N. 532 ORDINANZA 6 - 18 dicembre 2002

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Misure cautelari - Arresti domiciliari - Autorizzazione al lavoro per
  l'imputato  sottoposto  alla  misura  degli  arresti  domiciliari -
  Condizioni  prescritte  -  Pretesa,  irragionevole,  disparita'  di
  trattamento  rispetto all'autorizzazione concedibile al detenuto in
  carcere  condannato,  con  violazione  del principio della funzione
  rieducativa   della   pena   Non  comparabilita'  delle  situazioni
  confrontate - Manifesta infondatezza della questione.
- Cod. proc. pen., art. 284, comma 3.
- Costituzione,  artt. 1, 2, 3, 4, 13, secondo comma, 27, terzo comma
  e 35.
(GU n.1001 del 27-12-2002 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Riccardo CHIEPPA;
  Giudici:  Gustavo  ZAGREBELSKY,  Valerio  ONIDA,  Carlo MEZZANOTTE,
Fernanda   CONTRI,  Guido  NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto  CAPOTOSTI,
Annibale   MARINI,  Franco  BILE,  Giovanni  Maria  FLICK,  Francesco
AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 284, comma 3,
del codice di procedura penale, promosso con ordinanza dell'8 gennaio
2002 dal Tribunale di Napoli sezione per il riesame, nel procedimento
penale  a  carico  di  C.L. iscritta al n. 259 del registro ordinanze
2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, 1a
serie speciale, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 20 novembre 2002 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che il Tribunale di Napoli solleva, in riferimento agli
artt. 1,  2,  3,  4,  13,  secondo comma, 27, terzo comma, e 35 della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 284,
comma  3, del codice di procedura penale, "nella parte in cui prevede
che  il  giudice  possa  effettuare il giudizio sulla opportunita' di
concedere  al  detenuto  agli arresti domiciliari l'autorizzazione ad
assentarsi  dal  luogo  di  detenzione  per  lo  svolgimento  di  una
attivita'   lavorativa   soltanto  qualora  il  detenuto  "non  possa
altrimenti  provvedere  alle  sue  indispensabili  esigenze di vita ,
ovvero "versi in situazione di assoluta indigenza ";
        che  il  giudice  rimettente  -  dopo  aver sottolineato come
l'art. 284,  comma  3,  cod.  proc. pen. rappresenti esplicazione del
generale principio sancito dall'art. 277 del medesimo codice, in tema
di  salvaguardia  dei  diritti  della  persona  sottoposta  a  misure
cautelari,  cosi' da doversi "perseguire un equilibrato bilanciamento
dei contrapposti interessi coinvolti dal provvedimento coercitivo", e
consentire  al  giudice  la  scelta di modalita' attuative del regime
cautelare  atte  a  sacrificare  il  minimo  indispensabile i diritti
fondamentali della persona - richiama, quale termine di raffronto, il
diverso  regime  che  presiede  alla  autorizzazione  al lavoro per i
detenuti in carcere;
        che,    infatti,   in   base   all'art. 20   dell'ordinamento
penitenziario,  il  lavoro  "nel  caso  di  detenzione  carceraria e'
"obbligatorio  e  con finalita' non produttive ne' afflittive, bensi'
di  natura  rieducativa";  che il detenuto, espiata parte della pena,
puo'  chiedere  alla  autorita'  penitenziaria  di  essere ammesso al
lavoro  all'esterno,  come  dipendente  o  lavoratore  autonomo; che,
infine,  la  direzione  penitenziaria  ammette  il detenuto al lavoro
all'esterno  emanando un provvedimento amministrativo che deve essere
approvato con decreto dal magistrato di sorveglianza;
        che,   inoltre,   "gli   articoli  47-ter,  47-quater  e  47-
quinquies"  della  legge  26 luglio  1975,  n. 354,  nel disciplinare
l'istituto   della   detenzione  domiciliare  per  il  condannato,  a
differenza  di  quanto stabilito dalla norma impugnata, non prevedono
che   per   poter  svolgere  una  attivita'  lavorativa  esterna,  il
condannato  debba  trovarsi  in stato di "assoluta indigenza", ovvero
nella   "impossibilita'   di   provvedere   altrimenti  alle  proprie
indispensabili esigenze di vita";
        che,  pertanto,  svelerebbe "tutta la sua irragionevolezza un
impianto   normativo   il  quale  -  mentre  per  il  rilascio  della
autorizzazione  del lavoro all'esterno dell'istituto penitenziario da
