N. 335 SENTENZA 12 - 24 luglio 2000

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Previdenza  e  assistenza  -  Indennita'  di  mobilita'  - Divieto di
corresponsione    dell'indennita'   successivamente   al   compimento
dell'eta'  pensionabile - Esclusione, per le lavoratrici, del diritto
all'indennita'  al  compimento  del cinquantacinquesimo anno di eta',
anziche'  al compimento del sessantesimo anno di eta', come stabilito
per  i  lavoratori  - Lamentata discriminazione in base al sesso, con
pregiudizio   della   garanzia   previdenziale  -  Specialita'  della
provvidenza  per mobilita' - Ragionevolezza della disciplina adottata
- Non fondatezza della questione.
- Legge 23 luglio 1991, n. 223, art. 7, comma 3.
- Costituzione, artt. 3 e 37.
Previdenza  e  assistenza  - Eta' pensionabile - Differenziazione tra
  uomo  e  donna  -  Contrasto  con  il  principio  di  eguaglianza -
  Esclusione.
- Costituzione, art. 37.
(GU n.32 del 2-8-2000 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Cesare MIRABELLI;
  Giudici:  Francesco  GUIZZI,  Fernando  SANTOSUOSSO,  Massimo VARI,
Cesare  RUPERTO,  Riccardo  CHIEPPA, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE,
Fernanda   CONTRI,  Guido  NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto  CAPOTOSTI,
Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 7, comma 3,
della  legge  23  luglio  1991,  n. 223  (Norme  in  materia di cassa
integrazione, mobilita', trattamenti di disoccupazione, attuazione di
direttive  della  comunita'  europea,  avviamento  al lavoro ed altre
disposizioni   in  materia  di  mercato  del  lavoro),  promosso  con
ordinanza  emessa  il  20  maggio  1997 dalla Corte di cassazione sul
ricorso  proposto  dall'INPS  contro  Di  Corato Riccardina ed altre,
iscritta  al  n. 706  del  registro ordinanze 1998 e pubblicata nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  -  1a serie speciale - n. 40,
dell'anno 1998.
    Visti gli atti di costituzione di Di Corato Riccardina ed altre e
dell'INPS;
    Udito nell'udienza pubblica del 9 maggio 2000 il giudice relatore
Fernando Santosuosso;
    Uditi gli avvocati Antonio Pellegrini per Di Corato Riccardina ed
altre e Giuseppe Fabiani per l'INPS.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nel  corso di una controversia previdenziale nei confronti
dell'Istituto   nazionale   della  previdenza  sociale  la  Corte  di
cassazione  ha  sollevato,  in  riferimento  agli  artt. 3 e 37 della
Costituzione,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 7,
comma  3,  della  legge  23  luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di
cassa   integrazione,   mobilita',   trattamenti  di  disoccupazione,
attuazione di direttive della comunita' europea, avviamento al lavoro
ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro).
    La  norma  impugnata stabilisce che l'indennita' di mobilita' non
venga  piu'  corrisposta  allorquando  il lavoratore raggiunga l'eta'
pensionabile  ovvero,  se  a  questa  data non sia ancora maturato il
diritto  alla pensione di vecchiaia, successivamente alla data in cui
tale diritto viene a maturazione. La Corte rimettente rileva che tale
norma  si fonda evidentemente sul presupposto che la necessita' di un
intervento     assistenziale     pubblico    (costituito,    appunto,
dall'erogazione  dell'indennita'  di  mobilita') debba venir meno nel
momento  in  cui il lavoratore puo' fare fronte alle proprie esigenze
di  vita  grazie  al trattamento pensionistico ormai conseguito. Deve
tuttavia  considerarsi  che  il  sistema  mantiene  una diversita' in
ordine  all'eta' pensionabile per la donna, fissata a cinquantacinque
anni,  rispetto  a  quella  dell'uomo,  che  e'  invece  stabilita al
compimento dei sessant'anni; e detta diversita' e' rimasta nonostante
le  declaratorie  di illegittimita' costituzionale compiute da questa
Corte con le sentenze n. 137 del 1986 e n. 498 del 1988. Come risulta
dalla  seconda  delle  due  pronunce,  il  cui contenuto e' stato poi
ripreso  anche dalle successive sentenze n. 371 del 1989 e n. 404 del
1993,  la  parificazione  dell'eta' lavorativa della donna rispetto a
quella  dell'uomo  non  ha  portato  con  se'  anche la parificazione
dell'eta'  pensionabile,  che  per  la  prima  e' rimasta all'eta' di
cinquantacinque  anni.  Da  tanto  deriva la rilevanza della presente
questione,  perche'  le ricorrenti, tutte ultracinquantacinquenni, si
sono viste negare dall'INPS il diritto all'indennita' di mobilita' in
forza del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia.
