N. 865 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 luglio 2003

Ordinanza  emessa  il  14 luglio  2003  dal  tribunale  di  Roma  nel
procedimento penale a carico di Okundia Uyiosa ed altri

Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche  normative  -  Possibilita'  per le parti di formulare la
  richiesta  di  cui  all'art. 444  cod.  proc. pen., come novellato,
  anche  nei  processi  penali  in  corso  di dibattimento, nei quali
  risulti  decorso  il  termine previsto dall'art. 446, comma 1, cod.
  proc.   pen.   -   Sospensione   del   dibattimento,  su  richiesta
  dell'imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni
  per  valutare  l'opportunita'  della  richiesta  -  Decorrenza  del
  termine  per  richiedere  la  sospensione  del processo dalla prima
  udienza utile successiva alla data di pubblicazione della novella -
  Violazione  del  principio  di  ragionevolezza  -  Contrasto con il
  principio  della  finalita'  rieducativa  della  pena - Lesione del
  principio della ragionevole durata del processo.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 5, commi 1 e 2.
- Costituzione, artt. 3, 27 e 111.
Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche    normative    -   Ampliamento   dell'ambito   operativo
  dell'istituto - Conseguente sottrazione della maggioranza dei reati
  al  giudizio  di  cognizione  piena  -  Violazione del principio di
  ragionevolezza - Lesione del principio del contraddittorio.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 1.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.44 del 5-11-2003 )
                            IL TRIBUNALE

    Visti  gli  atti  del  procedimento  penale  a carico di: Okundia
Uyiosa,   Okoeguale  Victoria  Amenze,  Okoeguale  Sandra,  Freschini
Franco.

                          Premesso in fatto

    Gli  odierni  imputati  sono  stati  rinviati  a  giudizio,  dopo
l'udienza  preliminare,  per  rispondere  dei  seguenti  reati in due
distinti  processi:  procedimento  n. 2979/99  R.G.N.R.  a  carico di
Okundia Uyiosa, Okoeguale Victoria Amenze, Okoeguale Sandra:
        A)  del  reato p. e p. dagli artt. 110, 81 cpv., e 3, nn. 4),
6)  e  7), e 4, nn. 1) e 7), legge 20 febbraio 1958, n. 75 per avere,
in  concorso  tra  loro,  con  piu'  azioni  esecutive di un medesimo
disegno  criminoso,  operando  in  seno ad un'associazione a tal fine
costituita,  reclutato  le  cittadine extracomunitarie Okoh Sandra ed
Oko Oboh Omo, inducendole all'introduzione nel territorio dello stato
ed  avviandole  quindi alla prostituzione mediante violenza e minacce
consistite  nel  prospettare  loro  che,  ove si fossero sottratte al
marciapiede,  avrebbero  subito  gravi ritorsioni, e che comunque non
sarebbero  state  «libere» se non dopo aver pagato loro, ciascuna, la
somma  di  lire  80 milioni circa e sfruttandone poi la prostituzione
stessa,  facendosi  dalle  stesse  consegnare gli interi proventi del
loro meretricio. In Roma dal dicembre 1997 al giugno 1999;
        B)  del  reato  p. e p. dagli artt. 110, 605 c.p., per avere,
agendo  in  concorso tra loro, limitato la liberta' personale di Okoh
Sandra, costringendola con violenza a salire sulla loro autovettura e
tenendola   quindi   segregata   e   sotto  loro  costante  controllo
all'interno di un appartamento nella loro disponibilita'. In Roma dal
13 al 14 giugno 1999.
    Procedimento  n. 24456/01  R.G.N.R.  a  carico di Okundia Uyiosa,
Okoeguale Victoria Amenze, Okoeguale Sandra, Freschini Franco.
