N. 295 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 febbraio 2000

Ordinanza emessa il 18 febbraio 2000 dal giudice istruttore presso il
tribunale  di  Milano  nel  procedimento  civile  vertente  tra Banca
Nazionale  dell'Agricoltura  S.p.a.  e fallimento Giuliana Cremascoli
Chemicals S.r.l.
Credito  (Istituti  di)  -  Interessi  bancari  -  Clausole  relative
all'anatocismo  contenute  nei contratti stipulati anteriormente alla
delibera  CICR  di  cui  all'art.  25  d.lgs.  n. 342/1999 - Prevista
validita'  ed  efficacia  fino alla data di entrata in vigore di tale
delibera   -   Ingiustificata   sanatoria   retroattiva  di  clausole
contrattuali nulle - Eccesso di delega, per esorbitanza dai limiti ex
art.  1,  comma  5,  l.  n. 128/1998  -  Violazione  dei  principi di
ragionevolezza  e  di uguaglianza, nonche' dei principi in materia di
leggi  retroattive  e  di  leggi  interpretative  - Attribuzione alle
banche  di  un  arbitrario vantaggio - Incidenza sul libero esercizio
dell'iniziativa   economica   privata  -  Lesione  del  principio  di
affidamento del cittadino nella certezza del diritto.
- D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342, art. 25.
- Costituzione, artt. 3, 24, 41, 76, 97 e 101.
(GU n.23 del 31-5-2000 )
                             IL GIUDICE

    Sciogliendo  la  riserva  assunta  nella  causa promossa da Banca
  Nazionale   dell'Agricoltura   S.p.a.  contro  fallimento  Giuliana
  Cremascoli Chemicals S.r.l. osserva quanto segue;
    Nel  presente  giudizio  avente ad oggetto opposizione allo stato
  passivo   ex   art.   98   della   legge  fallimentare  si  discute
  relativamente alla ammissibilita' del credito insinuato dalla Banca
  Nazionale  dell'Agricoltura e alla misura della ammissione medesima
  in  relazione alla mancata dimostrazione del credito medesimo nelle
  sue  varie  componenti, sia con riferimento ai titoli relativi alla
  formazione degli importi pretesi a titolo di capitale e a titolo di
  interessi,  sia  con  riferimento  alla,  da  parte del fallimento,
  contestata  legittimita'  della  applicazione dell'anatocismo sugli
  interessi,  calcolati  sulla base della cosiddetta capitalizzazione
  trimestrale.
    Sotto questo profilo la questione della possibilita' di applicare
  la  capitalizzazione  trimestrale degli interessi (attuata peraltro
  non  solo  nel  corso  dello  svolgimento  del  contratto  di conto
  corrente,  ma  anche dopo la chiusura del conto, laddove, a seguito
  della  risoluzione  del  contratto  di apertura di credito, residua
  esclusivamente  un  debito di mora a carico del correntista) impone
  appunto  la  necessita'  di  verifica  l'esistenza di usi normativi
  bancari  di  deroga  al  divieto  di anatocismo trimestrale sancita
  dall'art.  1283  c.c.  e  art. 8  preleggi  al  c.c.  e l'eventuale
  legittimita' degli usi medesimi.
    E'  noto infatti come ai sensi dell'art. 1283 c.c., la produzione
  di  interessi  su interessi sia vietata, fatta eccezione per i casi
  in cui ricorrono le condizioni previste dalla norma medesima:

        a)  convenzione  posteriore alla scadenza dei primi interessi
  o,
        b) domanda giudiziale volta al pagamento degli interessi;
        c)  necessita'  che  si tratti di interessi dovuti per almeno
  sei mesi.

