N. 614 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 febbraio 2001

Ordinanza  emessa  il  22  febbraio  2001 dal g.i.p. dal tribunale di
Genova  nel  procedimento  penale  a carico di Barattieri Gianluca ed
altri

Reati  e  pene  -  Reato  di  rivelazione di notizie di cui sia stata
  vietata   la  divulgazione  -  Indeterminatezza  della  fattispecie
  incriminatrice  per la mancata definizione della nozione di notizia
  riservata  -  Ingiustificata  identita' della pena edittale massima
  rispetto  al  piu' grave reato di rivelazione di segreti di Stato -
  Rilevante divario tra minimo e massimo edittale con possibilita' di
  arbitraria   determinazione   della   pena  da  parte  del  giudice
  Violazione  del principio di legalita' e di tassativita' in materia
  penale.
- Codice penale, art. 262.
- Costituzione, artt. 3 e 25.
(GU n.34 del 5-9-2001 )
               IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

    Sull'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art. 261
c.p.,  in  relazione  agli  artt. 3 e 25 della Costituzione sollevata
dalla  difesa  di  Ghinoi  Fabio  e  Alberti  Giovanni,  cui  si sono
associati il difensore di Barattieri ed il p.m. osserva.
                              In fatto
    Con  richiesta depositata il 21 dicembre 1998 il p.m. chiedeva il
rinvio   a  giudizio  di  Barattieri  Gianluca,  Alagona  Giuseppina,
Agostini  Sergio,  Alberti  Giovanni e Ghinoi Mario Fabio contestando
loro i seguenti reati:
        all'Alberti  e  al Ghinoi la violazione degli artt. 110, 261,
in  relazione  all'art. 256,  c.p  perche', consegnando a persone non
legittimate  o  autorizzate  a  conoscerne  i  contenuti, fra i quali
Barattieri  Gianluca,  disegni  tecnici, specifiche ecc. ... relativi
alla  costruzione  del  carcere  di massima sicurezza di Caltagirone,
documenti contenenti notizie che nell'interesse della sicurezza dello
Stato  debbono  rimanere  segrete  o delle quali era stata vietata la
divulgazione,  rivelavano  notizie  di carattere segreto; accertato a
Genova nel febbraio 1998;
        al  Barattieri  il  reato di cui all'art. 256 c.p. perche' si
procurava disegni tecnici, specifiche e progetti di cantiere relativi
alla   costruzione   degli  impianti  di  sicurezza  del  carcere  di
Caltagirone, sopra indicati; accertato a Genova nel dicembre 1997.
    Con   la   stessa   richiesta  venivano  altresi'  contestati  al
Barattieri  e  all'Alagona il reato di cui all'art. 4, lett. d) legge
n. 429/1982  per aver emesso, quali rappresentanti della IGEFI S.p.a.
una   fattura   per   operazioni   inesistenti  e,  correlativamente,
all'Agostini  la  violazione  della stessa norma per aver annotato la
predetta  fattura,  di  importo  pari  a  L.  67.800.000, fatti tutti
accertati a Genova nella primavera del 1997.
    Nel  corso  dell'udienza  preliminare,  fissata da questo giudice
allorche'  il  processo  le  e'  stato  assegnato, il p.m. modificava
l'imputazione  di  cui  all'art. 256 c.p. e, correlato art. 261 c.p.,
contestando agli imputati la violazione dell'art. 262 c.p.p., essendo
emerso  dalle  dichiarazioni  dei  dipendenti del DAP, gia' sentiti a
sommarie informazioni dal p.m., che i documenti rinvenuti in possesso
del Barattieri rivestivano la qualifica di "riservati".
    Alla  luce  della  mutata  contestazione  i  difensori chiedevano
termine  e,  alla  successiva  udienza,  due  di  essi (per Alberti e
Ghinoi) formulavano richiesta di applicazione della pena, cui il p.m.
non  aderiva,  non  ritenendo ipotizzabile l'ipotesi di cui al quinto
comma dell'art. 262 c.p.
    Gli stessi difensori sollevavano eccezione di incostituzionalita'
della  norma contestata ai loro assistiti in relazione agli artt. 3 e
25  della  Costituzione, cui si associavano gli altri difensori ed il
p.m.
    Veniva   pertanto   disposta   la   separazione  delle  posizioni
processuali  in  relazione ai reati tributari, ai sensi dell'art. 18,
lettera   b)  c.p.p.  non  apparendo  la  questione  irrilevante  ne'
manifestamente infondata.

