N. 144 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 luglio 2000
Ordinanza emessa il 6 luglio 2000 dalla Corte di appello di Torino nel procedimento penale a carico di Aiello Filippo ed altri Processo penale - Dibattimento - Acquisizione delle prove - Persona coimputata o imputata in procedimento connesso che abbia reso in precedenza dichiarazioni su fatti implicanti responsabilita' di altri - Esercizio della facolta' di non rispondere - Incompatibilita' con l'ufficio di testimone - Violazione del principio di ragionevolezza - Contrasto con il principio del contraddittorio nella formazione della prova - Lesione del diritto di difesa - Violazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale. - Cod. proc. pen., artt. 197, lett. a) e b) e 210, comma 4. - Costituzione, artt. 3, 24, 111 e 112.(GU n.10 del 7-3-2001 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato mediante lettura all'udienza dibattimentale del 6 luglio 2000, nel procedimento penale a carico di Aiello Filippo piu' 12, la seguente ordinanza sulla eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 197, lettere a) e b), e 210, comma 4, c.p.p., nella parte in cui escludono l'assunzione come testimoni dei coimputati e degli imputati di reati connessi o collegati su fatti concernenti la responsabilita' di altri e riconoscono agli stessi la facolta' di astenersi dal rispondere, per violazione degli artt. 3, 24, 25, 111 e 112 Costituzione, sollevata dal procuratore generale. La Corte, sentite le parti e lette le memorie depositate dai difensori all'odierna udienza; O s s e r v a 1. - Il presente dibattimento in sede di giudizio di rinvio ex art. 627 c.p.p. consegue al parziale annullamento, da parte della Corte di cassazione (sentenza del 18 dicembre 1998) della sentenza emessa in data 20 febbraio 1997 da altra sezione della Corte d'appello di Torino, con la quale erano state decise, previa riunione dei relativi procedimenti, le impugnazioni proposte dagli imputati e dal pubblico ministero avverso le sentenze pronunciate, rispettivamente il 10 marzo 1995 ed il 10 marzo 1996, da due diverse sezioni del tribunale di Torino. L'annullamento non ha investito, peraltro, la decisione del giudice d'appello con cui era stata riformata la sentenza del tribunale emessa in data 10 marzo 1995, con assoluzione per insussistenza del fatto degli imputati Marando Pasquale e Trimboli Natale dal reato loro contestato in quel processo al capo B) di imputazione, ma concerne solamente alcune posizioni soggettive e talune imputazioni oggetto dell'altro dei due processi riuniti, cioe' quello definito in primo grado con la sentenza pronunciata in data 10 marzo 1996. E le ragioni di tale parziale annullamento con rinvio ad altro giudice di merito, da parte della Corte di cassazione, vanno individuate esclusivamente nelle modificazioni normative intervenute in corso di causa in tema di modalita' di assunzione delle prove costituite dalle dichiarazioni di imputati in procedimenti connessi o collegati e di valutazione delle stesse. E' stato infatti accolto dal S.C. il motivo di ricorso, comune agli imputati nei cui confronti ancora pende l'attuale procedimento, con il quale, con riguardo alle dichiarazioni accusatorie di soggetti imputati in procedimenti connessi o collegati che non erano state dai medesimi confermate nei precedenti dibattimenti svoltisi dinanzi ai giudici di primo e di secondo grado, essendosi tali soggetti avvalsi della facolta' di non rispondere, e che erano state introdotte nel fascicolo per il dibattimento attraverso il meccanismo della lettura dei relativi verbali all'epoca previsto, veniva richiesta l'applicazione della norma transitoria di cui all'art. 6, legge n. 267/1997, secondo l'interpretazione ad essa data dalla nota giurisprudenza della Corte di cassazione a sezioni unite (25 febbraio 1998, Gerina e 24 settembre 1998, Citaristi). Di qui il parziale annullamento della sentenza della corte d'appello, in quanto i giudici di merito avevano, appunto, fondato la propria decisione su dichiarazioni accusatorie non confermate nei precedenti dibattimenti ed "acquisite" mediante lettura senza il consenso delle parti, ed il conseguente rinvio ad altra sezione della medesima corte per la necessaria rinnovazione del dibattimento in riferimento a tali dichiarazioni. E la Cassazione, nella propria motivazione, ha altresi' precisato come, a seguito dell'intervento - tra la presentazione dei ricorsi e la relativa decisione - della pronuncia di parziale incostituzionalita' dell'art. 513, comma 2, ultimo periodo c.p.p., fosse comunque possibile, anche nei procedimenti in corso ed in via transitoria, applicare la disciplina delineata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 361 del 26 ottobre 1998 e, quindi, in caso di persistenza del rifiuto a rispondere da parte di coloro che gia' si erano in precedenza avvalsi della facolta' ad essi conferita dall'art. 210 c.p.p., provvedere ugualmente, attraverso il sistema delle contestazioni previsto dall'art. 500 c.p.p., al recupero dei singoli contenuti narrativi delle dichiarazioni rese da tali soggetti. 2. - Sono peraltro intervenute, dopo la decisione del S.C., ulteriori importanti modifiche alla normativa che disciplina le modalita' di acquisizione e l'efficacia probatoria delle dichiarazioni accusatorie rese da coimputati o da persone imputate in procedimenti connessi o collegati. Anzitutto, sono ormai assunti a livello di principi di natura costituzionale, a seguito della modifica dell'art. 111 della Costituzione (art. 1, legge cost. 23 novembre 1999, n. 2), quello secondo cui "il processo penale e' regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova" e, piu' specificamente, quello secondo cui "la colpevolezza dell'imputato non puo' essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si e' sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore". Ed il principio secondo cui la formazione della prova ha luogo in contraddittorio incontra, in base al successivo comma del citato articolo, quali uniche eccezioni, quelle - da disciplinarsi attraverso legge ordinaria, che peraltro allo stato non e' stata ancora emanata - in cui vi sia il "consenso dell'imputato", ovvero si verifichi una "accertata