    I primi tre:
        A)  dei  delitti  p.  e p. dagli artt. 110, 81 cpv. c.p., 12,
terzo  comma,  d.lgs.  n. 286/1998  e  3 nn. 4, 6 e 7 e art. 4, n. l,
legge  n. 75/1958  per  avere,  agendo in concorso tra loro, con piu'
azioni  esecutive  di un medesimo disegno criminoso, operando in seno
ad  un'associazione  a  tal  fine  costituita, reclutato la cittadina
extracomunitaria    Esebelahie    Joan    Ufofo,   inducendola   alla
prostituzione  nel territorio dello Stato, favorendone l'immigrazione
clandestina ed avviandola quindi alla prostituzione mediante violenza
e  minacce consistite nel prospettarle che, ove si fosse sottratta al
marciapiede,  lei,  cosi' come i suoi familiari in Nigeria, avrebbero
subito  gravi  ritorsioni, e che comunque non sarebbe stata libera se
non  dopo  aver  pagato  loro  la  somma  di lire 90 milioni circa, e
sfruttandone  poi  la  prostituzione  stessa,  facendosi dalla stessa
consegnare  gli  interi  proventi  del  meretricio.  In Roma dal 1997
al giugno 1999.
    Il Freschini:
        B)  del  reato p. e p. dagli artt. 56 c.p., 3, n. 8 e 4, n. 3
legge  n. 75/1958,  perche', dopo aver contratto matrimonio civile il
21  febbraio  2000 presso il comune di Frosinone, con Esebelahie Joan
Ufofo, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre la
stessa  a  prostituirsi,  al  fine di sfruttarne il meretricio, a tal
fine  conducendola  a  Roma  a  bordo  della  propria  vettura  Y 10,
portandola  sulla via Cristoforo Colombo ed indicandole il posto dove
prostituirsi,   facendola   scendere  con  la  forza  dalla  vettura,
consegnandole  dei  profilattici,  e  non  riuscendo nell'intento per
cause  indipendenti  dalla  propria volonta', stante il netto rifiuto
della  donna  e  la minaccia di denunziarlo alle forze di polizia. In
Roma, nel marzo 2000.
    Nel corso del dibattimento i due processi sono stati riuniti.
    Si  e'  proceduto  ad  una  laboriosa istruttoria dibattimentale,
protrattasi per diverse udienze.
    All'odierna  udienza  il difensore degli imputati Okundia Uyiosa,
Okoeguale   Victoria   Amenze,   Okoeguale   Sandra,  ha  chiesto  la
sospensione  del  processo ai sensi dell'art. 5, comma 2, della legge
12 giugno 2003, n. 134.
    L'imputato  Freschini  ha  dichiarato che non intende chiedere la
sospensione.

                       Considerato in diritto

    1.  -  L'art. l  della  legge  12 giugno 2003, n. 134, stabilisce
quanto  segue:  «Il  comma  l  dell'art.  444 del codice di procedura
penale e' sostituito dai seguenti:
        «1.  L'imputato  e  il pubblico ministero possono chiedere al
giudice  l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una
sanzione  sostitutiva  o  di una pena pecuniaria, diminuita fino a un
terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle
circostanze  e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli
o congiunti a pena pecunaria».
        1-bis.   Sono   esclusi   dall'applicazione  del  comma  1  i
procedimenti  per  i  delitti  di  cui  all'art.  51,  commi  3-bis e
3-quater,  nonche'  quelli  contro  coloro che siano stati dichiarati
delinquenti  abituali,  professionali  e  per tendenza, o recidivi ai
sensi  dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena
superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria».
    L'art. 5, della legge medesima legge, stabilisce che:
        1) L'imputato, o il suo difensore munito di procura speciale,
e  il  pubblico  ministero, nella prima udienza utile successiva alla
data  di  entrata in vigore della presente legge, in cui sia prevista
la  loro  partecipazione,  possono  formulare  la  richiesta  di  cui
all'art.  444  del  codice di procedura penale, come modificato dalla
presente  legge,  anche  nei processi penali in corso di dibattimento
nei  quali,  alla  data  di  entrata  in vigore della presente legge,
risulti  decorso  il  termine  previsto  dall'art.  446, comma 1, del
codice  di  procedura  penale,  e  cio'  anche  quando sia gia' stata
presentata  tale  richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del
pubblico  ministero  o  la richiesta sia stata rigettata da parte del
giudice,  e  sempre  che  la  nuova  richiesta  non  costituisca mera
riproposizione della precedente.
        2)  Su richiesta dell'imputato il dibattimento e' sospeso per
un  periodo  non  inferiore  a  quarantacinque  giorni  per  valutare
l'opportunita'  della richiesta e durante tale periodo sono sospesi i
termini di prescrizione e di custodia cautelare.
