N. 906 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 maggio 2003

Ordinanza  emessa  il  2 maggio 2003 dal tribunale di sorveglianza di
Napoli sul reclamo proposto da Mole' Antonio

Ordinamento   penitenziario   -  Regime  carcerario  differenziato  -
  Provvedimenti  ministeriali  di proroga - Condizione: insussistenza
  della capacita' del detenuto o dell'internato di mantenere contatti
  con  associazioni  criminali, terroristiche o eversive - Violazione
  del   principio  di  uguaglianza  (per  la  configurazione  di  una
  specifica tipologia di detenuto basata sulla presunta pericolosita'
  dello   stesso)   -   Carenza   dei  presupposti  di  emergenza  ed
  eccezionalita'  per  l'adozione di tali provvedimenti - Lesione del
  diritto  di  difesa  -  Violazione  del  principio  della finalita'
  rieducativa  della  pena  -  Lesione del principio della necessita'
  della motivazione congrua del provvedimento.
- Legge  26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, comma 2-bis, (nel testo
  novellato dall'art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279).
- Costituzione, artt. 3, 13, 24, 27, 97 e 113.
(GU n.45 del 12-11-2003 )
                            IL TRIBUNALE

    Riunito  in  camera  di consiglio per deliberare sulla istanza di
Mole'  Antonio,  nato  a  Rosarno l'8 luglio 1928, detenuto presso il
c.p. Secondigliano.
    Oggetto: art. 41-bis e 14-ter l.p.;
    Sentito il parere conforme del p.g;
    Letti gli atti;
    Considerato  che  Mole'  Antonio  ha  proposto reclamo avverso il
decreto  ministeriale  di  sottoposizione  all'art. 41-bis  l.p.  del
28 dicembre  2002  con  efficacia  di  un  anno,  notificato  in data
28 dicembre   2002,  chiedendo  la  integrale  disapplicazione  dello
stesso,  ovvero,  in  via  subordinata,  la disapplicazione di alcune
delle disposizioni in esso contenute;
    Premesso  che  il  Mole' risulta in atti in espiazione della pena
dell'ergastolo   inflitta  con  sent.  Corte  assise  appello  Reggio
Calabria  11 agosto  2000,  nonche' appellante avverso sentenza Corte
assise Palmi 25 novembre 1997, pure di condanna all'ergastolo;
    Rilevato   che   il   predetto   risulta   sottoposto  al  regime
differenziato ex art. 41-bis l.p. dal 1996:
        che  il Tribunale ritiene di sollevare ex officio l'eccezione
di  incostituzionalita'  dell'art. 41-bis l.p., cosi' come modificato
dalla  legge  n. 279/2002: risoluzione su cui convergono la richiesta
del  p.g. di udienza nonche' le istanze difensive, come da verbale di
udienza in atti;

                            O s s e r v a

    La  Corte  costituzionale  ha  ribadito  con  ripetute pronunzie,
sentenze  nn. 349  e  410  del 1993, n. 351 del 1995, ord. n. 332 del
1994,  sent.  n. 376 del 1997, la sindacabilita' ad opera del giudice
ordinario,   nella   specie   il   Tribunale   di  sorveglianza,  del
provvedimento ministeriale di applicazione dell'art. 41-bis, comma 2,
sia  sotto  il  profilo  della  esistenza  dei  presupposti  per tale
applicazione e della congruita' della relativa motivazione, sia sotto
il  profilo  del  rispetto  dei limiti del potere ministeriale: tanto
quelli  «esterni»,  collegati  al  divieto di incidere sul residuo di
liberta' personale spettante al detenuto, e dunque pure sugli aspetti
dell'esecuzione  che toccano la qualita' e la quantita' della pena da
scontare o i presupposti per l'applicazione delle misure alternative;
tanto  quelli  «interni»,  discendenti  dal  necessario  collegamento
funzionale  tra  le  restrizioni  imposte  e  le  finalita' di tutela
dell'ordine   e   della   sicurezza,  cui  devono  esseri  rivolti  i
provvedimenti  applicativi  del  regime  differenziato,  nonche'  dal
divieto  di  trattamenti contrari al senso di umanita' e dall'obbligo
di non vanificare la finalita' rieducativa della pena.
    La  medesima  Corte  ha altrettanto specificamente confermato che
l'art. 41-bis, l.p. non e' costituzionalmente illegittimo, sempre che
venga interpretato nei sensi dalla stessa Corte precisati.