impossibilita' di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita". L'art. 2 della citata legge costituzionale autorizzava, poi, il legislatore ordinario a regolare per legge l'applicazione dei principi in essa enunciati ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore, quale e' l'attuale processo. Ed il legislatore e' in effetti intervenuto, dapprima con un decreto-legge (d.l. 7 gennaio 2000, n. 2) e poi con la legge di conversione (legge 25 febbraio 2000, n. 35), la quale (modificando il provvedimento convertito) prevede, all'art. 1, comma 1, l'immediata applicabilita' dei nuovi principi costituzionali a tutti i procedimenti in corso, salve talune eccezioni indicate nei commi successivi. Nessuna delle predette ipotesi eccezionali ricorre peraltro nel caso di specie. Infatti, come gia' questo collegio ha avuto modo di affermare nell'ordinanza pronunciata all'udienza dibattimentale del 15 giugno 2000, non possono ritenersi "gia' acquisite" nel presente processo - e, quindi, suscettibili di essere comunque valutate, purche' la loro attendibilita' sia confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalita', come la legge di conversione prevede - le prove costituite dalle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dagli imputati in procedimento connesso o collegato che si sono fino ad ora avvalsi della facolta' di non rispondere, dal momento che proprio l'irritualita' dell'acquisizione di tali prove, alla luce dello jus superveniens, ha costituito l'oggetto delle doglianze dei difensori ricorrenti e il fondamento della decisione di parziale annullamento con rinvio a questo collegio, per la conseguente rinnovazione del dibattimento al fine della corretta acquisizione delle suddette prove mediante nuovo esame dei dichiaranti. D'altro canto, neppure sono emersi concreti elementi, verificati in contraddittorio, per ritenere che gli imputati in procedimento connesso o collegato che non avevano risposto fossero stati sottoposti a violenza o minaccia, ovvero ad offerta o promessa di denaro o di altra utilita' affinche' si sottraessero all'esame. Dovrebbe quindi trovare applicazione, nel caso di specie, la normativa ordinaria attuativa dei principi di cui all'art. 111 della Costituzione, la quale peraltro, come gia' sopra si e' detto, non e' stata ancora emanata dal legislatore. E, in assenza di tale nuova e necessaria disciplina, non pare a questa corte - ne e' parso in occasione delle precedenti udienze del 4 maggio e del 15 giugno 2000, destinate appunto alla rinnovazione del dibattimento attraverso l'esame di coloro che, nella propria qualita' di imputati in procedimenti connessi o collegati, si erano in precedenza avvalsi della facolta' di non rispondere ad essi riconosciuta dall'art. 210, comma 4, c.p.p., e che, perlopiu', hanno manifestato la volonta' di continuare ad avvalersene - che, a fronte del persistere del rifiuto di rispondere da parte di tali soggetti, possa oggi ancora trovare applicazione in via interpretativa il meccanismo delle contestazioni, quale risulta a seguito del gia' ricordato intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 361 del 1998 e che era stato indicato dalla Corte di cassazione nella sentenza di parziale annullamento con rinvio a questo giudice. Soprattutto, quand'anche si fosse ritenuto di potere procedere comunque alle contestazioni, nonostante le modifiche costituzionali sopravvenute alla decisione della Consulta, tale attivita' processuale avrebbe poi finito per rivelarsi praticamente inutile ai fini del "recupero" delle singole affermazioni che avessero formato oggetto di contestazione in occasione di quegli esami resi da chi si fosse avvalso della facolta' di non rispondere. Non sembra, infatti, superabile l'assolutezza del divieto che a simili operazioni giurisprudenziali, volte in qualche modo ad attenuare il principio della formazione della prova nel contraddittorio, oppone inequivocamente il nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce, al quinto comma, la gia' sopra ricordata riserva di legge quanto ai casi di possibile formazione della prova al di fuori del contraddittorio, individuandone i presupposti esclusivamente nel "consenso dell'imputato", nell'"accertata impossibilita' di natura oggettiva", ovvero nel caso di "provata condotta illecita". Pertanto, sebbene ancora il legislatore ordinario non sia intervenuto a disciplinare tali casi, dando attuazione alla norma costituzionale, ben puo' fin d'ora tuttavia desumersi dal tenore di quest'ultima l'illiceita' di qualsiasi interpretazione od elaborazione giurisprudenziale che individui ipotesi di formazione o "recupero" di prove acquisite al di fuori del contraddittorio diverse rispetto a quelle espressamente previste dall'art. 111, comma 5, Costituzione. 3. - Conformi a quelle appena sopra ricordate sono le conclusioni alle quali, e' pervenuto, sul piano del diritto, il rappresentante dell'accusa nel presente processo, dopo avere rilevato in fatto come, essendo stata disposta da questa corte la rinnovazione dell'esame degli imputati di reati connessi Tropiano Orsola, Foroni Ermenegildo, Merlanti Guido, Meschini Giulio, Quintili Marcello, Maresta Giancarlo, Formaggio Luca, Francini Gabriele e Sanfilippo Francesco, gli stessi abbiano continuato ad avvalersi in questa sede (alle gia' menzionate udienze del 4/5 e del 15 giugno 2000), come gia' avevano fatto in primo grado, della facolta' di non rispondere. Sostiene, infatti, il procuratore generale nella memoria con cui chiede al collegio di sollevare la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 111 e 112 della Costituzione, che il principio affermato dal quarto comma dell'art. 111, cosi' come modificato con legge cost. n. 2 del 1999, "comporta l'abrogazione tout court (senza necessita' di interventi dichiarativi del giudice delle leggi) delle norme ordinarie con esso direttamente ed immediatamente incompatibili ... e sancisce, conseguentemente, la non recuperabilita' assoluta (all'infuori dei casi espressamente previsti) delle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio". E giunge alla conclusione secondo cui "nel caso specifico, dunque, sono inutilizzabili de plano le dichiarazioni rese al pubblico ministero dai coimputati che si sono avvalsi della facolta' di non rispondere (come la Corte ha stabilito con ordinanza 15 giugno 2000) e non ne e' consentito il recupero mediante contestazione in base al disposto dell'art. 513 c.p.p., interpretato dalla sentenza n. 361/1998 della Corte costituzionale (come ritenuto anche da questo ufficio, che ha rinunciato a procedere in tal senso)". 