MINISTERO DELLE ATTIVITA' PRODUTTIVE

CIRCOLARE 10 novembre 2003, n. 168 

Etichettatura, presentazione e pubblicita' dei prodotti alimentari.
(GU n.4 del 7-1-2004)
 
 Vigente al: 7-1-2004  
 

                              Al Ministero della salute
                              Al  Ministero  delle politiche agricole
                              e forestali  -  Ispettorato repressione
                              frodi
                              Alle  regioni  e  province  autonome di
                              Trento e di Bolzano
                              Alla Federalimentare
                              Alla Confcommercio
                              Alla Confartigianato
                              Alla C.N.A.
                              Alla A.N.C.C.-COOP

  Questo  Ministero  e'  gia'  intervenuto  piu'  volte, in occasione
dell'entrata in vigore di norme di particolare rilievo, per chiarirne
la  portata  e fornire informazioni per una corretta ed uniforme loro
applicazione  sia da parte delle imprese sia da parte degli organi di
vigilanza.
  Pervengono,  poi,  quesiti  sia da parte di aziende ed associazioni
professionali  sia  da  parte  di  alcuni  organi  di  controllo, che
chiedono   precisazioni   sulla  applicazione  di  talune  norme,  in
particolare di quelle relative all'etichettatura.
  Sulla  scia  di  quanto  gia' fatto in precedenti occasioni, con la
presente si forniscono i chiarimenti richiesti:
A)  Utilizzazione  del  termine  «Integrale»  nell'etichettatura  dei
prodotti da forno.
  E'  stato  sollevato  un  problema di interpretazione relativamente
all'uso  del  termine «integrale» nella etichettatura dei prodotti da
forno  ottenuti  attraverso la miscelazione di farina di grano tenero
con  crusca  e/o  cruschello  invece  che  con farina integrale, come
definita dal decreto del Presidente della Repubblica n. 187/2001.
  La  questione  e'  rilevante per diversi aspetti. Anzitutto occorre
distinguere  la denominazione di vendita dall'ingrediente, secondo le
diverse  utilizzazioni  della  farina.  Nel  caso in cui questa venga
destinata  alla  vendita diretta al consumatore o alla panificazione,
occorre rispettare quanto previsto dal decreto n. 187/2001. Quando e'
ingrediente,  la  farina  in  parola  puo'  essere designata col nome
«farina  di  frumento»  o  «farina  di frumento integrale» cosi' come
avviene negli altri Stati membri.
  Le denominazioni di vendita, riservate agli sfarinati, previste dal
decreto n. 187/2001 sono vincolanti solo per i produttori di farine e
le caratteristiche fissate al comma 3 dell'art. 1 di detto decreto si
applicano  esclusivamente  alle farine destinate alla panificazione e
alla vendita diretta al consumatore: non sono, quindi, vincolanti per
gli  altri  settori  industriali,  in  particolare  per i prodotti da
forno, tanto e' vero che l'art. 10 ha previsto una specifica deroga.
  L'uso,  poi,  del  qualificativo «integrale» nella denominazione di
vendita  (esempio:  biscotti integrali) risulta coerente sia nel caso
di  utilizzo  di farina di frumento integrale acquistata come tale da
aziende  molitorie, sia nel caso in cui si ottenga tale prodotto, con
le  medesime  caratteristiche, nell'ambito dello stesso opificio, ove
viene  utilizzata,  aggiungendo  crusca e/o cruschello alla farina di
grano tenero. Il termine «integrale», infatti, implica la presenza di
crusca   e/o  di  cruschello  in  quantita'  tale  da  assicurare  un
significativo apporto nutrizionale di fibre nel prodotto finito.
  La   crusca/cruschello   sono,  infatti,  gli  unici  elementi  che
differenziano  la  farina di frumento integrale dalla farina di grano
tenero  non  essendo,  inoltre,  vincolanti per utilizzazioni diverse
dalla   panificazione  e  dalla  vendita  diretta  al  consumatore  i
parametri previsti al comma 3 dell'art. 1 del decreto n. 187/2001.