        3)   Le  disposizioni  dell'art.  4  si  applicano  anche  ai
procedimenti  in  corso. Per tali procedimenti la Corte di cassazione
puo' applicare direttamente le sanzioni sostitutive.»
    Questo  Tribunale  dubita della legittimita' costituzionale delle
norme  sopra  indicate  per contrasto con gli artt. 3, 27 e 111 della
Costituzione.
    In  virtu'  dell'intima  connessione  tra  le due norme della cui
legittimita'  si  dubita,  alcune osservazioni che seguono concernono
entrambe le disposizioni; altre, invece, concernono aspetti che vanno
considerati  individualmente.  Si  rileva,  inoltre, che alcune delle
eccezioni proposte sono assorbenti rispetto alle altre.
    Con riferimento all'art. 1, della legge in esame, si dubita della
legittimita'  dell'estensione  dell'istituto  dell'applicazione della
pena  ai  reati  per  i  quali  possa  essere  determinata  una  pena
detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria, non superiore a cinque
anni,  tenuto  conto  delle circostanze e diminuita fino ad un terzo.
Tale eccezione, ove accolta, assorbirebbe le altre.
    Con riferimento all'art. 5 della legge in esame, si rileva che la
norma non appare ragionevole sotto diversi profili in particolare:
      a)  in  relazione  al  disposto  del  comma  1, che consente di
formulare  la richiesta anche oltre il termine fissato dall'art. 446,
comma  1,  c.p.p.  e,  quindi, «anche nei processi penali in corso di
dibattimento  (eccezione  che,  se  accolta,  assorbirebbe quelle che
seguono);
        b)  in  relazione  al  disposto  del  comma 2, che impone, su
richiesta  dell'imputato,  la  sospensione  non inferiore a 45 giorni
(percio'  anche  superiore),  pur  essendovi  nel  nostro sistema dei
termini ordinari molto piu' ristretti (15 giorni nel caso di giudizio
immediato  o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel
giudizio direttissimo);
        c)  in  relazione al disposto del comma 2, nella parte in cui
fissa  il termine di decorrenza della sospensione dalla prima udienza
utile  successiva  alla  data  di pubblicazione della legge, anziche'
disporre   che   alla  prima  udienza  utile  debba  essere  proposta
l'istanza.
    2.   -  Con  riguardo  all'art. 5  della  legge  n. 134/2003,  in
relazione  al  contrasto  con  il  principio di ragionevolezza di cui
all'art. 3  Cost., si osserva che l'istituto della pena concordata e'
stato  introdotto  nel  codice  di  rito  vigente  per determinare un
effetto   deflattivo  del  procedimento  penale,  evitando  laboriose
istruttorie.
    In  altri termini si e' concesso alle parti di concordare la pena
per  evitare  i  costi  in  termini  di  tempo,  di  risorse  umane e
finanziarie  determinati  dalla  complessita'  del  dibattimento;  in
cambio  di  tale  risparmio, l'imputato gode di uno sconto fino ad un
terzo della pena.
    E'  ormai  principio  acquisito  che  la riduzione entro un terzo
della pena costituisca un effetto premiale.
    Tale   principio   e'   stato   affermato   anche   dalla   Corte
costituzionale  con  sentenza  n. 129  del 1993, laddove afferma, con
riferimento  ai  riti  speciali,  che  «l'interesse  dell'imputato  a
beneficiare  dei vantaggi conseguenti a tali giudizi in tanto rileva,
in   quanto   egli   rinunzia   al   dibattimento   e  venga  percio'
effettivamente  adottata  una sequenza procedimentale che consenta di
raggiungere l'obiettivo di una rapida definizione del processo.
    Il  carattere  premiale del rito previsto dall'art. 444 c.p.p. e'
stato  ancora  confermato  dall'ordinanza  n. 172 del 1998 di codesta
Corte.
    Ne  consegue  che  lo sbarramento previsto dall'art. 446, comma l
c.p.p.  per  l'introduzione  del  rito  ha  una  sua logica ferrea ed
ineludibile,  altrimenti  verrebbe meno il principio stesso su cui si
fonda il rito premiale.