    Precisa  la  Corte costituzionale, sentenza n. 349/1993, che «...
le  medesime  ragioni  che  consentono di escludere la illegittimita'
costituzionale   della   norma   in   esame,  delimitandone  l'ambito
applicativo  ed  integrandone  il  portato con il richiamo a principi
generali  dell'ordinamento,  conducono  anche  alla  conclusione  che
taluni  dei  rilievi  espressi dai giudici remittenti, pur se rivolti
avverso  la citta' disposizione dell'art. 41-bis, non trovano la loro
causa   nella   norma   di   legge,  bensi'  nel  solo  provvedimento
ministeriale di applicazione».
    La   Corte,   nella  sentenza  n. 376/1997,  puntualizza  che  la
riaffermazione  degli  accennati  limiti  «esterni»  ed  «interni» al
potere  ministeriale  consente  di  superare  le censure prospettate,
dando  per  pacifico che le misure adottate non possono consistere in
restrizioni  della liberta' personale ulteriori rispetto a quelle che
sono  gia'  insite  nel  sistema  detentivo  e  dunque esulanti dalla
competenza   della   amministrazione  penitenziaria  in  ordine  alla
esecuzione  della  pena, non potendo il regime differenziato tradursi
in  misure diverse da quelle riconducibili con rapporto di congruita'
alle   finalita'   di   ordine   e   sicurezza  proprie  del  decreto
ministeriale,  e  perche' le stesse non possono, comunque, violare il
divieto  di  trattamenti contrari al senso di umanita' ne' vanificare
la funzione rieducativa della pena.
    Nell'ambito  dei  limiti  imposti  alla  applicazione  del regime
differenziato, la Corte ha piu' volte sottolineato che la genericita'
della   disposizione   normativa,   nel  riferimento  a  «motivi»  ed
«esigenze»  di  ordine  e  sicurezza  pubblica,  va  interpretata nel
doveroso rispetto del vincolo costituzionale quale volto a far fronte
a  specifiche  esigenze  di  ordine  e  di  sicurezza  essenzialmente
discendenti  dalla  necessita'  di impedire collegamenti fra detenuti
appartenenti  ad  organizzazioni  criminali, nonche' tra questi e gli
appartenenti  alle  organizzazioni  criminali  in  stato di liberta':
collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso le opportunita' di
contatti che l'ordinario regime carcerario offre.
    Di  guisa che i provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis devono
essere  in  primo  luogo concretamente giustificati in relazione alle
predette esigenze di ordine e di sicurezza.
    E'  valido ribadire che il regime differenziato si fonda non gia'
astrattamente  sul  titolo  del  reato  oggetto  della  condanna,  ma
sull'effettivo  pericolo  di  permanenza  dei  collegamenti, di cui i
fatti  di  reato  concretamente contestati costituiscono soltanto una
logica  premessa;  cosi'  come  le  restrizioni apportate non possono
essere liberamente determinate, ma debbono essere - sempre nel limite
del divieto di incidere sulla quantita' e sulla qualita' della pena e
di  trattamenti  contrari al senso di umanita' - solo quelle congrue,
con le specifiche finalita' di ordine e di sicurezza.
    Ed   ancora   la   Corte,   sentenza  n. 376/1997:  «La  mancanza
nell'art. 41-bis di indicazioni in ordine alla durata temporale delle
restrizioni,  non  significa  che limiti temporali non debbano essere
posti  come  in  effetti  lo  sono, dai provvedimenti ministeriali di
applicazione».
    «E  poiche',  ...,  ogni  provvedimento deve essere adeguatamente
motivato,  anche  ogni  provvedimento  di proroga delle misure dovra'
recare  una  autonoma  congrua  motivazione in ordine alla permanenza
attuale  dei  pericoli  per  l'ordine  e  la  sicurezza che le misure
medesime mirano a prevenire; non possono ammettersi semplici proroghe
immotivate  del  regime  differenziato,  ne'  motivazioni apparenti o
stereotipe,  inidonee  a  giustificare  in  termini  di attualita' le
misure disposte».
    Fatte  queste  necessarie  premesse costituzionali, rileggiamo il
quadro normativo attuale.
    La  legge  n. 279/2002  detta  la  nuova  normativa penitenziaria
«Modifica  degli  articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975,
in materia di trattamento penitenziario.»
    La  novella  riscrive  gli  articoli  4-bis  e  41-bis  l.p., nel
tentativo  di ristrutturare complessivamente l'istituto del regime di
massima sicurezza sulla scorta della esperienza finora maturata e nel
rispetto   dei   limiti   individuati  dalle  decisioni  della  Corte
costituzionale.
    La  necessita'  dell'intervento,  si  legge  nella  relazione  al
disegno  di  legge  n. 1478, presentato dal Ministro della giustizia,
trae  origine  dalla  duplice esigenza di dare contenuto ai vincoli e
limitazioni  che  ne  costituiscono  la  sostanza  e,  dall'altro, di
determinare  con  esattezza  un sistema di regole di impugnazione per
individuare   con   certezza  i  soggetti  legittimati  e  ricorrere,
l'autorita'  competente  a  decidere  e  i  poteri che la stessa puo'
esercitare rispetto al provvedimento impugnato.