4. - A fronte di tale quadro, che caratterizza l'attuale processo sul piano del fatto e del diritto e che vede, come si e' detto, l'impossibilita' di qualsiasi "recupero" di dichiarazioni accusatorie utilizzate ai fini delle precedenti decisioni di merito e, in particolare, l'impossibilita' di assunzione in veste di testimoni dei soggetti sopra indicati che, nella propria qualita' di imputati in procedimenti per reati connessi o collegati, avevano reso dichiarazioni al pubblico ministero con riferimento ad altre persone - e, specificamente, con riguardo agli (od a taluni degli) imputati del presente processo - e che, successivamente esaminati nel contraddittorio dibattimentale, si sono avvalsi della facolta' di non rispondere ad essi riconosciuta dall'art. 210 c.p.p., occorre dunque chiedersi, secondo il procuratore generale, se la disciplina dettata in simili ipotesi (cioe' nel caso in cui le precedenti dichiarazioni accusatorie siano state rese erga alios e limitatamente alle stesse) sia tuttora conforme al modificato sistema costituzionale. In altri termini, la questione sottoposta dal proponente alla valutazione di questo collegio, affinche' dallo stesso venga ritenuta rilevante e non manifestamente infondata e, pertanto, devoluta alla Corte costituzionale, e' quella concernente la compatibilita' della disciplina dettata dagli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4 c.p.p., con il nuovo assetto costituzionale (da un lato, il "mutato equilibrio tra gli artt. 3, 24, 112 e 111" e, dall'altro, il "principio del contraddittorio singolarmente considerato"), quale risulta a seguito della intervenuta modifica dell'art. 111 della Costituzione. Sostiene, infatti, il procuratore generale che "l'assoluta e inderogabile centralita' del contraddittorio si ripercuote ... sull'intero sistema processuale e ne impone una rilettura", proprio al fine di verificarne la conformita' al nuovo assetto come sopra delineato. 4.1. - Ed e' appunto collocandosi in tale prospettiva che, con specifico riferimento a quanto si e' verificato nel corso del presente processo e ritenuta la rilevanza della questione ai fini della definizione dello stesso, a fronte dell'evidente utilita' per la decisione delle dichiarazioni a suo tempo rese da coloro che poi si sono avvalsi della facolta' di non rispondere (implicitamente risultante dai ripetuti richiami ad esse operati sia nelle sentenze di merito, sia in quella del 18 dicembre 1998 della Corte di cassazione), e' stata sollevata dal rappresentante dell'accusa sopra ricordata eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4, c.p.p., con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 111 e 112 della Costituzione, nella parte in cui tali norme processuali escludono la possibilita' di assumere come testimoni i coimputati e gli imputati di reati connessi o collegati su fatti concernenti la responsabilita' di altri e riconoscono agli stessi la facolta' di astenersi dal rispondere. 4.2. - Sotto il profilo della non manifesta infondatezza di quanto eccepito, viene richiamata dal proponente l'analoga questione gia' sollevata, con riferimento agli artt. 210 e 513 c.p.p. ed agli artt. 3, 25, 111 e 112 della Costituzione, con ordinanza del 20 marzo2000 dal Tribunale di Milano, alla quale il procuratore generale ha operato un espresso rinvio quanto ai motivi addotti per sostenerla, osservando altresi' come a tali motivi possano essere aggiunte alcune ulteriori considerazioni. Pertanto, gli argomenti addotti dal proponente per evidenziare la fondatezza della questione possono qui riferirsi come segue, sulla scorta di quanto e' stato espressamente scritto nella memoria presentata a questa corte e dell'espresso rinvio alla citata ordinanza del tribunale milanese: a) in primo luogo, la stessa Corte costituzionale, rigettando perche' infondata, nel contesto della nota sentenza n. 361/1998, la questione di costituzionalita' dell'art. 210, comma 4, c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102 e 111 della Costituzione, aveva affermato essere "censurabili, sotto il profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non necessarie per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la funzione del processo come strumento, non disponibile dalle parti, destinato all'accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilita'". Aveva, in particolare, sostenuto essere "irragionevole" ed "incoerente" rimettere il mantenimento o l'esclusione di apporti probatori decisivi ai fini dell'accertamento dei fatti e delle responsabilita' alla esclusiva "volonta' dell'imputato in procedimento connesso". Con particolare riferimento alla posizione di tale soggetto, i giudici della Consulta avevano altresi' sottolineato che "l'imputato in procedimento connesso e' in gran parte gia' sottoposto alla disciplina dei testimoni", data "l'analogia tra le posizioni processuali di soggetti le cui dichiarazioni sono contraddistinte dall'essere rivolte, e dall'essere destinate a valere, nei confronti di altri", evidenziando inoltre il "carattere ibrido" della disciplina contenuta nell'art. 210 c.p.p. E la ragione per cui era stata esclusa dalla Corte, pur a fronte di tale percorso argomentativo, la declaratoria di incostituzionalita' di tale norma era stata individuata nel fatto che "altri sono gli strumenti offerti dall'ordinamento processuale per porre rimedio" alla situazione sopra evidenziata, consistenti, in particolare, nell'"intervento additivo" sull'art. 513, comma 2, c.p.p. Intervento che, di fatto, venne operato dal giudice costituzionale attraverso l'estensione, in via interpretativa, del meccanismo delle contestazioni previsto per l'esame testimoniale dall'art. 500, commi 2-bis, e 4, c.p.p., nell'ipotesi in cui gli imputati in procedimento connesso si fossero avvalsi della facolta' di non rispondere in tutto o in parte su fatti concernenti la responsabilita' di altri, gia' oggetto