N. 867 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 luglio 2003

Ordinanza  emessa  il  1°  luglio  2003  dal  tribunale  di  Roma nel
procedimento penale a carico di Barletta Claudio ed altri

Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche  normative  -  Possibilita'  per le parti di formulare la
  richiesta  di  cui  all'art. 444  cod.  proc. pen., come novellato,
  anche  nei  processi  penali  in  corso  di dibattimento, nei quali
  risulti  decorso  il  termine previsto dall'art. 446, comma 1, cod.
  proc.   pen.   -   Sospensione   del   dibattimento,  su  richiesta
  dell'imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni
  per  valutare  l'opportunita'  della  richiesta  -  Decorrenza  del
  termine  per  richiedere  la  sospensione  del processo dalla prima
  udienza utile successiva alla data di pubblicazione della novella -
  Violazione  del principio di ragionevolezza - Lesione del principio
  della ragionevole durata del processo.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 5, commi 1 e 2.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche    normative    -   Ampliamento   dell'ambito   operativo
  dell'istituto - Conseguente sottrazione della maggioranza dei reati
  al  giudizio  di  cognizione  piena  -  Violazione del principio di
  ragionevolezza - Lesione del principio del contraddittorio.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 1.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.44 del 5-11-2003 )
                            IL TRIBUNALE

    Visti  gli  atti  del  procedimento  penale a carico di: Barletta
Claudio,  Bianco  Domenico,  Bottone Leopoldo, Celani Duilio, Cirulli
Amelio,  Cirulli  Mario, Corigliano Antonio, D'Amario Gino Valentino,
Moauro Antonio Nino, Tucci Remo, Zanna Santino.
    Imputati il Bianco: a) artt. 81, 110, 319 c.p.; b) art. 81, 476 e
482  c.p.;  c)  art. 48, 81, 479 c.p.; d) artt. 81, 110, 314, 61 n. 2
c.p.;  e)  artt. 81, 624, 625 n. 7, 61 nn. 2 e 9 c.p.; fatti commessi
in Roma fino al tutto il 1996.
    Barletta  e  Celani:  f)  art. 81, 110, 319 c.p.; in Roma fino al
settembre 1996;
    Cirulli  Amelio: i) art. 321 c.p. in relazione all'art. 319 c.p.;
in Roma, nel novembre 1996;
    Corigliano:  o)  art. 321 in relazione all'art. 319 c.p.; in Roma
nel gennaio 1996;
    Tucci:  s)  art. 321  in relazione all'art. 319 c.p.; in Roma nel
1995;
    D'Amario:  v)  art. 321  in relazione all'art. 319 c.p.; in Roma,
nei primi mesi del 1995;
    Moauro:  jj) art. 321 in relazione all'art. 319 c.p.; in Roma nel
1993;
    Bottone: kk) art. 321 in relazione all'at. 319 c.p.; in Roma, nel
giugno 1994;
    Zanna:  qq) art. 321 in relazione all'art. 319 c.p.; in Roma, nel
marzo 1994;
    Cirulli  Mario:  xx)  art. 321 in relazione all'art. 319 c.p.; in
Roma, nel gennaio 1995.
