N. 928 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 maggio 2001

Ordinanza   emessa   il   2 maggio   2001   (prevenuta   alla   Corte
costituzionale  il  12 novembre  2001)  dal  tribunale di Potenza nel
procedimento penale a carico di Scaccuto Michele ed altri

Processo   penale  -  Prove  Testimonianza  indiretta  -  Divieto  di
  testimonianza  degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria sul
  contenuto   delle  dichiarazioni  acquisite  da  testimoni  con  le
  modalita'  di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b) cod.
  proc.  pen. - Violazione del principio di eguaglianza - Lesione del
  principio di ragionevolezza, del diritto di difesa e del diritto di
  sicurezza   dei  consociati  -  Violazione  del  principio  di  non
  dispersione  dei  mezzi di prova - Contrasto con il principio della
  parita' tra accusa e difesa.
- Codice  di  procedura  penale,  art.  195, comma 4, come modificato
  dall'art. 4 della legge 1 marzo 2001, n. 63.
- Costituzione, artt. 2, 3, 24, 25, 97, 101, 111 e 112.
Processo   penale   -   Dibattimento   -   Contestazioni   nell'esame
  testimoniale  -  Dichiarazioni  precedentemente  rese  da teste che
  rifiuti  o  comunque  ometta,  in tutto o in parte, di rispondere -
  Mancata previsione di lettura e contestazione delle stesse da parte
  delle  parti  -  Mancata previsione, altresi', che le dichiarazioni
  utilizzate per la contestazione siano acquisite al fascicolo per il
  dibattimento  e possano concorrere, unitamente ad altri elementi di
  prova  che  ne confermano l'attendibilita', a fondare il prudente e
  libero   convincimento  del  giudice  sull'oggetto  della  prova  -
  Incidenza   sulla  funzione  svolta  dal  giudice  penale  e  sulla
  efficacia  della  legge penale sostanziale - Violazione del diritto
  di  azione  della parte pubblica e della parte civile - Lesione dei
  diritti   inviolabili  dell'uomo  -  Violazione  del  principio  di
  ragionevolezza.
- Codice  di  procedura  penale, art. 500 come modificato dall'art. 4
  (recte: dall'art. 16) della legge 1 marzo 2001, n. 63.
- Costituzione, artt. 2, 3, 24, 25, 101, 111 e 112.
(GU n.47 del 5-12-2001 )
                            IL TRIBUNALE

    All'udienza del 1 aprile 2001 nel processo n. 107/1997 R.G. Trib.
Potenza  a  carico di Michele Scaccuto ed altri il Pubblico Ministero
ha  eccepito  la  incostituzionalita'  degli  artt. 195  c.p.p., come
modificato  dall'art. 4 legge 1 marzo 2001, n. 63, recante "Modifiche
al  codice  penale  e  di procedura penale in materia di formazione e
valutazione  della  prova in attuazione della legge costituzionale di
riforma   dell'art. 111   della  Costituzione",  e  500  c.p.p,  come
modificato  dall'art. 16  legge  1  marzo 2001, n. 63. Le ragioni del
contrasto  con  la  Carta fondamentale sarebbero le stesse, ad avviso
della  parte  pubblica, gia' fatte proprie dalla Corte costituzionale
con  le  sentenze nn. 24 del 1992 e 111 del 1993, per quanto riguarda
la  prima  disposizione  impugnata, e nn. 255 del 1992 e 111 del 1993
per  quanto  attiene  alla  seconda:  alle motivazioni delle sentenze
citate   il   P.M.   si  e'  riportato  integralmente.  Sussisterebbe
contrasto, in buona sostanza, tra gli artt. 195 e 500 c.p.p., come di
recente  novellati, ed il principio di rango costituzionale della non
dispersione  dei  mezzi  di  ricerca della prova, essendo il processo
penale  volto  alla  ricerca  della  verita' storica e non gia' della
verita'  processuale  -  artt. 3,  24,  25,  101,  111,  112 Cost. -;
l'art. 195,  inoltre, sarebbe contrario a canoni di ragionevolezza ed
eguaglianza   -   art. 3  Cost.  -  (si  allega  verbale  di  udienza
dell'11 aprile 2001, sub n. 1).
    La  causa  e'  stata  rinviata,  sentite le parti, per le ragioni
indicate nel relativo verbale, all'odierna udienza.
    Osserva il Tribunale quanto segue.
    La  questione sulla legittimita' costituzionale dell'art. 195, 4o
comma,  c.p.p. e' nel presente processo concreta e rilevante, perche'
il   giudizio   non  puo'  essere  definito  indipendentemente  dalla
risoluzione   della  stessa:  facendo  applicazione  di  tale  norma,
infatti,  il  tribunale  dovrebbe  vietare  al  teste Maresciallo dei
Carabinieri   Vincenzo   Anobile,   che   e'   indicato  nella  lista
testimoniale  regolarmente  depositata ed autorizzata come persona in
grado di riferire "sulle dichiarazioni di Arcieri Margherita, Scarano
Mario  e Scarano Luciano" (testi gia' escussi alle udienze 3 novembre
1998,  la  prima,  e  20 aprile  1999, gli altri due), di riferire le
dichiarazioni  rese  da  persone  informate sui fatti nel corso delle
indagini  preliminari  e  regolarmente verbalizzate. La norma infatti
recita:  "Gli  ufficiali  e  gli  agenti  di  polizia giudiziaria non
possono  deporre  sul  contenuto  delle  dichiarazioni  acquisite  da
testimoni  con  le  modalita'  di  cui agli artt. 351 e 357, comma 2,
lettere a) e b)".