    L'esigenza  di una valutazione sulla base di dati raccolti da una
esperienza di lungo periodo, che consenta costanza ed efficacia degli
interventi   giustifica  la  definitivita'  e  stabilizzazione  della
disciplina  di  cui  all'art. 41-bis  l.p.,  ritenuta piu' garantista
delle   ripetute  proroghe  a  distanza  di  un  decennio  dalla  sua
introduzione,  e  costituisce  la  risposta  ferma  dello  Stato alla
pericolosita'  criminale  di organizzazioni, che agiscono con sistemi
ormai  raffinati e con azioni sempre piu' determinate e violente, che
continuano   spesso  a  trovare  nel  carcere  il  luogo  della  loro
programmazione.
    Finalita'  piu'  che condivisibili, come quella pur esternata, di
non  trasformare  il  carcere  duro  in una afflizione supplementare,
obiettivi  che  difficilmente possono dare origine a dichiarazioni di
inaccettabilita'.
    La  stabilizzazione  della previsione dell'istituto del regime di
massima  sicurezza in sostituzione delle continue proroghe non sembra
in   verita'   dover  agitare  piu'  di  tanto  o  dover  convogliare
discussione e concitazione, come pur accaduto negli ultimi tempi.
    Si  tratta,  in  punto di diritto, di un falso problema legato ad
una  non  attenta  interpretazione  normativa,  dal  momento  che  la
«anomalia»,   se   tale   puo'   definirsi,  andava  ritrovata  nella
temporaneita'  della  disposizione  e  non  nella  sua definitivita',
apparendo    quanto    meno    poco   opportuno,   se   non   proprio
controproducente,  la effettivita' di una norma «a tempo», sia per la
sua perdita di efficacia intimidatoria, sia per la implicita apertura
a spazi di programmazione calcolata.
    Ossia,  la  stabilizzazione  in  quanto  tale  non ingenera alcun
problema       giuridico       e,       oggettivamente,       neppure
socio-politico-culturale,  atteso  che  comunque  l'inserimento della
disposizione   dell'art. 41-bis   nel  quadro  strutturale  ordinario
dell'ordinamento    penitenziario   non   sta   a   significare   che
necessariamente,  sempre e comunque, il decreto di applicazione debba
essere emesso.
    La   messa   a  regime  non  impone  la  emanazione  del  decreto
ministeriale, quello si' necessariamente temporaneo.
    La   definitivita'   crea  certezza  di  diritto,  ed  e'  sempre
preferibile alla precarieta' o emergenzialita' e integra comunque una
qualificazione  della  norma,  che  e'  cosa  ben  diversa  dalla sua
capacita'  applicativa,  che,  in  quanto subordinata alla necessita'
della  verifica  di determinati presupposti di legge, e' vincolata al
rispetto dei parametri costituzionali.
    Vale  a dire che cio' che rileva non e' la disposizione normativa
in  quanto  tale, trattandosi di norma dichiarativa e non impositiva,
bensi'  il  provvedimento  ministeriale  di applicazione ad personam,
quello  si'  direttamente  incidente  sulla  liberta'  personale  del
detenuto.
    In  un'ottica,  pedissequamente  costituzionalistica  sono  stati
ridisegnati   i   presupposti   applicativi   del   regime  speciale,
limitandone  gli  spazi  di  riferibilita'  ad  una rosa ristretta di
destinatari,  individuati  nei  «...detenuti  o internati per uno dei
delitti  di  cui  al primo periodo del presente comma ...» laddove la
dizione  precedente  prevedeva  la  applicabilita'  ai  detenuti «per
delitti di cui al comma 1 dell'art. 4-bis».
    Congrua la nuova delimitazione della applicabilita' ai condannati
per  i  delitti  di cui al primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis,
pur  sempre ristretta rispetto alla previsione precedente, e relativa
ad  una  serie  di  delitti,  che  il  legislatore  ritiene in questo
particolare momento storico di massimo allarme sociale.
    Va    apprezzata    la    modifica    dell'intero   primo   comma
dell'art. 4-bis,   nello   sforzo  di  registrazione  dei  molteplici
interventi   costituzionali,   che   nel  corso  degli  anni  avevano
completamente trasfigurato il dettato normativo originario.
    Risponde, altresi', alla medesima esigenza di puntualizzazione la
autolimitazione, inserita nel nuovo comma 2 dell'art. 41-bis, laddove
si  precisa  che il regime differenziato si applica nei confronti dei
condannati  «...  in relazione ai quali vi siano elementi tali da far
ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale
terroristica o eversiva ...».