Premesso in fatto che:
    Gli  odierni  imputati  sono  stati  rinviati  a  giudizio,  dopo
l'udienza  preliminare,  per  rispondere  dei  reati sopra indicati e
meglio descritti nei capi d'imputazione;
    Vi e' stata costituzione di parte civile;
    Il processo era oggi fissato per la sola discussione;
    All'odierno  dibattimento  l'imputato,  Bianco, tramite difensore
munito di procura speciale, ha chiesto la sospensione del processo ai
sensi  dell'art. 5,  comma  2,  della legge 12 giugno 2003, n. 134; i
difensori degli imputati, D'Amario, Cirulli Mario, Celani e Barletta,
privi  di  procura  speciale, hanno chiesto ugualmente la sospensione
del processo ai sensi della norma citata;
Considerato in diritto che:
    1. -   L'art. 5,  della  legge 12 giugno 2003, n. 134, stabilisce
che:
        1) l'imputato, o il suo difensore munito di procura speciale,
e  il  pubblico  ministero, nella prima udienza utile successiva alla
data  di  entrata in vigore della presente legge, in cui sia prevista
la  loro  partecipazione,  possono  formulare  la  richiesta  di  cui
all'articolo  444  del  codice  di  procedura penale, come modificato
dalla   presente  legge,  anche  nei  processi  penali  in  corso  di
dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente
legge,  risulti  decorso  il termine previsto dall'art. 446, comma 1,
del  codice  di  procedura penale, e cio' anche quando sia gia' stata
presentata  tale  richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del
pubblico  ministero  o  la richiesta sia stata rigettata da parte del
giudice,  e  sempre  che  la  nuova  richiesta  non  costituisca mera
riproposizione della precedente;
        2)  su richiesta dell'imputato il dibattimento e' sospeso per
un  periodo  non  inferiore  a  quarantacinque  giorni  per  valutare
l'opportunita'  della richiesta e durante tale periodo sono sospesi i
termini di prescrizione e di custodia cautelare;
        3)   le  disposizioni  dell'art.  4  si  applicano  anche  ai
procedimenti  in  corso. Per tali procedimenti la Corte di cassazione
puo' applicare direttamente le sanzioni sostitutive.
    Questo  Tribunale  dubita della legittimita' costituzionale della
norma per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    La   norma  non  appare  ragionevole  sotto  diversi  profili  in
particolare:
        a)  in  relazione  al  disposto  del comma 1, che consente di
formulare  la  richiesta anche oltre il termine fissato dall'at. 446,
comma 1, c.p.p.;
        b)  in  relazione  al  disposto  del  comma 2, che impone, su
richiesta  dell'imputato,  una  sospensione di 45 giorni, fissando il
termine  di decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data
di pubblicazione;
        c)   in  relazione  al  disposto  del  comma  3  che  dispone
applicarsi  le disposizioni dell'art. 4 della medesima legge anche ai
processi in corso;
    2.  -  In primo luogo, in relazione al contrasto con il principio
di  ragionevolezza  di cui all'art. 3 Cost. si osserva che l'istituto
della  pena concordata e' stato introdotto nel codice di rito vigente
per  determinare  un  effetto  deflattivo del procedimento penale. In
sostanza  si e' concesso alle parti di concordare la pena per evitare
i  costi  in  termini  di  tempo,  di  risorse  umane  e  finanziarie
determinate   dalla   complessita'  dell'udienza  preliminare  o  del
dibattimento;  in  cambio  di  tale risparmio, l'imputato gode di uno
sconto di un terzo della pena.
    Tale   principio   e'   stato   affermato   anche   dalla   Corte
costituzionale  con  sentenza  n. 129  del 1993, laddove afferma, con
riferimento  ai  riti  speciali,  che  «l'interesse  dell'imputato  a
beneficiare  dei vantaggi conseguenti a tali giudizi in tanto rileva,
in   quanto   egli   rinunzia   al   dibattimento   e  venga  percio'
effettivamente  adottata  una sequenza procedimentale che consenta di
raggiungere  l'obiettivo  di una rapida definizione del processo». Il
carattere  premiale  del  rito previsto dall'art. 444 c.p.p. e' stato
ancora confermato dall'ordinanza n. 172 del 1998 di codesta Corte.
    Ne  consegue  che  lo  sbarramento previsto dall'art. 446 comma 1
c.p.p.  per  l'introduzione  del  rito  ha  una  sua logica ferrea ed
ineludibile,  altrimenti  verrebbe meno il principio stesso su cui si
fonda il rito premiale.
    Il   legislatore,   con  la  novella  del  2003,  avrebbe  dovuto
consentire  di presentare la richiesta lasciando inalterato il limite
di  cui  all'art. 446,  comma 1, c.p.p. Invece non ha operato neppure
una  distinzione  fra  i  processi  per  i  quali  e' stato aperto il
dibattimento, ma non e' stata compiuta alcuna attivita' istruttoria e
processi  per i quali l'istruttoria e' gia' avanzata o addirittura e'
stato   dichiarato  chiuso  il  dibattimento  e  si  e'  in  fase  di
discussione.