    Inoltre, essa e' non manifestamente infondata, per le ragioni che
si passa ad illustrare.
    Le  disposizioni  costituzionali  violate  dalla  norma della cui
legittimita'  il  Tribunale  dubita sono le seguenti: artt. 2, 3, 24,
25,  97,  101, 111, 112. Da esse, considerate sia in se' che valutate
complessivamente  e  nelle  reciproche  interferenze,  si  traggono i
seguenti  valori  di  rango  super-legislativo:  eguaglianza  tra  le
persone,   formale   e  sostanziale  (art. 3);  ragionevolezza  delle
previsioni legislative (art. 3); diritto di difesa, nell'accezione di
difesa non solo dell'imputato ma anche delle persone offese dei reati
(art. 24); diritto alla sicurezza dei consociati e correlativo dovere
per  lo  Stato  di  mantenere  la  pace  tra  di  essi, dovere cui e'
strumentale  la  repressione dei reati, la ricerca dei responsabili e
l'accertamento  giusto  e  rapido  della responsabilita' penale degli
imputati  colpevoli e della innocenza di quelli incolpevoli (artt. 2,
3,  25,  97, 111 e 112); principio della non dispersione dei mezzi di
prova  nell'interesse  della  giustizia  e della ricerca nel processo
penale   della  verita'  storica  e  non  gia'  di  quella  meramente
processuale  (artt. 3,  24,  25, 97, 101, 111 e 112); principio della
parita' tra accusa e difesa (artt. 3, 24, 111 e 112).
    Valori  costituzionali  che  non sono rispettati dalla previsione
dell'art. 195 c.p.p., come recentemente modificato dal legislatore.
    Tale  disposizione  prevede  in  primo luogo che la testimonianza
indiretta  e' ammessa, purche' il teste indichi la persona o la fonte
da  cui  ha  appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame (1o e 7o
comma);  la  persona-fonte deve essere chiamata a deporre a richiesta
di  parte ovvero puo' essere convocata d'ufficio (1o e 2o comma). Se,
nonostante  la  richiesta  della  parte, le persone indicate non sono
state   esaminate,   la   testimonianza  indiretta  non  puo'  essere
utilizzata,   salvo   che   l'esame   delle  persone  stesse  risulti
impossibile  per  morte,  infermita'  o irreperibilita' (comma 3). Il
comma 4,  sostituito dall'art. 4 legge 1 marzo 2001, n. 63, vieta poi
la  testimonianza  indiretta  degli  ufficiali di polizia giudiziaria
sulle  dichiarazioni  loro  rese  dalle persone informate sui fatti e
verbalizzate  con  le modalita' di cui agli artt. 351 e 357, comma 2,
lettere  a)  e b): "Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria
non  possono  deporre  sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da
testimoni  con  le  modalita'  di  cui agli artt. 351 e 357, comma 2,
lettere  a)  e  b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei
commi 1, 2 e 3 del presente articolo".
    La  eccezione posta dal comma 4 dell'art. 195 c.p.p alla generale
disciplina   dell'art. 195   e   alla   capacita'   di   testimoniare
appartenente ad ogni persona (art. 196, 1o comma, c.p.p., espressione
dell'art. 3  della Costituzione) e' sfornita di qualsiasi ragionevole
giustificazione.  Posto  infatti che il legislatore esclude qualsiasi
ipotesi  di incompatibilita' a testimoniare della polizia giudiziaria
(v.  art. 197  c.p.p.  sia  nella  versione  previgente che in quella
introdotta  dall'art.  5  legge  1  marzo  2001,  n. 63),  a meno che
l'appartenente alla stessa abbia svolto le funzioni di ausiliario del
pubblico  ministero  (art. 197,  comma  1o,  lett. d), c.p.p.); posto
altresi'  che  il diritto vivente comunque considera l'ipotesi di cui
alla  lett. d) dell'art. 197, 1o comma, non come una incompatibilita'
assoluta  a  testimoniare  ma  solo  come  un  divieto  di deporre su
circostanze  e  fatti  appresi  nella funzioni ausiliarie e non anche
sull'attivita' svolta in qualita' di ufficiale di polizia giudiziaria
nello  svolgimento  delle proprie funzioni istituzionali, al di fuori
quindi  dell'assistenza  prestata al singolo atto del magistrato (v.,
per  tutte,  Cass.,  Sez.  IV,  23 novembre  2000, rel. Marzano, ric.
Bougamni,  in Guida Dir., 2000, n. 15, p. 88); ne discende che non si
comprende  affatto  perche'  agli appartenenti alla p.g. debba essere
inibita   quella  particolare  forma  di  testimonianza,  che  e'  la
testimonianza  indiretta,  naturalmente  entro  i  limiti  e  con  le
garanzie  di  cui  all'art. 195  c.p.p.  Si  consideri infatti quanto
segue.