parte  del  detenuto  ristretto  in carcere, ovvero del condannato in
stato  di  detenzione domiciliare", non richiede le condizioni di cui
innanzi  si  e'  detto  -  impone,  invece,  la  sussistenza  di tali
requisiti   ove   la  medesima  autorizzazione  riguardi  la  persona
sottoposta  alla misura cautelare degli arresti domiciliari, malgrado
si  tratti  di  soggetto "istituzionalmente ritenuto socialmente meno
pericoloso";
        che,    di   conseguenza,   tale   irragionevole   disciplina
contrasterebbe,  a  parere  del giudice a quo, anche con il principio
sancito  dall'art. 27,  terzo  comma, della Costituzione, posto che -
sottolinea   il  rimettente  -  "anche  la  custodia  cautelare  deve
uniformarsi"  al  suddetto  principio,  secondo  quanto sarebbe stato
testualmente affermato da questa Corte (sentenza n. 173 del 1997);
        che  sarebbe  violato  anche  l'art. 13, secondo comma, della
medesima  Carta,  in  quanto al giudice sarebbe imposto di dichiarare
inammissibile,  in via preliminare, la richiesta di autorizzazione al
lavoro in mancanza della condizione soggettiva patrimoniale postulata
dall'art. 284,  comma  3,  cod. proc. pen., senza poter in alcun modo
"valutare   il   merito   della   richiesta  stessa  che,  viceversa,
meriterebbe di essere esaminata esclusivamente sotto il profilo della
sua  compatibilita'  con  le esigenze di tutela sociale, alla stregua
della pericolosita' del detenuto";
        che,  infine  - posto che l'indicata condizione "di carattere
soggettivo  patrimoniale"  precluderebbe  al  giudice  di  operare il
doveroso  bilanciamento  tra  il  sacrificio di diritti fondamentali,
come  quello  al lavoro, e le esigenze cautelari - ne deriverebbe, ad
avviso  del  rimettente,  "un irragionevole sacrificio della dignita'
umana  e  professionale",  nonche'  una  "disparita'  di  trattamento
fondata  sulle  sole  condizioni  economiche  del  detenuto",  con la
conseguente  violazione  degli  artt. 1,  primo  comma, 2, 3, 4 e 35,
della Costituzione;
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    Considerato  che  il  giudice  a quo censura l'art. 284, comma 3,
cod.  proc. pen., nella parte in cui prevede che, nei confronti della
persona  sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, il giudice
possa  autorizzare  l'imputato ad assentarsi nel corso della giornata
dal  luogo  dell'arresto  per  esercitare  una  attivita' lavorativa,
soltanto  qualora  l'imputato stesso "non possa altrimenti provvedere
alle sue indispensabili esigenze di vita" ovvero "versi in situazione
di assoluta indigenza";
        che  -  secondo  le prospettive del giudice a quo - il nucleo
delle censure si concentra sulla pretesa, irragionevole disparita' di
trattamento  che sarebbe dato riscontrare tra la disciplina prevista,
in  tema  di autorizzazione al lavoro, per l'imputato sottoposto alla
misura  degli  arresti  domiciliari  -  per  il  quale  varrebbe  una
presunzione  di pericolosita' affievolita - e quella prevista per chi
e'   detenuto  in  carcere:  e  cio'  perche',  in  base  all'art. 20
dell'ordinamento  penitenziario,  "il  lavoro, nel caso di detenzione
carceraria,  e'  "obbligatorio"  e  con  finalita' non produttive ne'
afflittive,  bensi'  di  natura rieducativa"; non e' subordinato alle
condizioni  invece  prescritte  dalla  disposizione  censurata;  puo'
essere  autorizzato  anche  all'esterno  del  carcere  in  favore del
detenuto   che  abbia  "espiato  parte  della  pena",  a  seguito  di
provvedimento amministrativo della direzione penitenziaria, approvato
con  decreto  del  magistrato  di  sorveglianza, avendo di mira, come
parametri,  esclusivamente "quelli rieducativi (art. 27, terzo comma,
Cost.), nel rispetto delle esigenze di tutela sociale";
        che  analogo  raffronto  varrebbe  anche con riferimento alla
disciplina   dettata   in   tema   di   "detenzione  domiciliare  del
condannato",   considerato   che   gli   artt. 47-ter,   47-quater  e
47-quinquies  dell'ordinamento penitenziario non richiederebbero, per
l'autorizzazione   allo   svolgimento  di  una  attivita'  lavorativa
esterna,  le condizioni prescritte dall'art. 284, comma 3, cod. proc.