    Il  novello  41-bis della nuova legge, n. 229/2002 al comma 2-bis
recita:  «I  provvedimenti  medesimi hanno durata non inferiore ad un
anno  e non superiore a due e sono prorogabili nelle stesse forme per
periodi successivi, ciascuno pari ad un anno, purche' non risulti che
la  capacita' del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con
associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno».
    L'espressione  non  e'  delle  piu'  felici e riporta a pregresse
considerazioni di dubbia costituzionalita'.
    Gia'  la  Corte  costituzionale, nella ormai citatissima sentenza
n. 376/1997,   ribadiva   che,   proprio   in   forza   del   vincolo
costituzionale,  era  possibile  una interpretazione della norma piu'
restrittiva,  richiamando  sentenze  precedenti  ed in particolare la
n. 349/1993  e  la n. 351/1996, superando quel riferimento a generici
«motivi» ed «esigenze».
    Il  regime  differenziato  e introdotto nel sistema penitenziario
per  «far  fronte  a  specifiche  esigenze  di  ordine  e  sicurezza,
essenzialmente discendenti, dalla necessita' di prevenire ed impedire
i collegamenti fra detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali,
nonche' fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in
liberta'; collegamenti che potrebbero realizzarsi - come l'esperienza
dimostra  -  attraverso l'utilizzo delle opportunita' di contatti che
l'ordinario  regime  carcerario  consente e in certa misura favorisce
(l'obiettivo   del  reinserimento  sociale  attraverso  contatti  con
l'ambiente esterno)».
    In   particolare,   continua   la  Corte,  «...  i  provvedimenti
applicativi  dell'art. 41-bis  l.p.  devono  in  primo  luogo  essere
concretamente  giustificati  in  relazione  alle predette esigenze di
ordine  e  sicurezza»  di guisa che «il regime differenziato si fonda
non  gia' astrattamente sul titolo del reato oggetto della condanna o
dell'imputazione,  ma  sull'effettivo  pericolo  della  permanenza di
collegamenti,  di  cui i fatti di reato contestati costituiscono solo
una logica premessa».
    Orbene,  nel  nuovo  testo di legge deve operarsi una distinzione
netta tra il comma 2 e il comma 2-bis dell'art. 41-bis.
    Nel  comma  2  si  legge:  «...  nei  confronti  dei detenuti, in
relazione  ai  quali  vi  siano  elementi  tali  da  far  ritenere la
sussistenza    di   collegamenti   con   un'associazione   criminale,
terroristica o eversiva ...».
    Nel  comma  2-bis  nella previsione della possibilita' di proroga
del  regime  differenziato nelle stesse forme per periodi successivi,
ciascuno  pari ad un anno, si precisa «... purche' non risulti che la
capacita'  del  detenuto  o  dell'internato di mantenere contatti con
associazioni criminali terroristiche o eversive sia venuta meno».
    L'espressione sembra contrastare con l'art. 3, primo comma, della
Costituzione  nel  momento  in  cui  tende alla individuazione di una
specifica    tipologia    di   detenuto,   imputati   e   condannati,
predeterminati  per dettato normativo, suscettibili di sottoposizione
ad  un regime di esecuzione della pena diverso da quello disposto per
la  criminalita'  ordinaria,  fondato  in  esclusiva  sulla  presunta
esistenza  di  una  capacita'  di mantenere contatti con associazioni
criminali.
    Il contrasto e' altresi' ravvisabile con gli artt. 13, comma 2, e
27, commi 2 e 3, della Costituzione, in quanto la proroga ripetuta, e
di  fatto  immotivata,  del  decreto, esula dai caratteri di urgenza,
necessita'  e  umanita'  costituzionalmente  rilevanti,  e implica in
realta'  l'adozione  di  trattamenti  penali  contrari  al  senso  di
umanita',  non  ispirati  a  finalita' rieducative, e soprattutto non
individualizzati, ma rivolti a condannati selezionati solo in base al
titolo  di  reato, ponendo sostazialmente nel nulla un eventuale iter
rieducativo.
    Il  pregiudizio interpretativo sulla sussistenza della «capacita'
del  detenuto  di  mantenere  contatti  con  associazioni criminali»,
comporta  che, mancando l'accertamento aggiornato sulla continuita' e
attualita'  di  tale  capacita', non esisterebbe una sede nella quale
possa manifestarsi il venir meno di tale capacita' di contatto.