    Cio', come recita la stessa norma, "in mancanza di usi contrari".
    E'  noto  altresi' come in applicazione della norma suindicata la
  giurisprudenza  di  legittimita' piu' recente (Cass. 16 marzo 1999,
  n. 3096;  Cass.  30  marzo  1999,  n. 3096; Cass. 11 novembre 1999,
  n. 12507),  mutando  un  indirizzo  ampiamente  consolidato,  abbia
  concluso  per la nullita' della clausola, contenuta in un contratto
  bancario,  che  prevedeva  la  capitalizzazione  trimestrale  degli
  interessi  dovuti  dal  cliente  (e  non invece per quelli attivi a
  favore del cliente medesimo) in quanto basata su un uso negoziale e
  non su una vera e propria norma consuetudinaria.
    In  particolare la Cassazione ha ritenuto che non esplicano alcun
  ruolo  le  c.d. norme bancarie uniformi, predisposte dall'A.B.I. in
  quanto  prive  di  natura  normativa  a  consuetudinaria, ma dotate
  soltanto  di natura pattizia, trattandosi di condizioni generali di
  contratto indirizzate dall'associazione alle banche associate.
    Anzi,  come  hanno  osservato i giudici di legittimita', il fatto
  che  nei contratti bancari si sia sempre avvertita la necessita' di
  inserire  l'anatocismo  sotto forma di capitalizzazione trimestrale
  degli  interessi,  lungi  dal  dimostrare  l'esistenza  di  un  uso
  normativo  o  consuetudinario  (avente la stessa natura delle norme
  dettate  dal legislatore e come queste da rispettare ed osservare),
  sta  proprio  a dimostrare il ricorso ad uno strumento contrattuale
  che  si  sostanzia  in  clausole  uniformi  da far sottoscrivere al
  cliente.
    In tale situazione di fatto il decreto legislativo 4 agosto 1999,
  n. 342,  e'  intervenuto  a modificare l'art. 120 t.u. bancario, di
  cui  al  decreto  legislativo  7  settembre  1993,  n. 385,  con la
  modifica   della   rubrica  che  viene  sostituita  dalla  seguente
  "Decorrenza  delle valute e modalita' di calcolo degli interessi, e
  con l'aggiunta di un secondo comma al citato art. 120 che recita:

        "Il  Circ stabilisce modalita' e criteri per la produzione di
  interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere
  nell'esercizio dell'attivita' bancaria, prevedendo in ogni caso che
  nelle  operazioni  in  conto  correnti sia assicurata nei confronti
  della   clientela   la  stessa  periodicita'  nel  conteggio  degli
  interessi  sia debitori che creditori nonche' di un terzo comma che
  recita:
        "Le  clausole  relative  alla  produzione  di interessi sugli
  interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente
  alla  data  di  entrata in vigore della delibera di cui al comma 2,
  sono  valide  ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono
  essere   adeguate   al  disposto  della  menzionata  delibera,  che
  stabilira'  altresi'  le  modalita'  e i tempi dell'adeguamento. In
  difetto   di   adeguamento,  le  clausole  divengono  inefficaci  e
  l'inefficacia puo' essere fatta valere solo dal cliente ".

    Il  decreto  legislativo  sopra  indicato,  in sostanza, oltre ad
  avere  previsto  la  riserva  esclusiva  in  favore  del Cicr della
  competenza  di stabilire le modalita' e i criteri per la produzione
  degli  interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in
  essere  nell'esercizio  della  attivita' bancaria (con l'importante
  precisazione  che  tale  previsione non potra' essere limitata alla
  capitalizzazione  degli interessi operata a favore della banca, nei
  rapporti  cioe'  nei  quali  la  banca e' creditrice, ma anche alla
  capitalizzazione  degli interessi operata a favore del cliente), ha
  anche previsto al comma 3 la sanatoria di clausole nulle attraverso
  una disciplina transitoria di carattere retroattivo.
    Si  e' gia' ampiamente discusso se la disposizione sopra indicata
  debba  leggersi  quale  norma  di interpretazione autentica o debba
  invece  qualificarsi  come  norma  innovativa  "nella  parte in cui
  subordina de futuro la determinazione del tasso di capitalizzazione
  degli  interessi  bancari  alla  delibera  del Cicr, cui accede una
  deliberatoria  di  validita'  delle clausole di trimestralizzazione
  stipulate  sotto  il  regime  previgente" (Trib. Milano, sez. VIII,
  21/23 dicembre 1999 nella causa Renello - Unicredito S.p.a.).
    Della  legittimita'  costituzionale di tale norma deve, ad avviso
  di questo giudice, dubitarsi sotto vari profili:

    1. - Violazione degli artt. 3 e 76 della Costituzione.
    La   tecnica   legislativa  utilizzata  al  fine  della  modifica
  dell'art.  120  t.u.  bancario  e'  quella  della  delega contenuta
  nell'art.  1,  quinto  comma,  legge  comunitaria  24  aprile 1998,
  n. 128.
    Il  Presidente  della  Repubblica  ha, quindi, emanato il decreto
  legislativo  4  agosto  1999,  n. 342  (pubblicato  nella  Gazzetta
  Ufficiale  il  4  ottobre  1999  ed entrato in vigore il 19 ottobre
  1999)  in  forza  della delega contenuta nell'art. 1, comma 5 della
  legge comunitaria 24 aprile 1998, n. 128, il quale stabiliva che il
  legislatore  delegato  avrebbe  dovuto  osservare  e  rispettare  i
  principi  e  i criteri direttivi a suo tempo stabiliti nell'art. 25
  della  legge 19 febbraio 1991, n. 481, sulla base della quale venne
  emanato, nel 1993, il t.u. bancario del 1993.
    Piu'   specificamente,  nel  preambolo  del  decreto  legislativo
  indicato si legge infatti (secondo l'indicazione di cui all'art. 76
  della  Costituzione)  che  le  fonti  normative dello stesso devono
  identificarsi:

        a)  nell'art.  25  della  legge  18  febbraio  1992,  n. 142,
  concernente l'attuazione della direttiva CEE n. 89/464;
        b)  nell'art. 1, comma 5, della legge 24 aprile 1998, n. 128,
  recante   disposizioni  per  l'adempimento  di  obblighi  derivanti
  dall'appartenenza dell'Italia alla Comunita' europea;
        c) nel decreto legislativo 19 settembre 1993, n. 385, e cioe'
  nel t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia;
        d)   nel   decreto   legislativo  24  febbraio  1998,  n. 58,
  contenente il t.u. in materia di intermediazione finanziaria.

    Puo'  rilevarsi  riassuntivamente  come  la delega consentisse al
  Governo  la  emanazione  di  un  testo  unico  in  attuazione delle
  direttive  della  Comunita'  europea  e  coordinato  con  le  altre
  disposizioni vigenti nella materia.
    Ora,  non  soltanto  non e' possibile rinvenire alcun riferimento
  alle  tematiche  dell'anatocismo  nelle  direttive  comunitarie, ma
  anche  nell'ambito  del t.u. bancario del 1993 non era contenuto il
  benche' minimo riferimento a tale meccanismo.
    Per   quanto   in   particolare   si   riferisce  alle  direttive
  comunitarie,  deve rilevarsi come l'art. 25 della 18 febbraio 1992,
  n. 142  (relativo  alla  attuazione  della direttiva n. 89/464/CEE)
  intitolato "Accesso all'attivita' degli enti creditizi ed esercizio
  della  medesima:  criteri  direttivi",  prevede  esplicitamente che
  l'attuazione  della direttiva suindicata debba avvenire secondo una
  serie  di  principi specificamente elencati relativi alle attivita'
  di  raccolta  di  depositi  o fondi (lettera  A), alla attivita' di
  vigilanza  sull'attivita'  esercitata  in  Italia  da banche estere
  (lettera  B),  alla  prestazione  di  servizi in Italia da parte di
  succursali  di  banche  estere  (lettera  C), alla disciplina della
  pubblicita'  dei  propri  servizi  da  parte  degli  enti creditizi
  autorizzati  (lettera  D) ed un generico richiamo alla possibilita'
  di  adottare  ogni  altra disposizione necessaria per adeguare alla
  direttiva  la disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati
  in Italia.
     Ma, ne', come risulta evidente, la legge n. 142 del 1992, ne' la
  direttiva  89/464  della  CEE contengono il pur minimo accenno alle
  "modalita' di calcolo degli interessi".
    Ad  analoghe  conclusioni  conduce  l'esame relativo alla seconda
  legge  delega  menzionata nella premessa del decreto legislativo di
  cui  si  discute  e  cioe' l'art. 1, comma 5, della legge 24 aprile
  1998, n. 128, contenente disposizioni per l'adempimento di obblighi
  derivanti  dall'appartenenza  dell'Italia  alla  Comunita' europea.
  Anche  tale  testo che contiene una serie minuziosa di disposizioni
  volte  ad  imporre  l'armonizzazione  della  disciplina  di diritto
  interno   ad   una   serie  di  direttive  CEE,  non  contiene  ne'
  direttamente,  ne'  per  relationem,  cioe'  con  riferimento  alle
  direttive  comunitarie  nn. 95/26  e  77/789, alcuna disposizione o
  principio  avente  ad  oggetto  la disciplina dei singoli contratti
  bancari  e,  piu'  in  particolare,  le  modalita' di calcolo degli
  interessi.
    Non  puo'  quindi  trovare  alcuna  giustificazione, anche ove si
  voglia  interpretare  il potere di delega del Governo nel modo piu'
  ampio,  la creazione di norme di legge del tutto innovative, con le
  quali  viene  in sostanza prevista la possibilita' per le banche di
  inserire  nei  contratti  clausole  anatocistiche nell'ambito delle
  modalita'  che  potranno  essere  stabilite  dal Cicr e addirittura
  viene  prevista retroattivamente, con norma di favore per una delle
  parti  del  contatto (la banca) e a danno dell'altro contraente (il
  cliente)  la  sanatoria di clausole anatocistiche che le banche, in
  violazione  dell'ancora vigente art. 1283 c.c. (cosi' come ritenuto
  dalla  migliore  piu'  recente  giurisprudenza)  hanno inserito nei
  contratti.
    I  limiti  della  delega  non  possono  consentire  al Governo la
  creazione  di  una disciplina completamente nuova dell'anatocismo e
  delle convenzioni anatocistiche, in quanto la ammissibilita' o meno
  dell'anatocismo  e  ancor  piu'  la  sanatoria  ex lege di clausole
  anatocistiche  nulle, costituisce una scelta assolutamente estranea
  al  contenuto  della delega e rappresenta una palese violazione dei
  confini   e  dei  limiti  di  intervento  concessi  al  legislatore
  delegato,  in  relazione  ai potere di apportare modifiche al testo
  unico  bancario,  rispetto  al  quale  la  previsione  del  comma 3
  dell'art.  25  d.lgs.  4  agosto  1999, di sanatoria delle clausole
  anatocistiche  dichiarate  nulle  dalla  Cassazione, costituisce un
  evidente  eccesso  di  delega  e  contrasta  con  l'art.  76  della
  Costituzione.

