N. 318 ORDINANZA 12 - 27 luglio 2001

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo   penale   -  Spese  processuali,  in  caso  di  assoluzione
  dell'imputato  (in  applicazione  del  divieto  di "bis in idem") -
  Mancata  previsione  della  condanna  dello Stato al rimborso delle
  spese   in  favore  dell'imputato  -  Lamentato  contrasto  con  il
  principio   della  parita'  delle  parti  in  contraddittorio,  nel
  processo,  con  il  principio di ragionevolezza e con il diritto di
  difesa - Inapplicabilita' della disposizione censurata nel giudizio
  a quo - Manifesta inammissibilita' della questione.
- Cod. proc. pen., art. 530.
- Costituzione, artt. 111, secondo comma, 3 e 24.
(GU n.30 del 1-8-2001 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Cesare RUPERTO;
  Giudici:  Fernando  SANTOSUOSSO,  Massimo  VARI,  Riccardo CHIEPPA,
Gustavo ZAGREBELSKY,Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI,
Guido  NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco
BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 530 del codice
di  procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 14 luglio 2000
dal  tribunale  di  Terni,  in  composizione monocratica, iscritta al
n. 643  del  registro  ordinanze  2000  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 45, 1a serie speciale, dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 maggio 2001 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto   che,  con  ordinanza  emessa  il  14 luglio  2000,  il
tribunale  di  Terni,  in  composizione  monocratica, nel corso di un
procedimento  nei  confronti  di  un imputato dei reati di ingiuria e
violenza  privata,  ha  sollevato,  in riferimento agli articoli 111,
secondo  comma,  3 e 24 della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  530  del codice di procedura penale, nella
parte  in  cui  non prevede la condanna dello Stato al rimborso delle
spese in favore dell'imputato da assolversi;
        che  il remittente premette che sia il pubblico ministero sia
la  difesa  dell'imputato  hanno  concluso chiedendo l'assoluzione di
quest'ultimo  in  applicazione  del  divieto  di  bis  in idem di cui
all'art. 649 cod. proc. pen;
        che,  sulla  base  del rilievo che il principio del ne bis in
idem  ha  portata  generale  ed  opera in tutto l'ordinamento penale,
trovando espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza
(art. 28  cod.  proc.  pen.),  nel  divieto  di  un  secondo giudizio
(art. 649  cod.  proc. pen.) e nella disciplina delle ipotesi in cui,
per un medesimo fatto, siano state emesse piu' sentenze nei confronti
della  medesima  persona (art. 669 cod. proc. pen.), il giudice a quo
sostiene  di  dovere  emettere  una  pronuncia assolutoria, in quanto
l'imputato  e'  gia'  stato  giudicato  per  i medesimi fatti con una
sentenza  resa  in  data  anteriore  a  quella  del  nuovo decreto di
citazione a giudizio;
        che,  quanto alla rilevanza della questione, il remittente ne
afferma la sussistenza, poiche' la difesa dell'imputato ha chiesto la
condanna  alle  spese  nei  confronti  dello  Stato,  depositando  la
relativa  nota  spese, previa, se necessario, rimessione degli atti a
questa  Corte  per  la dichiarazione di illegittimita' costituzionale
della  normativa  applicabile,  nella  parte  in  cui  non prevede la
condanna  dello  Stato  alle spese processuali in caso di assoluzione
dell'imputato;
        che,    in    ordine   alla   non   manifesta   infondatezza,
nell'ordinanza  di  rimessione  si  rileva  che  in  base all'attuale
normativa  il  giudice  non  puo'  condannare lo Stato alla rifusione
delle  spese sostenute dall'imputato nell'ipotesi in cui questi venga
assolto,  neanche  se,  come  nel caso di specie, l'azione penale sia
stata promossa sulla base di un evidente errore da parte del pubblico
ministero,  che  non  si  e'  avveduto  di  una  precedente  sentenza
pronunciata per i medesimi fatti nei confronti dello stesso imputato,
ancorche'  l'esistenza di un altro procedimento fosse stata segnalata
nella denuncia-querela, che aveva dato origine al processo;
        che  la  disposizione  censurata si porrebbe in contrasto, ad
avviso  del  remittente,  con  il  secondo  comma dell'art. 111 della
Costituzione,   il   quale,   nel   testo   risultante   dalla  legge
costituzionale  23 novembre 1999, n. 2, stabilisce che "ogni processo
si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita',
davanti  ad  un giudice terzo ed imparziale", in quanto l'espressione