    Il  legislatore,  con  la  novella  del  2003,  ha  abolito per i
processi  in  corso  il  limite di cui all'art. 446, comma 1, c.p.p.,
senza  operare  neppure una distinzione fra i processi per i quali e'
stato  aperto  il  dibattimento,  ma  non  e'  stata  compiuta alcuna
attivita'  istruttoria  e  processi per i quali l'istruttoria e' gia'
avanzata  o  addirittura e' stato dichiarato chiuso il dibattimento e
si e' in fase di discussione.
      Consentire  la  riduzione  della  pena anche a chi non ha fatto
risparmiare   alcuna   risorsa   allo   Stato,  dopo  la  conclusione
dell'udienza  preliminare  o nel corso del dibattimento e addirittura
nel corso della discussione, non appare ragionevole e contrasta con i
principi  che  sottendono  l'istituto  dell'applicazione  della  pena
concordata.
    3.  - Si ravvisa l'ulteriore contrasto dell'art. 5 della legge in
esame con l'art. 27 della Costituzione.
    Va  premesso  che codesta Corte, con sentenza n. 313 del 1990, ha
affermato  che:  «La  necessita'  costituzionale  che  la  pena debba
«tendere»  a  rieducare,  lungi  dal  rappresentare una mera generica
tendenza  riferita  al  solo  trattamento  penitenziario che concreta
l'esecuzione  della  pena,  indica  invece proprio una delle qualita'
essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando  nasce,  nell'astratta
previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, e che di
conseguenza il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost. vale
tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre
che  per  quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche' per le
stesse   autorita'   penitenziarie».   Prosegue,   ancora  la  Corte:
«Incidendo  la  pena  sui  diritti  di chi vi e' sottoposto, non puo'
negarsi  che,  indipendentemente  da  una considerazione retributiva,
essa   abbia   necessariamente  anche  caratteri  in  qualche  misura
afflittivi.  Cosi'  come  e'  vero  che  alla  sua  natura ineriscano
caratteri  di  difesa  sociale,  e  anche di prevenzione generale per
quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di
colui che delinque. Ma, per una parte (afflittivita', retributivita),
si  tratta  di profili che riflettono quelle condizioni minime, senza
le quali la pena cesserebbe di essere tale».
    Poiche',  dunque,  la  pena deve rispondere, fin dalla previsione
normativa,  ai principi di retribuzione, afflittivita' e rieducazione
stabiliti dall'art. 27 Cost., si rileva che la riduzione premiale del
tutto  disancorata  da  una condotta positiva dell'imputato - nei cui
confronti  e'  stato  celebrato  anche  per  intero  il  processo  di
cognizione   mediante   il  dibattimento  -  viola  il  principio  di
rieducazione.  In  altri termini si attribuisce il premio consistente
nella  diminuzione  fino  ad  un terzo della pena senza contropartita
alcuna, riducendo di fatto la pena originaria senza alcuna causa.
    4. - L'art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134/2003 contrasta con
l'art. 111, Cost.
    Quest'ultimo,  nella  parte  in  cui  sancisce il principio della
ragionevole durata del processo, e' di recente introduzione e trae il
suo  fondamento  nei  principi  enunciati  dalla  Convenzione  per la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e delle liberta' fondamentali,
ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848.
    Appare   opportuna   qualche   riflessione   sull'interpretazione
dell'art. 111,  Cost.  e  sugli  interessi  che esso tutela. Occorre,
cioe', chiarire se il principio della ragionevole durata del processo
debba  essere  riferito solo all'interesse di ogni singolo imputato -
anche  nel  caso  si tratti di processo con piu' imputati - oppure si
riferisca anche a tutte le altre parti processuali, oppure anche agli
interessi dello Stato e del popolo, in nome del quale la giustizia e'
amministrata.
    Questo tribunale non ignora che la Corte, con sentenza n. 266 del
1992,  ha  affermato che «l'applicazione della pena concordata con il
pubblico  ministero  da  uno  solo  degli  imputati  di  concorso nel
medesimo   reato   costituisce   un   procedimento   congegnato  come
pattuizione  tra  imputato richiedente e parte pubblica, in ordine al
quale  e' previsto un controllo giurisdizionale che non include pero'
la valutazione delle posizioni dei coimputati».
    La  questione, tuttavia, era stata esaminata solo con riferimento
all'art. 3 della Costituzione.
