N. 614 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 febbraio 2001
Ordinanza emessa il 22 febbraio 2001 dal g.i.p. dal tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di Barattieri Gianluca ed altri Reati e pene - Reato di rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione - Indeterminatezza della fattispecie incriminatrice per la mancata definizione della nozione di notizia riservata - Ingiustificata identita' della pena edittale massima rispetto al piu' grave reato di rivelazione di segreti di Stato - Rilevante divario tra minimo e massimo edittale con possibilita' di arbitraria determinazione della pena da parte del giudice Violazione del principio di legalita' e di tassativita' in materia penale. - Codice penale, art. 262. - Costituzione, artt. 3 e 25.(GU n.34 del 5-9-2001 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Sull'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 261 c.p., in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione sollevata dalla difesa di Ghinoi Fabio e Alberti Giovanni, cui si sono associati il difensore di Barattieri ed il p.m. osserva. In fatto Con richiesta depositata il 21 dicembre 1998 il p.m. chiedeva il rinvio a giudizio di Barattieri Gianluca, Alagona Giuseppina, Agostini Sergio, Alberti Giovanni e Ghinoi Mario Fabio contestando loro i seguenti reati: all'Alberti e al Ghinoi la violazione degli artt. 110, 261, in relazione all'art. 256, c.p perche', consegnando a persone non legittimate o autorizzate a conoscerne i contenuti, fra i quali Barattieri Gianluca, disegni tecnici, specifiche ecc. ... relativi alla costruzione del carcere di massima sicurezza di Caltagirone, documenti contenenti notizie che nell'interesse della sicurezza dello Stato debbono rimanere segrete o delle quali era stata vietata la divulgazione, rivelavano notizie di carattere segreto; accertato a Genova nel febbraio 1998; al Barattieri il reato di cui all'art. 256 c.p. perche' si procurava disegni tecnici, specifiche e progetti di cantiere relativi alla costruzione degli impianti di sicurezza del carcere di Caltagirone, sopra indicati; accertato a Genova nel dicembre 1997. Con la stessa richiesta venivano altresi' contestati al Barattieri e all'Alagona il reato di cui all'art. 4, lett. d) legge n. 429/1982 per aver emesso, quali rappresentanti della IGEFI S.p.a. una fattura per operazioni inesistenti e, correlativamente, all'Agostini la violazione della stessa norma per aver annotato la predetta fattura, di importo pari a L. 67.800.000, fatti tutti accertati a Genova nella primavera del 1997. Nel corso dell'udienza preliminare, fissata da questo giudice allorche' il processo le e' stato assegnato, il p.m. modificava l'imputazione di cui all'art. 256 c.p. e, correlato art. 261 c.p., contestando agli imputati la violazione dell'art. 262 c.p.p., essendo emerso dalle dichiarazioni dei dipendenti del DAP, gia' sentiti a sommarie informazioni dal p.m., che i documenti rinvenuti in possesso del Barattieri rivestivano la qualifica di "riservati". Alla luce della mutata contestazione i difensori chiedevano termine e, alla successiva udienza, due di essi (per Alberti e Ghinoi) formulavano richiesta di applicazione della pena, cui il p.m. non aderiva, non ritenendo ipotizzabile l'ipotesi di cui al quinto comma dell'art. 262 c.p. Gli stessi difensori sollevavano eccezione di incostituzionalita' della norma contestata ai loro assistiti in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione, cui si associavano gli altri difensori ed il p.m. Veniva pertanto disposta la separazione delle posizioni processuali in relazione ai reati tributari, ai sensi dell'art. 18, lettera b) c.p.p. non apparendo la questione irrilevante ne' manifestamente infondata. In diritto Non pare possa esservi dubbio sulla rilevanza, ai fini della decisione di questo giudice, della questione sollevata che coinvolge la norma stessa che, ove violata, comporterebbe la responsabilita' penale degli imputati; un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale invero impedirebbe il prosieguo del processo nei confronti degli imputati in relazione al reato di cui all'art. 262 c.p. loro contestato. Nella loro eccezione i difensori esaminano le diverse ipotesi previste dall'art. 256 c.p. (e del correlato art. 261 c.p.) e da quella prevista dall'art. 262 c.p. Osservano come, a seguito dell'approvazione della legge 27 ottobre 1977 n. 801, l'art. 256 c.p. abbia finalmente ricevuto