N. 508 SENTENZA 13 - 20 novembre 2000

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati  e  pene - Tutela penale dei culti - Vilipendio della religione
cattolica,   (gia)   religione  dello  Stato  -  Punibilita'  con  la
reclusione  fino  a un anno - Violazione dei principi fondamentali di
eguaglianza  dei  cittadini di fronte alla legge senza distinzione di
religione  e  di  eguale  liberta'  di tutte le confessioni religiose
nonche'   del   principio   supremo   di   laicita'   dello  Stato  -
Illegittimita' costituzionale.
- Cod. pen., art. 402.
- Costituzione,  artt.  3  e  38.  Reati e pene - Riserva di legge in
  materia  -  Esclusione  di  sentenze  di incostituzionalita' aventi
  valenza additiva.
- Costituzione, art. 25, secondo comma.
(GU n.49 del 29-11-2000 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Cesare MIRABELLI;
  Giudici:  Francesco  GUIZZI,  Fernando  SANTOSUOSSO,  Massimo VARI,
Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo  MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 402 del codice
penale,  promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1998 dalla Corte
di  cassazione nel procedimento penale a carico di A. G., iscritta al
n. 105  del  registro  ordinanze  1999  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 10, 1a serie speciale, dell'anno 1999.
    Udito  nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.

                          Ritenuto in fatto


    1. - Con ordinanza del 5 novembre 1998, la Corte di cassazione ha
sollevato   questione   di   costituzionalita'   dell'art. 402   cod.
pen. (Vilipendio  della  religione  dello Stato), in riferimento agli
artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.

    2. - Premesse  le vicende del giudizio di merito, quanto al fatto
storico  e quanto alle diverse conclusioni dei giudici di primo grado
e  di  appello,  la  Corte  rimettente  sottolinea  in primo luogo la
rilevanza  della  questione:  si  tratta  infatti  di  verificare  la
legittimita'  costituzionale della norma incriminatrice oggetto della
contestazione all'imputato.

    3. - Quanto   alla   non  manifesta  infondatezza,  la  Corte  di
cassazione   svolge  la  motivazione  dell'ordinanza  attraverso  una
rassegna  del  percorso  della  giurisprudenza costituzionale e delle
modifiche normative in tema di reati "di religione".
    La  Cassazione  muove  dalla  prima  decisione  resa  dalla Corte
costituzionale  sull'art. 402  cod.  pen. - sentenza n. 39 del 1965 -
con  la quale era stata rigettata una questione di costituzionalita',
riferita  agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione, principalmente
sul   rilievo   che  la  tutela  penale  rafforzata  della  religione
cattolica,  rispetto  alle altre confessioni, trovava giustificazione
nella  sua connotazione di religione professata dalla maggioranza dei
cittadini,  e  dunque  nella maggiore  ampiezza  e  intensita'  delle
reazioni  sociali  alle  offese  che  alla stessa religione potessero
essere rivolte.
    La  norma penale in argomento - prosegue la Corte rimettente - si
riferisce  alla "religione dello Stato", una nozione, questa, ripresa
dall'art. 1  dello  Statuto  albertino  e  ribadita  nell'art. 1  del
Trattato  Lateranense del 1929, che, oltre a essere incompatibile con
il  principio  supremo  di  laicita'  dello Stato (quale emerge dalle
sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del 1995 della Corte costituzionale),
e' stata comunque superata dalle modifiche concordatarie del 1984; il
punto  1  del  Protocollo  addizionale  all'accordo  di  modifica del
Concordato,  ratificato  con la legge 25 marzo 1985, n. 121, infatti,
afferma   che   "si  considera  non  piu'  in  vigore  il  principio,
originariamente  richiamato  dai  Patti  lateranensi, della religione
cattolica come sola religione dello Stato italiano".
    E  ancora  a  tale  riguardo,  la  Cassazione rileva che la Corte
costituzionale  ha ritenuto che l'espressione "religione dello Stato"
utilizzata  nel  codice penale, una volta venuta meno la possibilita'
di  attribuirle  l'originario  significato, non ha altro senso se non
quello  di  un  semplice  "tramite  linguistico"  con  il quale viene
indicata  la religione cattolica (sentenze nn. 925 del 1988 e 440 del
1995).
    Cio'  posto, il giudice rimettente, per argomentare la questione,
assume  come  propri  taluni passaggi di piu' recenti decisioni della
Corte costituzionale.
    Nella  sentenza  n. 329 del 1997, osserva la Cassazione, e' stato
messo  in  rilievo  che  "secondo  la visione nella quale si mosse il
legislatore  del  1930,  alla  Chiesa e alla religione cattoliche era
riconosciuto un valore politico, quale fattore di unita' morale della
nazione.  Tale  visione,  oltre  a trovare riscontro nell'espressione
"religione  dello  Stato",  stava alla base delle numerose norme che,
anche  al  di  la'  dei  contenuti  e  degli  obblighi  concordatari,
dettavano  discipline  di  favore a tutela della religione cattolica,
rispetto alla disciplina prevista per le altre confessioni religiose,
ammesse  nello  Stato.  Questa  ratio differenziatrice certamente non
vale piu' oggi, quando la Costituzione esclude che la religione possa
considerarsi  strumentalmente  rispetto  alle finalita' dello Stato e
viceversa  (sentenze  nn. 334 del 1996 e 85 del 1963, nonche' 203 del
1989)".
    D'altra   parte,   prosegue   la  Cassazione,  la  giurisprudenza
costituzionale  ha  da  tempo  abbandonato il criterio "quantitativo"
inizialmente utilizzato (ad esempio, nelle sentenze nn. 125 del 1957,
79  del  1958  e 14 del 1973) per giustificare la tutela rafforzata a
favore  della religione "di maggioranza": gia' nella decisione n. 925
del  1988  si  e'  affermato che e' "ormai inaccettabile ogni tipo di
discriminazione  (che  si basi) soltanto sul maggiore o minore numero
degli  appartenenti  alle  varie  confessioni  religiose";  mentre la
successiva sentenza n. 440 del 1995 ha precisato che "l'abbandono del
criterio  quantitativo  significa  che  in  materia di religione, non
valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza
di  ciascuna  persona  che si riconosce in una fede, quale che sia la
confessione religiosa di appartenenza".
    Da  ultimo  -  conclude  la Cassazione - la Corte costituzionale,
nella  gia'  citata  sentenza  n. 329  del  1997,  ha definitivamente
escluso  la possibilita' di giustificare differenziazioni legislative
nella  tutela  penale  del "sentimento religioso", osservando che "la
protezione   del  sentimento  religioso  e'  venuta  ad  assumere  il
significato  di  un corollario del diritto costituzionale di liberta'
di  religione,  corollario  che,  naturalmente, deve abbracciare allo
stesso  modo  l'esperienza  religiosa  di tutti coloro che la vivono,
nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai
diversi  contenuti  di fede delle diverse confessioni. Il superamento
di  questa  soglia attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi
differenziati  e  differenziatori,  con  conseguenze circa la diversa
intensita'  di tutela, infatti, inciderebbe sulla pari dignita' della
persona e si porrebbe in contrasto col principio costituzionale della
laicita'  o non confessionalita' dello Stato ...: principio che, come
si ricava dalle disposizioni che la Costituzione dedica alla materia,
non  significa  indifferenza  di  fronte  all'esperienza religiosa ma
comporta  equidistanza  e imparzialita' della legislazione rispetto a
tutte le confessioni religiose".

