N. 11 ORDINANZA 18 - 21 gennaio 1999

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale - Cassazione - Prescrizione dell'obbligo del giudice
 di rinvio di uniformarsi alla  sentenza  della  Corte  per  cio'  che
 concerne  ogni  questione  di  diritto  con  essa  decisa  - Presunta
 vulnerazione del principio del diritto  alla  difesa  in  giudizio  -
 Proposizione  della  questione in modo erroneo da parte del giudice a
 quo - Manifesta infondatezza.
 
 (C.P.P., art. 627, terzo comma).
 
 (Cost., artt. 24, secondo comma, e 97).
 
(GU n.4 del 27-1-1999 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,
 dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo  ZAGREBELSKY, prof. Valerio
 ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof.  Guido
 NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 627, comma 3,
 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa  il  18
 dicembre  1997  dal pretore di Pavia, iscritta al n. 133 del registro
 ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 11, prima serie speciale, dell'anno 1998;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio del 25 novembre 1998 il giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
   Ritenuto che, con sentenza del 26 settembre  1995,  il  pretore  di
 Pavia  dichiarava  non  doversi procedere per mancanza di querela nei
 confronti di persona imputata del  reato  di  cui  all'art.  388  del
 codice  penale  -  per  avere,  quale proprietaria e custode dei beni
 pignorati, sottratto i beni stessi all'esecuzione promossa  nei  suoi
 confronti dalla locale Intendenza di finanza per il recupero di spese
 giustizia - cosi' modificata l'imputazione originariamente contestata
 con  la  quale  era  stato  addebitato  il  reato  previsto  e punito
 dall'art. 334 dello stesso codice;
     che, a seguito di ricorso per saltum del Procuratore generale, la
 Corte di cassazione, con sentenza  del  22  febbraio  1996,  n.  337,
 annullava  la  decisione impugnata con rinvio per nuovo giudizio allo
 stesso Pretore, affermando il principio di  diritto  secondo  cui  la
 sottrazione  delle  cose  sottoposte a pignoramento nell'ambito della
 procedura per il recupero delle spese di giustizia integra  l'ipotesi
 di  reato contemplata dall'art. 334 del codice penale, procedibile di
 ufficio;
     che, con ordinanza del 18 dicembre 1997,  il  pretore  di  Pavia,
 preso  atto  che  sul  punto  concernente la qualificazione del fatto
 nella specie  contestato  la  Corte  Suprema  si  e'  successivamente
 assestata  nella  linea interpretativa che ravvisa l'ipotesi prevista
 dall'art.   388 del codice  penale,  reato  perseguibile,  dunque,  a
 querela  di parte, e che, nonostante cio', il giudice a quo e' tenuto
 a conformarsi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione, ha,
 con ordinanza del 18 dicembre 1997, sollevato,  in  riferimento  agli
 artt.  24,  secondo  comma,  e  97  della  Costituzione, questione di
 legittimita' dell'art.   627, comma 3,  cod.  proc.  pen.,  il  quale
 "prescrive  l'obbligo  del  giudice  di  rinvio  di  uniformarsi alla
 sentenza della  Corte  di  Cassazione  per  cio'  che  concerne  ogni
 questione di diritto con essa decisa";
     che,  secondo il giudice a quo il diritto di difesa dell'imputato
 sarebbe vulnerato  per  non  consentirsi  al  giudice  di  rinvio  di
 discostarsi  dal  principio  di  diritto  enunciato  dalla  Corte  di
 cassazione  allorquando  si  verifichino  condizioni   che   facciano
 ritenere  errato e superato tale principio; sarebbero anche violati i
 principi  di  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione   della
 giustizia   nonche'   del   buon   andamento   e   dell'"economicita'
 processuale", per costringersi l'imputato ad affrontare  il  giudizio
 di  appello  perche'  "gli  venga  riconosciuto il proprio diritto ad
 essere assolto"; con, in  piu',  ulteriori  conseguenze  quanto  alla
 violazione   dell'art.   24,   secondo   comma,  della  Costituzione,
 togliendosi la possibilita' di far valere davanti allo stesso giudice
 a quo la nuova e corretta interpretazione;
     che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia dichiarata inammissibile e
 comunque non fondata.
   Considerato che,  secondo  la  costante  giurisprudenza  di  questa
 Corte,  e'  consentito  al  giudice  di  rinvio  sollevare  dubbi  di
 legittimita'  costituzionale  coinvolgenti  l'interpretazione   della