    Cio'  premesso,  la  Corte  di  cassazione  osserva  che la norma
impugnata   confligge  con  i  richiamati  parametri  costituzionali,
poiche'  l'esclusione  delle  lavoratrici ultracinquantacinquenni dai
benefici  collegati  all'erogazione  dell'indennita'  di mobilita' si
risolve  in  un'irrazionale  discriminazione delle stesse rispetto ai
lavoratori.  Le  prime,  infatti, non possono incrementare la propria
anzianita'    contributiva    e    sono,   in   sostanza,   collocate
obbligatoriamente  in  pensione;  ne  consegue una sorta di deminutio
della  donna  lavoratrice  che  si  sente ancora in grado di svolgere
attivamente  il  proprio ruolo, in contrasto con i principi enunciati
nelle  citate  sentenze costituzionali, secondo cui l'eta' lavorativa
della donna dev'essere la stessa fissata per l'uomo.
    La  Corte  rimettente,  pertanto,  chiede  che la norma impugnata
venga dichiarata costituzionalmente illegittima.
    2.  - Si sono costituite in giudizio le ricorrenti del giudizio a
quo  con  un  unico  atto difensivo, facendo proprie integralmente le
osservazioni  contenute  nell'ordinanza  di  rimessione  e  chiedendo
l'accoglimento della prospettata questione.
    3.  -  Si  e'  costituito  in  giudizio  anche l'INPS, osservando
preliminarmente   che   le   perplessita'  di  natura  costituzionale
manifestate dalla Corte di cassazione sono state ritenute non fondate
dalla  medesima  Corte,  in  diversa  composizione,  con  la sentenza
n. 3439  del  1998. In questa seconda pronuncia la Corte regolatrice,
richiamando  le  sentenze  n. 296  e  n. 435  del  1994  della  Corte
costituzionale,   ha   rilevato  che  il  diritto  all'indennita'  di
mobilita'  viene  meno  non  tanto  per  il  semplice  raggiungimento
dell'eta'   pensionabile,  quanto  per  l'effettiva  maturazione  dei
requisiti   per  la  titolarita'  della  pensione.  Ne  consegue  che
l'apparente  lamentata  disparita' di trattamento tra uomo e donna e'
la  conseguenza  del  permanente  favore verso la lavoratrice, cui e'
stato  consentito  di  raggiungere  il  diritto a pensione ad un'eta'
inferiore  rispetto  al lavoratore. Tale opzione legislativa risponde
alla  ratio dell'indennita' in parola, che e' quella di assicurare ai
lavoratori un sostegno economico di carattere assistenziale, sostegno
che  non ha piu' ragion d'essere quando si matura il diritto ad avere
un maggior trattamento economico.
    Ad  avviso  dell'INPS, inoltre, il conseguimento del diritto alla
pensione  non  esclude le lavoratrici dal novero dei dipendenti per i
quali  e'  stata  attivata la procedura di mobilita', procedura dalla
quale derivano gli effetti indicati dalla sentenza n. 413 del 1995 di
questa  Corte. Ne' il pensionamento di vecchiaia e' incompatibile con
la  rioccupazione presso la medesima impresa o presso terzi datori di
lavoro  o  con  un lavoro autonomo, sicche' la lavoratrice pensionata
puo' acquisire un'ulteriore fonte di contribuzione.
    Si  conclude, pertanto, escludendo che la norma denunciata vi'oli
gli   indicati   parametri,  poiche'  l'acquisizione  del  diritto  a
pensione,  che  copre  tutto l'arco della vita, ben puo' garantire le
esigenze di sostentamento che l'indennita' di mobilita' e' chiamata a
soddisfare.

