N. 865 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 luglio 2003
Ordinanza emessa il 14 luglio 2003 dal tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Okundia Uyiosa ed altri Processo penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Modifiche normative - Possibilita' per le parti di formulare la richiesta di cui all'art. 444 cod. proc. pen., come novellato, anche nei processi penali in corso di dibattimento, nei quali risulti decorso il termine previsto dall'art. 446, comma 1, cod. proc. pen. - Sospensione del dibattimento, su richiesta dell'imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l'opportunita' della richiesta - Decorrenza del termine per richiedere la sospensione del processo dalla prima udienza utile successiva alla data di pubblicazione della novella - Violazione del principio di ragionevolezza - Contrasto con il principio della finalita' rieducativa della pena - Lesione del principio della ragionevole durata del processo. - Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 5, commi 1 e 2. - Costituzione, artt. 3, 27 e 111. Processo penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Modifiche normative - Ampliamento dell'ambito operativo dell'istituto - Conseguente sottrazione della maggioranza dei reati al giudizio di cognizione piena - Violazione del principio di ragionevolezza - Lesione del principio del contraddittorio. - Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 1. - Costituzione, artt. 3 e 111.(GU n.44 del 5-11-2003 )
IL TRIBUNALE Visti gli atti del procedimento penale a carico di: Okundia Uyiosa, Okoeguale Victoria Amenze, Okoeguale Sandra, Freschini Franco. Premesso in fatto Gli odierni imputati sono stati rinviati a giudizio, dopo l'udienza preliminare, per rispondere dei seguenti reati in due distinti processi: procedimento n. 2979/99 R.G.N.R. a carico di Okundia Uyiosa, Okoeguale Victoria Amenze, Okoeguale Sandra: A) del reato p. e p. dagli artt. 110, 81 cpv., e 3, nn. 4), 6) e 7), e 4, nn. 1) e 7), legge 20 febbraio 1958, n. 75 per avere, in concorso tra loro, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, operando in seno ad un'associazione a tal fine costituita, reclutato le cittadine extracomunitarie Okoh Sandra ed Oko Oboh Omo, inducendole all'introduzione nel territorio dello stato ed avviandole quindi alla prostituzione mediante violenza e minacce consistite nel prospettare loro che, ove si fossero sottratte al marciapiede, avrebbero subito gravi ritorsioni, e che comunque non sarebbero state «libere» se non dopo aver pagato loro, ciascuna, la somma di lire 80 milioni circa e sfruttandone poi la prostituzione stessa, facendosi dalle stesse consegnare gli interi proventi del loro meretricio. In Roma dal dicembre 1997 al giugno 1999; B) del reato p. e p. dagli artt. 110, 605 c.p., per avere, agendo in concorso tra loro, limitato la liberta' personale di Okoh Sandra, costringendola con violenza a salire sulla loro autovettura e tenendola quindi segregata e sotto loro costante controllo all'interno di un appartamento nella loro disponibilita'. In Roma dal 13 al 14 giugno 1999. Procedimento n. 24456/01 R.G.N.R. a carico di Okundia Uyiosa, Okoeguale Victoria Amenze, Okoeguale Sandra, Freschini Franco. I primi tre: A) dei delitti p. e p. dagli artt. 110, 81 cpv. c.p., 12, terzo comma, d.lgs. n. 286/1998 e 3 nn. 4, 6 e 7 e art. 4, n. l, legge n. 75/1958 per avere, agendo in concorso tra loro, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, operando in seno ad un'associazione a tal fine costituita, reclutato la cittadina extracomunitaria Esebelahie Joan Ufofo, inducendola alla prostituzione nel territorio dello Stato, favorendone l'immigrazione clandestina ed avviandola quindi alla prostituzione mediante violenza e minacce consistite nel prospettarle che, ove si fosse sottratta al marciapiede, lei, cosi' come i suoi familiari in Nigeria, avrebbero subito gravi ritorsioni, e che comunque non sarebbe stata libera se non dopo aver pagato loro la somma di lire 90 milioni circa, e sfruttandone poi la prostituzione stessa, facendosi dalla stessa consegnare gli interi proventi del meretricio. In Roma dal 1997 al giugno 1999. Il Freschini: B) del reato p. e p. dagli artt. 56 c.p., 3, n. 8 e 4, n. 3 legge n. 75/1958, perche', dopo aver contratto matrimonio civile il 21 febbraio 2000 presso il comune di Frosinone, con Esebelahie Joan Ufofo, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre la stessa a prostituirsi, al fine di sfruttarne il meretricio, a tal fine conducendola a Roma a bordo della propria vettura Y 10, portandola sulla via Cristoforo Colombo ed indicandole il posto dove prostituirsi, facendola scendere con la forza dalla