pen.;
        che,  peraltro, la prospettata analogia di situazioni, da cui
discende  l'intera  gamma  delle  doglianze,  si  rivela  palesemente
erronea:   e  cio',  non  soltanto  sul  piano  piu'  generale  della
assimilabilita'  di status fra loro eterogenei, quali sono quelli che
contraddistinguono,   da   un   lato,   la  condizione  dell'imputato
sottoposto  ad  una misura cautelare personale, e, dall'altro, quella
del  condannato  in  fase  di  esecuzione  della  pena;  ma anche sul
versante,  piu'  specifico,  dei  provvedimenti destinati ad incidere
sulle rispettive sfere di coercizione, in vista della possibilita' di
svolgere una attivita' lavorativa;
        che,  quanto  al  primo  aspetto, e' infatti agevole rilevare
come  la  funzione  rieducativa  -  cui  e' necessariamente informata
l'intera  fase  esecutiva  e sulla cui falsariga sono quindi plasmati
gli  istituti previsti dall'ordinamento penitenziario - si rivela non
soltanto  eccentrica,  ma  addirittura  contraddittoria rispetto alle
connotazioni  che  tipizzano  l'intera  gamma delle misure cautelari;
queste   ultime  -  presupponendo  la  temporaneita'  e  le  garanzie
postulate  dall'art. 13 Cost. - evidentemente sono volte a presidiare
esclusivamente  i  pericula  libertatis  previsti  dalla  legge:  con
esclusione, quindi, di qualsiasi finalita' di "rieducazione" che, per
gli  imputati,  equivarrebbe  ad una palese elusione del principio di
presunzione di non colpevolezza;
        che,  in  effetti,  questa  Corte  ha  affermato (v. sentenza
n. 173  del  1997, citata) non gia' - come assume il rimettente - che
"la finalita' rieducativa e' assegnata dalla Costituzione a ogni pena
e, dunque, anche alle misure cautelari"; bensi' che tale finalita' e'
assegnata,  accanto  ad  ogni  pena,  "anche  alle misure alternative
previste in seno all'ordinamento penitenziario";
        che,   di   conseguenza,  ben  si  giustifica  la  previsione
dell'art. 15 dell'ordinamento penitenziario, secondo cui il lavoro e'
una  componente  essenziale  del  trattamento rieducativo, al punto -
come  rammenta  lo  stesso giudice a quo - da essere configurato come
"obbligatorio  per  i  condannati",  in base all'art. 20 dello stesso
ordinamento;  non senza rammentare, peraltro, come per il detenuto in
carcere  l'intero  complesso  delle  misure  che lo riguardano vale a
distinguere  nettamente  la  condizione  di  chi  vi  e'  sottoposto,
rispetto  alla  posizione  che  caratterizza  l'imputato agli arresti
domiciliari;
        che   le  considerazioni  che  precedono  -  in  ordine  alla
eterogeneita'  e  non  comparabilita',  sotto  questo  profilo, delle
condizioni  concernenti  rispettivamente l'esecuzione della pena e le
misure   cautelari   personali   valgono   altresi'  con  riferimento
all'istituto  della  detenzione  domiciliare: quest'ultima infatti e'
una  misura  alternativa che presuppone l'esecuzione della pena e che
assume, per di piu', connotazioni del tutto peculiari nel panorama di
tali   misure,  avuto  riguardo  ai  profili  polifunzionali  che  la
caratterizzano   e   che   consentono,   in   se',   di  distinguerla
dall'apparentemente  "simile"  istituto degli arresti domiciliari (v.
sentenza  n. 165 del 1996); non senza sottolineare, peraltro, come lo
stesso    art. 47-ter    dell'ordinamento    penitenziario   richiami
espressamente  (al  comma  4) proprio l'art. 284 cod. proc. pen., per
determinare le "modalita'" secondo le quali la detenzione domiciliare
deve essere eseguita;
        che,  infine,  la  differenza fra la condizione dell'imputato
sottoposto  a  custodia  cautelare  in carcere e quella dell'imputato
agli  arresti  domiciliari  rende  ragione  del  fatto - peraltro non
evocato   dal   rimettente   -   che   la   disciplina   dell'art. 21
dell'ordinamento  penitenziario sia applicabile al primo e non invece
al secondo;
        che  rientra  nella  sfera della discrezionalita' legislativa
bilanciare  l'esercizio  di  diritti fondamentali, come il diritto al
lavoro,  con  la  specifica natura e funzione delle singole misure di
cautela  personale: con l'ovvio limite rappresentato dal rispetto del
principio  di  ragionevolezza, che nella specie - venendo in discorso
una misura coercitiva equiparata, in tutto e per tutto, alla custodia
cautelare  in  carcere - non puo' ritenersi esser stato in alcun modo
vulnerato;
        che,  di  conseguenza,  la  questione  proposta  deve  essere
dichiarata manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   la   manifesta   infondatezza   della   questione   di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 284,  comma  3, del codice di
procedura  penale,  sollevata,  in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4,
13,  secondo  comma,  27,  terzo  comma, e 35 della Costituzione, dal
Tribunale di Napoli con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 2002.
                       Il Presidente: Chieppa
                         Il redattore: Flick
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 18 dicembre 2002.
               Il direttore della cancelleria:Di Paola
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