    Consentire  la  riduzione  della  pena  anche  a chi non ha fatto
risparmiare alcuna risorsa 1o Stato e ai cittadini, dopo che e' stata
celebrata  l'udienza preliminare o il dibattimento e' stato celebrato
ed  e' stato addirittura dichiarato chiuso ed e' addirittura in corso
la discussione, non appare ragionevole e contrasta con i principi che
sottendono l'istituto dell'applicazione della pena concordata.
    3. - Si  ravvisa l'ulteriore contrasto con l'art. 111 Cost. oltre
che, sotto diverso profilo, con l'art. 3 Cost.
    Quest'ultimo,  nella  parte  relativa alla ragionevole durata del
processo,  e'  di  recente  introduzione e trae il suo fondamento nei
principi  enunciati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali, ratificata dalla legge 4
agosto 1955, n. 848.
    Appare   opportuna   qualche   riflessione   sull'interpretazione
dell'art.  111  Cost.  e  sugli  interessi  che esso tutela. Occorre,
cioe', chiarire se il principio della ragionevole durata del processo
debba  essere  riferito solo all'interesse di ogni singolo imputato -
anche  nel  caso  si tratti di processo con piu' imputati - oppure si
riferisca anche a tutte le altre parti processuali, oppure anche agli
interessi dello Stato e dei cittadini in generale. E' ovvio che se la
speditezza  processuale va intesa con riferimento al singolo imputato
il  quale, a seconda dei casi, ha interesse ad un processo piu' lungo
nella  speranza della prescrizione del reato o piu' breve, attraverso
riti  alternativi,  prescindendo dagli interessi delle altre parti di
quel   medesimo   processo  e  anche  da  interessi  superiori  della
cittadinanza  a  vedere celebrati tutti i processi con sollecitudine,
la  richiesta  di  rito  alternativo  effettuata anche in corso di un
processo  in  cui  l'istruttoria  dibattimentale  sia gia' iniziata o
addirittura  terminata,  non incontrera' ostacoli nell'art. 111 della
Cost.  Se,  invece,  l'interpretazione  della  ragionevole  durata va
commisurata  anche  ad altri interessi, e' necessario svolgere alcune
considerazioni.
    In  primo  luogo  si  osserva  che  nell'attuale sistema i poteri
decisori  del  giudice  sono  stati  ampiamente  ridotti in favore di
quelli  delle  parti. Ogni volta che sia disposta la rinnovazione del
dibattimento, l'istruttoria dibattimentale deve ricominciare da capo,
salvo nel caso in cui le parti prestino il consenso alla lettura. Nel
caso,  percio',  di  un  processo  con piu' imputati, di cui solo uno
chieda  la  sospensione  del  processo,  ai sensi dell'art. 5 comma 2
della  legge  n. 134/2003,  e  successivamente  chieda l'applicazione
della pena, il giudice deve, innanzitutto, stabilire se proseguire il
processo nei confronti dei coimputati, effettuando uno stralcio della
posizione  del  richiedente,  che potrebbe rivelarsi poi inutile, con
dispendio  di  energie  e di attivita' processuali; se, poi, anziche'
sospendere  il processo anche nei confronti dei coimputati, lo rinvia
in  attesa  del  decorso  dei  45  giorni  prescritti  e  all'udienza
successiva   l'interessato   richiede   l'applicazione   della  pena,
l'accoglimento  dell'istanza  renderebbe  il  giudice incompatibile a
giudicare  gli  altri  coimputati;  il  rigetto  della  richiesta  lo
renderebbe   ugualmente  incompatibile  a  giudicare  l'imputato;  in
entrambi  i  casi  il  processo  dovrebbe iniziare ex novo innanzi ad
altro  giudice,  con rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. In
tal  caso non vi sarebbe speditezza processuale ne' per l'interessato
ne'  per  i  coimputati,  ma,  anzi  una  dilatazione dei tempi della
decisione   (tra   l'altro  gia'  maturi  perche'  l'istruttoria  era
esaurita); con la conseguenza che ad una decisione con rito ordinario
ormai  certa nel tempo, si sostituisce un'attivita' interlocutoria di
sospensione  che  potrebbe concludersi con il rigetto della richiesta
di  applicazione  della pena e con la necessita' di celebrare ex novo
il processo con rito ordinario.