                             In diritto

    Non  pare  possa  esservi  dubbio  sulla rilevanza, ai fini della
decisione  di questo giudice, della questione sollevata che coinvolge
la  norma  stessa  che, ove violata, comporterebbe la responsabilita'
penale  degli  imputati;  un'eventuale declaratoria di illegittimita'
costituzionale  invero  impedirebbe  il  prosieguo  del  processo nei
confronti  degli  imputati  in relazione al reato di cui all'art. 262
c.p. loro contestato.
    Nella  loro  eccezione  i  difensori esaminano le diverse ipotesi
previste  dall'art. 256  c.p.  (e  del  correlato art. 261 c.p.) e da
quella prevista dall'art. 262 c.p.
    Osservano  come,  a  seguito  dell'approvazione  della  legge  27
ottobre  1977  n. 801,  l'art. 256 c.p. abbia finalmente ricevuto una
definizione  del  concetto  di  segreto  che prima mancava. La stessa
legge,  all'art. 18  stabilisce peraltro che quel concetto di segreto
si  applica alle fattispecie previste e punite dal libro I, titolo I,
capi I e V, del codice penale. Analoga definizione non e' avvenuta in
relazione  all'art. 262  c.p.,  al  quale  tuttavia  si applicherebbe
comunque,  in virtu' della norma richiamata da ultimo, il concetto di
segreto  come  definito dall'art. 12 della legge n. 801/1977. Secondo
parte  della  dottrina  poiche'  la legge del 1977 nulla ha detto sul
concetto di notizia riservata definendo il solo segreto, la categoria
della   notizia   riservata   dovrebbe   considerarsi  implicitamente
abrogata.  Secondo altri, invece, si tratta di figure concettualmente
distinte,  ma,  cosi'  opinando,  la  norma  di cui all'art. 262 c.p.
presta il fianco a eccezioni di incostituzionalita'.
    Questo  giudice  ritiene  che  non  possa  considerarsi  abrogato
l'art. 262   c.p.  a  seguito  dell'entrata  in  vigore  della  legge
n. 801/1977;  quella  legge  infatti  ha  disciplinato  e definito il
concetto di segreto di Stato (dichiarandolo applicabile laddove ci si
riferisca al segreto di Stato, all'interno del libro primo, titolo I,
capi I e V, c.p.), nulla dicendo in materia di notizia riservata, che
e' di per se' una minus rispetto al segreto, ma ugualmente oggetto di
tutela nell'ambito dei delitti contro la personalita' dello Stato.
    Che  si tratti di un minus emerge della nozione stessa di segreto
se comparata a quella di notizia riservata, l'uno inteso come notizia
che  non  puo'  essere  divulgata  in ragione dei superiori interessi
dello  Stato  l'altro  come  notizia  che  puo'  essere  divulgata  a
determinate  condizioni  e  a  determinate  categorie  di  persone in
relazione  a ragioni di alta amministrazione. Si tratta in effetti di
due nozioni tra loro concettualmente differenti.
    Tuttavia  se entrambe le norme esistono nell'ordinamento non puo'
ritenersi manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita'
sollevata.
    In  primo  luogo, osserva la difesa, "disancorando la fattispecie
di  cui  all'art. 262,  primo  comma,  c.p.  dall'ambito della tutela
penale  del  segreto e della correlativa nozione ci si trova difronte
ad  un  precetto  talmente  scarno  e  privo  di  qualsiasi contenuto
informativo   sul   disvalore  (che  non  consista  nel  mero  potere
discrezionale  del divieto da parte dell'amministrazione) che risulta
operazione   esegetica   irrealizzabile   quella  di  comprendere  la
struttura  ontologica  di  una notizia riservata sicche' essa sarebbe
tale solo allorche' l'amministrazione ne vieta, discrezionalmente, la
circolazione."
    In  tal modo viene ad essere violato il principio di tassativita'
della  legge penale, dettato dall'art. 25 della Costituzione, poiche'
la  norma  penale  non  delinea  i  tratti salienti della fattispecie
punibile,   lasciando   la  definizione  degli  stessi  all'autorita'
amministrativa.
    Tale  eccezione  non  pare  manifestamente  infondata.  Si  versa
infatti  nell'ipotesi  della  c.d.  norma  penale  in  bianco laddove
l'esatto  contenuto precettivo della norma penale si evince oltre che
dalla  norma  penale  stessa,  da  altra  norma,  nella specie quella
amministrativa, che la integra.