    1)  Come  gia'  sostenuto dalla Consulta nella parte motiva della
sentenza  n. 24  del  1992,  infatti,  "non  si puo' certo sostenere,
nemmeno  in via di mera astrazione, che gli appartenenti alla polizia
giudiziaria  siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune;
a  prescindere  dalla palese assurdita' di una ipotesi siffatta, essa
risulterebbe poi in insanabile contraddizione col ruolo e la funzione
che  la legge attribuisce alla polizia giudiziaria (v. l'art. 55 e il
titolo  IV  del  libro  V  del  codice di procedura penale)", polizia
giudiziaria  che,  si  consideri, dipende funzionalmente dal Pubblico
Ministero (artt. 109 della Cost. e 55, 56, 58, 59, 326, 327, 347, 348
c.p.p.),  il  quale,  anche  abbandonata  la risalente definizione di
"parte   imparziale",   e'  certamente  magistrato  in  posizione  di
indipendenza  e  promotore  pubblico  di giustizia (cfr. sul punto le
sentenze  nn. 88  del 1991 e 111 del 1993 della Corte Costituzionale)
ed  infatti  ha  il  dovere  di  svolgere  "accertamenti  su  fatti e
circostanze   a   favore  della  persona  sottoposta  alle  indagini"
(art. 358 c.p.p.), "veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e
regolare  amministrazione  della  giustizia" (art. 73, 1o comma, R.D.
30 gennaio  1941, n. 12), tanto che puo' sempre "proporre ricorso per
cassazione nell'interesse della legge" (art. 77 R.D. 30 gennaio 1941,
n. 12).
    2)  "Ne'  puo'  ritenersi che proprio dall'attivita' svolta nella
fase    delle    indagini    preliminari   derivi   una   ragionevole
giustificazione atta a sorreggere il divieto di cui si discute. Si e'
gia'  osservato  che, se si trattasse di una incompatibilita' di tale
natura,   essa   avrebbe   dovuto   trovare   esplicita  collocazione
nell'art. 197  c.p.p.,  dove non ne e' traccia" - gia' ha ritenuto la
Corte  costituzionale  nella  citata  sentenza n. 24 del 1992 -. Tale
rilievo  e'  rafforzato dalla constatazione che nemmeno nel novellato
art. 197  c.p.p.  (ad  opera  della  legge 1 marzo 2001, n. 63) vi e'
traccia di una siffatta incompatibilita' a deporre.
    3)  Ed  ancora, "la palese irragionevolezza della norma impugnata
viene  ancor  piu'  chiaramente  in  luce  ove si consideri che [...]
possono  verificarsi  casi  in  cui  la testimonianza indiretta della
polizia  giudiziaria che ha operato nell'immediatezza venga ad essere
addirittura fondamentale per l'accertamento dei fatti, quando l'esame
dei  testimoni-fonte  obbligatoriamente  indicati sia impossibile per
morte,  infermita' o irreperibilita' (art. 195 comma 3): tali ipotesi
[...]  possono,  del resto, riguardare anche la difesa dell'imputato"
(Corte  Cost.,  sent. n. 24 del 1992). Ed e' ancora piu' evidente che
la  richiamata  previsione  posta  dall'art. 195,  3o  comma,  c.p.p.
conferma   che  il  divieto  in  esame  non  concreta  un'ipotesi  di
incompatibilita' a testimoniare.
    4)  "Ne'  si  potrebbe  obiettare  [sempre  ad avviso della Corte
Costituzionale  nella parte motiva della sentenza n. 24 del 1992] che
il  divieto  di testimonianza indiretta nei confronti degli ufficiali
ed  agenti  di  polizia giudiziaria trovi un'adeguata giustificazione
nei  principi  generali  che  informano  il nuovo processo penale. Il
metodo  orale  (art. 2  n. 2 legge delega) costituisce certamente uno
dei  principi  informatori  del codice vigente, ed in base ad esso il
convincimento  del  giudice  deve  essenzialmente formarsi sulla base
delle  prove  che  si  assumono  al  dibattimento  nella pienezza del
contraddittorio. Ma con tale principio non solo non contrasta ma anzi
si conforma pienamente la testimonianza degli appartenenti attraverso
dichiarazioni  loro rese da altre persone, testimonianza da assumersi
nei  modi e nelle forme rigorosamente prescritti dell'esame diretto e
del  controesame  [...]  L'oralita' della prova e' fuori discussione,
mentre   il   diritto  di  difesa  e'  comunque  tutelato  attraverso
l'interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone".
    Si  potrebbe,  ancora,  sostenere  che gli appartenenti alla p.g.
hanno  una posizione istituzionale che li potrebbe portare, per cosi'
dire,  a  "parteggiare"  naturalmente, sia pure in buona fede, per la
tesi  sostenuta  dalla  pubblica  accusa.  Il che non toglie che essi
hanno  come  e  piu'  di  tutti  il  dovere,  penalmente assistito da
sanzioni certo non risibili, di deporre secondo verita' e che le loro
dichiarazioni, e specialmente quelle de relato, non soltanto non sono
assistite da alcuna fede privilegiata ma debbono essere sottoposte ad
attento  un vaglio di credibilita' da parte del giudice, alla pari di
quelle  rese  da  qualsiasi  testimone,  affinche'  su  di esse possa
fondarsi un giudizio di penale responsabilita'.
    Per  tutte  le  ragioni esposte, e comunque per tutte quelle gia'
poste  a  fondamento della sentenza della Consulta n. 24 del 1992, da
ritenersi  integralmente  richiamate  in  questa sede, si chiede alla
Corte  Costituzionale  di dichiarare la illegittimita' costituzionale
dell'art. 195,  4o  comma,  c.p.p., per evidente contrasto coi canoni
sopra richiamati.