delle loro precedenti dichiarazioni. Venuta ora meno, con il nuovo testo dell'art. 111 Cost., la possibilita' di operare in tal modo, coerenza vorrebbe che l'irrazionalita' e l'incoerenza del sistema siano eliminate incidendo direttamente sugli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4, c.p.p.; b) inoltre, come gia' affermato dal tribunale milanese nella sopra ricordata ordinanza, proprio "le nuove regole fissate dall'art. 111 della Costituzione impongono una revisione dei confini tra il diritto alla formazione in contraddittorio della prova, ed il diritto al silenzio del dichiarante erga alios, nel senso che alla maggiore espansione ed alla piu' intensa tutela del primo, corrisponde inevitabilmente la riduzione dell'area costituzionalmente protetta riguardante l'esercizio della facolta' di non rispondere", sicche' finisce per rivelarsi "contraria al precetto costituzionale del diritto al contraddittorio ... la previsione della facolta' di non rispondere prevista dall'art. 210 c.p.p. quanto alle dichiarazioni che un imputato renda su fatti concernenti la responsabilita' di altri". In altri termini, "ferma restando l'intangibilita' del diritto al silenzio dell'imputato fin dall'inizio delle indagini preliminari, ... l'eventuale scelta di rendere dichiarazioni su fatto che implica la responsabilita' altrui ha ormai acquisito la connotazione dell'irrevocabilita'". Infatti, "una volta intrapresa la via della formulazione di dichiarazioni coinvolgenti la responsabilita' di altri, l'esercizio successivo del diritto al silenzio da parte della persona sottoposta ad esame ai sensi dell'art. 210 c.p.p., finisce per scontrarsi con il diritto dell'accusato al confronto dialettico nella formazione della prova, ormai assunto a regola costituzionale". E, ad avviso del giudice remittente, "la concorrenza tra le due predette contrapposte articolazioni del diritto di difesa puo' essere composta solo affermando l'intervenuta compressione - per effetto dell'introduzione delle nuove regole ex art. 111 della Costituzione - dello spazio costituzionalmente garantito al silenzio, che non puo' piu' includere la facolta' di non rispondere per il dichiarante erga alios" pena "l'irragionevole ed inaccettabile sacrificio dei principi del libero convincimento del giudice, della irrinunciabile funzione conoscitiva del processo, dell'indefettibilita' della giurisdizione e dell'obbligatorieta' dell'azione penale". E nella memoria indirizzata a questa corte il procuratore generale, dopo avere richiamato e fatti propri gli appena ricordati argomenti del giudice milanese, affermando anch'egli come la riduzione dell'area del "diritto al silenzio" del coimputato o dell'imputato di reato collegato, conseguente alla prospettata declaratoria di incostituzionalita' degli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4, c.p.p., sia "imposta dal novellato art. 111 della Costituzione", sottolinea ed evidenzia come, proprio ritenendo che il "contraddittorio e' il cuore, l'essenza stessa del processo" e che "la legge ordinaria e' chiamata a garantirlo", appare inevitabile il "dubbio di costituzionalita' di tutte le norme che, in assenza di piu' forti ragioni giustificatrici, ne limitino la piena esplicazione". Con la conseguenza che "la trasformazione del dibattimento in sfilata di soggetti muti, prima ancora che una violazione dei diritti della difesa o del principio di obbligatorieta' dell'azione penale ..., e' la morte del contraddittorio, la negazione della riforma dell'art. 111 Costituzione"; c) sottolinea, infine, il procuratore generale nella sua memoria, facendosi carico di una possibile obiezione agli effetti derivanti dall'accoglimento dell'eccezione proposta, come "l'obbligo di rispondere sui fatti concernenti la responsabilita' di altri non costituisce di per se' una violazione del diritto di difesa dell'imputato a cio' chiamato" e, quindi, una "ragione forte", atta a giustificare, nell'equilibrio degli interessi costituzionali, la compressione del principio del contraddittorio, dal momento che resterebbero comunque "ferme le disposizioni degli artt. 64 e 65 c.p.p., da interpretare alla luce dell'art. 24, secondo comma, Costituzione, che impongono al giudice di fare rispettare (e rispettare egli stesso) il diritto al silenzio dell'imputato in caso di inscindibilita' delle dichiarazioni erga alios e di quelle erga se". E cio' nell'attesa di una auspicabile specifica disciplina legislativa, la quale sarebbe certamente atta a meglio garantire l'equilibrio fra i sopra ricordati interessi e principi costituzionali, ma la cui mancanza non puo' comunque giustificare, allo stato, la vanificazione di essi o di taluno di essi. 5. - La questione cosi' come prospettata nel presente processo dal rappresentante dell'accusa appare senz'altro rilevante e puo' essere altresi' ritenuta non manifestamente infondata, con riferimento ad entrambe le norme del codice di rito e per violazione delle norme costituzionali indicate dal proponente, peraltro nei piu' ristretti limiti espressamente evidenziati dal giudice milanese e che, del resto, sono stati implicitamente indicati anche dal procuratore generale in questa sede, attraverso la specificazione che egli ha comunque effettuato nella propria memoria illustrativa, e che gia' sopra si e' ricordata, secondo cui sarebbe costituzionalmente illegittima l'impossibilita' di assumere come testimoni gli imputati in procedimento connesso e collegato, solamente nell'ipotesi in cui "gli stessi abbiano reso in precedenza dichiarazioni erga alios e limitatamente ad esse". Infatti, una piu' ampia "innovazione", che escluda ab origine, e quindi fin dal primo "interrogatorio" a cui venga sottoposto nel corso delle indagini preliminari a suo carico, ovvero in un differente procedimento penale a carico di altre persone, il diritto di un soggetto che rivesta la qualita' di indagato, o che sia imputato o ne abbia in passato assunto la qualifica, ad avvalersi della facolta' di non rispondere alle domande che gli vengano rivolte, ancorche' concernenti l'esclusiva responsabilita' di altri in ordine al reato a lui attribuito o ad un reato con quello connesso o collegato, non sembra possa ritenersi imposta dal nuovo "assetto costituzionale" conseguente alla