    Questo tribunale non ignora che la Corte, con sentenza n. 266 del
1992,  ha  affermato che «l'applicazione della pena concordata con il
pubblico  ministero  da  uno  solo  degli  imputati  di  concorso nel
medesimo   reato   costituisce   un   procedimento   congegnato  come
pattuizione  tra  imputato richiedente e parte pubblica, in ordine al
quale  e' previsto un controllo giurisdizionale che non include pero'
la   valutazione  delle  posizioni  dei  coimputati».  La  questione,
tuttavia,  era  stata esaminata solo con riferimento all'art. 3 della
Costituzione  ed inoltre, era afferente ad una disposizione ordinaria
e  non  all'introduzione  di  una norma transitoria, come quella oggi
denunciata,  che  mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti
in corso, anche se in fase dibattimentale. Sicche' e' questione nuova
e  diversa.  Inoltre  la sentenza citata era antecedente alla riforma
dell'art. 111 della Costituzione.
    4.  -  Si  osserva,  inoltre  che, nel caso di applicazione della
pena,  la  parte  civile  costituita  vedrebbe  crollare  le  proprie
legittime  aspettative,  dovendo ricominciare il processo ex novo sia
nei   confronti   dei   coimputati   innanzi  ad  altro  giudice  sia
separatamente  - in sede civile - nei confronti di colui che e' stato
ammesso  al  «patteggiamento».  E' vero che la Corte ha affrontato il
problema  relativo all'esclusione della parte civile nel rito de quo;
(v.  sent.  n. 443/1990), ma e' pur vero che si trattava di decisioni
che si riferivano al sistema «ordinario» di applicazione della pena e
non  di  norma  transitoria,  come  quella  in esame che interviene a
disciplinare  un  giudizio  in  corso in cui la parte civile sta gia'
esercitando  il  proprio  diritto  con  una  legittima aspettativa di
rapida  e  normale  decisione.  Sicche'  anche  sotto tale aspetto la
frustrazione  dei  diritti  della  parte  civile  e della ragionevole
durata  -  anche  per  lei  -  del  processo finisce con il violare i
principi di ragionevolezza e di giusto processo di ragionevole durata
stabiliti dagli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    5. - Questo  Tribunale  ritiene  che  l'interpretazione estensiva
dell'art. 111  Cost.  sia  maggiormente fondata anche alla luce della
produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma
costituzionale.  E'  noto,  infatti, che l'Italia e' stata piu' volte
condannata  dalla  Corte europea per l'eccessiva durata dei processi.
La condanna prescinde da eventuali responsabilita' dei giudici, ma si
fonda   sul  principio  che  ciascun  Paese  deve  dotarsi  di  leggi
processuali  che consentano una rapida definizione dei processi. Gia'
da  molti  anni vi sono Paesi, come la Danimarca e l'Olanda, che sono
in  grado  di  definire  la maggior parte dei processi in primo grado
nell'arco  di tre mesi, esaurendo l'appello nel successivo trimestre.
Cio'  e'  dovuto ad una semplificazione soprattutto del sistema delle
notificazioni,  all'esistenza di maggiori obblighi di diligenza delle
parti  processuali,  ivi  compresi  gli  imputati.  E'  chiaro che in
sistemi  siffatti  la  sospensione  di  un processo anche solo per 45
giorni,  ossia  oltre  un terzo del tempo complessivo di definizione,
sarebbe inaccettabile.
    Per  ovviare  alle  condanne  in  sede europea in Italia e' stata
introdotta  la  normativa  statale  (legge  24 marzo 2001, n. 89) che
consente  alle  parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia
avuto  una  durata  eccessiva,  indipendentemente  dalle  ragioni che
l'abbiano   determinata.   L'equa   riparazione   non   spetta   solo
all'imputato, ma anche alla parte civile.