  Pertanto  non  ha  rilevanza  alcuna,  ai fini dell'informazione al
consumatore,  la messa in evidenza che si tratta di «farina integrale
di  grano  tenero»  proveniente  dai  molini con i parametri previsti
dalla  norma suddetta oppure di «farina di frumento integrale» sempre
proveniente  dai  molini  ma con parametri diversi da quelli previsti
dalla  norma o, infine, di farina integrale ricostituita, all'interno
dell'azienda  utilizzatrice, con parametri uguali o diversi da quelli
previsti  dalla  norma.  I  prodotti  finiti  sono  tutti  legali con
caratteristiche organolettiche pressoche' identiche.
  Si  ritiene  utile  evidenziare,  a tal fine, che lo scopo primario
della  norma  consiste  nella  protezione  e  nella  informazione dei
consumatori  e  non  nella  protezione delle esigenze delle categorie
economiche.
  Si  ritiene  utile  ricordare anche che, durante l'elaborazione del
decreto  n.  187/2001, e' stata prestata molta attenzione ai principi
comunitari  sulla  libera circolazione delle merci, che riguardano in
particolare  la  loro  utilizzazione,  nonche' a quanto sancito dalla
Corte  Costituzionale  con  la  sentenza  n.  443/1997  sulla  pasta,
finalizzata   ad   evitare  discriminazioni  alla  rovescia  a  danno
dell'industria nazionale rispetto alla concorrenza estera.
  Cio'  che cambia dal punto di vista giuridico, ai fini del rispetto
delle   regole   di   etichettatura   relative  alla  definizione  di
«ingrediente»,   e'   che,   nel  caso  in  cui  la  farina  provenga
direttamente  dal  molino,  si  ha un unico ingrediente da menzionare
come  tale  e  cioe' «farina di frumento integrale»; nel caso in cui,
invece,  la  farina  integrale si ottenga per ricostituzione si hanno
due  o  tre ingredienti che vanno designati separatamente col proprio
nome  (farina  di frumento, crusca, cruschello). V'e' da chiedersi al
riguardo  se  in  questo  caso  l'uso  del  termine «integrale» nella
denominazione del prodotto finito comporti l'obbligo dell'indicazione
del  QUID.  Ebbene, poiche' nella denominazione di vendita non figura
alcun   ingrediente  particolare,  nessun  adempimento  ulteriore  e'
richiesto,  a  meno  di  espliciti richiami in etichettatura circa la
specifica tipologia di farina impiegata.
B) Somministrazione della croissanterie.
  L'esigenza  di  avere  un'ampia  tipologia  di  prodotti, freschi e
fragranti,  quali  croissant, krapfen, sfogliatine, strudel e simili,
ha indotto l'industria a preparare prodotti a temperatura controllata
destinati,  con  appositi  fornetti,  senza alcuna manipolazione, che
integri  una  attivita' produttiva, ad essere somministrati sul punto
di   vendita.  I  prodotti  in  questione  non  sono  semilavorati  o
preparazioni  alimentari,  ma  sono  prodotti finiti, in quanto, come
detto,  non necessitano di manipolazione o ulteriore lavorazione, per
essere somministrati.
  Questo  Ministero  ha  gia'  precisato in precedenti occasioni che,
tenendo  conto  della  evoluzione  delle modalita' di prestazione del
servizio di somministrazione, tale attivita' e' del tutto compatibile
con  l'attivita'  di somministrazione, di cui all'art. 5, lettera b),
della legge n. 287/1991.
  Qualora   si   volesse  attribuire  a  tale  attivita'  un  diverso
significato,  si correrebbe il rischio di offrire un cattivo servizio
al  consumatore,  le  cui  esigenze  devono sempre essere considerate
prioritarie,  senza creare inutili ostacoli alla commercializzazione,
soprattutto  quando  non  e'  messo  in discussione il rispetto delle
norme igienico-sanitarie.