 norma,  quale  risultante  dal  principio  di diritto enunciato dalla
 Corte  di  cassazione,  dovendo  la  norma  stessa  ricevere   ancora
 applicazione  nel  giudizio rescissorio, cosicche' il giudice di tale
 fase, essendo  vincolato  al  detto  principio  di  diritto,  non  ha
 soluzione  diversa,  per  contestare  la  regula  iuris  additata dal
 giudice della Corte Suprema, da  quella  di  sollevare  questione  di
 legittimita'   costituzionale  della  norma  che  sarebbe  tenuto  ad
 applicare, proprio perche' cosi' interpretata; e cio'  sia  ove  tale
 principio  costituisca  la  conseguenza  di una linea ermeneutica del
 tutto  isolata  sia,  a  maggior  ragione,  ove  il  detto  principio
 rappresenti l'adeguamento all'indirizzo interpretativo (come nel caso
 di specie) se non consolidato almeno prevalente;
     che,  dunque,  la  questione  cosi'  come proposta investe non il
 precetto di cui il giudice a quo e' tenuto  a  fare  applicazione  in
 sede  di  rinvio,  ma  la  norma  che  impone al giudice di rinvio di
 conformarsi  al  principio  di  diritto  enunciato  dalla  Corte   di
 cassazione;
     che  il  profilo  concernente  la dedotta violazione dell'art. 97
 della Costituzione e' assolutamente non pertinente perche' - a  parte
 il rilievo che, essendo stato esperito nel procedimento a quo ricorso
 diretto  per  cassazione, la cognizione del giudizio di rinvio era da
 attribuire, a norma dell'art. 569, comma 4, del codice  di  procedura
 penale,  al  giudice competente per l'appello - il principio del buon
 andamento  e  dell'imparzialita'   dell'amministrazione,   alla   cui
 realizzazione   l'ora   ricordata  norma  costituzionale  vincola  la
 disciplina dei pubblici uffici,  pur  potendo  riferirsi  anche  agli
 organi  dell'amministrazione  della giustizia, attiene esclusivamente
 alle leggi concernenti l'ordinamento degli uffici  giudiziari  ed  il
 loro  funzionamento  sotto  l'aspetto  amministrativo,  mentre e' del
 tutto estraneo al tema dell'esercizio della funzione giurisdizionale,
 nel suo  complesso  e  in  relazione  ai  diversi  provvedimenti  che
 costituiscono  espressione  di  tale  esercizio  (cfr.,  ex  plurimis
 sentenze n. 376 del 1993 e n. 313 del 1995);
     che non correttamente evocato appare  anche  l'art.  24,  secondo
 comma,   della   Costituzione,  non  potendo  il  diritto  di  difesa
 estendersi fino a ricomprendere l'interpretazione piu' favorevole per
 la parte interessata, un'interpretazione  razionalmente  destinata  a
 soccombere   di  fronte  all'esigenza,  pur  essa  costituzionalmente
 presidiata,  che  il  giudice  di  merito  venga  assoggettato  "alle
 valutazioni  che  la legge da' dei rapporti, degli atti e dei fatti e
 al rispetto degli effetti che ne  desume"  (v.  sentenza  n.  50  del
 1970);  il  che  appunto  si  verifica  alla  stregua della norma ora
 impugnata, con la quale  il  legislatore  ha  perseguito  l'"esigenza
 logica  prima  che  giuridica"  che  le  linee del procedimento siano
 tracciate "in modo che esso abbia a  progredire  verso  la  soluzione
 finale attraverso la concatenazione di atti aventi valore definitivo,
 cosi'  da  impedire  la  perpetuazione  dei  giudizi", utilizzando un
 modello, quello del giudizio rescindente e del giudizio  rescissorio,
 da  cui  scaturisce che il secondo debba essere fondato sui risultati
 del primo, fermo  restando  il  potere  del  giudice  del  rinvio  di
 sindacare  in  sede  di  legittimita'  costituzionale il principio di
 diritto enunciato all'esito del giudizio rescindente;
   Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11  marzo  1953,  n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.
                            Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  la manifesta infondatezza della questione di legittimita'
 costituzionale dell'art.  627,  comma  3,  del  codice  di  procedura
 penale,  sollevata, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 97
 della Costituzione, dal pretore di Pavia con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 gennaio 1999.
                        Il Presidente: Granata
                        Il redattore: Vassalli
                       Il cancelliere: Fruscella
   Depositata in cancelleria il 21 gennaio 1999.
                       Il cancelliere: Fruscella
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