    Da  cio'  si evince che la ragionevole durata del processo non e'
un   diritto   solo   dell'imputato,   ma  anche  delle  altre  parti
processuali,  ivi  compresa  la  parte  civile,  ed assurge, quindi a
principio generale.
    Assume  rilievo,  nel  sistema,  ad esempio, l'at. 477 c.p.p. che
impone   tempi  rapidissimi  per  la  definizione  del  dibattimento,
stabilendo  che  il  rinvio  del  processo  deve essere effettuato al
giorno  successivo  e  che  il  processo puo' essere sospeso solo per
ragioni  «di  assoluta  necessita» e «per un termine massimo di dieci
giorni», computate tutte le dilazioni.
    Si  rileva,  inoltre,  che  nel  caso  di  giudizio immediato, e'
previsto il termine di 15 giorni per la richiesta di pena concordata,
ossia  un  tempo  che e' esattamente un terzo di quello oggi previsto
dalla novella, pur vertendosi in materia analoga.
    Se  tale  assunto e' corretto, deve ritenersi che non corrisponde
ai  parametri  costituzionali  di  ragionevolezza (art. 3 Cost). e di
ragionevole   durata  (art. 111  Cost.)  la  norma  che  consente  di
sospendere  il  processo per 45 giorni e di richiedere l'applicazione
della pena anche nei processi in corso.
    6. - Come  s'e' prima precisato, l'at. 5, comma 2, della legge 12
giugno  2003,  n. 134, stabilisce che: «su richiesta dell'imputato il
dibattimento e' sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque
giorni  per  valutare  l'opportunita'  della richiesta e durante tale
periodo  sono  sospesi  i  termini  di  prescrizione  e  di  custodia
cautelare».
    Premesso  che  la  disposizione  s'applica  a tutti i processi in
corso,  percio'  perfino  ai  processi per in fase di discussione, si
rileva  che  non  appare  ragionevole  la  concessione  di un termine
decorrente  dalla  prima udienza utile. Sotto tale profilo si osserva
che  ogni  cittadino  e'  tenuto  a  conoscere  le  leggi pubblicate.
Pertanto ogni imputato e' stato posto in grado, nel momento in cui la
legge  in  esame  e'  stata pubblicata, di valutare l'opportunita' di
avvalersi  della  pena concordata. A maggior conforto di tale assunto
si  rileva che ogni imputato e' assistito da un difensore, sicche' ha
avuto  modo  di consultarsi con lo stesso per valutare l'opportunita'
di  avvalersi  della pena concordata. La concessione di un termine di
durata  notevole,  (ossia  ben quarantacinque giorni), in rapporto ai
parametri  sopra  esposti,  decorrente  dalla  prima udienza anziche'
dalla    vigenza    della    legge,    appare   irragionevole.   Tale
irragionevolezza   appare   di   tutta  evidenza  allorche'  la  fase
istruttoria  sia  esaurita  o  il processo sia addirittura in fase di
discussione,  e,  quindi,  l'imputato  ha  potuto  valutare  tutto il
materiale  probatorio e rendersi conto della convenienza eventuale di
concordare la pena.
    Una  volta  accertato  che  il  rapporto esistente tra imputato e
difensore  consente  ad  entrambi  di valutare momento per momento le
opportunita'  di  scelte  processuali e che, dunque, non v'e' lesione
del  diritto  di  difesa ammettere che l'imputato, alla prima udienza
utile,  debba  dichiarare  se  intende  «patteggiare»  o no, anziche'
chiedere  un  lungo  termine  di  riflessione,  deve ritenersi che la
sospensione  obbligatoria  per  45  giorni  incida  sulla ragionevole
durata  del processo. Nel bilanciamento tra l'interesse dell'imputato
e  l'interesse  generale ad una durata ragionevole - posto che nessun
danno  deriva  all'imputato  nella  dichiarazione  alla prima udienza
utile  se  intende  concordare  la  pena  - sembra dover prevalere la
ragionevole durata del processo.
