  e
 possano  essere  regolati  secondo equita' solo in base ad una libera
 scelta dell'interessato, o quando vi sia  l'oggettiva  impossibilita'
 di definizione secondo diritto;
     del  diritto  di  difesa  sotto  ulteriore  profilo, in quanto la
 decisione secondo equita' e' insindacabile nel  merito,  non  essendo
 controllabile secondo i parametri del diritto (artt. 339, commi 2 e 3
 e  829, comma 2, c.p.c.); di talche' l'opzione di definire i rapporti
 secondo una decisione insindacabile in diritto  deve  essere  rimessa
 alla  libera  valutazione degli interessati, perche', ove imposta, si
 traduce in una menomazione del diritto di difesa;
     del principio di  libera  iniziativa  economica  e  di  autonomia
 contrattuale, perche' una volta che le parti abbiano dato, attraverso
 il   contratto,  un  determinato  assetto  ai  propri  interessi,  la
 definizione dei loro rapporti deve avvenire secondo i  patti,  e  una
 definizione  transattiva  o  equitativa  che  si discosti dai termini
 pattuiti non puo' che riposare sul consenso di entrambe le parti;
     del  principio  di  libera  iniziativa  economica  e di autonomia
 contrattuale sotto altro profilo  e  del  divieto  di  espropriazione
 senza indennizzo perche' una definizione equitativa imposta, a fronte
 di  interessi  in gioco di ingente valore economico, puo' tradursi in
 una  sensibile  menomazione   dell'autonomia   privata   e   in   una
 espropriazione senza indennizzo.
   5.  -  Quanto  alla  rilevanza della questione, giova osservare che
 oggetto unico del presente grado di giudizio e' il problema se vi sia
 o  meno  giurisdizione   del   giudice   amministrativo   in   ordine
 all'impugnazione  degli  atti  (delibera  della commissione e decreto
 ministeriale di approvazione  di  detta  delibera)  con  cui  vengono
 definiti i rapporti pendenti in tema di soppresse imposte comunali di
 consumo.
   La  soluzione  della  questione  di giurisdizione e', ad avviso del
 collegio  strettamente  dipendente   dall'esito   del   giudizio   di
 costituzionalita'.
   5.1.  -  Va premesso che il ragionamento del giudice di primo grado
 e' corretto nella parte in cui afferma che  nel  caso  di  specie  la
 gestione  del  servizio  di  riscossione  delle imposte di consumo e'
 regolata, come risulta dagli  atti  di  causa,  da  un  contratto  di
 appalto,  da  qualificare  contratto di diritto pubblico, fonte, come
 tale, di diritti soggettivi, di cui non  puo'  conoscere  il  giudice
 amministrativo.
   5.1.1.  -  La  soluzione  non  cambierebbe  se  si  qualificasse il
 rapporto di riscossione delle imposte in termini  di  concessione  di
 funzione  o  servizio  pubblico.  Anche  con siffatta qualificazione,
 andrebbe negata  la  giurisdizione  del  giudice  amministrativo:  e,
 invero,  l'art.    5, legge 6 dicembre 1971, n. 1034, pur attribuendo
 alla  giurisdizione   esclusiva   del   giudice   amministrativo   le
 controversie  in  tema  di concessioni di beni e servizi pubblici, in
 cui,  come  e'  noto,  coesistono  diritti  soggettivi  e   interessi
 legittimi,   tuttavia   fa   salva  la  giurisdizione  dell'autorita'
 giudiziaria  ordinaria  sulle  controversie  concernenti  indennita',
 canoni ed altri corrispettivi.
   Nel  caso  di  specie,  in  cui  i  rapporti pendenti tra comune di
 Cagliari e I.N.G.I.C. attengono  ai  compensi  dovuti  dal  primo  al
 secondo  (aggi di riscossione), vertendosi in tema di controversie su
 corrispettivi, si tratterebbe  comunque  di  questioni  sottratte  al
 giudice  amministrativo  (salvo  a  vedere  se  spettino  al  giudice
 ordinario, ovvero alla  Corte  dei  conti,  ove  si  ritenga  che  le
 questioni  attinenti all'aggio di riscossione rientrino nelle materie
 di contabilita' pubblica (Cass., 27 febbraio  1985,  n.  1721;  Corte
 conti, sez. II, 11 gennaio 1993, n. 2).
   5.2. - Ritenuto che siano sottratte in ogni caso alla giurisdizione
 del  giudice  amministrativo  le  questioni relative ai corrispettivi
 dovuti in base al servizio - appalto  o  concessione  che  sia  -  di
 riscossione  delle imposte comunali di consumo, resta da stabilire se
 gli atti di definizione ai sensi del d.P.R. n.  649  del  1972  siano
 atti di mero accertamento e paritetici, o atti autoritativi.
   Nel  primo  caso,  vanno  ritenuti  inidonei  a degradare i diritti
 soggettivi  a  interessi  legittimi,  con  conseguente   difetto   di
 giurisdizione del giudice amministrativo; ragionamento contrario vale
 nel secondo caso.
   5.3. - La sentenza appellata ha senz'altro ritenuto che la delibera
 della   commissione   e   il   conseguente  decreto  di  approvazione
 ministeriale siano atti di natura  ricognitiva,  privi  di  carattere
 autoritativo.