    2.  -  Violazione  degli  artt. 3,  24, 97 della Costituzione per
  irragionevolezza  e  arbitrarieta' della validazione retroattiva di
  clausole contrattuali.
    Il  principio  di irretroattivita' della legge, pur essendo dalla
  Costituzione previsto con riferimento alla norma penale, deve pero'
  ritenersi  principio  generale  della nostra legislazione, tanto da
  essere   sancito   dall'art.   11  delle  preleggi,  funzionalmente
  suscettibile  quindi  di  imporsi  al legislatore. E' proprio sulla
  base   di   queste   considerazioni  che  la  giurisprudenza  della
  Cassazione  ha  anche  da  ultimo  stabilito come la norma di legge
  innovativa   non   possa  essere  suscettibile  di  interpretazione
  retroattiva  (Cass.  Sez.  Unite 27 gennaio 1999, n. 4, in Foro It.
  1999, I, 458).
    Deve  d'altro  canto  escludersi  la  possibilita' di aggirare il
  principio  di  irretroattivita'  della  legge attribuendo carattere
  interpretativo alla norma innovativa.
    Perche'  una  norma  possa  qualificarsi  come interpretativa, e'
  necessario  non solo che il legislatore identifichi con sufficiente
  chiarezza   la   disposizione   quale   tale,  ma  anche  che  essa
  effettivamente risponda alla funzione di chiarire il senso di norme
  preesistenti   o   di  imporre  una  delle  possibili  varianti  di
  significato  di  tale  norma  preesistente  (Corte  costituzione 12
  luglio 1995, n. 311, Corte costituzionale 5 novembre 1996, n. 386).
    Nel  caso  in  esame  non  pare  sia  possibile  riconoscere tale
  carattere alla norma di cui si discute e cio' sia perche' nel testo
  della  nuova disposizione normativa non e' contenuto alcun richiamo
  all'art.  1283  c.c.,  cioe' alla norma che impone il divieto delle
  clausole  anatocistiche,  sia  perche'  in  realta' la disposizione
  medesima  appare  proprio rivolta ad imporre una applicazione della
  legge  diversa  da  quella  alla  quale  la  meditata  opera  della
  giurisprudenza era pervenuta.
    In  altre  parole, il nuovo testo legislativo non contiene alcuna
  norma  che  possa saldarsi sul piano interpretativo con l'art. 1283
  c.c., cosi' da dar luogo ad un precetto unitario.
    La  nuova  disciplina  ha  invece  inammissibilmente  convalidato
  retroattivamente   le  clausole  anatocistiche  e  cio'  in  palese
  contrasto con i principi in materia di retroattivita'.