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  ritiene  che
l'art. 7,  comma  3,  della  legge  23  luglio  1991,  n. 223, sia in
contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione nella parte in cui,
disponendo  che  l'indennita'  di  mobilita'  non  venga  corrisposta
successivamente  alla  data  del  compimento  dell'eta' pensionabile,
prevede   l'anticipato  allontanamento  dal  mondo  del  lavoro,  con
incidenza  anche sull'anzianita' contributiva e, quindi, sulla misura
della  pensione,  della  donna  che  abbia  maturato  il diritto alla
pensione  di  vecchiaia.  La  doglianza si fonda sul presupposto che,
essendo  fissata  l'eta'  pensionabile per le donne a cinquantacinque
anni  anziche' a sessanta, la norma impugnata sottrarrebbe alla donna
lavoratrice  il  diritto  all'indennita' di mobilita' (con tutto cio'
che  ne  consegue)  con cinque anni di anticipo rispetto all'uomo, in
tal  modo  introducendo una discriminazione basata esclusivamente sul
sesso.
    A  sostegno della doglianza il giudice a quo richiama le sentenze
n. 137  del  1986, n. 498 del 1988, n. 371 del 1989 e n. 404 del 1993
di  questa  Corte,  le  quali  hanno  affermato  il principio per cui
"l'eta'  lavorativa  deve  essere  eguale  per la donna e per l'uomo,
mentre  rimane  fermo il diritto della donna a conseguire la pensione
di   vecchiaia   al   cinquantacinquesimo  anno  d'eta',  onde  poter
soddisfare esigenze peculiari della donna medesima".
    2. - La questione e' infondata.
    Costituisce  un dato pacifico, emergente dalle sentenze di questa
Corte  correttamente richiamate dalla Corte di cassazione, che l'eta'
lavorativa  per  le  donne  e'  stata  equiparata a quella dell'uomo,
dovendosi   intendere   con  tale  affermazione  che  alle  prime  e'
riconosciuta   la   possibilita'   di   optare  per  la  prosecuzione
dell'attivita'  lavorativa  fino al sessantesimo anno di eta' (in tal
senso  e'  anche  l'art. 4  della  legge  9 dicembre 1977, n. 903, da
leggersi alla luce della sentenza n. 498 del 1988 di questa Corte). A
tale parificazione, pero', non corrisponde, nella vigenza del sistema
pensionistico  attuale, una parificazione dell'eta' pensionabile, che
per le donne e' rimasta fissata al compimento del cinquantacinquesimo
anno di eta'.
    3. - La Corte di cassazione, nel prospettare l'odierna questione,
muove  sostanzialmente  dal  presupposto  che  la  diversita' di eta'
pensionabile  tra uomo e donna non deve tradursi, come avverrebbe nel
caso  di  specie,  in un pregiudizio per le lavoratrici. Nel compiere
siffatto  ragionamento,  tuttavia,  l'ordinanza  di rimessione omette
altre  considerazioni che giustificano l'esclusione della prospettata
incostituzionalita'.
    Occorre  innanzitutto  rilevare, infatti, che la posizione di chi
e'  stato  collocato  in mobilita' non puo' essere posta sullo stesso
piano  rispetto  a  quella  del  lavoratore  cui  provvede  la  cassa
integrazione  salariale.  L'erogazione  della  prima  indennita', che
rientra  nella  piu'  ampia  categoria  dei cosiddetti ammortizzatori
sociali,  consiste  in  un trattamento di favore che la collettivita'
riserva,  in  nome  dei  principi  di  solidarieta' sociale contenuti
nell'art. 38  Cost.,  a  quei lavoratori che, per particolari ragioni
previste  dalla legge, vedono risolto il loro rapporto di lavoro; per
cui  chi  beneficia  di  detto  trattamento  e' gia', in sostanza, un
disoccupato.   Ne  deriva  che  il  riferimento  alla  giurisprudenza
costituzionale  sulla  parita'  di  eta'  lavorativa tra uomo e donna
appare  non  pienamente  conferente  in  rapporto  alla situazione di
coloro  che  sono  posti  in  mobilita',  i quali non sono lavoratori
attivi.