   L'appellante  replica  che  avendo  la  commissione  il  potere  di
 definire i rapporti anche in deroga alle disposizioni contrattuali, e
 avendo la stessa in concreto deciso sulla base di criteri di  massima
 ampiamente  discrezionali, si e' in presenza di atti autoritativi che
 degradano i diritti soggettivi a interessi legittimi.
   5.4. - Sulla base dei termini della questione di giurisdizione  sin
 qui   esposti,  appare  evidente  la  rilevanza  della  questione  di
 legittimita' costituzionale ai fini  della  soluzione  di  quella  di
 giurisdizione.
   Ove   la  norma  censurata  venisse  dichiarata  costituzionalmente
 legittima, e restasse percio'  in  vita  nei  suoi  termini  attuali,
 sarebbe  inevitabile  la  conclusione  che,  potendo  la  commissione
 definire  i  rapporti  pendenti  in  deroga  al  contratto,   secondo
 valutazioni  tecnico-discrezionali,  non  sindacabili nel merito, gli
 atti impugnati vanno qualificati come atti autoritativi, in relazione
 ai quali vi sono situazioni  soggettive  di  interesse  legittimo,  e
 possono  farsi  valere  solo  vizi  di  legittimita'  (violazione del
 procedimento previsto dalla legge per  la  definizione  dei  rapporti
 pendenti;   eccesso   di   potere  per  illogicita',  irrazionalita',
 erroneita' dei presupposti di  fatto,  in  relazione  ai  criteri  di
 definizione dei rapporti, e quant'altro).
   Dalla  affermazione  della  legittimita' costituzionale della norma
 deriverebbe,   pertanto,   una   pronuncia   di   sussistenza   della
 giurisdizione  del giudice amministrativo, con conseguente necessita'
 di accoglimento dell'appello  e  di  annullamento  con  rinvio  della
 sentenza impugnata.
   Ove, invece, la norma censurata venisse dichiarata incostituzionale
 (ovvero  venisse  pronunciata  una sentenza interpretativa di rigetto
 che ritenesse la norma legittima a condizione che  vada  interpretata
 nel senso che la deroga alle disposizioni contrattuali puo' avvenire,
 da parte della commissione, solo con il consenso di entrambe le parti
 o  in caso di oggettiva impossibilita' di definire i rapporti secondo
 diritto), ne conseguirebbe che gli atti di definizione  dei  rapporti
 pendenti hanno natura ricognitiva e paritetica, e, vertendosi percio'
 in  tema  di diritti soggettivi, andrebbe negata la giurisdizione del
 giudice amministrativo. Ne conseguirebbe  una  pronuncia  di  rigetto
 dell'appello, con conferma della sentenza impugnata.
   6. - Per quanto esposto, va ritenuta rilevante e non manifestamente
 infondata la questione di costituzionalita' degli artt. 3 e 4, d.P.R.
 26  ottobre  1972,  n.  649,  nella  parte  in  cui  consentono  alla
 commissione ivi prevista di definire i rapporti pendenti in  tema  di
 soppresse   imposte   comunali  di  consumo  "anche  in  deroga  alle
 disposizioni contrattuali" che regolano il servizio  di  gestione  di
 dette  imposte, sulla base dell'iniziativa di una sola delle parti, e
 dunque senza il consenso di entrambe ad una definizione del  rapporto
 in  deroga  alle  pattuizioni  contrattuali, e anche quando non vi e'
 l'oggettiva impossibilita' di definire i  rapporti  pendenti  secondo
 diritto,  e  a  prescindere  altresi'  dalla  rilevanza economica del
 rapporto, per contrasto con gli artt. 3,  24,  41  e  42  Cost.,  nei
 termini suesposti.
   Gli atti vanno trasmessi alla Corte costituzionale, con sospensione
 del presente giudizio in attesa della definizione dell'incidente.
                               P. Q. M.
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 costituzionalita' degli artt. 3 e 4, d.P.R. 26 ottobre 1972, n.  649,
 nella parte in  cui  consentono  alla  commissione  ivi  prevista  di
 definire i rapporti pendenti in tema di soppresse imposte comunali di
 consumo "anche in deroga alle disposizioni contrattuali" che regolano
 il  servizio di gestione di dette imposte, sulla base dell'iniziativa
 di una sola delle parti, e dunque senza il consenso  di  entrambe  ad
 una definizione del rapporto in deroga alle pattuizioni contrattuali,
 e  anche  quando  non  vi e' l'oggettiva impossibilita' di definire i
 rapporti pendenti secondo diritto, e a prescindere,  altresi',  dalla
 rilevanza  economica del rapporto, per contrasto con gli artt. 3, 24,
 41 e 42 Cost., nei sensi di cui in motivazione;
   Sospende il presente giudizio;
   Ordina  la   immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
   Ordina  che  a  cura  della  segreteria  della  sezione la presente
 ordinanza sia notificata alle parti in  causa  e  al  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri, nonche' comunicata ai Presidenti della Camera
 dei deputati e del Senato della Repubblica.
   Cosi' deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 luglio 1998.
                       Il presidente: Catallozzi
                                              L'estensore: De Nictolis
 99C0022