N. 619 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 1999
N. 619 Ordinanza emessa il 7 luglio 1999 dal tribunale di Parma nel procedimento civile vertente tra Cattani Barbara e Metro Self-Service all'ingrosso Parma S.p.a. Lavoro (controversie in materia di) - Tentativo obbligatorio di conciliazione - Previsione quale condizione di procedibilita' della domanda - Irragionevolezza - Incidenza sul diritto di azione - Eccesso di delega. - C.P.C., artt. 410, 410-bis, 412-bis, modificato dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, artt. 36, 37 e 39; d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 19. - Cost., artt. 3, 24 e 76; in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 11, comma 4.(GU n.45 del 10-11-1999 )
IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva formulata all'udienza del 15 aprile 1999 nel procedimento n. 3/99 r.g. ha pronunciato la presente ordinanza nel procedimento promosso da Cattani Barbara, avv. Luciano Petronio + 1, ricorrente; Contro il Metro Self-Service all'ingrosso Parma S.p.a., avv. Davide Fratta + 3, convenuto, osservando quanto segue: Fatto e diritto Con ricorso del 7 gennaio 1999 diretto al pretore di Parma in funzione di giudice del lavoro, Cattani Barbara conveniva in giudizio la "Metro Self-Service all'ingrosso Parma S.p.a." e premesso che avendo effettuato lavoro subordinato alle dipendenze della convenuta era rimasta creditrice di somme, chiedeva la condanna della stessa convenuta al pagamento del dovuto. Dopo la notifica del ricorso e del decreto, la Metro si costituiva in giudizio a mezzo di memoria difensiva. Alla prima udienza di discussione, di cui all'art. 420 c.p.c., e' stata sollevata l'eccezione di improcedibilita' della domanda ai sensi dell'art .412-bis c.p.c. e il difensore della ricorrente ha eccepito la illegittimita' costituzionale del tentativo obbligatorio di conciliazione. Il giudice non ha disposto la sospensione del giudizio; ma ha inteso deliberare la questione di costituzionalita'; concedendo termine alle parti per note. Sostiene la ricorrente che il disposto espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione come disciplinato dagli artt. 410 e seguenti c.p.c., a seguito della riforma di cui ai d.lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998, e' illegittimo, fra l'altro per eccesso di delega. Invero, l'art. 11, comma 4, lettera g) della legge n. 59/1997, nell'attribuire al giudice ordinario le controversie sul pubblico impiego, aveva stabilito di prevedere: "misure organizzative e processuali anche di carattere generale, atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso; procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato". Tale norma ha trovato attuazione con gli artt. 36 e seguenti del d.lgs. n. 80/1998, come modificato dal d.lgs. n. 387/1998 che hanno sostituito gli artt. 410 e seguenti c.p.c. Gli artt. 410, 410-bis e 412-bis c.p.c., come sostituiti dalle leggi di riforma, hanno reso obbligatorio il tentativo di conciliazione in sede amministrativa; mentre in precedenza era facoltativo. Ma, nella legge-delega non vi e' la benche' minima traccia di una tale obbligatorieta', non prevista dal citato art. 11, comma 4, lettera g) della legge-delega. Cio' appare in contrasto con l'art. 76 della Costituzione sotto il profilo che la legge di delegazione deve indicare principi e criteri direttivi univoci, in modo da creare dei vincoli al legislatore delegato di guisa che la mancanza o la genericita' di tali principi puo' determinare la illegittimita' del decreto delegato che sconfini in scelte legislative discrezionali e arbitrarie. Nella specie, il legislatore delegato, cioe' il Governo, poteva stabilire nuove modalita' dell'espletamento del tentativo di conciliazione; ma non poteva ad esso conferire, discrezionalmente e senza nessuna indicazione al riguardo da parte del legislatore delegante, l'obbligatorieta' del tentativo medesimo; facendone poi derivare la sanzione della improcedibilita'. Infatti, la pretesa obbligatorieta' non e' affatto desumibile dal riferimento, di cui alla lettera g) citata dell'art. 11, comma 4, alle "misure processuali e organizzative" ... "atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso", atteso che fra le "misure organizzative non possono ricomprendersi le procedure di conciliazione e arbitrato stragiudiziali"; che come tali non sono neanche "misure processuali". E cio' tanto piu' che la dizione "procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato" e' separata da quella "misure organizzative e processuali" da un punto e virgola; di guisa che nell'intenzione del legislatore delegante le due enunciazioni si collocano su piani differenziati. Anche perche', dal punto di vista statistico non sembra dimostrato che la previsione di procedure obbligatorie di conciliazione e arbitrato siano veramente atte a prevenire il sovraccarico del contenzioso e ad avere effetti deflattivi; talche' non