    La  Corte costituzionale ha piu' volte affermato che il principio
di  legalita'  non  e'  violato quando sia una legge dello Stato, non
importa se proprio la medesima legge o un'altra legge, a indicare con
sufficiente  specificazione i presupposti o i caratteri, il contenuto
e i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa, alla cui
trasgressione  deve seguire la pena (cosi' sent. n. 26/66; n. 61/69 e
n. 168/1971)  "spettando  al  giudice  penale  di  indagare volta per
volta,   se   il   provvedimento   sia  stato  legittimamente  emesso
nell'esercizio   di  un  potere-dovere  previsto  da  una  legge  che
determini  con sufficiente specificazione le condizioni e l'ambito di
applicazione del provvedimento".
    Nel  caso  di specie, l'apposizione del vincolo di "riservatezza"
sembra  essere l'esito del decreto n. 549280 del Ministro di grazia e
giustizia  del  7  dicembre 1993, a firma G. Conso (in atti, fald. 1,
all.  alle dichiarazioni testimoniali di Arredi, 22 aprile 1998) e di
un  parere  dell'autorita'  nazionale  per  la  sicurezza, di data 16
giugno  1994  (ibidem)  nonche' di un incontro dell'11 novembre 1993,
tenutosi  presso l'ufficio nazionale per la sicurezza (il cui verbale
e'  nel  fald.  I,  all. 73); proprio nel verbale di tale riunione si
afferma  che essa si e' resa necessaria per definire l'esatta portata
dell'art. 6,  lettera  c) del d.lgs. n. 406/1991 e, conseguentemente,
distinguere   tra  i  lavori  dichiarati  segreti  e  quelli  la  cui
esecuzione deve essere accompagnata da misure di sicurezza, inserendo
nel  primo  caso le opere dichiarate segrete, con relativi livelli di
classifica  (riservato,  riservatissimo e segreto) da individuarsi ad
opera  dell'amministrazione  appaltante  con  riferimento  ai criteri
sanciti dalla pubblicazione PCMANS1/R, "Norme unificate per la tutela
del Segreto di Stato".
    Gia'  da  quanto  fin  qui detto emerge l'estrema frammentarieta'
della  materia,  che  ha  richiesto ripetuti atti amministrativi, sia
pure  di alta amministrazione, per definire cio' che e' segreto, cio'
che  e'  riservato  e cio' che invece e' solo soggetto a "precauzioni
particolari  per  la  sua  esecuzione" rimettendo all'amministrazione
appaltante  l'effettiva valutazione sulle condizioni di esistenza del
vincolo.
    Se   cosi'   e'   non  puo'  ritenersi  manifestamente  infondata
l'eccezione di incostituzionalita' della norma, poiche' in effetti la
definizione  concreta  di  cio'  che  puo' e cio' che non puo' essere
divulgato  e  con  quali  modalita'  sembra  essere  rimessa  ad atti
amministrativi  e  i  cui  limiti concettuali, a differenza di quanto
dettato  dall'art. 12  della  legge 24 ottobre 1977 n. 801 in tema di
segreto   di  Stato,  appaiono  assai  incerti  e  labili,  tanto  da
richiedere  ripetute  consultazioni  tra  gli  organi  amministrativi
preposti.