    4. - In tale quadro di riferimento, si delineano, ad avviso della
Corte  di  Cassazione,  le seguenti coordinate della questione: a) il
venir  meno  del carattere di religione "di Stato" per la confessione
cattolica  ha  riportato quest'ultima nell'ambito della pari dignita'
rispetto   a   ogni   altra  confessione,  conformemente  al  disegno
costituzionale;   b)   la  Corte  costituzionale  ha  numerose  volte
sollecitato il legislatore a rimuovere ogni ingiustificata differenza
di  tutela  penale tra la religione cattolica e le altre confessioni;
c)  il  reato  di  cui  all'art. 402 cod. pen. mantiene viceversa una
effettiva   discriminazione   tra  confessioni  religiose,  tutelando
esclusivamente la religione cattolica.
    Ne   deriva   la   necessita'   di   rimettere  al  controllo  di
costituzionalita' la compatibilita' tra la norma penale in discorso e
i  principi  espressi  negli  artt. 3, primo comma, e 8, primo comma,
della Costituzione.

                       Considerato in diritto


    1. - La  Corte  di  Cassazione  solleva questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 402  del  codice  penale  (Vilipendio della
religione  dello  Stato) che punisce con la reclusione fino a un anno
"chiunque  pubblicamente  vilipende  la  religione  dello  Stato". Il
giudice  rimettente  dubita  che la disposizione in esame, accordando
una   tutela  privilegiata  alla  sola  religione  cattolica  -  gia'
religione  dello Stato (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329
del  1997)  -  violi  gli  artt. 3  e  8  della  Costituzione,  cioe'
l'eguaglianza  di  tutti i cittadini senza distinzione di religione e
l'eguale  liberta'  di  tutte  le  confessioni religiose davanti alla
legge.

    2. - La questione e' fondata.