pare che esse si possano ricomprendere fra le dette misure organizzative e processuali. Cosi' statuendo, il legislatore delegato, attraverso l'obbligatorieta' del tentativo di conciliazione, ha introdotto una "condizione di procedibilita'" della domanda giudiziale, come dettagliatamente disciplinata dall'art. 412-bis c.p.c. Si e' creata in sostanza una nuova ipotesi di c.d. "giurisdizione condizionata". E' vero che sul punto la Corte costituzionale con la sentenza n. 82/1992 ha dichiarato legittime forme analoghe di condizionamento (v. art. 5 della legge n. 108/1990 sui licenziamenti), poiche' la procedura di conciliazione stragiudiziale, anche se obbligatoria, non impedisce la proposizione dell'azione che puo' divenire solo temporaneamente improcedibile, con la prevista sospensione del giudizio. Senonche', nella specie e con riferimento alla normativa che ne occupa, il dibattito si e' incentrato sulla funzionalita' e razionalita' del tentativo obbligatorio di conciliazione, concepito come "filtro" rispetto alla domanda giudiziale. Ma, come rilevato, l'esperienza dimostra che esso costituisce un inutile ostacolo allo svolgimento della giurisdizione; perche' cosi' come e' concepito ritarda il promovimento dell'azione, facendo sorgere questioni processuali inutili e contrarie alla finalita' perseguita (l'improcedibilita' della domanda per il mancato tentativo; estinzione del giudizio per mancata riassunzione nei termini stabiliti, ecc.), attraverso le quali "il processo si piega su se stesso e allontana la sua vera finalita'" che e' quella di tutelare pienamente ed effettivamente il diritto che si vuol far valere. Se poi il processo non viene riassunto nel termine perentorio di centottanta giorni previsto dall'art. 412-bis, comma 5 c.p.c., ne deriva che il condizionamento cui e' stata sottoposta l'azione e' tale da condurre ad una definizione di carattere meramente processuale della controversia, senza possibilita' di sanatoria per l'attore. Ne discende che un condizionamento di tal tipo, giustificato solo da non valide ragioni di carattere deflattivo del processo, va ad incidere sul diritto sostanziale di azione, in contrasto con l'art. 24 della Costituzione. A tal riguardo, mette conto rilevare pure che se la ratio del condizionamento e' quella di favorire la risoluzione stragiudiziale della controversia, non e' piu' ragionevole "espropriare" il ricorrente di un mezzo della tutela giurisdizionale dei diritti, quali: l'esercizio dell'azione giudiziaria e l'immediatezza dei suoi effetti, volti ad impedire il decorso del tempo di una prescrizione o di una decadenza anche di carattere processuale. Va denunciata, infine, altra incongruenza (art. 3 della Costituzione): il legislatore delegato in ordine alle controversie di lavoro privato ha omesso di prevedere che la "richiesta" del tentativo di conciliazione debba contenere l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa, cosi' come e' stato disposto invece dall'art. 69-bis del d.lgs. n. 29/1993, per l'analogo tentativo nelle controversie relative al pubblico impiego. In tal guisa, nelle controversie private, il collegio di conciliazione non e' in grado di conoscere gli estremi della domanda. Cio' comporta che il tentativo di conciliazione costituisce un inutile adempimento e una pura formalita', senza apprezzabile possibilita' di utile e proficua efficacia; quasi cioe' una fictio priva di qualsiasi ragionevolezza; a meno che l'accordo sia stato raggiunto (ma raramente, come l'esperienza insegna) anteriormente "nella tranquillita' degli studi legali". Ne consegue, pure, che se tale adempimento e' inutile e irrazionale, la sua obbligatorieta' comporta un aggravio di spese (inutili) per il lavoratore, il quale, non potendo fruire del patrocinio a carico dello Stato (perche' non previsto nella fase stragiudiziale) potrebbe essere indotto a rinunciare alla tutela giurisdizionale del proprio diritto. Cio' in realta' porterebbe a favorire "la fuga dalla giustizia dei non abbienti", con conseguente vulnus degli artt. 3 e 24 della Costituzione". Per quanto considerato sopra gli atti vanno rimessi alla Corte costituzionale, essendo la questione di legittimita' non manifestamente infondata e rilevante.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge n. 87/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 410, 410-bis e 412-bis del codice di procedura civile, come modificati, aggiunti o sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e dall'art. 19 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387 per contrasto con gli artt. 76 (in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 11, comma 4), 3 e 24 della Costituzione; Per l'effetto sospende il giudizio; Si notifichi alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri; Si comunichi ai presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Parma, addi' 7 luglio 1999. Il giudice unico del lavoro: Ferrau' 99C1116