    Essa,  inoltre, era afferente ad una disposizione ordinaria e non
all'introduzione   di   una   norma  transitoria,  come  quella  oggi
denunciata,  che  mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti
in corso, anche se in fase dibattimentale o di discussione.
    Sicche' e' questione nuova e diversa.
    La   sentenza   citata,   poi,   era   antecedente  alla  riforma
dell'art. 111 della Costituzione.
    E' ovvio che se la speditezza processuale dovesse intendersi solo
con riferimento agli imputati e non pure alle altre parti processuali
e,  addirittura,  riguardare  solo  il  singolo  imputato il quale, a
seconda  dei  casi,  ha  interesse  ad  un  processo piu' lungo nella
speranza  della  prescrizione del reato o piu' breve, attraverso riti
alternativi,  prescindendo  dagli interessi delle altre parti di quel
medesimo processo e anche da interessi superiori della cittadinanza a
vedere  celebrati tutti i processi con sollecitudine, la richiesta di
rito  alternativo  effettuata  anche  in  corso di un processo in cui
l'istruttoria   dibattimentale   sia   gia'  iniziata  o  addirittura
terminata, non incontrerebbe ostacoli nell'art. 111 della Cost.
    A   diversa   conclusione   si   dovrebbe  pervenire  qualora  si
riconoscesse alla norma costituzionale un valore che concerne tutti i
partecipanti al processo.
    Sotto    tale    profilo   appare   opportuno   svolgere   alcune
considerazioni.
    In  primo  luogo  si  osserva  che  nell'attuale sistema i poteri
decisori  del  giudice  sono  stati  ampiamente  ridotti in favore di
quelli  delle  parti. Ogni volta che sia disposta la rinnovazione del
dibattimento, l'istruttoria dibattimentale deve ricominciare da capo,
salvo nel caso in cui le parti prestino il consenso alla lettura.
    Nel  caso, percio', di un processo con piu' imputati, di cui solo
alcuni  chiedano  la  sospensione del processo, ai sensi dell'art. 5,
comma  2  della  legge  n. 134/2003,  il  giudice deve, innanzitutto,
stabilire  se  proseguire  il  processo nei confronti dei coimputati,
effettuando  uno  stralcio  della  posizione dei richiedenti. Ma cio'
sarebbe  irragionevole  ed in contrasto con gli artt. 3, Cost. e 111,
Cost.,  perche'  tale stralcio potrebbe rivelarsi inutile nel caso in
cui  alla  sospensione non seguisse la richiesta di «patteggiamento»,
con  dispendio di energie e di attivita' processuali e ingiustificata
dilazione della definizione della posizione dell'imputato.
    E'  conforme  a  ragionevolezza  disporre  lo  stralcio solo dopo
l'effettiva presentazione della richiesta di applicazione della pena,
alla scadenza del termine di sospensione.
    Se,    all'udienza    successiva   gli   interessati   richiedono
l'applicazione  della pena, l'accoglimento dell'istanza renderebbe il
giudice  incompatibile  a  giudicare gli altri coimputati; il rigetto
della  richiesta  lo  renderebbe ugualmente incompatibile a giudicare
l'imputato.
    In  entrambi i casi il processo dovrebbe iniziare ex novo innanzi
ad  altro  giudice, con rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.
In  tal  caso  non  vi  sarebbe  speditezza  processuale  ne' per gli
interessati  ne' per i coimputati, ma, anzi una dilatazione dei tempi
della  decisione;  con  la  conseguenza che ad una decisione con rito
ordinario   ormai   certa  nel  tempo,  si  sostituisce  un'attivita'
interlocutoria di sospensione che potrebbe concludersi con il rigetto
della  richiesta  di  applicazione  della pena e con la necessita' di
celebrare ex novo il processo con rito ordinario.
    5. - Si osserva, inoltre che, nel caso di applicazione della pena
nei  processi  in  cui  il  dibattimento e' in corso, la parte civile
costituita   vedrebbe  crollare  le  proprie  legittime  aspettative,
dovendo  ricominciare  il  processo  ex novo  sia  nei  confronti dei
coimputati  innanzi  ad  altro  giudice,  sia separatamente - in sede
civile   -   nei   confronti   di  colui  che  e'  stato  ammesso  al
«patteggiamento».