    Potrebbe,  ancora, obiettarsi che, rispetto alla citata pronunzia
del  1992,  e'  mutato  il  quadro  giuridico di riferimento, essendo
intervenuta  la  importante  modifica  costituzionale consistente nel
novellato   testo   dell'art. 111   (legge  costituzionale  n. 2  del
23 novembre 1999).
    L'obiezione   pero'   sarebbe  priva  di  fondamento  perche'  il
principio  secondo  il  quale  "il  processo  penale  e' regolato dal
principio  del  contraddittorio  nella  formazione  della  prova" non
implica  affatto - ne' puo' implicare - il divieto per l'appartenente
alla  p.g.  di  porre  in essere dichiarazioni de relato: nel vigente
assetto  processuale,  infatti,  la  prova  viene assunta in udienza,
innanzi  a  giudice  terzo, imparziale ed all'oscuro degli atti delle
investigazioni  preliminari,  attraverso  l'esame  ed  il controesame
condotto  delle parti, ciascuna delle quali ha il diritto di chiedere
al  giudice,  privo  di  discrezionalita'  in merito, di convocare il
testimone-fonte (art. 195, 1o comma, c.p.p.), disposizione rafforzata
dalla   previsione   della   inutilizzabilita'   della  testimonianza
indiretta (art. 195, 3o comma, c.p.p.).
    Anche    la    questione    sulla   legittimita'   costituzionale
dell'art. 500 c.p.p, nel presente processo non e' meramente ipotetica
ma  concreta  e  rilevante,  non  potendo il giudizio essere definito
indipendentemente    dalla    risoluzione   della   stessa:   facendo
applicazione  di  tale  norma  nel  caso  di  specie il Tribunale non
potrebbe acquisire le dichiarazioni rese in precedenza dal teste, che
dichiari  di  non  rammentare  a  causa  del decorso del tempo. Ed e'
principio  gia'  affermato  dal  giudice delle leggi che il controllo
sulla  valutazione  della  rilevanza compiuta dal giudice rimettente,
nel   ritenere  di  dover  fare  applicazione  della  norma  al  caso
sottoposto  al  suo esame, consiste nella verifica di una ragionevole
possibilita'  che  la  disposizione  denunziata  sia  applicabile nel
giudizio  a  quo (Corte Cost., 19 giugno 1998, n. 227; ld., 18 aprile
1996, n. 117; ld., 12 novembre 1991, n. 409).
    Appare  opportuno  richiamare il testo del nuovo art. 500 c.p.p.,
sostituito dall'art. 16 legge 1 marzo 2001, n. 63, che recita:
        1.  -  Fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti,
per  contestare  in  tutto o in parte il contenuto della deposizione,
possono   servirsi   delle  dichiarazioni  precedentemente  rese  dal
testimone  e  contenute  nel  fascicolo  del pubblico ministero. Tale
facolta' puo' essere esercitata sola se sui fatti o sulle circostanze
da contestare il testimone abbia gia' deposto.
        2.  -  Le  dichiarazioni  lette  per la contestazione possono
essere valutate ai fini della credibilita' del teste.
        3.  -  Se  il  teste  rifiuta  di  sottoporsi  all'esame o al
controesame  di  una delle parti, nei confronti di questa non possono
essere  utilizzate,  senza  il suo consenso, le dichiarazioni rese ad
altra   parte,   salve  restando  le  sanzioni  penali  eventualmente
applicabili al dichiarante.
        4.   -   Quando,   anche   per   le  circostanze  emerse  nel
dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone
e'  stato  sottoposto  a  violenza,  minaccia, offerta di denaro o di
altra  utilita',  affinche'  non  deponga ovvero deponga il falso, le
dichiarazioni   contenute   nel   fascicolo  del  pubblico  ministero
precedentemente  rese  dal  testimone sono acquisite al fascicolo del
dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate.
        5.  -  Sull'acquisizione  di cui al comma 4 il giudice decide
senza  ritardo,  svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su
richiesta  della  parte,  che  puo' fornire gli elementi concreti per
ritenere  che  il  testimone e' stato sottoposto a violenza minaccia,
offerta o promessa di denaro o di altra utilita'.
        6. - A  richiesta  di  parte,  le  dichiarazioni  assunte dal
giudice  a  norma  dell'art. 422  sono  acquisite  al  fascicolo  del
dibattimento  e sono valutate ai fini della prova nei confronti delle
parti  che  hanno  partecipato  alla  loro  assunzione, se sono state
utilizzate per le contestazioni previste dal presente articolo. Fuori
dal   caso   previsto   dal   periodo  precedente,  si  applicano  le
disposizioni di cui ai commi 2, 4 e 5.
        7. - Fuori dai casi di cui al comma 4, su accordo delle parti
le  dichiarazioni  contenute  nel  fascicolo  del  pubblico ministero
precedentemente  rese  dal  testimone sono acquisite al fascicolo del
dibattimento.
    Ad  avviso  del  tribunale,  la  questione  di  costituzionalita'
dell'art. 500 c.p.p. e' non manifestamente infondata perche' la norma
appare  contrastare  con gli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 111 e 112 Cost.
nella   parte   in  cui  preclude  al  giudice  di  valutare,  previa
acquisizione del documento che le contiene, le dichiarazioni rese dai
testi  al  pubblico  ministero contenute nel fascicolo delle indagini
preliminari e delle quali si e' data lettura per le contestazioni.
    La   attuazione   del  giusto  processo  voluta  dal  legislatore
costituente,   infatti,  con  tutte  le  sue  naturali  e  necessarie
implicazioni,  non  puo'  e  non  deve precludere al giudice di avere
piena cognizione dei fatti.