    3.  -  Violazione  degli  artt. 3, 41, 101 della Costituzione per
  violazione dei principi di ragionevolezza ed uguaglianza.
    Il  criterio  di  ragionevolezza,  contenuto  nell'art.  3  della
  Costituzione,  quale principio di uguaglianza, che si traduce in un
  "generale canone di coerenza dell'ordinamento" (Cost. n. 204/1982),
  viene   violato  ogniqualvolta  una  "norma  generale"  valida  sia
  ingiustificatamente  derogata  da  una  disciplina  particolare. La
  violazione  successiva  di  clausole  contrattuali nulle o comunque
  inefficaci  contrasta  con  l'esigenza di assicurare un trattamento
  ragionevolmente  omogeneo  tra  tutti  coloro  che avendo subito un
  onere  illegittimo  in  relazione  alla  applicazione  di interessi
  anatocistici  (e  cio'  particolarmente  ora  che la nullita' delle
  relative  clausole  e'  stata  piu'  volte  accertata dalla Suprema
  Corte)  hanno il diritto di opporre la inesigibilita' delle pretese
  della banca.
    La  irragionevolezza  della  situazione su indicata appare ancora
  piu'  evidente  laddove  si  consideri  che,  pur  non  essendo  il
  legislatore  intervenuto  sulla norma civilistica che stabilisce il
  divieto  di  anatocismo, lo stesso e' imperativamente intervenuto a
  sanare      clausole     contrattuali     che     l'interpretazione
  giurisprudenziale piu' evoluta aveva giudicato radicalmente nulle e
  cio'  ancora  una  volta  nell'ottica  di una palese violazione del
  principio   di   uguaglianza   e  di  parita'  di  trattamento.  Il
  provvedimento  impugnato  e'  senza ombra di dubbio intrensicamente
  finalizzato  a  favorire  una delle parti del rapporto contrattuale
  (la  banca)  a danno dell'altra parte (il cliente), il che peraltro
  appare  tanto  piu'  grave  in  quanto  la parte favorita e' quella
  economicamente  e  contrattualmente piu' forte, in tal senso ancora
  una volta ponendosi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
    L'intervento  legislativo  si e' inserito nell'ambito di clausole
  contrattuali  non  solo sottraendo queste clausole al necessario ed
  opportuno intervento interpretativo della autorita' giudiziaria, ma
  addirittura alterando l'equilibrio delle rispettive posizioni cosi'
  da privilegiarne alcune e danneggiarne altre.
    In  tal  senso  si  puo'  legittimamente dubitare che la norma si
  ponga  in  contrasto  anche  con  l'art.  41 della Costituzione dal
  momento  che  la  stessa,  attribuendo un arbitrario vantaggio alle
  banche,   altera   le   regole   della   concorrenza   influenzando
  irragionevolmente  il  libero  esercizio  dell'iniziativa economica
  privata.

    4.  -  Violazione  dell'art. 3 della Costituzione in relazione al
  principio  dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica
  e nella certezza del diritto proprio dello stato di diritto.
    La  recente  sentenza  della  Corte  costituzionale  27 ottobre-4
  novembre  1999,  n. 146,  ha  dichiarato  la incostituzionalita' di
  norme  retroattive  proprio  con riferimento alla lesione di valori
  costituzionalmente   protetti   costituiti   dall'affidamento   del
  cittadino  nella  sicurezza giuridica e nella certezza del diritto.
  La  scelta  operata  dal legislatore di sancire retroattivamente la
  validita'  di  clausole contrattuali nulle per violazione dell'art.
  1283  c.c., lede le aspettative della clientela di poter contare su
  regole  giuridiche  precise  ed  indiscutibili  ed  in  particolare
  proprio  su  quelle  regole di diritto che sanciscono il divieto di
  tali clausole.
      Tale scelta e' tanto piu' assurda in quanto gli effetti di tale
  sanatoria  sono  destinati  a  riflettersi su rapporti contrattuali
  gia'  in  corso  e  rispetto  ai  quali  il  cliente  non ha alcuna
  possibilita'  di  difesa,  diversamente da quanto avviene allorche'
  una determinata disciplina sia destinata ad operare con riferimento
  al  futuro  cosi' da consentire al cliente di recedere dal rapporto
  (allorche'  questo  sia  gia'  in  corso)  o di non stipulare alcun
  contratto  (allorche'  il  contratto  medesimo  debba ancora essere
  stipulato).
    Questo  giudice,  considerata quindi la rilevanza della questione
  di  legittimita'  costituzionale  sopra prospettata in relazione al
  presente  giudizio  nel  quale, come si e' detto nelle premesse, si
  invoca  (tra l'altro) l'applicabilita' della disposizione di cui al
  terzo   comma   dell'art.   25   d.lgs.   4  agosto  1999,  n. 342,
  applicabilita'  contestata  dal  fallimento  convenuto  che  ne  ha
  eccepito la nullita'.
                              P. Q. M.
    Visto  l'art.  23  legge n. 87/1953, solleva d'ufficio, in quanto
  non  manifestamente infondata e rilevante nel presente giudizio, la
  questione   di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  25  d.lgs.
  n. 342/1999;
    Sospende il giudizio in corso e ordina la trasmissione degli atti
  alla Corte costituzionale;
    Comunichi  la  presente  ordinanza ai Presidenti delle due Camere
  del Parlamento;
    Si  notifichi  la  stessa alle parti in causa e al Presidente del
  Consiglio dei Ministri.
        Milano, addi' 18 febbraio 2000.
                        Il giudice istruttore
00C0454