    Di   guisa  che  il  convincimento  che  per  quella  determinata
tipologia  di  detenuto l'esecuzione della pena debba rispondere alla
esigenza  di  prevenzione  della  sicurezza  sociale,  prima che alla
finalita'  rieducativa  del  reo,  e quindi rispondere essenzialmente
alla  funzione  di  contenimento prima che di rieducazione, contrasta
con  l'art. 27, terzo comma della Costituzione, che impone di attuare
o almeno proporre l'osservazione e il trattamento anche nei confronti
di   soggetti   gravemente  compromessi  con  la  criminalita'  e  di
realizzare la conoscenza individualizzata di tali soggetti.
    Ed  ancora con il diritto alla difesa tutelato dall'art. 24 della
Costituzione,  laddove  introduce  la previsione della prova negativa
del  venire  meno  della  capacita'  di  mantenere  contatti  con  le
organizzazioni criminali.
    In  caso  di  proroga, cosi' come dal dettato del comma 2-bis del
nuovo  art. 41-bis,  la  impossibilita'  soggettiva e oggettiva della
prova  negativa  sul venir meno della capacita' di mantenere contatti
da   parte   del   detenuto,   integra   una  ipotesi  di  intervento
amministrativo  apodittico,  del  tutto  indipendente  da  situazioni
accertate  di  emergenza ed eccezionalita', dettagliatamente motivate
secondo  una  verifica  costante  degli sviluppi della situazione, in
contrasto,  altresi',  con  gli artt. 97, primo comma, e 113, primo e
secondo  comma,  laddove la carenza di una esauriente motivazione del
provvedimento  applicativo del piu' rigoroso regime penitenziario non
consente al destinatario la possibilita' di tutelare in modo adeguato
i suoi diritti in sede giurisdizionale.
    In  verita' c'e' da precisare che la Corte costituzionale ha gia'
risposto  in  parte  a tale eccezione di incostituzionalita', laddove
nella  sentenza  n. 376/1997  precisava  che «la riaffermazione degli
accennati  limiti  "esterni"  ed  "interni"  al  potere  ministeriale
consente  di superare altresi' le censure di violazione dell'art. 13,
secondo  comma,  della  Costituzione,  poiche' le misure adottate non
possono  consistere in restrizioni della liberta' personale ulteriori
rispetto  a  quelle che sono gia' insite nello stato di detenzione, e
dunque  esulanti  dalla competenza dell'amministrazione penitenziaria
in  ordine  alla  esecuzione  della  pena;  dell'art. 3, primo comma,
Cost.,  poiche'  il  regime differenziato non puo' constare di misure
diverse  da  quelle  riconducibili  con  rapporto  di congruita' alle
finalita'  di  ordine  pubblico e sicurezza proprie del provvedimento
ministeriale;  dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiche'
le  misure  disposte  non  possono  comunque  violare  il  divieto di
trattamenti contrari al senso di umanita' ne' vanificare la finalita'
rieducativa della pena.
    Ed  ancora  la  Corte  nella  medesima  sentenza n. 376/1997: «Di
conseguenza,  da  un  lato, il regime differenziato si fonda non gia'
astrattamente   sul   titolo  del  reato  oggetto  della  condanna  o
dell'imputazione,  ma  sull'effettivo  pericolo  della  permanenza di
collegamenti,  di  cui  i  fatti  di  reato  concretamente contestati
costituiscono solo una logica premessa.
    Non  vi e' dunque una categoria di detenuti, individuati a priori
in  base  al titolo del reato, sottoposti ad un regime differenziato,
ma  solo  singoli  detenuti  o  imputati  per delitti di criminalita'
organizzata,  che l'amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il
controllo  dei  tribunali  di  sorveglianza, in grado di partecipare,
attraverso i loro collegamenti interni ed esterni alle organizzazioni
criminali e alle loro attivita».
    «E  poiche'  -  come  questa Corte ha gia' chiarito (sentenza n.
349/1993)  -  ogni  provvedimento deve essere adeguatamente motivato,
anche   ogni  provvedimento  di  proroga  deve  essere  adeguatamente
motivato  in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l'ordine
pubblico e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire non
possono   ammettersi   semplici   proroghe   immotivate   del  regime
differenziato,  ne'  motivazioni  apparenti  o stereotipe, inidonee a
giustificare  in termini di attualita' le misure disposte». Orbene il
nuovo  testo dell'art. 41-bis, comma 2-bis, ripropone il problema che
la  Corte aveva in parte superto, reintroducendo nel sistema la prova
negativa sul venir meno di quella capacita' del detenuto di mantenere
contatti  con  associazioni  criminali,  capacita'  che  continua  ad
esistere  nel  convincimento  dell'amministrazione,  e che si presume
strettamente  correlata  alla  particolare tipologia di detenuto e di
reato commesso.