    Gia'  nella  motivazione della sentenza n. 255 del 1992, la Corte
costituzionale ha avuto modo di rilevare quanto segue.
    "2.1 - [...] L'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo
sistema,  non  rappresenta,  nella  disciplina del codice, il veicolo
esclusivo  di formazione della prova del dibattimento; cio' perche' -
e'  appena  il  caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del
processo  penale  non  puo'  che  rimanere quello della ricerca della
verita'  (in  armonia  coi  principi  della  Costituzione.  come reso
esplicito nell'art. 2, parte I, e nella direttiva n. 73 legge-delega,
tradottasi  nella  formulazione  degli artt. 506 e 507; cfr. anche la
sentenza  n. 258  del  1991  di questa Corte), di guisa che in taluni
casi  la  prova  non  possa,  di  fatto,  prodursi  oralmente e' dato
rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
atti  formatisi  oralmente prima ed al di fuori del dibattimento. Che
la  volonta'  del  legislatore  esprima  anche  un  principio  di non
dispersione  dei  mezzi  di prova emerge con evidenza da tutti quegli
istituti  che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla
utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di esser surrogati (o
compiutamente  e  genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale
[...]
    2.2  -  [...]  Il sistema accusatorio positivamente instaurato ha
prescelto  la  dialettica  del  contraddittorio  dibattimentale quale
criterio  maggiormente  rispondente  all'esigenza  di  ricerca  della
verita'; ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo
sistema  processuale,  il principio di non dispersione degli elementi
di  prova  non  compiutamente  (o  non  genuinamente) acquisibili col
metodo  orale.  Proprio  sotto  questo  profilo,  e  cioe' proprio in
raffronto  al  sistema  nel  cui  ambito e' destinata ad inserirsi la
norma   impugnata   [l'originario   comma   3  dell'art. 500  c.p.p.,
corrispondente  al  vigente  comma 2] appare priva di giustfficazione
ponendo  in  essere  una irragionevole preclusione alla ricerca della
verita' [...] la norma in esame istituisce pertanto una irragionevole
regola  di  esclusione  che,  non solo puo' giocare cosi' a vantaggio
come  a  danno  dell'imputato,  ma  e'  suscettibile di ostacolare la
funzione  stessa del processo penale proprio nei casi nei quali si fa
piu'  pressante  l'esigenza  di  difesa  della  societa' dal delitto,
quando  per  di  piu'  il  ricorso all'intimidazione dei testimoni si
verifica assai di frequente.
    2.3  - Del resto, la preoccupazione di assicurare che elementi di
prova  non  siano  dispersi  nei  casi  di  possibile intimidazione o
corruzione  di testimoni affinche' non depongano o depongano il falso
e',  come  la stessa norma rende esplicito, alla base dell'ipotesi di
incidente  probatorio  prevista dall'art. 392 comma 1 lett. b); ma se
detta esigenza e' stata ritenuta a tal punto meritevole di tutela dal
legislatore  da  farne  oggetto  di  apposita previsione, risulta del
tutto  incoerente che, ove lo stesso effetto che si vuole scongiurare
sia  accertato  soltanto  a posteriori (mediante la deposizione di un
teste  che  appaia manifestamente falso o reticente), valga un regime
opposto:  e  cioe'  quello  della  totale  inutilizzabilita', al fine
dell'accertamento  dei fatti, delle precedenti dichiarazioni ritenute
inattendibili.
    3. - [...]  posto che il nuovo codice fa salvo (e, in aderenza ai
principi  costituzionali,  non  poteva esser altrimenti) il principio
del  libero  convincimento,  inteso  come  liberta'  del  giudice  di
valutare  la  prova  secondo  il  proprio prudente apprezzamento, con
obbligo  di  dare  conto  in  motivazione  dei criteri adottati e dei
risultati  conseguiti (art. 192), la norma in esame impone al giudice
di  contraddire  la  propria  motivata convinzione nel contesto della
stessa  decisione  [...] in quanto, se la precedente dichiarazione e'
ritenuta  veritiera,  e  per  cio'  stesso  sufficiente  a  stabilire
l'inattendibilita'  del  teste  nella  diversa  deposizione  resa  in
dibattimento,  risulta  chiaramente  irrazionale  che essa, una volta
introdotta  nel giudizio, entrata quindi nel patrimonio di conoscenze
del  giudice,  ed  esaminata  nel contraddittorio delle parti (con la
presenza   del   teste   che  rimane  comunque  sottoposto  all'esame
incrociato), non possa essere utilmente acquisita al fine della prova
dei fatti in essa affermati".
    Tali  argomenti  sono  pienamente condivisi dal tribunale, che ne
ritiene la perdurante validita' anche nel mutato assetto normativo.
    Perche'  va  ribadito  con  decisione che il fine ineludibile del
processo  penale  e' quello della ricerca della verita' storica e non
gia'  meramente  processuale;  diversamente orientato, come noto, e',
sia  pure  solo  tendenzialmente  pero',  il  processo civile, il cui
oggetto  consiste,  di  regola, in diritti disponibili, e che infatti
coerentemente   ammette  un  tipo  di  prova  dal  valore  legalmente
predeterminato - il giuramento decisorio, -. E che il sistema penale,
inoltre,   deve   necessariamente  assicurare  al  giudice  la  piena
conoscenza  dei  fatti  onde  consentirgli di pervenire ad una giusta
decisione.  Si  tratta  di  principi  affermati in svariate occasioni
dalla  Consulta, tra l'altro nelle sentenze nn. 241 del 1992, 254 del
1992 e 111 del 1993.