    La  specialita'  dell'indennita' in esame rende ragionevole e non
confliggente  con gli invocati parametri costituzionali la previsione
legislativa oggi contestata, secondo cui l'indennita' di mobilita' e'
incompatibile  con il trattamento pensionistico di vecchiaia (v. pure
l'art. 6,  comma  settimo,  del  decretolegge 20 maggio 1993, n. 148,
convertito  in  legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della
legge  19  luglio 1993, n. 236, che stabilisce l'incompatibilita' tra
assegno  o  pensione  di  invalidita' ed indennita' di mobilita'). E'
evidente, invero, che una provvidenza di carattere definitivo come la
pensione  di  vecchiaia, destinata a coprire l'intero arco della vita
residua  del  lavoratore,  fa  implicitamente  venir  meno le ragioni
giustificatrici  del trattamento previdenziale provvisorio, che cessa
dopo  un  limitato periodo di tempo e che e' finalizzato a soddisfare
le   esigenze  minime  riconosciute  e  protette  dall'art. 38  della
Costituzione.  E  che  la  pensione  rappresenti,  per cosi' dire, un
emolumento  sostitutivo  nel  tempo  dell'indennita'  di mobilita' e'
confermato  anche  dall'esistenza della cosiddetta mobilita' "lunga",
il  cui  obiettivo e' proprio quello di "consentire ai lavoratori, in
possesso dei requisiti di anzianita' e di contribuzione dettati dalla
norma,   di   percepire   l'indennita'   sino  alla  maturazione  dei
trattamenti  di  vecchiaia,  ed anche di anzianita'" (sentenza n. 402
del 1996).
    E'  significativo,  del resto, che la stessa sezione lavoro della
Corte  di  cassazione,  con  la  sentenza n. 3439 del 1998 richiamata
dall'INPS,  in  presenza di una fattispecie analoga a quella odierna,
non  ha  sollevato  la  questione di legittimita' costituzionale, non
ravvisando  nella norma oggi impugnata alcun vulnus degli articoli 3,
37 e 38 della Carta fondamentale.
    4.  -  E'  opportuno ancora ricordare che, secondo i rilievi gia'
compiuti  da  questa  Corte con le sentenze n. 296 e n. 345 del 1994,
l'aver  mantenuto  per  le  donne  un'eta' pensionabile piu' bassa di
quella  degli  uomini  costituisce  una  sorta di "privilegio" per le
prime,   non   in   contrasto   con   l'art. 37  della  Costituzione,
soggiungendosi  che  "la  lamentata disparita' di disciplina, essendo
una  conseguenza  della  differenziazione  dell'eta' pensionabile tra
uomo  e  donna,  non appare lesiva del principio di uguaglianza". Ne'
puo' ritenersi che il pensionamento della donna ad un'eta' anticipata
rispetto  a  quella  dell'uomo  sia  incompatibile  con una eventuale
rioccupazione  presso  la  stessa  o  altra  impresa, con la relativa
possibilita'   di   cumularne  in  gran  parte  il  reddito  (decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, art. 10).
    Non  va  taciuto,  infine,  come gia' precisato dalla Corte nella
sentenza   n. 413  del  1995,  che  l'erogazione  dell'indennita'  di
mobilita' non e' che uno degli aspetti conseguenti all'iscrizione del
lavoratore nelle relative liste. In altre parole, con l'iscrizione si
determinano  anche  altre  conseguenze  favorevoli  per il lavoratore
ormai  disoccupato  (v.  l'art. 8,  comma  1,  della legge n. 223 del
1991),   che   permangono   anche   se  questi  non  percepisca  piu'
l'indennita'   di   mobilita'  in  conseguenza  dell'ormai  raggiunta
pensione.  Il  persistere  di tali effetti positivi, estensibili alle
lavoratrici,  vale  a confermare la legittimita' costituzionale della
norma  impugnata, essendo venuta meno solo la ratio della provvisoria
indennita'  di  mobilita' una volta maturato il diritto al migliore e
permanente trattamento pensionistico.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 7,  comma  3,  della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in
materia    di   cassa   integrazione,   mobilita',   trattamenti   di
disoccupazione,  attuazione  di  direttive  della  comunita' europea,
avviamento  al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del
lavoro),   sollevata,   in   riferimento  agli  artt. 3  e  37  della
Costituzione,   dalla   Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  con
l'ordinanza di cui in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta il 12 luglio 2000.
                      Il Presidente: Mirabelli
                      Il redattore: Santosuosso
                      Il cancelliere: Di Paola
    Depositata in cancelleria il 17 luglio 2000.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
00C0841