modifica dell'art. 111 e potrebbe, inoltre, apparire in contrasto con il principio "nemo tenetur se detegere" (quale esplicazione del piu' ampio diritto di difesa garantito dal secondo comma dell'art. 24 Cost.), che e' stato richiamato dai difensori degli imputati in occasione delle osservazioni svolte in merito all'eccezione di incostituzionalita' proposta dal rappresentante dell'accusa. Una simile "innovazione", quindi, non potrebbe essere sicuramente ricercata ed ottenuta attraverso l'intervento del giudice costituzionale impositivo di una disciplina ricavata in via analogica, costituendo essa piuttosto un aspetto di un piu' ampio problema de iure condendo, la cui soluzione - sempre che l'abolizione del diritto al silenzio di chi sia, o sia stato, coimputato o imputato in un procedimento connesso o collegato venga ritenuta effettivamente necessaria o, comunque, utile nel mutato quadro del nostro processo penale conseguente alla modifica dell'art. 111 della Costituzione e, inoltre, non contrastante con altre norme costituzionali - deve essere necessariamente trovata dal legislatore ordinario, nell'esercizio dei propri poteri e doveri e con la discrezionalita' spettantegli in tale ambito. Ben diverso appare, invece, il caso in cui un soggetto, avendo la possibilita' di avvalersi della facolta' di non rispondere a causa della propria qualita' di indagato o di imputato, vi abbia volontariamente e consapevolmente rinunciato ed abbia scelto di rendere dichiarazioni accusatorie coinvolgenti altre persone. Ancorche' formalmente indagato od imputato, tale soggetto finisce, infatti, per assumere, da un punto di vista sostanziale e con riferimento a tali dichiarazioni, tutte le caratteristiche di un testimone, sicche' - e sempre che le sue affermazioni non si ritorcano anche contro di lui a causa della concreta impossibilita', da verificare peraltro caso per caso, di scindere le accuse erga alios da quelle eventualmente anche contra se - appare difficile comprendere quale sia la ragione per cui egli non possa, a seguito di tale scelta consapevolmente operata, assumere anche i doveri che incombono ai testimoni, quantomeno con riferimento all'obbligo di rispondere. Ed e' proprio questo il caso sottoposto all'attenzione di questo collegio e che costituisce l'oggetto dell'eccepita incostituzionalita' del "diritto al silenzio" che l'attuale sistema processuale penale, attraverso le norme di cui agli artt. 197, lett. a) e b), e 210, comma 4, c.p.p., ancora garantisce a tale soggetto, nonostante l'intervenuta modifica dell'art. 111 della Costituzione e gli effetti gia' direttamente prodotti da tale norma costituzionale sulle norme che regolano le modalita' di acquisizione al dibattimento del contenuto delle dichiarazioni dallo stesso rese in precedenza. 5.1. - Cio' premesso e precisato in via generale, affrontando dapprima il problema circa la rilevanza della questione di costituzionalita' proposta nel presente processo ai fini della sua definizione, e' opportuno prendere le mosse proprio dalla affermazione secondo cui l'introduzione nella nostra Carta costituzionale, ad opera della legge modificatrice dell'art. 111, del principio del contraddittorio nella formazione della prova, ha reso impossibile, nel giudizio di rinvio in corso di svolgimento dinanzi a questa corte a seguito del parziale annullamento disposto dalla Cassazione con la sentenza del 18 dicembre 1998, l'acquisizione o il "recupero", quali prove suscettibili di essere valutate ai fini della decisione, attraverso il meccanismo delle contestazioni a suo tempo indicato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 361 del 1998) o in forza della disciplina transitoria di cui alla legge n. 35 del 2000, delle dichiarazioni rese al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari dalle persone, imputate in procedimenti connessi o collegati, che hanno ancora in questa sede confermato la propria volonta' di avvalersi della facolta' di non rispondere. La tesi che qui si sostiene era stata gia' affermata da questo collegio in occasione delle precedenti udienze, dedicate all'esame delle predette persone in conseguenza della disposta rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, e puo' ora essere senz'altro ribadita, in quanto non solo ha trovato consenzienti il rappresentante dell'accusa ed i difensori di tutti gli imputati, ma appare senz'altro supportata, sul piano del diritto, dagli argomenti che gia' sono stati indicati nei precedenti paragrafi 2 e 3, ai quali si rinvia. Ed invero, la "perdita" di tali "prove" e l'impossibilita' di "recuperare" le stesse sul piano processuale in base alle norme attualmente in vigore costituiscono sicuramente un primo profilo sotto il quale appare fuori discussione la rilevanza della questione di costituzionalita' prospettata dal procuratore generale, specie ove si consideri che proprio al fine della corretta acquisizione di quel materiale probatorio era stato disposto dalla Corte di cassazione l'annullamento della sentenza del precedente giudice d'appello ed il rinvio ad altra sezione della stessa corte per la necessaria rinnovazione dibattimentale. Del resto, anche sullo stretto piano del merito e pur senza scendere ad un esame particolareggiato, e non necessario in questa sede, delle singole posizioni soggettive e di ciascuna delle relative imputazioni, appare senz'altro condivisibile, per quanto concerne l'affermazione della rilevanza della questione di costituzionalita' prospettata, il generico, ma esatto rilievo fatto sul punto dal procuratore generale nella propria memoria, ricordando come le dichiarazioni dei soggetti che dinanzi a questa corte ancora si sono avvalsi della facolta' di non rispondere, ancorche' non decisive ai fini del giudizio, erano state comunque ritenute utili per la decisione sia dai precedenti giudici di merito che dalla Corte di cassazione che, nelle rispettive sentenze, hanno fatto a tali dichiarazioni ripetuti richiami. E si puo' qui ancora rilevare come la predetta utilita' ai fini del giudizio emerga, con particolare evidenza, specie per quanto attiene alle dichiarazioni a suo tempo rese da Tropiano Orsola, le cui affermazioni, relativamente ad alcuni episodi e con riguardo a talune posizioni soggettive, sembra costituissero l'unico riscontro alle chiamate di correo operate da Di Benedetto Montano, nonche' per quanto concerne la chiamata in correita' effettuata, con riferimento al reato di cui al capo B14), da Maresta Giancarlo e che dallo stesso non e' mai stata confermata nel contraddittorio con le persone da lui accusate. 