vettura, consegnandole dei profilattici, e non riuscendo nell'intento per cause indipendenti dalla propria volonta', stante il netto rifiuto della donna e la minaccia di denunziarlo alle forze di polizia. In Roma, nel marzo 2000. Nel corso del dibattimento i due processi sono stati riuniti. Si e' proceduto ad una laboriosa istruttoria dibattimentale, protrattasi per diverse udienze. All'odierna udienza il difensore degli imputati Okundia Uyiosa, Okoeguale Victoria Amenze, Okoeguale Sandra, ha chiesto la sospensione del processo ai sensi dell'art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134. L'imputato Freschini ha dichiarato che non intende chiedere la sospensione. Considerato in diritto 1. - L'art. l della legge 12 giugno 2003, n. 134, stabilisce quanto segue: «Il comma l dell'art. 444 del codice di procedura penale e' sostituito dai seguenti: «1. L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecunaria». 1-bis. Sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, nonche' quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria». L'art. 5, della legge medesima legge, stabilisce che: 1) L'imputato, o il suo difensore munito di procura speciale, e il pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in cui sia prevista la loro partecipazione, possono formulare la richiesta di cui all'art. 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge, anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall'art. 446, comma 1, del codice di procedura penale, e cio' anche quando sia gia' stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente. 2) Su richiesta dell'imputato il dibattimento e' sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l'opportunita' della richiesta e durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare. 3) Le disposizioni dell'art. 4 si applicano anche ai procedimenti in corso. Per tali procedimenti la Corte di cassazione puo' applicare direttamente le sanzioni sostitutive.» Questo Tribunale dubita della legittimita' costituzionale delle norme sopra indicate per contrasto con gli artt. 3, 27 e 111 della Costituzione. In virtu' dell'intima connessione tra le due norme della cui legittimita' si dubita, alcune osservazioni che seguono concernono entrambe le disposizioni; altre, invece, concernono aspetti che vanno considerati individualmente. Si rileva, inoltre, che alcune delle eccezioni proposte sono assorbenti rispetto alle altre. Con riferimento all'art. 1, della legge in esame, si dubita della legittimita' dell'estensione dell'istituto dell'applicazione della pena ai reati per i quali possa essere determinata una pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria, non superiore a cinque anni, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo. Tale eccezione, ove accolta, assorbirebbe le altre. Con riferimento all'art. 5 della legge in esame, si rileva che la norma non appare ragionevole sotto diversi profili in particolare: a) in relazione al disposto del comma 1, che consente di formulare la richiesta anche oltre il termine fissato dall'art. 446, comma 1, c.p.p. e, quindi, «anche nei processi penali in corso di dibattimento (eccezione che, se accolta, assorbirebbe quelle che seguono); b) in relazione al disposto del comma 2, che impone, su richiesta dell'imputato, la sospensione non inferiore a 45 giorni (percio' anche superiore), pur essendovi nel nostro sistema dei termini ordinari molto piu' ristretti (15 giorni nel caso di giudizio immediato o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo); c) in relazione al disposto del comma 2, nella parte in cui fissa il termine di decorrenza della sospensione dalla prima udienza utile successiva alla data di pubblicazione della legge, anziche' disporre che alla prima udienza utile debba essere proposta l'istanza. 2. - Con riguardo all'art. 5 della legge n. 134/2003, in relazione al contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., si osserva che l'istituto della pena concordata e' stato introdotto nel codice di rito vigente per determinare un effetto deflattivo del procedimento penale, evitando laboriose istruttorie. In altri termini si e' concesso alle parti di concordare la pena per evitare i costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie determinati dalla complessita' del dibattimento; in cambio di tale risparmio, l'imputato gode di uno sconto fino ad un terzo della pena. E' ormai principio acquisito che la riduzione entro un terzo della pena costituisca un effetto premiale. Tale principio e' stato affermato anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 129 del 1993, laddove afferma, con riferimento ai riti speciali, che «l'interesse dell'imputato a beneficiare