  Nulla vieta, pertanto, di ricondurre nella specifica autorizzazione
sanitaria  rilasciata al pubblico esercizio l'attivita' di cui sopra,
alla  stregua  di  quanto  avviene  per  il  pane  parzialmente cotto
surgelato  o  meno.  Si tratta di situazione analoga. Il legislatore,
peraltro,  nel caso del pane, e' dovuto intervenire, perche' v'era il
problema  della  denominazione  di  vendita  che  non  consentiva  di
denominare  «pane» il prodotto parzialmente cotto: situazione che non
si presenta nel caso specifico della croissanterie.
C) Uso dei termini «All'aceto», «Con aceto» e simili.
  Con   circolari   n.   379/1966   e   n.   385/1968   il  Ministero
dell'industria,  del  commercio e dell'artigianato forni', sulla base
delle  norme  allora  vigenti,  una serie di indicazioni alle aziende
alimentari  conserviere  circa l'uso delle diciture suddette nel caso
di utilizzazione di aceto come ingrediente.
  L'adozione  di  norme comunitarie in materia di etichettatura negli
anni  successivi  ha  reso  praticamente  superate dette circolari. I
termini,   quindi,   riportati   in   titolo   sono  da  considerarsi
utilizzabili alternativamente con equivalente significato.
D) Vendita prodotti congelati.
  Da  qualche  tempo si osserva che, in alcune superfici della grande
distribuzione,  nei  banchi  di  vendita  dei prodotti surgelati sono
immessi  anche  prodotti  congelati non confezionati, esposti con gli
estremi  dell'azienda  produttrice,  che spesso incorpora nel proprio
nome  la  parola  «surgelati», anche se poi sulle singole etichette o
nei  depliants  a disposizione del pubblico compare l'indicazione che
si tratta di prodotti congelati.
  Questo  modo  di  operare,  oltre  ad  essere  ingannevole  per  il
consumatore, rappresenta anche una forma di slealta' commerciale.
  Si  invitano,  pertanto,  gli organi di vigilanza a verificare che,
per  i  prodotti  congelati  venduti  sfusi,  siano  fornite adeguate
informazioni   al  consumatore,  in  conformita'  a  quanto  previsto
dall'art.  16  del  decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109, come
modificato  dall'art.  13  del decreto legislativo 23 giugno 2003, n.
181,  il  quale stabilisce che detti prodotti devono essere muniti di
apposito  cartello,  applicato ai recipienti che li contengono oppure
applicato nei comparti in cui sono esposti.
  Sul cartello devono figurare:
    a) la   denominazione   di   vendita,  accompagnata  dal  termine
«congelato»,  senza  che  compaia,  a  qualsiasi  titolo,  il termine
«surgelato/i»;
    b) le modalita' di conservazione dopo l'acquisto;
    c) la percentuale di glassatura per i prodotti glassati.
  I   banchi   ed   i  prodotti  in  essi  contenuti,  infine,  vanno
adeguatamente  protetti  e vanno rispettate le norme igieniche di cui
al  decreto  legislativo  n. 155 del 26 maggio 1997 (attuazione della
direttiva 93/43/CE sull'igiene).
E) Utilizzazione uova fresche.
  I  regolamenti  (CEE)  1907/90  e  1274/91  fissano le norme per la
commercializzazione  delle uova vendute in guscio tal quali. Ai sensi
dell'art.  5  del  regolamento  n. 1274/1991 le uova di categoria A o
«uova  fresche»  devono possedere determinate caratteristiche tra cui
quella di non aver subito alcun trattamento di conservazione.
  Dal  momento  che  le  uova  utilizzate  nei  prodotti trasformati,
indipendentemente  dalla  categoria  di  riferimento,  devono  essere
pastorizzate,  la  sola menzione «uova fresche» potrebbe sembrare non
corretta.  Al  riguardo  e' da precisare che la pastorizzazione delle
uova  fresche  in questo caso e' richiesta dal decreto legislativo n.