una definizione del concetto di segreto che prima mancava. La stessa legge, all'art. 18 stabilisce peraltro che quel concetto di segreto si applica alle fattispecie previste e punite dal libro I, titolo I, capi I e V, del codice penale. Analoga definizione non e' avvenuta in relazione all'art. 262 c.p., al quale tuttavia si applicherebbe comunque, in virtu' della norma richiamata da ultimo, il concetto di segreto come definito dall'art. 12 della legge n. 801/1977. Secondo parte della dottrina poiche' la legge del 1977 nulla ha detto sul concetto di notizia riservata definendo il solo segreto, la categoria della notizia riservata dovrebbe considerarsi implicitamente abrogata. Secondo altri, invece, si tratta di figure concettualmente distinte, ma, cosi' opinando, la norma di cui all'art. 262 c.p. presta il fianco a eccezioni di incostituzionalita'. Questo giudice ritiene che non possa considerarsi abrogato l'art. 262 c.p. a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 801/1977; quella legge infatti ha disciplinato e definito il concetto di segreto di Stato (dichiarandolo applicabile laddove ci si riferisca al segreto di Stato, all'interno del libro primo, titolo I, capi I e V, c.p.), nulla dicendo in materia di notizia riservata, che e' di per se' una minus rispetto al segreto, ma ugualmente oggetto di tutela nell'ambito dei delitti contro la personalita' dello Stato. Che si tratti di un minus emerge della nozione stessa di segreto se comparata a quella di notizia riservata, l'uno inteso come notizia che non puo' essere divulgata in ragione dei superiori interessi dello Stato l'altro come notizia che puo' essere divulgata a determinate condizioni e a determinate categorie di persone in relazione a ragioni di alta amministrazione. Si tratta in effetti di due nozioni tra loro concettualmente differenti. Tuttavia se entrambe le norme esistono nell'ordinamento non puo' ritenersi manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita' sollevata. In primo luogo, osserva la difesa, "disancorando la fattispecie di cui all'art. 262, primo comma, c.p. dall'ambito della tutela penale del segreto e della correlativa nozione ci si trova difronte ad un precetto talmente scarno e privo di qualsiasi contenuto informativo sul disvalore (che non consista nel mero potere discrezionale del divieto da parte dell'amministrazione) che risulta operazione esegetica irrealizzabile quella di comprendere la struttura ontologica di una notizia riservata sicche' essa sarebbe tale solo allorche' l'amministrazione ne vieta, discrezionalmente, la circolazione." In tal modo viene ad essere violato il principio di tassativita' della legge penale, dettato dall'art. 25 della Costituzione, poiche' la norma penale non delinea i tratti salienti della fattispecie punibile, lasciando la definizione degli stessi all'autorita' amministrativa. Tale eccezione non pare manifestamente infondata. Si versa infatti nell'ipotesi della c.d. norma penale in bianco laddove l'esatto contenuto precettivo della norma penale si evince oltre che dalla norma penale stessa, da altra norma, nella specie quella amministrativa, che la integra. La Corte costituzionale ha piu' volte affermato che il principio di legalita' non e' violato quando sia una legge dello Stato, non importa se proprio la medesima legge o un'altra legge, a indicare con sufficiente specificazione i presupposti o i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la pena (cosi' sent. n. 26/66; n. 61/69 e n. 168/1971) "spettando al giudice penale di indagare volta per volta, se il provvedimento sia stato legittimamente emesso nell'esercizio di un potere-dovere previsto da una legge che determini con sufficiente specificazione le condizioni e l'ambito di applicazione del provvedimento". Nel caso di specie, l'apposizione del vincolo di "riservatezza" sembra essere l'esito del decreto n. 549280 del Ministro di grazia e giustizia del 7 dicembre 1993, a firma G. Conso (in atti, fald. 1, all. alle dichiarazioni testimoniali di Arredi, 22 aprile 1998) e di un parere dell'autorita' nazionale per la sicurezza, di data 16 giugno 1994 (ibidem) nonche' di un incontro dell'11 novembre 1993, tenutosi presso l'ufficio nazionale per la sicurezza (il cui verbale e' nel fald. I, all. 73); proprio nel verbale di tale riunione si afferma che essa si e' resa necessaria per definire l'esatta portata dell'art. 6, lettera c) del d.lgs. n. 406/1991 e, conseguentemente, distinguere tra