dei vantaggi conseguenti a tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia al dibattimento e venga percio' effettivamente adottata una sequenza procedimentale che consenta di raggiungere l'obiettivo di una rapida definizione del processo. Il carattere premiale del rito previsto dall'art. 444 c.p.p. e' stato ancora confermato dall'ordinanza n. 172 del 1998 di codesta Corte. Ne consegue che lo sbarramento previsto dall'art. 446, comma l c.p.p. per l'introduzione del rito ha una sua logica ferrea ed ineludibile, altrimenti verrebbe meno il principio stesso su cui si fonda il rito premiale. Il legislatore, con la novella del 2003, ha abolito per i processi in corso il limite di cui all'art. 446, comma 1, c.p.p., senza operare neppure una distinzione fra i processi per i quali e' stato aperto il dibattimento, ma non e' stata compiuta alcuna attivita' istruttoria e processi per i quali l'istruttoria e' gia' avanzata o addirittura e' stato dichiarato chiuso il dibattimento e si e' in fase di discussione. Consentire la riduzione della pena anche a chi non ha fatto risparmiare alcuna risorsa allo Stato, dopo la conclusione dell'udienza preliminare o nel corso del dibattimento e addirittura nel corso della discussione, non appare ragionevole e contrasta con i principi che sottendono l'istituto dell'applicazione della pena concordata. 3. - Si ravvisa l'ulteriore contrasto dell'art. 5 della legge in esame con l'art. 27 della Costituzione. Va premesso che codesta Corte, con sentenza n. 313 del 1990, ha affermato che: «La necessita' costituzionale che la pena debba «tendere» a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena, indica invece proprio una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, e che di conseguenza il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost. vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche' per le stesse autorita' penitenziarie». Prosegue, ancora la Corte: «Incidendo la pena sui diritti di chi vi e' sottoposto, non puo' negarsi che, indipendentemente da una considerazione retributiva, essa abbia necessariamente anche caratteri in qualche misura afflittivi. Cosi' come e' vero che alla sua natura ineriscano caratteri di difesa sociale, e anche di prevenzione generale per quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di colui che delinque. Ma, per una parte (afflittivita', retributivita), si tratta di profili che riflettono quelle condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale». Poiche', dunque, la pena deve rispondere, fin dalla previsione normativa, ai principi di retribuzione, afflittivita' e rieducazione stabiliti dall'art. 27 Cost., si rileva che la riduzione premiale del tutto disancorata da una condotta positiva dell'imputato - nei cui confronti e' stato celebrato anche per intero il processo di cognizione mediante il dibattimento - viola il principio di rieducazione. In altri termini si attribuisce il premio consistente nella diminuzione fino ad un terzo della pena senza contropartita alcuna, riducendo di fatto la pena originaria senza alcuna causa. 4. - L'art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134/2003 contrasta con l'art. 111, Cost. Quest'ultimo, nella parte in cui sancisce il principio della ragionevole durata del processo, e' di recente introduzione e trae il suo fondamento nei principi enunciati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848. Appare opportuna qualche riflessione sull'interpretazione dell'art. 111, Cost. e sugli interessi che esso tutela. Occorre, cioe', chiarire se il principio della ragionevole durata del processo debba essere riferito solo all'interesse di ogni singolo imputato - anche nel caso si tratti di processo con piu' imputati - oppure si riferisca anche a tutte le altre parti processuali, oppure anche agli interessi dello Stato e del popolo, in nome del quale la giustizia e' amministrata. Questo tribunale non ignora che la Corte, con sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che «l'applicazione della pena concordata con il pubblico ministero da uno solo degli imputati di concorso nel medesimo reato costituisce un procedimento congegnato come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine al quale e' previsto un controllo giurisdizionale che non include pero' la valutazione delle posizioni dei coimputati». La questione, tuttavia, era stata esaminata solo con riferimento all'art. 3 della Costituzione. Essa, inoltre, era afferente ad una disposizione ordinaria e non all'introduzione di una norma transitoria, come quella oggi denunciata, che mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti in corso, anche se in fase dibattimentale o di discussione. Sicche' e' questione