5.2. - Passando alla valutazione circa la non manifesta infondatezza della questione proposta - sia pure nei piu' ristretti limiti sopra precisati e ricordati - si possono qui senz'altro richiamare tutti gli argomenti gia' addotti nella richiamata ordinanza del Tribunale di Milano in data 20 marzo 2000, che questo collegio interamente condivide e fa propri, nonche' le ulteriori osservazioni svolte in questa sede dal procuratore generale proponente, che appaiono logicamente corrette e convincenti. Condivisibile e', certamente, l'affermazione secondo cui la modifica dell'art. 111 Costituzione e l'assoluta ed inderogabile centralita' del contraddittorio che da essa si ricava sul piano dei principi costituzionali ai quali si deve ispirare il processo penale impone una rilettura delle norme che lo disciplinano e, in particolare, per quanto specificamente interessa in questa sede, impone che venga sottoposta a verifica, alla luce del nuovo assetto costituzionale, la disciplina attualmente vigente del diritto al silenzio delle persone coimputate o imputate in procedimento per reati connessi o collegati che abbiano reso nel corso delle indagini dichiarazioni erga alios, da un lato, e, dall'altro, quella delle modalita' attraverso cui tali dichiarazioni possono eventualmente assumere efficacia probatoria nel processo a carico dei soggetti accusati. Infatti, il delicato punto di equilibrio tra il diritto al silenzio, comunque riconosciuto dall'art. 210 c.p.p. (e prima ancora dall'art. 197 c.p.p.) a coloro che, rivestendo la qualita' di imputati, abbiano fornito e siano, quindi, ancora in grado di fornire indicazioni utili relativamente a fatti di reato da altri commessi, e il diritto di questi ultimi a difendersi, nel contraddittorio, dalle accuse loro rivolte segretamente dai primi, era stato rinvenuto dalla Corte costituzionale (nella gia' piu' volte citata sentenza n. 361 del 1998) in uno strumento processuale - il meccanismo delle contestazioni tratto in via analogica dalla norma di cui all'art. 500 c.p.p., dettata per l'esame dibattimentale dei testimoni - che, come gia' si e' detto, alla luce del "rafforzamento" dei principi stabiliti in tema di contraddittorio dal legislatore costituzionale con la modifica dell'art. 111 della Costituzione, non puo' ormai piu' trovare applicazione. Ci si trova, pertanto, a fronte della perdurante inerzia del legislatore ordinario, che a tutt'oggi ancora non ha provveduto ad adeguare le norme processuali a tali nuovi principi, in una situazione nella quale, per un verso, rivivono tutte quelle ragioni che, secondo i giudici remittenti, inducevano gia' allora a ritenere costituzionalmente illegittimo l'indiscriminato diritto al silenzio dei soggetti esaminati ai sensi dell'art. 210 c.p.p., a fronte di norme quali l'art. 3 (sotto il profilo della ragionevolezza) o l'art. 112 della Costituzione (con riguardo all'obbligatorieta' dell'azione penale ed al conseguente principio di conservazione della prova, elaborato dal giudice costituzionale) e, per altro verso, appare ancora piu' irragionevole e contrastante con l'assoluta ed inderogabile centralita' del contraddittorio nella formazione della prova, sancita dal nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione, la scelta che il legislatore ha implicitamente ed in concreto operato (rimanendo inerte nonostante l'immediato effetto dei principi prodotti dalla citata norma su quelle ordinarie, tra cui certamente quella dell'art. 513 comma 2 c.p.p., e "sull'intervento additivo" che su di essa era stato operato dal giudice costituzionale) di sottrarre totalmente al contraddittorio - e, quindi, sotto tale profilo, anche al diritto dell'accusato di confrontarsi con chi l'accusa (costituente esplicazione del piu' generale diritto di difesa, garantito dall'art. 24, secondo comma, Cost.) -, sia pure per escluderne l'efficacia probatoria all'infuori dei casi espressamente previsti dal quinto comma dell'art. 111 Cost., le dichiarazioni precedentemente rese in un procedimento penale da soggetti poi sottoposti ad esame ai sensi dell'art. 210 c.p.p. e che si avvalgano della facolta' di non rispondere, senza che tale scelta sia imposta dal rispetto di ragioni giustificatrici desumibili da una norma anch'essa di rango costituzionale, quale potrebbe essere, ad esempio, quella di cui al secondo comma dell'art. 24 Cost, con riferimento all'esercizio del diritto di difesa da parte di quei soggetti. 5.2.1. - In particolare, come esattamente ha gia' sostenuto il tribunale milanese ed afferma altresi' il procuratore generale nella propria memoria, venuta meno la possibilita' di contemperare, attraverso il meccanismo delle contestazioni ai sensi dell'art. 500 c.p.p. che era stato individuato dalla Corte costituzionale, il principio del diritto di difesa con quelli di ragionevolezza e della obbligatorieta' dell'azione penale, sotto il particolare profilo della conservazione della prova e della non rimessione della stessa alla esclusiva volonta' dell'imputato in procedimento connesso, non appare piu' possibile esimersi dalla necessita' di affrontare direttamente il problema circa la conformita' o meno del "diritto al silenzio", indiscriminatamente riconosciuto a tale soggetto dal quarto comma dell'art. 210 c.p.p. (in conformita' della regola generale dettata dall'art. 197 lett. a) e b) c.p.p.), con i princi'pi costituzionali sopra ricordati. E tale problema, come esattamente ha evidenziato il proponente, e' gia' stato affrontato ed implicitamente risolto, quantomeno per quanto attiene alla sussistenza di una violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione, dagli stessi giudici della Consulta allorche', nella motivazione della ricordata sentenza n. 361 del 1998, essi sostengono essere "privo di ragionevole giustificazione", "incoeren[te]" e tale da "pregiudica[re] la stessa funzione essenziale del processo, che e' ... quella di verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilita'", un sistema, quale e' quello conseguente alla legge n. 267 del 1997, nel quale "la utilizzabilita' delle precedenti dichiarazioni venga fatta dipendere dalla scelta meramente discrezionale dell'imputato in procedimento connesso di rispondere in dibattimento su fatti concernenti la responsabilita' di altri, dopo che il medesimo imputato, pur avendo la facolta' di non rispondere a norma dell'art. 210, comma 4, cod. proc. pen., si era in precedenza consapevolmente risolto a rendere dichiarazioni erga alios." (cosi' il testo della motivazione della citata sentenza, in Gazzetta Ufficiale, 1a serie speciale, n. 44 del 4 novembre 1998, p. 32). Ne', d'altro canto, pare che una esclusione del diritto al silenzio dell'imputato in procedimento connesso circoscritta all'ipotesi in cui egli abbia consapevolmente e liberamente reso in precedenza dichiarazioni erga alios e limitatamente alle stesse possa seriamente collocarsi in contrasto con l'esercizio, da parte del medesimo, del diritto di difesa costituzionalmente garantito dal secondo comma dell'art. 24 e, in particolare, con il gia' sopra ricordato principio secondo cui "nemo tenetur se detegere". Vale al riguardo quanto ha correttamente evidenziato il procuratore generale nella propria memoria, osservando che resterebbe comunque fermo il dovere per il giudice di rispettare e far rispettare le disposizioni degli artt. 64 e 65 c.p.p., che consentono il diritto al silenzio dell'imputato in caso di concreta impossibilita' di scindere, dalle dichiarazioni riguardanti altre persone, quelle concernenti la propria responsabilita'. E puo' essere, inoltre, richiamato anche quanto disposto in via piu' generale dall'art. 63 c.p.p. e, con specifico riferimento a chi venga assunto in veste di testimone, dall'art. 198 comma 2 c.p.p., che espressamente esclude che tale soggetto possa essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilita' penale. 5.2.2. - Inoltre, come gia' sopra si e' accennato ed e' stato sostenuto sia nell'ordinanza del Tribunale di Milano sia dal procuratore generale nella propria memoria, quale ulteriore argomento a favore dell'eccezione proposta, anche l'intervenuta modifica dell'art. 111 della Costituzione che, stabilendo la assoluta centralita', nel nostro sistema processuale, del principio del diritto al contraddittorio e, in particolare, prevedendo fra l'altro, nel terzo comma e con riferimento al processo penale, l'obbligo per il legislatore di "assicura[re] che la persona accusata di un reato ..., abbia la facolta', davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico", comporta certamente una compressione dello spazio costituzionalmente garantito al diritto al silenzio in capo ai soggetti esaminati ai sensi dell'art. 210 c.p.p., quantomeno nelle ipotesi in cui tale loro diritto si pone in contrasto con quello dell'accusato al confronto dialettico nella formazione della prova. Mantenere il diritto al silenzio in favore di un coimputato o di un imputato in procedimento connesso o collegato che, agendo liberamente e consapevolmente e, quindi, rinunciando almeno in quel momento alla facolta' di non rispondere riconosciutagli dalla legge, abbia in precedenza reso delle dichiarazioni a carico di altra persona nel segreto e senza consentire ad essa di ascoltare le accuse contro di lei rivolte e di replicare alle stesse, costituirebbe, pertanto, anche una violazione del sopra ricordato diritto della persona accusata di un reato al confronto dialettico con il proprio accusatore, che e' stato introdotto dall'art. 111 della Costituzione e che non pare possa ritenersi soddisfatto attraverso la previsione del semplice obbligo di tale ultimo soggetto di comparire al dibattimento, ove poi questo si risolva, come e' accaduto nel caso di specie e come finirebbe per accadere senza l'adeguamento della normativa vigente, nella "sfilata di soggetti muti" descritta nella memoria del procuratore generale, la quale certamente rappresenta, in concreto, come lo stesso proponente ancora ha sostenuto, la "morte del contraddittorio". Ne' argomenti contro quanto si e' appena sostenuto potrebbero trarsi dal rilievo che lo stesso legislatore costituzionale ha, comunque, altresi' previsto l'ipotesi del "silenzio dell'accusatore" stabilendo, nella seconda parte del quarto comma dell'articolo 111, che "la colpevolezza dell'imputato non puo' essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si e' sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore". Tale norma, infatti, altro non costituisce se non un logico corollario della affermata centralita' del principio del contraddittorio nella formazione della prova, in quanto con essa, nel bilanciamento fra l'interesse dello Stato all'esercizio della pretesa punitiva ed il diritto dell'accusato al confronto dialettico con il proprio accusatore, si e' coerentemente fatto prevalere il secondo. Ma proprio tale rinuncia alla pretesa punitiva statuale comporta che debbano essere considerati eccezionali i casi in cui si verifica tale sottrazione al confronto dialettico con l'accusato e, quindi, che essi o siano determinati da situazioni "patologiche", dovute ad un rifiuto di rispondere, comunque contrario alla legge e sanzionato - o sanzionabile, in una prospettiva de iure condendo -, che venga opposto da colui che sia stato chiamato nel processo penale a rendere dichiarazioni erga alios, sia che egli rivesta la qualita' di coimputato o imputato in procedimento connesso o collegato sia che abbia la veste di testimone (come e' dato desumere dall'uso dell'espressione generica "chi" nel testo costituzionale, contro la quale non pare possa valere il successivo termine "interrogatorio", che del resto ripete l'espressione gia' usata nel precedente comma dello stesso art. 111 della Costituzione e che e' volutamente generica e, per giunta, corrispondente al termine usato nella Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo alla quale la novella costituzionale si e' ispirata), ovvero, nell'ipotesi in cui il rifiuto di sottoporsi "all'interrogatorio" costituisca invece l'esercizio di un vero e proprio diritto al silenzio, che tale diritto trovi la propria ragione giustificatrice in un principio anch'esso dotato di rilevanza sul