    Ne   consegne   l'incertezza  del  precetto  penale,  poiche',  a
differenza  di quanto avviene per gli ordini richiamati dall'art. 650
c.p.,  ordini  portati  a  conoscenza  dei  destinatari  e  dai quali
direttamente  si  evince  in  virtu' di quale potere legislativamente
conferito  sono  stati emanati, nel caso dell'art. 262 c.p. il potere
di  dichiarare  o meno le notizie quali non divulgabili e' affidato a
provvedimenti   amministrativi   emessi   in  virtu'  di  poteri  non
direttamente   conferiti   da   norme   di   legge  ma  da  autorita'
amministrative  sicche'  sembra attivita' interpretativa della stessa
autorita'  amministrativa preposta stabilire se un certo progetto sia
sottoposto  a  segreto  ovvero  sia  da  qualificarsi  lavoro  la cui
esecuzione  deve  essere  solo  accompagnata da particolari misure di
sicurezza.   Significativa   in  tale  senso  e'  la  citata  missiva
dell'Autorita'  per  la  sicurezza nazionale presso la Presidenza del
Consiglio  dei  ministri  (28 gennaio 1998, n. 46/3853 prot. allegata
alle  dichiarazioni  del  teste  Arredi,  del  Ministero  dei  lavori
pubblici che l'aveva sollecitata) laddove riferisce che "Il Ministero
di  grazia  e  giustizia  con decreto n. 54980/10 d.m. del 7 dicembre
1993,  ha  stabilito che i lavori che l'amministrazione penitenziaria
ha,  anche  in  passato,  dichiarato  segreti  sono da ritenersi come
lavori  la  cui  esecuzione  deve  essere accompagnata da particolari
misure  di  sicurezza". Sembra infatti che il senso di quella missiva
sia: "attenzione, l'amministrazione penitenziaria li definiva segreti
ma  secondo  il  Ministero  di grazia e giustizia non dovrebbe essere
cosi'". Infatti l'uso del verbo "sono da ritenersi" pare indicare una
situazione  di  incertezza che lo stesso Ministero nutre sul grado di
segretezza  dei  lavori  stessi e, conseguentemente, sulla disciplina
cui  assoggettarli. Tant'e' che la predetta lettera viene indirizzata
al  Ministero dei lavori pubblici, anch'essa autorita' amministrativa
coinvolta  nella  costruzione  delle carceri, che chiedeva lumi sulle
misure  di  sicurezza  da  adottare  in relazione alla costruzione di
carceri.
    Sotto  diverso profilo si osserva che la mancata indicazione, nel
contesto  dell'art. 262  c.p,  dei  motivi  per  i  quali puo' essere
disposta  la  non  divulgabilita'  delle  notizie  priva  il  giudice
ordinario  del  potere,  conferitogli  dalla  legge,  di  valutare la
legittimita'   dell'atto   amministrativo.   Invero,   a   differenza
dall'art. 650   c.p.,   che   prevede  espressamente  le  ragioni  di
emanazione  del  provvedimento  amministrativo  (giustizia, sicurezza
pubblica, ordine pubblico ecc. ...), che deve essere legalmente dato,
nulla   dice   l'art. 262  c.p.,  rimettendo  in  toto  all'autorita'
amministrativa  le  ragioni  di  apposizione  del divieto, sicche' il
giudice, dalla mera lettura dello stesso, non e' in grado di valutare
se esso sia stato legittimamente apposto.
    Non   pare   dunque   manifestamente   infondata  l'eccezione  di
incostituzionalita'  sotto  il profilo della violazione del principio
di  tassativita'  perche' non solo dal dettato dell'art. 262 c.p. non
si  evince  esattamente  il  precetto  imposto ma esso non emerge con
chiarezza  neppure  dagli atti amministrativi integrativi, emanati da
una  pluralita'  di  autorita'  amministrative in relazione ai poteri
loro  di  volta in volta assegnati, sicche' non puo' che condividersi
l'opinione,  richiamata dalla difesa, di quell'autore che ha rilevato
come  il  legislatore  del  1977  abbia perso una buona occasione per
definire,  oltre  al  concetto  di  segreto di Stato, anche quello di
notizia  che  deve  restare  riservata,  nell'ambito, si ricordi, dei
delitti contro la personalita' dello Stato.
    Infatti  non  pare  potersi  dimenticare  che  l'art. 262 c.p. e'
inserito  nel  capo  I  del libro I che disciplina i piu' gravi reati
contro  la  personalita' dello Stato, puniti con pene detentive assai
elevate  e  giudicabili  di  fronte  alla Corte d'Assise, sicche', se
qualche  incertezza  nel  precetto normativo puo' essere tollerata in
materia   di   violazione   dell'ordine  legalmente  dato  dalla  PA,
contravvenzione  punita  dall'art. 650 c.p. con pena alternativa, non
pare  che  essa  sia  giustificata  in  una materia cosi' delicata da
coinvolgere la sicurezza stessa dello Stato.
    La   difesa   ha   sollevato   eccezione  di  incostituzionalita'
dell'art. 262  c.p.  anche in relazione all'art. 3 della Costituzione
osservando come l'art. 262 c.p. rechi sanzione identica nel massimo a
quella  prevista  dall'art. 261 c.p., che e' ridotta solo nel minimo,
pur  tutelando  interessi  diversi:  il primo infatti tutela l'unita'
fisica  dello  Stato  da  attacchi esterni o interni ed il continuo e
corretto   funzionamento  degli  organi  costituzionali,  la  seconda
interessi  che,  non individuabili a priori in ragione di quanto piu'
sopra  detto,  non appartengono comunque al rango costituzionale. Non
si giustifica allora identica sanzione.