nuova e diversa. La sentenza citata, poi, era antecedente alla riforma dell'art. 111 della Costituzione. E' ovvio che se la speditezza processuale dovesse intendersi solo con riferimento agli imputati e non pure alle altre parti processuali e, addirittura, riguardare solo il singolo imputato il quale, a seconda dei casi, ha interesse ad un processo piu' lungo nella speranza della prescrizione del reato o piu' breve, attraverso riti alternativi, prescindendo dagli interessi delle altre parti di quel medesimo processo e anche da interessi superiori della cittadinanza a vedere celebrati tutti i processi con sollecitudine, la richiesta di rito alternativo effettuata anche in corso di un processo in cui l'istruttoria dibattimentale sia gia' iniziata o addirittura terminata, non incontrerebbe ostacoli nell'art. 111 della Cost. A diversa conclusione si dovrebbe pervenire qualora si riconoscesse alla norma costituzionale un valore che concerne tutti i partecipanti al processo. Sotto tale profilo appare opportuno svolgere alcune considerazioni. In primo luogo si osserva che nell'attuale sistema i poteri decisori del giudice sono stati ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti. Ogni volta che sia disposta la rinnovazione del dibattimento, l'istruttoria dibattimentale deve ricominciare da capo, salvo nel caso in cui le parti prestino il consenso alla lettura. Nel caso, percio', di un processo con piu' imputati, di cui solo alcuni chiedano la sospensione del processo, ai sensi dell'art. 5, comma 2 della legge n. 134/2003, il giudice deve, innanzitutto, stabilire se proseguire il processo nei confronti dei coimputati, effettuando uno stralcio della posizione dei richiedenti. Ma cio' sarebbe irragionevole ed in contrasto con gli artt. 3, Cost. e 111, Cost., perche' tale stralcio potrebbe rivelarsi inutile nel caso in cui alla sospensione non seguisse la richiesta di «patteggiamento», con dispendio di energie e di attivita' processuali e ingiustificata dilazione della definizione della posizione dell'imputato. E' conforme a ragionevolezza disporre lo stralcio solo dopo l'effettiva presentazione della richiesta di applicazione della pena, alla scadenza del termine di sospensione. Se, all'udienza successiva gli interessati richiedono l'applicazione della pena, l'accoglimento dell'istanza renderebbe il giudice incompatibile a giudicare gli altri coimputati; il rigetto della richiesta lo renderebbe ugualmente incompatibile a giudicare l'imputato. In entrambi i casi il processo dovrebbe iniziare ex novo innanzi ad altro giudice, con rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. In tal caso non vi sarebbe speditezza processuale ne' per gli interessati ne' per i coimputati, ma, anzi una dilatazione dei tempi della decisione; con la conseguenza che ad una decisione con rito ordinario ormai certa nel tempo, si sostituisce un'attivita' interlocutoria di sospensione che potrebbe concludersi con il rigetto della richiesta di applicazione della pena e con la necessita' di celebrare ex novo il processo con rito ordinario. 5. - Si osserva, inoltre che, nel caso di applicazione della pena nei processi in cui il dibattimento e' in corso, la parte civile costituita vedrebbe crollare le proprie legittime aspettative, dovendo ricominciare il processo ex novo sia nei confronti dei coimputati innanzi ad altro giudice, sia separatamente - in sede civile - nei confronti di colui che e' stato ammesso al «patteggiamento». E' vero che la Corte ha affrontato il problema relativo all'esclusione della parte civile nel rito de quo (v. sent. n. 443/1990), ma e' pur vero che si trattava di decisioni che si riferivano al sistema «ordinario» di applicazione della pena e non di norma transitoria, come quella prevista dall'art. 5 della legge n. 134/2003 che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui la parte civile sta gia' esercitando il proprio diritto con una legittima aspettativa di rapida e normale decisione. Sicche' anche sotto tale aspetto la frustrazione dei diritti della parte civile e della ragionevole durata - anche per lei - del processo finisce con il violare i principi di ragionevolezza e di un giusto processo di durata ragionevole stabiliti dagli artt. 3 e 111 della Costituzione. 