    Ritorna  la  individuazione  dei  destinatari  dei  provvedimenti
restrittivi, ex art. 41-bis, operata sulla base del titolo del reato,
che comporta la presunzione della esistenza della capacita' di tenere
contatti con associazioni criminali, anche dall'interno dell'istituto
carcerario.
    Precisava la Corte nella sentenza n. 349/1993 «... Deve ritenersi
implicito,  anche  in assenza di una espressa previsione della norma,
che i provvedimenti ministeriali debbano comunque recare una puntuale
motivazione  per  ciascuno  dei detenuti cui sono rivolti (in modo da
consentire poi all'interessato una effettiva tutela giurisdizionale),
che  non  possano disporre trattamenti contrari al senso di umanita',
e,  infine,  che debbano dar conto dei motivi di una eventuale deroga
del trattamento rispetto alle finalita' rieducative della pena».
    Trattasi  di  una  esperienza legislativa gia' vissuta e superata
attraverso     interventi     giurisdizionali    di    denunzie    di
incostituzionalita',  che  anche senza confluire in una dichiarazione
di illegittimita' costituzionale hanno avuto il merito di influenzare
le successive novelle legislative.
    Sul   punto,  in  particolare,  ricordiamo  la  primaria  dizione
dell'art. 4-bis  cosi' come introdotto dalla legge n. 203/1991, nella
parte  in  cui  prevedeva  che  le  istanze di misure alternative dei
condannati   per   determinati   gravi   delitti   potessero  trovare
accoglimento  solo  fossero  stati  acquisiti  elementi  tali  da far
escludere   l'attualita'   di   collegamenti   con   la  criminalita'
organizzata o eversiva.
    La  eccezione  di  incostituzionalita' venne sollevata sulla base
della  esistenza  di  un  verosimile  contrasto  con  l'art. 24 della
Costituzione,  per  impossibilita'  della  difesa  di  dare  la prova
negativa  della  esclusione  dell'attualita'  di  collegamenti con la
criminalita' organizzata.
    La  successiva legge n. 356/1992 interviene a far luce sul dubbio
dettato   normativo,  determinando  quella  che  ancora  oggi  e'  la
disposizione  vigente,  ossia  che  «...  i benefici suddetti possono
essere  concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la
sussistenza   di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata  o
eversiva».
    Resta   da   precisare   che   al   di   la'   della  contiguita'
interpretativa, comunque le due posizioni esaminate, ex artt. 4-bis e
41-bis  l.p.,  si  fondano  su  presupposti  logistici  e procedurali
differenti.
    Nell'ipotesi richiamata, di cui all'art. 4-bis l.p. siamo in sede
di  procedimento  giurisdizionale dinanzi all'autorita' giudiziaria e
quindi  la  formazione  della  prova  risponde  ai canoni procedurali
propri  del  procedimento penale, quand'anche in sede di procedimento
in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 127, 666 e 678 c.p.p.
    Nel  caso in oggetto, invece, l'esame riflette l'emanazione di un
provvedimento amministrativo, il decreto ministeriale emesso ai sensi
dell'art. 41-bis  l.p.,  che  deve  rispondere  a  precisi e puntuali
requisiti  di  logicita', ragionevolezza e costituzionalita', tali da
superare   il   vaglio   di   legittimita'   in   sede   del  ricorso
giurisdizionale   presentato  dal  detenuto  interessato  innanzi  il
tribunale di sorveglianza competente.
    Il   provvedimento   ministeriale   di  applicazione  del  regime
differenziato  ex  art. 41-bis  deve  essere motivato, lo ha ribadito
piu'  volte  la  Corte  costituzionale,  cosi'  come  adeguatamente e
opportunamente  motivati  devono  essere  anche  i  provvedimenti  di
proroga del regime differenziato ex art. 41-bis l.p.
    Evidentemente  l'amministrazione  ha  le sue fonti di conoscenza,
tra  le  quali  il  legislatore  del 2002 ha voluto inserire anche il
pubblico  ministero  presso  il giudice che procede, come dal dettato
del comma 2-bis dell'art. 41-bis.
    Evidentemente  le  motivazioni riportate nei decreti ministeriali
si  fondano  sulle  formazioni fornite da tali fonti di conoscenza, e
traggono  elementi  di  valutazione  negativa della pericolosita' del
detenuto da quelle medesime fonti.
    Rebus  sic  stantibus, appare inverosimile che le stesse fonti di
prova   che   forniscono  gli  «elementi  tali  da  far  ritenere  la
sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale ...» di cui
al  punto 2 dell'art. 41-bis, quegli elementi necessari alla primaria
emissione   del  provvedimento,  possano,  in  sede  di  proroga  del
provvedimento  ex  art. 41-bis  l.p., fornire elementi da cui risulti
che  «...  la  capacita'  del  detenuto  di  mantenere  contatti  con
associazioni criminali sia venuta meno».