    3. - Posta  dal  legislatore penale del 1930, la norma impugnata,
insieme  a  tutte le altre che prevedono una protezione particolare a
favore della religione dello Stato-religione cattolica, si spiega per
il   rilievo   che,   nelle   concezioni  politiche  dell'epoca,  era
riconosciuto  al  cattolicesimo  quale fattore di unita' morale della
nazione. In questo senso, la religione cattolica era "religione dello
Stato"  -  anzi  necessariamente  "la  sola"  religione  dello  Stato
(formula  risalente  all'art. 1 dello Statuto albertino e riportata a
novella  vita  dall'art. 1  del Trattato fra la Santa Sede e l'Italia
del  1929):  oltre  che  essere considerata oggetto di professione di
fede, essa era assunta a elemento costitutivo della compagine statale
e,  come  tale,  formava  oggetto  di  particolare  protezione  anche
nell'interesse dello Stato.
    Le  ragioni  che  giustificavano  questa  norma  nel suo contesto
originario sono anche quelle che ne determinano l'incostituzionalita'
nell'attuale.
    In  forza  dei  principi  fondamentali  di uguaglianza di tutti i
cittadini  senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione)
e  di  uguale  liberta'  davanti  alla  legge di tutte le confessioni
religiose  (art. 8  della  Costituzione), l'atteggiamento dello Stato
non  puo' che essere di equidistanza e imparzialita' nei confronti di
queste   ultime,   senza   che  assumano  rilevanza  alcuna  il  dato
quantitativo  dell'adesione  piu'  o meno diffusa a questa o a quella
confessione  religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329
del  1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che
possono  seguire  alla violazione dei diritti di una o di un'altra di
esse  (ancora  la  sentenza  n. 329  del  1997),  imponendosi la pari
protezione  della  coscienza  di ciascuna persona che si riconosce in
una  fede  quale che sia la confessione di appartenenza (cosi' ancora
la  sentenza  n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilita' di
regolare  bilateralmente  e  quindi in modo differenziato, nella loro
specificita',  i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite
lo  strumento  concordatario  (art. 7  della  Costituzione)  e con le
confessioni  religiose  diverse  da  quella  cattolica tramite intese
(art. 8).
    Tale posizione di equidistanza e imparzialita' e' il riflesso del
principio  di  laicita'  che  la  Corte  costituzionale ha tratto dal
sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango
di  "principio supremo" (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195
del  1993  e  329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la
forma  del  nostro  Stato,  entro  il  quale  hanno  da convivere, in
uguaglianza di liberta', fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza
n. 440 del 1995).
    Queste  conclusioni  sono progressivamente maturate, pur partendo
da  proposizioni  iniziali  per  diversi aspetti divergenti (sentenze
nn. 79  del  1958;  39  del  1965;  14 del 1973), in concomitanza con
significativi  e convergenti svolgimenti dell'ordinamento. Il punto 1
del  protocollo  addizionale all'accordo che apporta modificazioni al
Concordato  lateranense, recepito con la legge 25 marzo 1985, n. 121,
ha  esplicitamente  affermato  il  venire  meno  del  principio della
religione cattolica come sola religione dello Stato e, con le diverse
intese  poi  raggiunte  con  confessioni  religiose diverse da quella
cattolica,  si  e' messo in azione il sistema dei rapporti bilaterali
previsto  dalla  Costituzione  per  le  altre  confessioni.  In  tale
contesto,  si  e' manifestata la generale richiesta allo Stato di una
sua  disciplina  penale equiparatrice, o nel senso dell'assicurazione
della  parita' di tutela penale (come e' nel caso dell'art. 1, quarto
comma, dell'intesa con l'Unione delle comunita' ebraiche italiane del
27 febbraio  1987),  o  nel senso che la fede non necessita di tutela
penale  diretta, dovendosi solamente apprestare invece una protezione
dell'esercizio dei diritti di liberta' riconosciuti e garantiti dalla
Costituzione   (art. 4   dell'intesa   con   la  Tavola  valdese  del
21 febbraio  1984;  preambolo  all'intesa  con le Assemblee di Dio in
Italia  del  29 dicembre  1986;  preambolo  all'intesa  con  l'Unione
cristiana  evangelica  battista d'Italia del 29 marzo 1993). A fronte
di  questi svolgimenti dell'ordinamento nel senso dell'uguaglianza di
fronte alla legge penale, l'art. 402 del codice penale rappresenta un
anacronismo   al  quale  non  ha  in  tanti  anni  posto  rimedio  il
legislatore. Deve ora provvedere questa Corte nell'esercizio dei suoi
poteri di garanzia costituzionale.

    4. - Sebbene, in generale, il ripristino dell'uguaglianza violata
possa  avvenire  non solo eliminando del tutto la norma che determina
quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi
i casi discriminati, e sebbene il sopra evocato principio di laicita'
non  implichi  indifferenza  e  astensione  dello  Stato dinanzi alle
religioni  ma  legittimi  interventi  legislativi  a protezione della
liberta'  di  religione  (sentenza  n. 203  del  1989),  in  sede  di
controllo  di  costituzionalita' di norme penali si da' solo la prima
possibilita'.  Alla  seconda,  osta  infatti  comunque la particolare
riserva  di  legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e
pene  (art. 25,  secondo  comma)  a  cui  consegue l'esclusione delle
sentenze   d'incostituzionalita'  aventi  valenze  additive,  secondo
l'orientamento  di  questa Corte (v., in analoga materia, la sentenza
n. 440 del 1995).
    La  dichiarazione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 402
del   codice   penale   si   impone   dunque  nella  forma  semplice,
esclusivamente ablativa.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 402 del codice
penale (Vilipendio della religione dello Stato).
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.
                      Il Presidente: Mirabelli
                      Il redattore: Zagrebelsky
                      Il cancelliere: Di Paola
    Depositata in cancelleria il 20 novembre 2000.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
00c13230