6. - Questo Tribunale ritiene che l'interpretazione proposta dell'art. 111, Cost. sia confortata anche dalla produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma costituzionale. E' noto, infatti, che l'Italia e' stata piu' volte condannata dalla Corte europea per l'eccessiva durata dei processi. La condanna prescinde da eventuali responsabilita' dei giudici, ma si fonda sul principio che ciascun paese deve dotarsi di leggi processuali che consentano una rapida definizione dei processi. Gia' da molti anni vi sono Stati, come la Danimarca e l'Olanda, in grado di definire la maggior parte dei processi in primo grado nell'arco di tre mesi, esaurendo l'appello nel successivo trimestre. Cio' e' dovuto ad una semplificazione soprattutto del sistema delle notificazioni, all'esistenza di maggiori obblighi di diligenza delle parti - compresi gli imputati - di informarsi dell'iter processuale anche in caso di rinvio delle udienze. E' chiaro che in sistemi siffatti la sospensione di un processo per 45 giorni, ossia oltre un terzo del tempo complessivo di definizione, sarebbe inaccettabile. Per ovviare alle condanne in sede europea in Italia e' stata introdotta la normativa (legge 24 marzo 2001, n. 89) che consente alle parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia avuto una durata eccessiva, indipendentemente dalle ragioni che l'abbiano determinata. L'equa riparazione non spetta solo all'imputato, ma anche alla parte civile. Da cio' si evince che la ragionevole durata del processo non e' un diritto solo dell'imputato, ma anche delle altre parti processuali, ivi compresa la parte civile, ed assurge, quindi a principio generale. Assume rilievo, nel sistema, ad esempio, l'art. 477 c.p.p. che impone tempi rapidissimi per la definizione del dibattimento, stabilendo che il rinvio del processo dev'essere effettuato al giorno successivo e che il processo puo' essere sospeso solo per ragioni «di assoluta necessita» e «per un termine massimo di dieci giorni», computate tutte le dilazioni. Tale norma e' certamente dettata nell'interesse di tutte le parti. 7. - L'irragionevolezza della concessione di un termine - tra l'altro di un termine particolarmente lungo nel minimo e che puo' essere anche maggiore, per di piu' dilazionato alla prima udienza utile - (oltre che in contrasto con il principio di ragionevole durata di cui all'art. 111, Cost.), appare ancor piu' evidente ove si consideri che il legislatore, nel caso di giudizio immediato, ha ritenuto congruo il termine di 15 giorni per la richiesta di pena concordata, ossia un tempo che e' esattamente un terzo di quello oggi previsto dalla novella, pur vertendosi in identica materia e per il giudizio direttissimo ha stabilito il termine in limine litis. A cio' s'aggiunge la circostanza che, mentre nel giudizio immediato e nel giudizio direttissimo le conoscenze dell'imputato relative alla situazione probatoria a suo carico sono limitate, nei processi per i quali il dibattimento e' in corso l'imputato ha avuto modo di conoscere tutti gli elementi probatori a suo carico. Sotto tale profilo si osserva che ogni cittadino e' tenuto a conoscere le leggi pubblicate. Pertanto ogni imputato e' stato posto in grado, nel momento in cui la legge in esame e' stata pubblicata, di valutare l'opportunita' di avvalersi della pena concordata. A maggior conforto di tale assunto si rileva che ogni imputato e' assistito da un difensore, sicche' ha avuto modo di consultarsi con lo stesso per valutare l'opportunita' di avvalersi della pena concordata. La concessione di un termine di durata notevole, in rapporto ai parametri sopra esposti, decorrente dalla prima udienza, appare irragionevole. Tale irragionevolezza appare di tutta evidenza allorche' la fase istruttoria sia esaurita o il processo sia addirittura in fase di discussione, e, quindi, l'imputato ha potuto valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della convenienza eventuale di concordare la pena. Se tale assunto e' corretto, deve ritenersi che non corrispondono ai parametri costituzionali di ragionevolezza (art. 3, Cost.) e di ragionevole durata (art. 111, Cost.) le disposizioni dell'art. 5, commi 1 e 2 che prevedono: a) l'obbligo di sospendere il processo per quarantacinque giorni su richiesta dell'imputato; b) consentono al pubblico ministero e all'imputato o al suo difensore munito di procura speciale, di richiedere l'applicazione della pena anche nei processi in corso. 