    E'   vero  che  la  Corte  ha  affrontato  il  problema  relativo
all'esclusione   della  parte  civile  nel  rito  de  quo  (v.  sent.
n. 443/1990),  ma  e'  pur  vero  che si trattava di decisioni che si
riferivano al sistema «ordinario» di applicazione della pena e non di
norma  transitoria,  come  quella  prevista  dall'art. 5  della legge
n. 134/2003 che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui
la  parte  civile  sta  gia'  esercitando  il proprio diritto con una
legittima  aspettativa  di  rapida e normale decisione. Sicche' anche
sotto  tale  aspetto la frustrazione dei diritti della parte civile e
della  ragionevole  durata - anche per lei - del processo finisce con
il  violare  i  principi di ragionevolezza e di un giusto processo di
durata ragionevole stabiliti dagli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    6.  -  Questo  Tribunale  ritiene  che l'interpretazione proposta
dell'art. 111,   Cost.   sia   confortata   anche   dalla  produzione
legislativa   che   ha   fatto  seguito  alla  modifica  della  norma
costituzionale.
    E'  noto,  infatti,  che  l'Italia e' stata piu' volte condannata
dalla  Corte europea per l'eccessiva durata dei processi. La condanna
prescinde  da  eventuali responsabilita' dei giudici, ma si fonda sul
principio  che  ciascun  paese  deve dotarsi di leggi processuali che
consentano una rapida definizione dei processi. Gia' da molti anni vi
sono  Stati,  come  la  Danimarca  e  l'Olanda,  in grado di definire
la maggior  parte  dei processi in primo grado nell'arco di tre mesi,
esaurendo  l'appello  nel successivo trimestre. Cio' e' dovuto ad una
semplificazione   soprattutto   del   sistema   delle  notificazioni,
all'esistenza   di maggiori  obblighi  di  diligenza  delle  parti  -
compresi  gli imputati - di informarsi dell'iter processuale anche in
caso  di  rinvio  delle udienze. E' chiaro che in sistemi siffatti la
sospensione  di  un  processo per 45 giorni, ossia oltre un terzo del
tempo complessivo di definizione, sarebbe inaccettabile.
    Per  ovviare  alle  condanne  in  sede europea in Italia e' stata
introdotta  la  normativa  (legge  24 marzo 2001, n. 89) che consente
alle  parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia avuto una
durata  eccessiva,  indipendentemente  dalle  ragioni  che  l'abbiano
determinata.
    L'equa  riparazione  non  spetta solo all'imputato, ma anche alla
parte civile.
    Da  cio'  si evince che la ragionevole durata del processo non e'
un   diritto   solo   dell'imputato,   ma  anche  delle  altre  parti
processuali,  ivi  compresa  la  parte  civile,  ed assurge, quindi a
principio generale.
    Assume  rilievo,  nel  sistema, ad esempio, l'art. 477 c.p.p. che
impone   tempi  rapidissimi  per  la  definizione  del  dibattimento,
stabilendo che il rinvio del processo dev'essere effettuato al giorno
successivo e che il processo puo' essere sospeso solo per ragioni «di
assoluta  necessita»  e  «per  un  termine  massimo di dieci giorni»,
computate  tutte  le  dilazioni.  Tale  norma  e'  certamente dettata
nell'interesse di tutte le parti.
    7.  -  L'irragionevolezza  della  concessione di un termine - tra
l'altro  di  un  termine  particolarmente lungo nel minimo e che puo'
essere  anche  maggiore,  per  di piu' dilazionato alla prima udienza
utile  -  (oltre  che  in  contrasto  con il principio di ragionevole
durata di cui all'art. 111, Cost.), appare ancor piu' evidente ove si
consideri  che  il  legislatore,  nel  caso di giudizio immediato, ha
ritenuto  congruo  il  termine  di 15 giorni per la richiesta di pena
concordata, ossia un tempo che e' esattamente un terzo di quello oggi
previsto  dalla  novella, pur vertendosi in identica materia e per il
giudizio direttissimo ha stabilito il termine in limine litis.