    Nella  fase  di  formazione  e  programmazione  del provvedimento
restrittivo,  ancora non e' presente la parte interessata che compare
solo  in sede del ricorso al tribunale di sorveglianza, e solo allora
potra'  far  valere  il  proprio  diritto  di  difesa  e la sua prova
processuale.
    Nella    fase   strettamente   amministrativa,   l'unico   limite
all'attivita'    amministrativa    e'    proprio    quella   esigenza
costituzionale  piu'  volte  richiamata  dalla Corte sulla necessita'
della  motivazione  del  provvedimento,  motivazione  congrua  e  non
apparente,  in rispondenza alle esigenze costituzionali salvaguardate
dagli  artt. 97  e  113 della Costituzione, che nel caso di specie si
integrano  direttamente  con  le  tutele  costituzionali  di cui agli
artt. 3,  24  e  27  della  Costituzione, laddove a fronte del potere
dell'amministrazione,  fondato sulle ragioni di sicurezza inerenti la
vita  carceraria,  e  pur  non  opponendovisi  un diritto di liberta'
personale,  gia'  compresso dallo stato di detenzione, stanno in ogni
caso  precisi  ed inviolabili diritti della personalita' spettanti al
detenuto;  e  le  misure  di  attuazione del regime carcerario devono
essere in ogni caso rispettose dei diritti del detenuto.
    Paradossalmente,   il   nuovo  dettato  legislativo  finisce  per
l'instaurare  un  sistema  diabolico, in base al quale l'applicazione
del  regime  differenziato  finisce  con l'essere prorogabile anche a
mezzo un decreto ministeriale privo della parte documentale, relativa
alla   motivazione   sulla   sussistenza   di   collegamenti  con  un
associazione  criminale,  atteso  che  per  la  proroga,  il  dettato
legislativo   non   prescrive   idonea   motivazione,   in  positivo,
comprovante l'esistenza di una realta', certa, concreta ed essenziale
ai fini dell'emissione del provvedimento.
    L'espressione normativa e' fin troppo puntuale, laddove prescrive
che  i  provvedimenti sono prorogabili nelle stesse forme per periodi
successivi  ...,  purche' non risulti che la capacita' del detenuto o
dell'internato  di  mantenere contatti con associazioni criminali sia
venuta meno.
    Viene   cristallizzata  la  proroga  ripetuta  e  immotivata  del
decreto,  di  fatto scardinata dalla necessita' di idonea e opportuna
motivazione,  stante la materiale nonche' giuridica impossibilita' di
fornire  la  prova  del  «venir  meno»  della  capacita' di mantenere
contatti con associazioni criminali.
    Fino  alla  vigenza  del precedente dettato normativo, in sede di
giudizio  di  legittimita'  del provvedimento ministeriale innanzi il
tribunale  di sorveglianza, venivano presi in considerazione assoluta
tutti gli elementi di novita', di attualizzazione della pericolosita'
del  detenuto, che nel decreto ministeriale venivano evidenziati come
supporto giuridico della proroga del regime differenziato.
    Paradossalmente, nei nuovi giudizi di legittimita' innanzi questo
giudice, in sede di proroga del regime ex art. 41-bis l.p., si dovra'
e si potra' soprassedere da qualunque valutazione inerente la nuova e
aggiornata  motivazione,  atteso  che  la norma stessa non ne fa piu'
richiesta.
    La novella disposizione introduce un regime differenziato che, in
sede di proroga, opera indipendentemente e al di la' di situazioni di
eccezionalita'  o  emergenza,  ne'  risulta ancorato ad atteggiamenti
particolarmente  significativi  del  detenuto, comunque riconducibili
alla sua pericolosita' sociale, alla sua capacita' a delinquere, alla
condotta intramuraria ovvero ai suoi rapporti con il mondo esterno.
    Ritorna  attraverso  il  dettato  normativo  la  tipizzazione del
detenuto,  «speciale», in quanto imputato o condannato per uno o piu'
reati  indicati  nell'art. 41-bis  l.p.  tipizzazione che, al limite,
potrebbe  trovare  una  sua  ratio  nella  particolare  pericolosita'
sociale   dimostrata  da  taluni  soggetti,  refrattari  a  qualsiasi
trattamento  rieducativo, e cosi' spiccatamente pericolosi da rendere
indispensabile  l'adozione  di un regime carcerario differenziato nei
loro  confronti, ma che in quanto tale, pero', trova spazio e ragione
giuridica  solo  se  ancorata a precisi e predeterminati parametri di
eccezionalita',  oggettiva  e  soggettiva,  comunque riversati in una
severa  e  dettagliata motivazione sulla verifica costante e continua
della sussistenza della pericolosita' del soggetto.