    Ebbene,  nel  caso  in  cui  il teste non confermi a dibattimento
quanto dichiarato in precedenza, il sistema introdotto con la novella
del   1   marzo   2001   prevede  una  "lettura-contestazione"  senza
acquisizione:  le  dichiarazioni oggetto di contestazione non possono
costituire  prova  dei  fatti  in  essi affermati, ma solo servire in
chiave   critica   per   valutare  la  credibilita'  del  teste,  con
l'eventuale  effetto  di  paralizzare  l'efficacia  probatoria  delle
dichiarazioni  difformi  rese  a  dibattimento,  mentre  e' piuttosto
problematico   ritenere   che   la  dichiarazione  dibattimentale  di
smentita,  sia  essa totale o parziale, di quanto detto in precedenza
possa  essere  idonea a far ritenere dimostrati, in positivo, i fatti
negati  in  udienza  cosi'  come descritti nella prima versione. E se
sinora  i  profili problematici sono non pochi e non lievi, l'aspetto
che  il legislatore ha totalmente obliterato, come posto in luce gia'
nel  primi  commenti  dottrinali  sul  tema,  e'  la disciplina degli
effetti del silenzio del teste dovuto a carenza di ricordi, in genere
a  causa  del  lungo,  e talora lunghissimo, decorso del tempo tra la
verificazione  degli  accadimenti e l'accertamento giudiziale. Non e'
affatto  scontato  che  il  vuoto  normativo  sul  punto autorizzi la
lettura  -  contestazione,  sia pure senza acquisizione, prevista dal
legislatore:  ma  anche  a  voler ritenere ammesso tale meccanismo di
lettura    finalizzata    alla   contestazione   (tale   infatti   e'
l'interpretazione   accolta  dal  tribunale),  la  impossibilita'  di
acquisire  il  verbale  delle  precedenti  dichiarazioni  preclude in
maniera  ingiustificabile  al  giudice  di avere piena conoscenza dei
fatti  che  deve  giudicare e limita, sino a snaturarla, la peculiare
funzione  del  giudice penale (artt. 101 e Cost.), priva di efficacia
la  legge  penale  sostanziale  (art. 25  Cost.),  viola  il  diritto
costituzionale  di  azione  della parte pubblica e della parte civile
(artt.  3,  24  e  112  Cost.),  svuota di effettiva tutela i diritti
inviolabili   dell'individuo   riconosciuti   dalla   costituzione  e
salvaguardati  dalla  legge  penale  (artt. 2,  25,  112  Cost.). Non
occorre aggiungere altro per convenire che e' nel contempo gravemente
ferito il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
    In  sostanza, dunque, il legislatore ha ripristinato la regola di
esclusione    probatoria    gia'   posta   nell'originaria   versione
dell'art. 500 c.p.p. e gia' giudicata non conforme a Costituzione dal
giudice  delle  leggi  nella  richiamata sentenza n. 255 del 1992 per
irragionevole  contrasto  con  i principi della non dispersione delle
fonti di prova e del libero convincimento del giudice.
    Anche  in  questo  caso  si potrebbe obiettare che l'introduzione
dell'art. 111   della   Costituzione   ha   mutato   i  parametri  di
riferimento.
    Ma e' evidente, ad avviso del tribunale, che il principio secondo
il   quale   "il  processo  penale  e'  regolato  dal  principio  del
contraddittorio  nella  formazione  della  prova"  non  e violato dal
meccanismo   della   acquisizione   delle   precedenti  dichiarazioni
nell'ipotesi    in   cui   permanga   difformita'   all'esito   della
lettura-contestazione.   Ed   e'   sul  punto  necessario  richiamare
integralmente  tutte  le  argomentazioni ampiamente e persuasivamente
svolte  dalla  Consulta  nelle motivazioni delle note sentenze n. 255
del  1992  e  naturalmente  mutatis  mutandi  n. 361  del 1998, ed in
particolare  i  seguenti  passaggi  tratti  dalla ultima delle citate
sentenze:
    "Sul  piano  costituzionale, viene [...] in gioco la funzione del
processo  penale,  che  e'  strumento,  non  disponibile dalle parti,
destinato  all'accertamento  giudiziale  dei  fatti  di  reato  delle
relative  responsabilita'.  Tale  funzione non puo' essere utilizzata
per  attenuare  la  tutela  -  piena  e incoercibile - del diritto di
difesa,  coessenziale  allo  stesso processo. Sono invece censurabili
sotto  il  profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non
necessarie  per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la
funzione del processo";
    "[...]  funzione  essenziale del processo [...] e' appunto quella
di  verificare  la  sussistenza  dei  reati oggetto del giudizio e di
accertare le relative responsabilita'. Da un lato, non e' conforme al
principio   costituzionale   di  ragionevolezza  una  disciplina  che
precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova
raccolti  legittimamente  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
nell'udienza preliminare; dall'altro, la tutela del diritto di difesa
impone  che  l'ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze
del  giudice  sia  subordinato  alla  possibilita'  di  instaurare il
contraddittorio   tra   il   dichiarante   e  il  destinatario  delle
dichiarazioni".