    Pare  a  chi  scrive  che la sanzione prevista dall'art. 262 c.p.
presti  il  fianco  anche  ad altra cesura di incostituzionalita', in
relazione   all'art. 25,   secondo  comma,  della  Costituzione,  per
l'eccessivo  divario previsto tra la pena minima (tre anni) e la pena
massima (24 dovendosi applicare il limite di cui all'art. 23 c.p.).
    Sotto  il  primo  profilo  non  vi e' dubbio che, a seguito della
definizione  del  segreto  di  Stato fornita dall'art. 12 della legge
n. 801/1977,  l'art. 261 c.p. tuteli dalla diffusione di notizie ecc.
...  che  "siano  idonee  a  recare  danno all'integrita' dello Stato
democratico,  anche  in  relazione  ad  accordi  internazionali, alla
difesa  delle  istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento,
al  libero  esercizio  delle  funzioni  degli  organi  istituzionali,
all'indipendenza  dello  Stato  rispetto  agli  altri  Stati  e  alle
relazioni  con  essi,  alla  preparazione e alla difesa miliare dello
Stato".   Tale   tutela   e',  in  una  parola,  quella  dello  Stato
costituzionale democratico.
    Le  notizie  delle  quali  sia  stata vietata la divulgazione non
potranno  mai  determinare un cosi' elevato pericolo per l'integrita'
dello  Stato,  sicche'  l'identica sanzione tra le due ipotesi appare
priva  di  giustificazione  dal  punto  di vista sostanziale. Infatti
l'art. 261  c.p.  prevede  una  pena  minima  di  cinque  anni, ferma
restando  la  pena  massima  di anni ventiquattro mentre e l'art. 262
c.p.  prevede  una  pena  minima  di  anni  tre  e  massima sempre di
ventiquattro.   Tale  previsione,  uguale  nel  massimo,  non  sembra
giustificata  da  identita'  delle  condotte  poiche'  quelle  di cui
all'art. 262 c.p. aggrediscono beni di minore valore.
    Sotto  il  secondo  profilo  si  osserva  che la "forbice" tra il
minimo  ed  il  massimo  edittale previsto dall'art. 262 c.p., sempre
restando all'interno dell'ipotesi dolosa, da' al giudice un eccessivo
potere   discrezionale   senza  fornire  strumenti  adeguati  per  la
quantificazione  della  pena,  se  non  verso "l'alto" nei minimi, ai
commi secondo e terzo.
    Laddove  infatti  il comportamento sia doloso, e non sia tempo di
guerra  o vi sia scopo di spionaggio, nel qual caso la pena minima e'
elevata  a  dieci  e  quindici anni, il giudice puo' spaziare dai tre
anni  (portati  eventualmente  a  due  con concessioni di generiche o
anche  a  pena  inferiore in caso di riti alternativi) a ventiquattro
anni,   cosi'   da  potersi  ragionevolmente  affermare  che  vi  sia
indeterminatezza della sanzione.
    La  questione  e' stata gia' proposta all'attenzione della Corte,
che  tuttavia  non e' entrata nel merito (ord. 156 del 2000) e pare a
chi scrive non manifestamente infondata.
    La   Corte  costituzionale  ha  affermato  che  il  principio  di
legalita'  della  pena  "non  impone al legislatore di determinare in
misura  rigida  e fissa la pena da irrogare per ciascun tipo di reato
...  strumento  idoneo  al conseguimento delle finalita' della pena e
piu'   congruo   rispetto   al   principio   di   uguaglianza  e'  la
predeterminazione  della  pena  ... fra un massimo ed un minimo ed il
conferimento  al  giudice  del potere discrezionale di determinare in
concreto,  entro  tali  limiti,  la  sanzione da irrogare, al fine di
adeguare  quest'ultima  alle  specifiche  caratteristiche del singolo
caso"  (sent.  n. 299/1992).  Il  potere dovere imposto al giudice di
adeguare  la  pena  al  fatto  concreto  rende  quanto piu' possibile
"personale"  la pena, attuando il principio di uguaglianza in materia
penale.   Tuttavia  la  stessa  Corte  ha  affermato  che  il  potere
discrezionale   del   giudice,  volto  all'individualizzazione  della
sanzione,  deve  trovare  nella  legge i suoi limiti e i suoi criteri
direttivi.