    7. - Il  Tribunale  prospetta  il  dubbio  di  legittimita',  per
contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione, anche dell'art. 1
della legge 12 giugno 2003, n. 134, il quale stabilisce quanto segue:
«il  comma  1  dell'art.  444  del  codice  di  procedura  penale  e'
sostituito dai seguenti:
        «1)  l'imputato  e  il pubblico ministero possono chiedere al
giudice  l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una
sanzione  sostitutiva  o  di una pena pecuniaria, diminuita fino a un
terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle
circostanze  e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli
o congiunti a pena pecuniaria;
        1-bis)   sono   esclusi   dall'applicazione  del  comma  1  i
procedimenti  per  i  delitti  di  cui  all'art.  51,  commi  3-bis e
3-quater,  nonche'  quelli  contro  coloro che siano stati dichiarati
delinquenti  abituali,  professionali  e  per tendenza, o recidivi ai
sensi  dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena
superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria».
    Con  la norma in esame si sottrae al giudizio di cognizione piena
la  maggioranza  assoluta  dei  reati,  molti  dei  quali di notevole
gravita',  trasformando  di  fatto  il  rito speciale di applicazione
della  pena  in  un  rito  generalizzato,  in violazione dei principi
costituzionali  di  ragionevolezza  e  di  formazione  della prova in
contraddittorio   di  cui  agli  artt. 3  e  111  della  Cost.,  gia'
consacrati  nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo.
    L'art. 6,  primo  comma, primo periodo della legge 4 agosto 1955,
n. 848, di ratifica della convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  stabilisce  che:  «Ogni
persona  ha  diritto  che  la sua causa sia esaminata imparzialmente,
pubblicamente  e  in  un  tempo ragionevole, da parte di un tribunale
indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che decidera' sia
in  ordine  alle  controversie  sui  suoi  diritti ed obbligazioni di
natura  civile,  sia  sul fondamento di ogni accusa in materia penale
elevata contro di lei».
    Il terzo comma del medesimo articolo, in particolare alla lettera
d),  sancisce  «il  diritto  di  interrogare  o  fare  interrogare  i
testimoni  a  carico  ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei
testimoni  a  discarico a pari condizioni dei testimoni a carico». In
sostanza  l'articolo citato sancisce il principio del contraddittorio
nel  processo, poi recepito dall'art. 111, commi 1, 2 e 4 della Cost.
come novellato nel 1999.
    In  altri  termini  il  principio che regola l'accertamento della
responsabilita'  penale  e'  fondato  su  di  un  giusto processo che
preveda una fase di cognizione piena con un contraddittorio che ponga
le  parti «in condizioni di parita», come espressamente stabilito dal
comma  2° della norma costituzionale in esame. Ne' sembra ragionevole
ritenere  che il principio generale possa essere derogato dal comma 5
dell'art.  111, laddove afferma che «la legge regola i casi in cui la
formazione  della  prova non ha luogo in contraddittorio per consenso
dell'imputato» e cio' per due ragioni.
    In  primo luogo perche' la modifica dell'art. 444 c.p.p. consente
per  un  elevatissimo numero di reati, in sostanza la maggioranza, di
concordare la pena, cosi' introducendo di fatto il principio generale
che  la responsabilita' penale non va accertata - infatti la sentenza
cosiddetta  di  patteggiamento non e' sentenza di condanna, ma solo a
questa  equiparata  sotto  alcuni  aspetti  -  mentre soltanto per un
ristretto   numero  di  reati  si  perviene  ad  un  accertamento  di
responsabilita' con cognizione piena.
    In   secondo   luogo   la   deroga  stabilita  dal  quinto  comma
dell'art. 111   non   sembra  possa  riferirsi  ad  una  sentenza  di
applicazione   di   pena,  ma  solo  intendersi  come  rinuncia  alla
formazione della prova in contraddittorio, in un regolare processo di
cognizione,  quando  l'imputato  vi consenta. Tale interpretazione e'
fondata sulla circostanza che altrimenti il comma quinto dell'at. 111
si  porrebbe in contrasto con il comma secondo del medesimo articolo,
laddove   stabilisce   dapprima   il   principio   secondo   cui   il
contraddittorio  tra  le parti e' la regola generale a fondamento del
processo  e  poi stabilisce che le parti debbono essere in condizioni
di parita'.