    Infatti,  il  contraddittorio,  l'oralita'  e l'immediatezza sono
salvaguardate  dal  meccanismo dell'esame e del controesame, condotto
dalle  parti,  del  teste  sia  che  risponda,  sia che si rifiuti di
rispondere,  sia  che risponda solo parzialmente, sia che non ricordi
nulla,   sia   che   ricordi   solo   in   limitata   misura.   E  le
letture-contestazioni  e  le  eventuali  successive acquisizioni sono
pienamente  compatibili  col  contraddittorio.  Se  infatti nel corso
dell'esame  il  testimone  rende  una  dichiarazione  difforme  dalla
precedente,  dopo  la  lettura-contestazione  sara' sollecitato dalla
parte  che  conduce  l'esame  a spiegare la contraddizione, quindi le
altre  parti  in  sede  di  controesame  potranno  a loro volta porre
domande  su  tutto  cio'  che  rileva nella loro prospettiva ed anche
sulla   discrasia   ;  all'esito,  il  giudice  potra'  a  sua  volta
intervenire  per  chiedere spiegazioni circa la difformita'. E non e'
seriamente  contestabile,  dunque,  che le dichiarazioni lette per le
contestazioni  non siano assunte in contraddittorio. Ed e' sulla base
delle  risposte  del teste, delle eventuali motivazioni dei suoi "non
ricordo",  della  considerazione del tempo trascorso dai fatti, della
valutazione  dell'atteggiamento  complessivo  del  dichiarante che il
giudice   potra',   nel   suo  prudente  apprezzamento  stimare  piu'
attendibili  le  dichiarazioni  rese a dibattimento o, eventualmente,
quelle  originarie.  Il  giudice dovra' comunque, come e' ovvio, dare
conto dei criteri di giudizio adottati attraverso la motivazione e le
parti potranno avvalersi dei comuni mezzi di impugnazione.
    Affinche'  il giudice abbia una corretta piattaforma cognitiva e'
indispensabile  che  possa  acquisire  e  poter valutare con prudente
apprezzamento  le  dichiarazioni  rese  in  precedenza e regolarmente
acquisite,  nell'ipotesi che vi sia una qualche forma di difformita',
lato sensu intesa, tra le dichiarazioni dibattimentali e le prime.
    La  soluzione  adottata dal legislatore della riforma, invece, fa
dipendere  da  un evento assolutamente imprevedibile, incontrollabile
e,   in  estreme  ipotesi-limite,  capriccioso,  la  decisione  sulle
controversie  penali.  Ed  e' ben vero che il teste falso o reticente
potra' andare incontro a sanzioni penali anche di una certa gravita',
ma  cio'  che  rileva  nel processo principale non e' incrementare il
numero  dei  processi  penali  trasmettendo  gli  atti contro i testi
quanto  giungere  ad  un  accertamento  serio, completo, equilibrato,
giusto,  in  ordine  ai  fatti di reato per cui il P.M. ha esercitato
l'azione   penale,   punendo   secondo   giustizia  chi  si  e'  reso
responsabile di delitti ed offrendo un ristoro anche solo morale alle
vittime  ma  pure  restituendo  l'onore,  la liberta' personale ed il
patrimonio  agli  imputati  innocenti. Ed e' quindi indispensabile un
meccanismo  rigoroso  nelle  modalita'  di  acquisizione delle prova,
quale  e' quello dell'esame e del controesame condotto dalle parti in
pubblica  udienza in posizione di parita' innanzi ad un giudice terzo
ed   imparziale,  ma  congegnato  in  modo  tale  da  non  disperdere
irragionevolmente le fonti di prova, da non costringere il giudice ad
una  presa  d'atto  quasi notarile delle dichiarazioni o del silenzio
del  teste, da salvaguardare in ultima analisi il principio di sicura
rilevanza   costituzionale   del  libero  (e  naturalmente  prudente)
convincimento  del  giudice.  Nell'interesse  non  certo  della parte
pubblica,   che   nel  dibattimento  e'  portatore  di  una  tesi  da
dimostrare,  ma  della  giustizia e degli stessi imputati, cui non e'
affatto  detto  che  i  "non  ricordo"  del  teste  possano apportare
vantaggio.
    Ne'  puo'  seriamente dubitarsi che la utilizzazione anche a fini
probatori  (o  potenzialmente  a  fini  probatori)  delle  precedenti
dichiarazioni  rese  dal  teste e lette ed eventualmente acquisite al
fascicolo  per  il  dibattimento sia conforme alla regola secondo cui
"la  colpevolezza  dell'imputato  non  puo' essere provata sulla base
delle  dichiarazioni  rese  da  chi,  per libera scelta, si e' sempre
volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o
del suo difensore" (art. 111 4o comma, Cost.). Le dichiarazioni lette
per  la contestazione presuppongono infatti l'esame ed il controesame
del  testimone e dunque la ampia possibilita' delle parti di chiedere
chiarimenti e di dimostrare la sua attendibilita/inattendibilita'.
    Inoltre,  il  sistema  introdotto  con  la novella fa ricadere il
rischio,  purtroppo piuttosto frequente in un sistema che, nonostante
le  buone  intenzioni (art. 111, 2o comma, Cost., secondo il quale la
legge  assicura  la  ragionevole  durata  del processo), non riesce a
garantire  un  giudizio entro tempi ragionevoli, della dimenticanza e
dell'imperfetto  ricordo  esclusivamente  sul Pubblico Ministero, con
cio'  violando  il  principio  della  parita' delle parti, il diritto
all'azione,  il  diritto  alla  difesa delle parti civili, il diritto
alla  salvaguardia  dei  diritti  fondamentali dell'individuo e delle
formazioni  sociali in cui si svolge la sua personalita' (artt. 2, 3,
24, 25, 112 Cost.).