    A  cio'  s'aggiunge  la  circostanza  che,  mentre  nel  giudizio
immediato  e  nel  giudizio  direttissimo le conoscenze dell'imputato
relative  alla  situazione probatoria a suo carico sono limitate, nei
processi  per i quali il dibattimento e' in corso l'imputato ha avuto
modo di conoscere tutti gli elementi probatori a suo carico.
    Sotto  tale  profilo  si  osserva  che ogni cittadino e' tenuto a
conoscere  le leggi pubblicate. Pertanto ogni imputato e' stato posto
in  grado,  nel momento in cui la legge in esame e' stata pubblicata,
di valutare l'opportunita' di avvalersi della pena concordata.
    A maggior conforto di tale assunto si rileva che ogni imputato e'
assistito  da  un difensore, sicche' ha avuto modo di consultarsi con
lo  stesso  per  valutare  l'opportunita'  di  avvalersi  della  pena
concordata.  La  concessione  di  un  termine  di durata notevole, in
rapporto  ai parametri sopra esposti, decorrente dalla prima udienza,
appare irragionevole.
    Tale  irragionevolezza appare di tutta evidenza allorche' la fase
istruttoria  sia  esaurita  o  il processo sia addirittura in fase di
discussione,  e,  quindi,  l'imputato  ha  potuto  valutare  tutto il
materiale  probatorio e rendersi conto della convenienza eventuale di
concordare la pena.
    Se tale assunto e' corretto, deve ritenersi che non corrispondono
ai  parametri  costituzionali  di ragionevolezza (art. 3, Cost.) e di
ragionevole  durata  (art. 111,  Cost.)  le disposizioni dell'art. 5,
commi 1 e 2 che prevedono: a) l'obbligo di sospendere il processo per
quarantacinque  giorni  su  richiesta dell'imputato; b) consentono al
pubblico  ministero  e  all'imputato  o  al  suo  difensore munito di
procura  speciale,  di richiedere l'applicazione della pena anche nei
processi in corso.
    8. - Come s'e' prima anticipato, il tribunale prospetta il dubbio
di   legittimita',   per   contrasto  con  gli  artt. 3  e 111  della
Costituzione,  anche  dell'art. 1 della legge 12 giugno 2003, n. 134,
il quale, modificando l'originaria formulazione dell'art. 444 c.p.p.,
stabilisce  che:  «1.  L'imputato  e  il  pubblico  ministero possono
chiedere  al  giudice  l'applicazione,  nella  specie  e nella misura
indicata,  di  una  sanzione  sostitutiva  o  di una pena pecuniaria,
diminuita  fino  a  un  terzo,  ovvero  di  una pena detentiva quando
questa,  tenuto  conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo,
non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria.
    Ad  avviso  del  tribunale  la  norma  in esame, per la sua ampia
applicazione, assurge alla dignita' di «rito ordinario», relegando il
processo  di  cognizione  piena  a ruolo residuale, in violazione dei
principi costituzionali di ragionevolezza e di formazione della prova
in  contraddittorio  di  cui  agli  artt. 3  e  111 della Cost., gia'
consacrati  nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo.
    L'art. 6,  primo  comma, primo periodo della legge 4 agosto 1955,
n. 848, di ratifica della convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  stabilisce  che:  «Ogni
persona  ha  diritto  che  la sua causa sia esaminata imparzialmente,
pubblicamente  e  in  un  tempo  ragionevole da parte di un tribunale
indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che decidera' sia
in  ordine  alle  controversie  sui  suoi  diritti ed obbligazioni di
natura  civile,  sia  sul fondamento di ogni accusa in materia penale
elevata contro di lei».
      Il  terzo  comma  del  medesimo  articolo,  in particolare alla
lettera  d), sancisce «il diritto di interrogare o fare interrogare i
testimoni  a  carico  ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei
testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico».
    In   sostanza   l'articolo   citato  sancisce  il  principio  del
contraddittorio  nel processo, poi recepito dall'art. 111, commi 1, 2
e 4 della Cost. come novellato nel 1999.
    In  altri  termini  il  principio  cardine  del  processo  e' che
l'accertamento  della  responsabilita'  penale  e'  fondato  su di un
giusto  processo  che  preveda  una  fase  di cognizione piena con un
contraddittorio  che  ponga  le parti «in condizioni di parita», come
espressamente  stabilito  dal  comma  2 della norma costituzionale in
esame.