    A  tal riguardo la sentenza di codesta Corte n. 129 del 1993 gia'
affermava  che  il  nostro  sistema  processuale e' «imperniato sulla
formazione della prova in dibattimento».
    8. - A  cio'  si  aggiunge che la Convenzione per la salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo,  stabilisce  che  il  processo  debba essere
celebrato «pubblicamente».
    La  pubblicita'  del processo e' anche un carattere essenziale di
uno  Stato democratico ed e' garanzia di uguaglianza dei cittadini di
fronte  alla  legge.  L'applicazione  della pena avviene in camera di
consiglio.
    Se,  dunque, per un numero ridotto di reati e, in particolare per
quelli  di  minore gravita' puo' avere una sua logica il procedimento
previsto   dall'at.  444  c.p.p.,  che  non  prevede  la  pubblicita'
dell'udienza  e un accertamento pieno di responsabilita', trasformare
quest'ultimo  nel  procedimento di piu' vasta applicazione, riducendo
il  rito  ordinario  di  cognizione  piena  ad  ipotesi minoritaria e
relativa  solo  a reati di massima gravita', e limitando fortemente i
casi  in  cui  il  processo  e'  pubblico  sembra  contrastare con il
principio  di  ragionevolezza  e  con  principio  che  il processo e'
condotto   in   contraddittorio  e  con  formazione  della  prova  in
dibattimento  mediante  un  «giusto  processo» e con pari dignita' di
tutte le parti (att. 3 e 111 Cost.).
    Reati  con pena edittale molto elevata, come il tentato omicidio,
la rapina aggravata o la violenza sessuale aggravata, con il giudizio
di comparazione con le attenuanti e la riduzione prevista per il rito
prescelto  possono  essere  definiti  con  una sentenza che non e' di
condanna,  ma solo equiparata a questa, con estromissione della parte
civile  e  ponendo la parte offesa ai margini del processo che pur la
vede vittima.
    9. - Le  eccezioni  oggi  proposte sono rilevanti per le seguenti
ragioni:
        a)  e'  stata  richiesta  dal  difensore,  munito  di procura
speciale,  di  uno solo degli imputati la sospensione del processo ai
sensi  dell'art.  5,  comma  2, della legge 12 giugno 2003, n. 134; i
difensori  di  altri  imputati,  pur privi di procura speciale, hanno
chiesto ugualmente la sospensione, sicche' questo giudice non avrebbe
alcun potere discrezionale in ordine alla richiesta;
        b)  il  dibattimento  e'  stato  chiuso  e  per l'udienza era
prevista   solo  la  discussione  delle  parti,  dopo  un'istruttoria
dibattimentale molto impegnativa;
        c) vi e' parte civile gia' costituita;
        d)  la  norma  che  prevede  la  sospensione  obbligatoria e'
strettamente correlata alla facolta' di richiedere la pena concordata
disciplinata  dalla  norma  transitoria.  Sicche'  appare attualmente
rilevante  anche l'eccezione che concerne l'estensione ai processi in
corso  della  facolta'  di  richiedere  l'applicazione della pena. Ne
consegue   che,   ove  si  ritenesse  l'irrazionalita'  dell'impianto
normativo  almeno  con  riguardo alla disposizione transitoria di cui
all'art. 5,  comma 1,  resterebbe  addirittura assorbita la questione
relativa al termine di sospensione. L'eccezione non e' manifestamente
infondata per le ragioni sopra esposte.
                              P. Q. M.
      Vista  la  legge  cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23 della
legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta  non  manifestamente  infondata  e rilevante ai fini del
presente   giudizio   la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1,  comma  1,  e  dell'art. 5,  commi 1 e 2, della legge 12
giugno  2003,  n. 134,  per  contrasto  con  gli  artt. 3 e 111 della
Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia notificata al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  e  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
        Roma, addi' 1° luglio 2003
                      Il Presidente: Bresciano
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