i lavori dichiarati segreti e quelli la cui esecuzione deve essere accompagnata da misure di sicurezza, inserendo nel primo caso le opere dichiarate segrete, con relativi livelli di classifica (riservato, riservatissimo e segreto) da individuarsi ad opera dell'amministrazione appaltante con riferimento ai criteri sanciti dalla pubblicazione PCMANS1/R, "Norme unificate per la tutela del Segreto di Stato". Gia' da quanto fin qui detto emerge l'estrema frammentarieta' della materia, che ha richiesto ripetuti atti amministrativi, sia pure di alta amministrazione, per definire cio' che e' segreto, cio' che e' riservato e cio' che invece e' solo soggetto a "precauzioni particolari per la sua esecuzione" rimettendo all'amministrazione appaltante l'effettiva valutazione sulle condizioni di esistenza del vincolo. Se cosi' e' non puo' ritenersi manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita' della norma, poiche' in effetti la definizione concreta di cio' che puo' e cio' che non puo' essere divulgato e con quali modalita' sembra essere rimessa ad atti amministrativi e i cui limiti concettuali, a differenza di quanto dettato dall'art. 12 della legge 24 ottobre 1977 n. 801 in tema di segreto di Stato, appaiono assai incerti e labili, tanto da richiedere ripetute consultazioni tra gli organi amministrativi preposti. Ne consegne l'incertezza del precetto penale, poiche', a differenza di quanto avviene per gli ordini richiamati dall'art. 650 c.p., ordini portati a conoscenza dei destinatari e dai quali direttamente si evince in virtu' di quale potere legislativamente conferito sono stati emanati, nel caso dell'art. 262 c.p. il potere di dichiarare o meno le notizie quali non divulgabili e' affidato a provvedimenti amministrativi emessi in virtu' di poteri non direttamente conferiti da norme di legge ma da autorita' amministrative sicche' sembra attivita' interpretativa della stessa autorita' amministrativa preposta stabilire se un certo progetto sia sottoposto a segreto ovvero sia da qualificarsi lavoro la cui esecuzione deve essere solo accompagnata da particolari misure di sicurezza. Significativa in tale senso e' la citata missiva dell'Autorita' per la sicurezza nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (28 gennaio 1998, n. 46/3853 prot. allegata alle dichiarazioni del teste Arredi, del Ministero dei lavori pubblici che l'aveva sollecitata) laddove riferisce che "Il Ministero di grazia e giustizia con decreto n. 54980/10 d.m. del 7 dicembre 1993, ha stabilito che i lavori che l'amministrazione penitenziaria ha, anche in passato, dichiarato segreti sono da ritenersi come lavori la cui esecuzione deve essere accompagnata da particolari misure di sicurezza". Sembra infatti che il senso di quella missiva sia: "attenzione, l'amministrazione penitenziaria li definiva segreti ma secondo il Ministero di grazia e giustizia non dovrebbe essere cosi'". Infatti l'uso del verbo "sono da ritenersi" pare indicare una situazione di incertezza che lo stesso Ministero nutre sul grado di segretezza dei lavori stessi e, conseguentemente, sulla disciplina cui assoggettarli. Tant'e' che la predetta lettera viene indirizzata al Ministero dei lavori pubblici, anch'essa autorita' amministrativa coinvolta nella costruzione delle carceri, che chiedeva lumi sulle misure di sicurezza da adottare in relazione alla costruzione di carceri. Sotto diverso profilo si osserva che la mancata indicazione, nel contesto dell'art. 262 c.p, dei motivi per i quali puo' essere disposta la non divulgabilita' delle notizie priva il giudice ordinario del potere, conferitogli dalla legge, di valutare la legittimita' dell'atto amministrativo. Invero, a differenza dall'art. 650 c.p., che prevede espressamente le ragioni di emanazione del provvedimento amministrativo (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico ecc. ...), che deve essere legalmente dato, nulla dice l'art. 262 c.p., rimettendo in toto all'autorita' amministrativa le ragioni di apposizione del divieto, sicche' il giudice, dalla mera lettura dello stesso, non e' in grado di valutare se esso sia stato legittimamente apposto. Non pare dunque manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita' sotto il profilo della violazione del principio di tassativita' perche' non solo dal dettato dell'art. 262 c.p. non si evince esattamente il precetto imposto ma esso non emerge con chiarezza neppure dagli atti amministrativi integrativi, emanati da