"in  condizioni  di  parita'"  non  potrebbe  essere limitata al solo
contraddittorio,  ma dovrebbe essere riferita "a tutto lo svolgimento
del processo, compresa la fase delle spese";
        che  prosegue  -  il  giudice a quo - poiche' la disposizione
costituzionale  non  differenzierebbe  il processo penale dagli altri
processi,  e in particolare da quello civile, per la regolamentazione
del regime delle spese processuali dovrebbe ormai farsi riferimento a
quanto  stabilito per quest'ultimo, con la conseguenza che, anche nel
processo  penale,  la  parte  vittoriosa  (imputato assolto) dovrebbe
avere   diritto  all'integrale  ristoro  delle  spese  sostenute  per
difendersi da un'accusa rivelatasi infondata;
        che   del   resto,   precisa   il   remittente,  l'originaria
configurazione  del  pubblico  ministero  come  parte  dotata  di una
posizione  preminente,  che  poteva  giustificare  la  diversita'  di
disciplina  esistente,  quanto  alle spese, tra l'ipotesi di condanna
dell'imputato e quella della sua assoluzione, sarebbe venuta meno con
l'affermazione,  in Costituzione, della parita' delle parti dinanzi a
un  giudice  terzo, che potrebbe ritenersi pienamente realizzata solo
se al giudice venisse attribuito il potere di fissare il regime delle
spese;
        che,  infatti,  ad  avviso  del  giudice  a  quo non potrebbe
sostenersi  che  le  parti sono in posizione di parita' se il giudice
"puo',  anzi deve, condannare una di esse al pagamento delle spese in
caso di soccombenza (rectius: condanna), ma non puo' fare altrettanto
in  caso  di  diversa  soluzione  (assoluzione)":  in base alla nuova
formulazione  del  secondo  comma dell'art. 111 Cost., non vi sarebbe
quindi  alcuna  ragione  per  non riconoscere all'imputato assolto il
diritto   alla   rifusione   delle  spese  sostenute  per  dimostrare
l'infondatezza dell'accusa mossa nei suoi confronti;
        che  la disposizione censurata contrasterebbe poi, secondo il
giudice  a  quo  con il principio di ragionevolezza, che non verrebbe
rispettato da una normativa "che prevede per una parte di un processo
(l'accusa)  il  favore  delle  spese e per l'altra parte (l'imputato)
solo  la condanna in caso di soccombenza (rectius: condanna) e nessun
favore  delle  spese  in caso di vittoria (rectius: assoluzione)": in
ogni   caso,   l'imputato,  se  dichiarato  innocente,  subirebbe  un
depauperamento  delle  proprie  sostanze  in  misura  quantomeno pari
all'esborso sostenuto per affrontare il processo;
        che,  infine, ad avviso del remittente, l'art. 530 cod. proc.
pen. violerebbe  l'art. 24  della  Costituzione, in quanto l'imputato
che   deve   spendere  ingenti  somme  per  la  sua  difesa,  con  la
consapevolezza  che  certamente,  in  caso di assoluzione, non potra'
ottenere  alcun  rimborso  degli oneri sostenuti, ben potrebbe essere
indotto a non difendersi adeguatamente;
        che  e'  intervenuto  nel presente giudizio il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  e ha chiesto che la questione sia dichiarata
non fondata;
        che  l'Avvocatura contesta in primo luogo l'assunto dal quale
muove  il  remittente,  e  cioe'  che le condizioni di parita' di cui
all'art. 111,  secondo comma, della Costituzione, possano coinvolgere
la  tematica  delle  spese  processuali;  il testo della disposizione
costituzionale,  infatti,  si riferirebbe esclusivamente alla parita'
delle parti rispetto al contraddittorio e quindi alle tematiche della
prova,  ma non si estenderebbe alle spese processuali, come del resto
dimostrerebbero  i lavori preparatori della legge costituzionale n. 2
del 1999:
        che,   prosegue   la   difesa  erariale,  sarebbe  errato  il
tentativo,  posto in essere dal giudice a quo di instaurare una piena
corrispondenza tra processo civile e processo penale per affermare la
necessita' di adeguamento, in punto di spese, delle rispettive regole
processuali,  giacche'  troppo  diversi  sarebbero i due processi sul
piano strutturale e su quello dei principia ispiratori;
        che,   ad   avviso   dell'Avvocatura,  le  censure  sarebbero
infondate  anche  per  quel  che  riguarda  la dedotta violazione del
principio   di   ragionevolezza:   sostenere   infatti   che  sarebbe
irragionevole  la disposizione che preveda per una parte del processo
(l'accusa)  il  favore  delle  spese e per l'altra parte (l'imputato)
solo  la  condanna in caso di soccombenza e nessun favore delle spese
in  caso  di  vittoria,  argomentando la pregressa legittimita' di un