piano costituzionale, contrapponibile al diritto-dovere dello Stato di perseguire i fatti considerati per legge quali reati e tale da potere ragionevolmente prevalere su di esso. Diversamente, la codificazione - o la conservazione nel nostro sistema processuale penale, ove gia' previsto - del diritto al silenzio in capo al dichiarante erga alios, si' da rendere possibile in caso di esercizio di tale diritto l'applicazione del principio stabilito in via eccezionale nella seconda parte del quarto comma dell'art. 111 Cost., non potrebbe ritenersi consentita e dovrebbe, anzi, considerarsi vietata per contrasto con il principio del contraddittorio, espressamente stabilito dalla prima parte del quarto comma, con le uniche deroghe di cui al quinto comma, quale regola per la formazione della prova del processo penale e, inoltre, previsto come regola generale a cui si deve ispirare ogni processo anche da tutti gli altri nuovi commi introdotti con la novella del 1999 dal legislatore costituzionale nel citato articolo 111. Ed invero, non pare possibile rinvenire nella nostra Costituzione alcun principio idoneo a giustificare il diritto al silenzio in ipotesi quale e' quella di cui ci si occupa in questa sede e che ha formato oggetto dell'eccezione di incostituzionalita' delle norme processuali penali che la disciplinano, dal momento che, come sopra gia' si e' detto, l'imposizione ad un coimputato o ad un imputato in procedimento connesso o collegato dell'obbligo di rispondere esclusivamente su fatti concernenti altra persona e sui quali egli abbia precedentemente e liberamente reso dichiarazioni non sembra che possa in concreto violare il principio "nemo tenetur se detegere" e, piu' in generale, il diritto di difesa garantito dal secondo comma dell'art. 24 Cost., sempre che l'acquisizione di tale prova avvenga nel rispetto di quelle norme che escludono la possibilita' di richiedere e, comunque, di utilizzare dichiarazioni rese contra se. Con la conseguenza che va ritenuta non manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita' proposta dal procuratore generale anche con riferimento ai principi di cui al novellato art. 111 Costituzione. 5.2.3. - E si puo', infine, ancora osservare che mantenere inalterata l'attuale estensione del diritto al silenzio del coimputato o dell'imputato in procedimento connesso o collegato potrebbe altresi' comportare una ingiustificata disparita' di trattamento fra le parti, dal momento che parrebbe possibile utilizzare le dichiarazioni precedentemente rese al di fuori del contraddittorio, nell'ipotesi e per quella parte in cui esse risultino in concreto favorevoli all'imputato (come e' dato desumere dalla lettera della seconda parte del quarto comma del novellato art. 111 Cost., che esclude l'utilizzabilita' di tali dichiarazioni solo quale prova della sua "colpevolezza", lasciando peraltro aperto il problema circa lo strumento processuale attraverso il quale tale prova potrebbe essere introdotta nel fascicolo per il dibattimento: forse a seguito di un discutibile consenso "limitato" e "parziale" dell'imputato, prestato ai sensi del quinto comma dell'art. 111 Cost.), mentre l'esercizio indiscriminato del diritto al silenzio (sia nel dibattimento, ma anche nell'ipotesi che, in previsione di cio', si ricorra allo strumento dell'incidente probatorio) finirebbe per comportare, per la parte cui spetta l'esercizio dell'azione penale ed il compito di sostenere l'accusa in giudizio, l'impossibilita' di introdurre nel dibattimento il contributo di indagini che la stessa aveva peraltro legittimamente svolte e sulla base delle quali era stata persino possibile, ricorrendone i presupposti, l'applicazione di provvedimenti cautelari nei confronti dell'accusato e si era potuto richiedere ed ottenere il rinvio a giudizio del medesimo, nella ragionevole aspettativa che le dichiarazioni precedentemente rese dall'accusatore venissero dallo stesso poi ripetute nel contraddittorio. 5.3. - Ritenuta pertanto, per le ragioni sin qui esposte, la rilevanza e la non manifesta infondatezza, nei limiti sopra evidenziati, della questione proposta dal procuratore generale, non resta che affidare al giudizio della Corte costituzionale, con tutte le conseguenze di rito, la questione di legittimita' delle norme di cui agli artt. 197 lett. a) e b) e 210, comma 4, c.p.p., perche' verifichi se veramente sussista l'ipotizzato contrasto delle stesse con gli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, in quanto le predette norme del codice di rito, escludendo la possibilita' di assumere come testimoni e riconoscendo, comunque, ai coimputati ed agli imputati di reati connessi o collegati la facolta' di astenersi dal rispondere relativamente ai fatti concernenti la responsabilita' di altri sui quali essi abbiano in precedenza liberamente e consapevolmente risposto, violerebbero il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), quello del contraddittorio nella formazione della prova (art. 111 Cost.) e, sotto tale profilo, anche il piu' generale principio secondo cui la difesa costituisce diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.), nonche' il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.) e quello dallo stesso ricavabile di conservazione della prova e di non dispersione della stessa per effetto della esclusiva volonta' delle parti.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 e segg. legge 11 marzo 1953 n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 197 lett. a) e b) e 210, comma 4, c.p.p., nella parte in cui escludono la possibilita' di assumere come testimoni, riconoscendo agli stessi la facolta' di astenersi dal rispondere, i coimputati e gli imputati di reati connessi o collegati su fatti concernenti la responsabilita' di altri sui quali essi abbiano in precedenza liberamente risposto, per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 112 Costituzione; Dispone l'immediata trasmissione degli atti del presente procedimento alla Corte costituzionale, per quanto di competenza; Sospende il giudizio in corso; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e che la stessa venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Torino, addi' 6 luglio 2000. Il Presidente: Luda Di Cortemiglia 01C0219