    E  che  tale  rischio sia imprevedibile, per le plurime cause che
possono  determinare il non ricordo, ma, soprattutto, inevitabile con
gli  strumenti  che l'ordinamento vigente appronta lo si desume dalla
disciplina   dettata  dall'art. 392  c.p.p.  che  regola  l'incidente
probatorio.  A  seguito  della  modifica  introdotta  dall'art. 4, 1o
comma, legge 7 agosto 1997, n. 267, infatti, nel corso delle indagini
preliminari (e nell'udienza preliminare: Corte cost., sent. n. 77 del
1994)  le parti possono sempre chiedere che si proceda all'assunzione
anticipata  con  le  forme  e le garanzie del dibattimento dell'esame
della  persona  sottoposta  alle  indagini  su  fatti  concernenti la
responsabilita'   di   altri   e  all'esame  delle  persone  indicate
nell'art. 210  c.p.p  senza  che  ricorrano  specifici presupposti di
pericolo per la genuinita' della prova, [art. 392, 10 comma, lett. c)
e  d)],  mentre  per  ottenere  l'assunzione  di una testimonianza in
incidente  probatorio e' necessario che sussistano o gravi ragioni di
salute  inerenti  il  teste  che  facciano ritenere probabile che non
potra'  essere  esaminato a dibattimento ovvero il "fondato motivo di
ritenere  che  la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o
promessa  di  denaro  o  di  altra  utilita'  affinche' non deponga o
deponga il falso" [art. 392, 1o comma, let. a) e b), c.p.p.].
    Non vi e' dunque alcun istituto processuale che possa prevenire o
rimediare il fenomeno del mancato o impreciso ricordo del teste. Cio'
che conferma ulteriormente la irragionevolezza della disciplina posta
dall'art. 500 c.p.p.
    Ed  e'  per  tutte  queste  ragioni  che il tribunale chiede alla
Consulta  di  riconoscere  che  la  vigente  disciplina dell'art. 500
c.p.p.  confligge  con  le disposizioni poste dalla Costituzione agli
artt,  2,  3, 24, 25, 101, 111 e 112 e, in conseguenza, di dichiarare
la  norma  impugnata  incostituzionale nella parte in cui non prevede
che, qualora il teste rifiuti o comunque ometta, in tutto o in parte,
di rispondere, anche a causa di mancato o impreciso ricordo, su fatti
e  circostanze gia' oggetto di sue precedenti dichiarazioni contenute
nel  fascicolo  del  Pubblico Ministero, le parti possono procedere a
lettura-contestazione  delle  stesse e nella parte in cui non prevede
che  quando,  a  seguito  della  contestazioni,  permane  difformita'
rispetto  al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate
per  la contestazione sono acquisite al fascicolo per il dibattimento
e  possono  concorrere,  unitamente ad altri elementi di prova che ne
confermano   l'attendibilita',   a   fondare  il  prudente  e  libero
convincimento del giudice sull'oggetto della prova.
                              P. Q. M.
    Il Tribunale di Potenza,
    Visti  gli  art. 1  legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e 23, L. 1
marzo 1953, n. 87;
                              Dichiara
    Rilevante   e   non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 195,  4o  comma, c.p.p., come
modificato  dall'art. 4  L.  10 marzo 2001, n. 63, nella parte in cui
prevede  il  divieto  per  gli  ufficiali  ed  agenti  della  polizia
giudiziaria di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da
testimoni  con  le  modalita'  di  cui agli artt. 351 e 357, comma 2,
lettere  a)  e b), per contrasto con gli artt, 2, 3, 24, 25, 97, 101,
111 e 112 della Costituzione; ed inoltre
                              Dichiara
    Rilevante   e   non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 500  c.p.p.,  come modificato
dall'art. 4 legge 1 marzo 2001, n. 63, nella parte in cui non prevede
che, qualora il teste rifiuti o comunque ometta, in tutto o in parte,
di rispondere, anche a causa di mancato o impreciso ricordo, su fatti
e  circostanze gia' oggetto di sue precedenti dichiarazioni contenute
nel  fascicolo  del  Pubblico Ministero, le parti possono procedere a
lettura-contestazione  delle  stesse e nella parte in cui non prevede
che  quando,  a  seguito  della  contestazioni,  permane  difformita'
rispetto  al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate
per  la contestazione sono acquisite al fascicolo per il dibattimento
e  possono  concorrere,  unitamente ad altri elementi di prova che ne
confermano   l'attendibilita',   a   fondare  il  prudente  e  libero
convincimento del giudice sull'oggetto della prova, per contrasto con
gli  artt.  2,  3,  24, 25, 101, 111 e 112 della Costituzione; e, per
l'effetto,
    Sospende il giudizio in corso nei confronti degli imputati;
    Ordina  trasmettere  gli  atti  alla  Corte  costituzionale ed in
conseguenza  manda  alla  cancelleria  per la notifica della presente
ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente del
Senato,  al  Presidente  della  Camera  dei  Deputati e per tutti gli
adempimenti di legge.
    Ordinanza depositata in udienza.
        Potenza, addi' 2 maggio 2001
                       Il Presidente: Magrone
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