8. - Come s'e' prima anticipato, il tribunale prospetta il dubbio di legittimita', per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione, anche dell'art. 1 della legge 12 giugno 2003, n. 134, il quale, modificando l'originaria formulazione dell'art. 444 c.p.p., stabilisce che: «1. L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria. Ad avviso del tribunale la norma in esame, per la sua ampia applicazione, assurge alla dignita' di «rito ordinario», relegando il processo di cognizione piena a ruolo residuale, in violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza e di formazione della prova in contraddittorio di cui agli artt. 3 e 111 della Cost., gia' consacrati nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'art. 6, primo comma, primo periodo della legge 4 agosto 1955, n. 848, di ratifica della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, stabilisce che: «Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che decidera' sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei». Il terzo comma del medesimo articolo, in particolare alla lettera d), sancisce «il diritto di interrogare o fare interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico». In sostanza l'articolo citato sancisce il principio del contraddittorio nel processo, poi recepito dall'art. 111, commi 1, 2 e 4 della Cost. come novellato nel 1999. In altri termini il principio cardine del processo e' che l'accertamento della responsabilita' penale e' fondato su di un giusto processo che preveda una fase di cognizione piena con un contraddittorio che ponga le parti «in condizioni di parita», come espressamente stabilito dal comma 2 della norma costituzionale in esame. Solo in via del tutto eccezionale e' consentita una deroga stabilita dal comma 5 dell'art. 111, laddove afferma che «La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato». Sotto tale profilo si rileva che la sentenza di codesta Corte n. 129 del 1993 gia' affermava che il nostro sistema processuale e' «imperniato sulla formazione della prova in dibattimento.» La modifica dell'art. 444 c.p.p., consentendo, per un elevatissimo numero di reati, in sostanza la maggioranza, di concordare la pena, trasforma l'eccezione stabilita dall'art. 111, comma 5, Cost. in principio generale, riducendo a mera eccezione il principio del contraddittorio stabilito dai commi 1 e 2. E' certo che il legislatore ha un ampio potere discrezionale. Ma se in astratto si dovesse ritenere tale discrezionalita' senza limiti, si perverrebbe alla conclusione paradossale che il cosiddetto «patteggiamento» potrebbe essere introdotto indiscriminatamente per tutti i reati, ossia con sentenza resa in camera di consiglio e non pubblicamente, senza accertamento di colpevolezza, in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo reso in contraddittorio, in «condizioni di parita' tra le parti», con cognizione piena da parte del giudice. Se, invece, si deve ritenere che la discrezionalita' debba avere un fondamento di ragionevolezza e di aderenza anche al precetto costituzionale primario di cui all'art. 111, primo e secondo comma, codesta Corte puo' verificare se, nel caso in esame, l'estensione oggi introdotta alla deroga del contraddittorio sia eccessiva e esorbiti dai limiti ragionevoli di discrezionalita' concessi al legislatore. 9. - Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, stabilisce che il processo debba essere celebrato «pubblicamente». La pubblicita' del processo e' un carattere essenziale di uno stato democratico perche' e' garanzia di trasparenza ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L'applicazione della pena su richiesta avviene in camera di consiglio. La stessa Convenzione prescrive che il giudice accerti il «fondamento» di ogni accusa elevata contro l'imputato. Cio' presuppone una cognizione piena. Reati con pena edittale molto elevata, come il tentato omicidio, la rapina aggravata o la violenza sessuale aggravata ed anche i reati oggi contestati, con il giudizio di comparazione con le attenuanti e la riduzione prevista per il rito prescelto, possono essere definiti con una sentenza che non e' di condanna, ma solo equiparata a questa, non e' resa pubblicamente, ma in camera di consiglio, con estromissione della parte civile e ponendo la parte offesa ai margini del processo che pur la vede vittima. 10. - Le eccezioni oggi proposte sono rilevanti per le seguenti ragioni: A) e' stata richiesta dal difensore di tre imputati la sospensione del processo ai sensi dell'art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 e cio' alla prima udienza celebrata innanzi al collegio dopo la vigenza della legge citata; B) vi e' parte civile gia' costituita; C) il processo e' in fase dibattimentale avanzata. 11. - L'eccezione non e' manifestamente infondata per le ragioni sopra esposte ed e' sollevata d'ufficio.
P. Q. M. Vista la legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta, d'ufficio, non manifestamente infondata e rilevante ai fini del presente giudizio la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 5, commi 1 e 2 della legge 12 giugno 2003, n. 134 per contrasto con gli artt. 3, 27 e 111 della Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione; Sospende il giudizio in corso; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Roma, addi' 14 luglio 2003 Il Presidente: Bresciano 03C1128