    L'art. 133  c.p. risponde a tale esigenze, individuando i criteri
cui  deve  attenersi  il  giudice  nella  determinazione  della pena;
tuttavia  "la  determinazione  legislativa  del  minimo e del massimo
della  pena  irrogabile  per  ciascun  tipo  di reato non rappresenta
soltanto  un  limite  alla discrezionalita' giudiziale ma costituisce
anche  un  indispensabile  parametro  legislativo  per l'esercizio di
essa,  un  criterio guida senza il quale il potere cosi' riconosciuto
al  giudice  non  sarebbe  riconducibile  al principio di legalita'".
Invero  solo  mediante l'indicazione dei minimi e massimi edittali il
giudice puo' concretamente adeguare la pena da irrogare in concreto a
quella  che la stessa sentenza citata definisce "scala di graduazione
individuata  nel  minimo  e  massimo  edittale"  dal  legislatore; in
mancanza  di  tale  scala  il  potere  del  giudice si tradurrebbe in
arbitrio.  Tale  graduazione,  tuttavia, prosegue la Corte, "non deve
eccedere   il   margine   di   elasticita'  necessario  a  consentire
l'individualizzazione   della   pena,   secondo   i  criteri  di  cui
all'art. 133  c.p.  e  che  manifestamente risulti non correlato alla
variabilita'  delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive
rapportabili     alla    fattispecie    astratta.    Altrimenti    la
predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe solo
apparente  ed  il  potere  conferito  al giudice si trasformerebbe da
potere discrezionale a potere arbitrario.".
    Dell'ampiezza  del  margine  tra  minimo  e  massimo  della  pena
concesso  al giudice si e' gia' detto: si va da un minimo di due anni
(o  meno,  se  applicati  i  riti  alternativi) ad un massimo di anni
ventiquattro.  "L'individuazione  del disvalore oggettivo di un fatto
reato  tipico,  e  del  diverso  grado  di  offensivita',  spetta  al
legislatore  mentre al giudice compete valutare la particolarita' del
caso  singolo  onde  individualizzare  la  pena  e  le  due  sfere di
attivita' non vanno confuse".
    Nell'ipotesi  prevista dall'art. 262 c.p. il legislatore ha, come
si  e'  detto,  effettuato  una qualche graduazione, prevedendo delle
aggravanti,  che  aumentano il limite minimo di pena in caso di fatto
commesso  in  tempo  di  guerra e per motivi di spionaggio politico o
militare.  Tuttavia  tali  aggravanti, legislativamente previste, non
paiono  sufficienti  a determinare con sufficiente certezza i criteri
ai quali il giudice di merito deve attenersi nel quantificare la pena
in  caso di rivelazione di notizie delle quali l'autorita' competente
ha   vietato   la   divulgazione,  tanto  piu'  ove  si  tenga  conto
dell'estrema incertezza sul precetto dettato dalla norma di cui sopra
si  e'  detto.  Non  sembra  che i criteri dettati dall'art. 133 c.p.
siano  sufficienti a indirizzare il giudice nella sua valutazione del
disvalore  del  fatto,  che,  si  ricordi, riguarda comunque un reato
contro la personalita' dello Stato. L'eccessivo divario tra il minimo
ed  il  massimo  sembra  di fatto risolversi nell'affidare al giudice
ogni  valutazione sul disvalore oggettivo del fatto, valutazione che,
come  affermato  dalla  sentenza  citata, spetterebbe al legislatore,
tanto  piu'  trattandosi  di  reati  che concernono la massima tutela
dello  Stato  dovendo  il giudice solo valutare il disvalore concreto
del  fatto  portato  al  suo giudizio, all'interno di una valutazione
oggettiva fornitagli dal legislatore.
    Anche sotto questo profilo, pertanto, ad avviso di questo giudice
puo'  sollevarsi  eccezione  di incostituzionalita' in relazione alla
norma dell'art. 262 c.p.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 262  c.p. in relazione agli
artt. 3 e 25 della Costituzione.
    Dispone  la  sospensione  del  procedimento  penale e l'immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    La  presente  ordinanza  viene  notificata  mediante  lettura  in
udienza  al p.m. e agli imputati che sono o devono ritenersi presenti
ai sensi dell'art. 420-quater c.p.p.
    Si  ordina  che,  a  cura  della cancelleria, venga notificata al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e comunicata ai Presidenti
della Camera e del Senato.
        Genova, addi' 22 febbraio 2001
                         Il giudice: Rubini
01C0848