siffatto  regime  sulla asserita posizione di supremazia del pubblico
ministero  che sarebbe venuta meno con la modificazione dell'art. 111
Cost.,  significherebbe  ancora  una  volta paragonare situazioni del
tutto  dissimili tra loro e tendere alla omogeneizzazione di processi
tra loro diversi;
        che  infatti,  prosegue  l'Avvocatura,  mentre  nel  processo
civile  e' la parte privata che decide se e come esercitare l'azione,
cosi' da rendere del tutto ragionevole la previsione dell'onere della
anticipazione delle spese necessarie e del successivo ristoro in caso
di  accoglimento  della  domanda, al contrario nel processo penale la
parte  pubblica  esercita  un'azione  che  non  e'  affatto nella sua
disponibilita'  ed i cui oneri sono sostenuti dallo Stato secondo una
logica  anticipatoria  che  nulla  ha  a  che  vedere con il processo
civile;
        che  pertanto,  osserva la difesa erariale, sarebbe del tutto
logico  che  nel  processo  penale,  salvo ipotesi di responsabilita'
disciplinare,  sia  stabilito  il  recupero  delle  spese  in caso di
condanna  e che nulla sia previsto circa la rifusione, per il caso di
assoluzione,  di spese in realta' sostenute dall'apparato statale del
quale l'accusa e' promanazione giudiziaria;
        che  infine,  per  quel che riguarda la censura di violazione
dell'art. 24  della  Costituzione,  l'Avvocatura,  sulla  base  delle
medesime  considerazioni,  ne  sostiene  la  infondatezza,  non senza
rilevare  che  si tratterebbe comunque di un parametro male invocato,
fondato su una prospettazione meramente ipotetica ed implausibile.
    Considerato  che il remittente ha ritenuto rilevante la questione
di  legittimita' costituzionale dell'art. 530 del codice di procedura
penale,  concernente  le  sentenze  di  assoluzione  e  le loro varie
formule,  pur  in presenza di una precedente sentenza di condanna, la
quale,  secondo  quanto  emerge dalla stessa ordinanza di rimessione,
non e' ancora divenuta irrevocabile;
        che  non compete a questa Corte indicare la norma processuale
da  applicare  al  caso  di specie, ne' stabilire se, nell'ipotesi di
precedente  sentenza  di  condanna  per  il medesimo fatto non ancora
passata  in  giudicato,  debba  aversi  riguardo  a  quanto  disposto
dall'art. 649 cod. proc. pen. o se, in ossequio ad una accezione piu'
piena  del  principio ne bis in idem tale che in esso sia compreso il
divieto  di  sottoporre a procedimento penale una stessa persona piu'
di  una  volta  per  il  medesimo  fatto,  debba trovare applicazione
l'art. 529  cod.  proc.  pen.,  la  cui operativita' non e' limitata,
secondo quanto questa Corte ha gia' chiarito nella sentenza n. 27 del
1995,   ai   casi  di  difetto  delle  condizioni  di  procedibilita'
espressamente  enumerate  nel  Titolo  III  del Libro V del codice di
procedura  penale,  ma  puo'  essere  ragionevolmente  estesa  fino a
comprendere  tutte le ipotesi in cui per quel medesimo fatto l'azione
penale   non   avrebbe   potuto   essere  coltivata  in  un  separato
procedimento perche' gia' iniziata in un altro;
        che   e'   comunque  indubitabile  che,  essendo  gia'  stata
pronunciata    sentenza   di   condanna,   ancorche'   non   divenuta
irrevocabile,  l'imputato  non  puo' essere assolto per quel medesimo
fatto  sol  perche'  e'  gia'  stato giudicato, e dunque il censurato
art. 530   cod.  proc.  pen.,  contrariamente  a  quanto  ritiene  il
remittente, non puo' trovare applicazione nel giudizio a quo;
        che    pertanto   la   questione   deve   essere   dichiarata
manifestamente  inammissibile  senza  che questa Corte debba scendere
nell'esame  della  implausibile censura rivolta dal remittente contro
l'art. 530 cod. proc. pen, nella parte in cui non prevede la condanna
dello Stato al rimborso delle spese in favore dell'imputato assolto.
    Visti  gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   la   manifesta  inammissibilita'  della  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  530  del codice di procedura
penale, sollevata, in riferimento agli articoli 111, secondo comma, 3
e  24  della  Costituzione,  dal  tribunale di Terni, in composizione
monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2001.
                       Il Presidente: Ruperto
                      Il redattore: Mezzanotte
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria il 27 luglio 2001.
                      Il cancelliere: Fruscella
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