una pluralita' di autorita' amministrative in relazione ai poteri loro di volta in volta assegnati, sicche' non puo' che condividersi l'opinione, richiamata dalla difesa, di quell'autore che ha rilevato come il legislatore del 1977 abbia perso una buona occasione per definire, oltre al concetto di segreto di Stato, anche quello di notizia che deve restare riservata, nell'ambito, si ricordi, dei delitti contro la personalita' dello Stato. Infatti non pare potersi dimenticare che l'art. 262 c.p. e' inserito nel capo I del libro I che disciplina i piu' gravi reati contro la personalita' dello Stato, puniti con pene detentive assai elevate e giudicabili di fronte alla Corte d'Assise, sicche', se qualche incertezza nel precetto normativo puo' essere tollerata in materia di violazione dell'ordine legalmente dato dalla PA, contravvenzione punita dall'art. 650 c.p. con pena alternativa, non pare che essa sia giustificata in una materia cosi' delicata da coinvolgere la sicurezza stessa dello Stato. La difesa ha sollevato eccezione di incostituzionalita' dell'art. 262 c.p. anche in relazione all'art. 3 della Costituzione osservando come l'art. 262 c.p. rechi sanzione identica nel massimo a quella prevista dall'art. 261 c.p., che e' ridotta solo nel minimo, pur tutelando interessi diversi: il primo infatti tutela l'unita' fisica dello Stato da attacchi esterni o interni ed il continuo e corretto funzionamento degli organi costituzionali, la seconda interessi che, non individuabili a priori in ragione di quanto piu' sopra detto, non appartengono comunque al rango costituzionale. Non si giustifica allora identica sanzione. Pare a chi scrive che la sanzione prevista dall'art. 262 c.p. presti il fianco anche ad altra cesura di incostituzionalita', in relazione all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, per l'eccessivo divario previsto tra la pena minima (tre anni) e la pena massima (24 dovendosi applicare il limite di cui all'art. 23 c.p.). Sotto il primo profilo non vi e' dubbio che, a seguito della definizione del segreto di Stato fornita dall'art. 12 della legge n. 801/1977, l'art. 261 c.p. tuteli dalla diffusione di notizie ecc. ... che "siano idonee a recare danno all'integrita' dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi istituzionali, all'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa miliare dello Stato". Tale tutela e', in una parola, quella dello Stato costituzionale democratico. Le notizie delle quali sia stata vietata la divulgazione non potranno mai determinare un cosi' elevato pericolo per l'integrita' dello Stato, sicche' l'identica sanzione tra le due ipotesi appare priva di giustificazione dal punto di vista sostanziale. Infatti l'art. 261 c.p. prevede una pena minima di cinque anni, ferma restando la pena massima di anni ventiquattro mentre e l'art. 262 c.p. prevede una pena minima di anni tre e massima sempre di ventiquattro. Tale previsione, uguale nel massimo, non sembra giustificata da identita' delle condotte poiche' quelle di cui all'art. 262 c.p. aggrediscono beni di minore valore. Sotto il secondo profilo si osserva che la "forbice" tra il minimo ed il massimo edittale previsto dall'art. 262 c.p., sempre restando all'interno dell'ipotesi dolosa, da' al giudice un eccessivo potere discrezionale senza fornire strumenti adeguati per la quantificazione della pena, se non verso "l'alto" nei minimi, ai commi secondo e terzo. Laddove infatti il comportamento sia doloso, e non sia tempo di guerra o vi sia scopo di spionaggio, nel qual caso la pena minima e' elevata a dieci e quindici anni, il giudice puo' spaziare dai tre anni (portati eventualmente a due con concessioni di generiche o anche a pena inferiore in caso di riti alternativi) a ventiquattro anni, cosi' da potersi ragionevolmente affermare che vi sia indeterminatezza della sanzione. La questione e' stata gia' proposta all'attenzione della Corte, che tuttavia non e' entrata nel merito (ord. 156 del 2000) e pare a chi scrive non manifestamente infondata. La Corte costituzionale ha affermato che il principio di legalita' della pena "non impone al legislatore di determinare in misura rigida e fissa la pena da irrogare per ciascun tipo di reato ... strumento idoneo al conseguimento delle finalita' della pena e piu' congruo rispetto al principio di uguaglianza e' la predeterminazione della pena ... fra un massimo ed un minimo ed il conferimento al giudice del potere discrezionale di