65/1993  relativo  agli  ovoprodotti  (art.  3,  lettera  e) non come
trattamento   di   conservazione   ma   come   esigenza   di   ordine
igienico-sanitario obbligatoria.
  Pertanto,   ai   fini  della  qualificazione  dei  prodotti  finiti
preparati con l'impiego di uova fresche (categoria a) e per garantire
un'idonea   informazione   del   consumatore,   si  ritiene  che  gli
ovoprodotti ottenuti esclusivamente da uova fresche di gallina vadano
distinti  da  quelli ottenuti da uova di gallina di categoria diversa
dalla   categoria   A,  attraverso  l'etichettatura.  Si  suggerisce,
pertanto,  che le uova fresche, come sopra descritte, siano designate
nell'elenco  degli ingredienti dei prodotti finiti trasformati con la
menzione «uova fresche» e le altre  come «uova».
  Tale  soluzione e' da ritenersi conforme a quanto previsto all'art.
5, comma 13, del decreto legislativo n. 109/1992.
  Se  cio'  non  fosse,  non  vi  sarebbe  neppure  la  necessita' di
utilizzare  le  uova  fresche,  con  conseguenti  ingenti  danni alla
relativa produzione agricola.
  Si   precisa   infine   che   il   divieto  del  trattamento  della
pastorizzazione  a  scopo  conservativo per le uova fresche, previsto
dalla  normativa  comunitaria,  riguarda  solo  il prodotto in guscio
venduto tal quale.
F) Prodotti artigianali.
  Nella  commercializzazione di taluni prodotti artigianali, quali le
paste alimentari di cui al decreto del Presidente della Repubblica n.
187/2001,  talvolta viene fatto con una certa enfasi riferimento alla
«produzione  artigianale»,  come  se  si trattasse di una garanzia di
qualita' organolettica, nutritiva o sanitaria superiore.
    L'uso di diciture quali «lavorato a mano» e simili e' ingannevole
quando soltanto alcune fasi secondarie e collaterali della produzione
sono effettuate a mano.
    Nel  comparto  delle  paste  alimentari,  ad esempio, le diciture
«lavorato a mano» e simili potranno essere apposte unicamente qualora
le  fasi  di impasto, trafilatura, taglio ed essiccazione della pasta
siano  state  effettuate in tutto o per la maggior parte a mano e non
anche   quando   la   manualita'  abbia  riguardato  unicamente  fasi
secondarie  come  lo svuotamento dei sacchi di semola, il riempimento
delle  tramogge,  il dosaggio degli ingredienti o il confezionamento.
Inoltre,  sempre  piu'  spesso,  viene  fatto  riferimento  al tenore
proteico  e  al  contenuto in glutine sia delle materie prime che del
prodotto finito. Questi messaggi devono essere idoneamente dimostrati
e  comportano la realizzazione dell'etichetta nutrizionale, in quanto
viene   fornita   una   informazione   su  un  elemento  fondamentale
dell'etichettatura  nutrizionale disciplinata dal decreto legislativo
n. 77/1996: la quantita' di proteine.
    E'  vero che l'uso di diciture concernenti le caratteristiche del
metodo  di produzione costituisce una garanzia fornita al consumatore
sul  metodo,  ma non si traduce, di regola, anche in un aumento della
qualita'   del   prodotto   finito   in  termini  di  caratteristiche
ingredientistiche,  nutrizionali,  chimico-fisiche, organolettiche ed
igienico-sanitarie.