    Solo  in  via  del  tutto  eccezionale  e'  consentita una deroga
stabilita  dal  comma  5 dell'art. 111, laddove afferma che «La legge
regola  i  casi  in  cui  la  formazione  della prova non ha luogo in
contraddittorio per consenso dell'imputato».
    Sotto  tale  profilo  si  rileva che la sentenza di codesta Corte
n. 129  del  1993 gia' affermava che il nostro sistema processuale e'
«imperniato sulla formazione della prova in dibattimento.»
    La   modifica   dell'art. 444   c.p.p.,   consentendo,   per   un
elevatissimo   numero   di  reati,  in  sostanza  la maggioranza,  di
concordare  la  pena,  trasforma l'eccezione stabilita dall'art. 111,
comma  5,  Cost. in principio generale, riducendo a mera eccezione il
principio del contraddittorio stabilito dai commi 1 e 2.
    E' certo che il legislatore ha un ampio potere discrezionale.
    Ma se in astratto si dovesse ritenere tale discrezionalita' senza
limiti, si perverrebbe alla conclusione paradossale che il cosiddetto
«patteggiamento»  potrebbe  essere introdotto indiscriminatamente per
tutti  i  reati, ossia con sentenza resa in camera di consiglio e non
pubblicamente,  senza  accertamento di colpevolezza, in contrasto con
il   principio   costituzionale   del   giusto   processo   reso   in
contraddittorio,  in  «condizioni  di  parita'  tra  le  parti»,  con
cognizione piena da parte del giudice.
    Se,  invece, si deve ritenere che la discrezionalita' debba avere
un  fondamento  di  ragionevolezza  e  di  aderenza anche al precetto
costituzionale  primario  di cui all'art. 111, primo e secondo comma,
codesta  Corte  puo'  verificare  se, nel caso in esame, l'estensione
oggi  introdotta  alla  deroga  del  contraddittorio  sia eccessiva e
esorbiti  dai  limiti  ragionevoli  di  discrezionalita'  concessi al
legislatore.
    9.  -  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei diritti dell'uomo,
stabilisce che il processo debba essere celebrato «pubblicamente».
    La  pubblicita'  del  processo  e' un carattere essenziale di uno
stato  democratico  perche' e' garanzia di trasparenza ed uguaglianza
dei  cittadini  di  fronte  alla  legge. L'applicazione della pena su
richiesta avviene in camera di consiglio.
    La  stessa  Convenzione  prescrive  che  il  giudice  accerti  il
«fondamento»   di   ogni   accusa  elevata  contro  l'imputato.  Cio'
presuppone una cognizione piena.
    Reati  con pena edittale molto elevata, come il tentato omicidio,
la rapina aggravata o la violenza sessuale aggravata ed anche i reati
oggi  contestati, con il giudizio di comparazione con le attenuanti e
la  riduzione prevista per il rito prescelto, possono essere definiti
con una sentenza che non e' di condanna, ma solo equiparata a questa,
non   e'   resa   pubblicamente,  ma  in  camera  di  consiglio,  con
estromissione della parte civile e ponendo la parte offesa ai margini
del processo che pur la vede vittima.
    10.  -  Le eccezioni oggi proposte sono rilevanti per le seguenti
ragioni:
        A)  e'  stata  richiesta  dal  difensore  di  tre imputati la
sospensione  del  processo ai sensi dell'art. 5, comma 2, della legge
12 giugno 2003, n. 134 e cio' alla prima udienza celebrata innanzi al
collegio dopo la vigenza della legge citata;
        B) vi e' parte civile gia' costituita;
        C) il processo e' in fase dibattimentale avanzata.
    11.  - L'eccezione non e' manifestamente infondata per le ragioni
sopra esposte ed e' sollevata d'ufficio.
                              P. Q. M.
    Vista la legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, l'art. 23 della legge
11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta,  d'ufficio, non manifestamente infondata e rilevante ai
fini   del   presente   giudizio   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  degli  artt. 1, comma 1, e 5, commi 1 e 2 della legge
12 giugno  2003, n. 134 per contrasto con gli artt. 3, 27 e 111 della
Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia notificata al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  e  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
        Roma, addi' 14 luglio 2003
                      Il Presidente: Bresciano
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