determinare in concreto, entro tali limiti, la sanzione da irrogare, al fine di adeguare quest'ultima alle specifiche caratteristiche del singolo caso" (sent. n. 299/1992). Il potere dovere imposto al giudice di adeguare la pena al fatto concreto rende quanto piu' possibile "personale" la pena, attuando il principio di uguaglianza in materia penale. Tuttavia la stessa Corte ha affermato che il potere discrezionale del giudice, volto all'individualizzazione della sanzione, deve trovare nella legge i suoi limiti e i suoi criteri direttivi. L'art. 133 c.p. risponde a tale esigenze, individuando i criteri cui deve attenersi il giudice nella determinazione della pena; tuttavia "la determinazione legislativa del minimo e del massimo della pena irrogabile per ciascun tipo di reato non rappresenta soltanto un limite alla discrezionalita' giudiziale ma costituisce anche un indispensabile parametro legislativo per l'esercizio di essa, un criterio guida senza il quale il potere cosi' riconosciuto al giudice non sarebbe riconducibile al principio di legalita'". Invero solo mediante l'indicazione dei minimi e massimi edittali il giudice puo' concretamente adeguare la pena da irrogare in concreto a quella che la stessa sentenza citata definisce "scala di graduazione individuata nel minimo e massimo edittale" dal legislatore; in mancanza di tale scala il potere del giudice si tradurrebbe in arbitrio. Tale graduazione, tuttavia, prosegue la Corte, "non deve eccedere il margine di elasticita' necessario a consentire l'individualizzazione della pena, secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p. e che manifestamente risulti non correlato alla variabilita' delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta. Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe solo apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale a potere arbitrario.". Dell'ampiezza del margine tra minimo e massimo della pena concesso al giudice si e' gia' detto: si va da un minimo di due anni (o meno, se applicati i riti alternativi) ad un massimo di anni ventiquattro. "L'individuazione del disvalore oggettivo di un fatto reato tipico, e del diverso grado di offensivita', spetta al legislatore mentre al giudice compete valutare la particolarita' del caso singolo onde individualizzare la pena e le due sfere di attivita' non vanno confuse". Nell'ipotesi prevista dall'art. 262 c.p. il legislatore ha, come si e' detto, effettuato una qualche graduazione, prevedendo delle aggravanti, che aumentano il limite minimo di pena in caso di fatto commesso in tempo di guerra e per motivi di spionaggio politico o militare. Tuttavia tali aggravanti, legislativamente previste, non paiono sufficienti a determinare con sufficiente certezza i criteri ai quali il giudice di merito deve attenersi nel quantificare la pena in caso di rivelazione di notizie delle quali l'autorita' competente ha vietato la divulgazione, tanto piu' ove si tenga conto dell'estrema incertezza sul precetto dettato dalla norma di cui sopra si e' detto. Non sembra che i criteri dettati dall'art. 133 c.p. siano sufficienti a indirizzare il giudice nella sua valutazione del disvalore del fatto, che, si ricordi, riguarda comunque un reato contro la personalita' dello Stato. L'eccessivo divario tra il minimo ed il massimo sembra di fatto risolversi nell'affidare al giudice ogni valutazione sul disvalore oggettivo del fatto, valutazione che, come affermato dalla sentenza citata, spetterebbe al legislatore, tanto piu' trattandosi di reati che concernono la massima tutela dello Stato dovendo il giudice solo valutare il disvalore concreto del fatto portato al suo giudizio, all'interno di una valutazione oggettiva fornitagli dal legislatore. Anche sotto questo profilo, pertanto, ad avviso di questo giudice puo' sollevarsi eccezione di incostituzionalita' in relazione alla norma dell'art. 262 c.p.
P. Q. M. Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 262 c.p. in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione. Dispone la sospensione del procedimento penale e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. La presente ordinanza viene notificata mediante lettura in udienza al p.m. e agli imputati che sono o devono ritenersi presenti ai sensi dell'art. 420-quater c.p.p. Si ordina che, a cura della cancelleria, venga notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera e del Senato. Genova, addi' 22 febbraio 2001 Il giudice: Rubini 01C0848