    Ritorna  quel  concetto  di pericolosita' sociale presunta che il
legislatore  aveva  voluto  allontanare dal quadro giudiziario con la
introduzione  nell'ambito dell'ordinamento penitenziario dell'art. 31
della  legge  n. 663/1986,  nella parte in cui richiedeva prima della
esecuzione  di  una  misura  di sicurezza la pronunzia del giudice di
sorveglianza  sull'accertamento  dell'attualita'  della pericolosita'
sociale.
    Ne'  la  riconosciuta  possibilita'  di  impugnazione del decreto
dinanzi  al  giudice  ordinario,  nel  rispetto  dell'art. 113, primo
comma,  della  Costituzione,  e'  sufficiente  a  colmare  il disagio
legislativo.
    La   situazione   creata  dalla  proroga  immotivata  del  regime
differenziato,  infatti,  non  puo'  non  creare seri ostacoli a quel
diritto  di  difesa,  sancito come «inviolabile in ogni stato e grado
del procedimento» dall'art. 24 della Costituzione.
    Difesa  che,  ne'  in diritto ne' in fatto, trova possibilita' di
esplicazione   di  fronte  al  ripetersi  monotono  e  immotivato  di
contestazioni  consolidate nella loro storicita', di fronte a decreti
ministeriali  in  cui  l'unico  elemento  innovativo  risulta  essere
l'adeguamento alle ultime novelle legislative.
    Da cio', la, conclusione che le limitazioni imposte alla liberta'
personale   «residua»,  conseguente  alla  gia'  vissuta  reclusione,
derivino  esclusivamente  e  direttamente dalla necessita' di evitare
che  le  opportunita'  trattamentali  e  gli  altri istituti previsti
dall'ordinamento  penitenziario  possano  essere  utilizzati  per  il
mantenimento  di  rapporti»  con  l'esterno e per la comunicazione di
notizie e messaggi.
    Pertanto  la  lettera  del  nuovo  art. 41-bis  l.p.,  cosi' come
novellato  dalla  legge  n. 279/2002, appare chiaramente in contrasto
con   molti   dei   principi  richiamati  ripetutamente  dalla  Corte
costituzionale,  sia  in  ordine all'attualita' delle circostanze che
inducono  alla  emissione del decreto ministeriale sia in ordine alle
motivazioni che accompagnano l'emissione stessa.
    Nel  caso  di  specie,  atteso che Geraci Antonino risulta essere
sottoposto al regime differenziato ai sensi dell'art. 41-bis l.p. dal
1996,  appare  quanto  meno  pretestuoso  leggere  che le limitazioni
imposte  sono  dettate  dalla  necessita'  di evitare l'utilizzazione
degli  istituti  trattamentali  per mantenere rapporti con l'esterno,
laddove  contemporaneamente si contesta la sussistenza e l'attualita'
dei collegamenti con l'esterno e con gruppi malavitosi, nonostante il
regime differenziato.
    Delle  due  l'una:  o  non  e'  ipotizzabile il collegamento o la
sottoposizione al regime ex art. 41-bis l.p. non sortisce gli effetti
desiderati.
    Sul  punto, cosi' come sugli altri richiamati, la motivazione del
decreto  impugnato  e'  del tutto inesistente, mentre, invece, rileva
l'indebolimento  progressivo delle circostanze poste a sostegno degli
ultimi decreti di proroga del regime restrittivo.
    Per  questi  motivi  l'art. 41-bis,  comma  2-bis, come novellati
dalla  legge  n. 279/2002, appare in contrasto con gli artt. 3, primo
comma,  13  primo e secondo comma, 24, 2 comma 27, 3 comma, 97, primo
comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione.
    Sentito il conforme parere del p.g.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
illegittimita'  costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 13, 24,
27, 97 e 113 della Costituzione, dell'art. 41-bis, comma 2-bis, l.p.,
come  novellato  dall'art. 2  della  legge  23 dicembre 2002, n. 279,
laddove   prescrive   che  i  provvedimenti  di  proroga  del  regime
differenziato  ex  art. 41-bis  l.p.  sono  prorogabili, «purche' non
risulti  che la capacita' del detenuto, o dell'internato di mantenere
contatti  con  associazioni  criminali,  terroristiche o eversive sia
venuta meno.».
    Sospende la procedura in corso.
    Dispone  trasmettersi  gli  atti alla Corte costituzionale previa
comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e rituali
notifiche e comunicazioni.
    Manda alla cancelleria per adempimenti.
        Napoli, addi' 16 marzo 2003
                      Il Presidente: Donatiello
03C1163