    Delle  metodologie  artigianali  viene  fornito  un  elenco,  non
esaustivo  ma di rilievo, nella pronuncia n. 8884 del 9 novembre 2000
dell'Autorita'  garante  della concorrenza e del mercato, che si puo'
cosi'   riassumere:   la  presenza  di  una  struttura  organizzativa
tipicamente  artigianale  e/o  familiare  e' caratterizzata dal basso
numero  di  addetti e soprattutto dall'incidenza dell'apporto umano e
personale  nella  produzione.  Questo aspetto concerne, ovviamente ed
unicamente,  le  caratteristiche  dell'azienda.  Pertanto non puo' in
alcun modo essere utilizzato per presentare i prodotti come superiori
nella  qualita'.  L'azienda artigianale non puo' cioe' trasformare la
sua  qualifica  giuridica  in  un  elemento  di qualita' dei prodotti
finiti.
  In  tale  contesto  non  si  puo'  non  tener conto anche di quanto
previsto  dal decreto legislativo n. 74/1992 che, anche se di portata
generale,  vieta  ogni  forma  di pubblicita' subliminale e subordina
l'uso dei termini «garantito e garanzia» e simili, quali «selezionato
e  scelto»,  alla  precisazione  in  etichetta  del contenuto e delle
modalita' della garanzia offerta.
G) Paste speciali.
  Sono  stati  chiesti  piu'  volte  chiarimenti  circa   i limiti di
riferimento   per   le  ceneri,  l'acidita'  e  gli  altri  parametri
analitici,  di  cui  all'art.  6, comma 3, del decreto del Presidente
della  Repubblica  n.  187/2001, per la produzione di paste speciali,
sia secche, sia fresche, sia stabilizzate.
  Tale  problema  e'  stato  affrontato  piu'  volte  anche nel corso
dell'elaborazione  del  decreto n. 187/2001, dove non si e' ravvisata
la  necessita' di apportare specifiche precisazioni, essendo la norma
gia' chiara.
  Infatti,   mentre   per   la   pasta   di   semola  di  grano  duro
(semola+acqua), il limite massimo di ceneri e' 0,90 su cento parti di
sostanza  secca,  per i casi di presenza di altre sostanze oltre alla
semola,  come  le  uova  della  pasta  all'uovo,  il  legislatore  ha
conseguentemente   provveduto   ad  adeguare  il  limite  di  ceneri,
fissandolo  a  1,10  per la pasta con quattro uova per chilogrammo di
semola ed ammettendo un ulteriore incremento di 0,05 per ogni uovo in
piu' rispetto al minimo prescritto.
  Quando  all'impasto vengono miscelati altri ingredienti alimentari,
allo  scopo  di  ottenere  una  pasta  «speciale»,  secca,  fresca  o
stabilizzata,  i parametri previsti all'art. 6, comma 3, non dovranno
essere applicati al nuovo prodotto finito, bensi' esclusivamente alla
materia prima di base impiegata.
  Nella  valutazione  del tenore delle ceneri e degli altri parametri
analitici  si  dovra'  tener conto sia del contributo apportato dalla
materia  prima  di riferimento impiegata, sia dell'effetto esercitato
sul parametro analitico finale dall'ingrediente/i aggiunto/i.
  Ad  esempio,  nel  caso delle ceneri di un pasta di semola di grano
duro  con spinaci, e' errato non sottrarre il contributo delle ceneri
apportate dagli spinaci a quello rilevato sul prodotto finito.
  Si  deve  altresi'  fare  riferimento,  per  definire il contributo
portato  dagli  spinaci, alla quantita' impiegata in ricetta, al loro
contenuto medio di ceneri e relativa variabilita' naturale.
    Pertanto,  in  fase  di  accertamento  analitico,  i valori delle
ceneri,   dell'acidita'  e  degli  altri  parametri  apportati  dagli
ingredienti alimentari a quelli apportati dalle materie prime di base
vanno   scorporati   dal   computo  globale;  la  quantita'  di  tali
ingredienti,  poi,  e'  facilmente  rilevabile  sulla base della loro
dichiarazione  quantitativa  in  etichetta,  ai sensi dell'art. 8 del
decreto  legislativo  n.  109/1992  o  meglio  ancora  analizzando la
ricetta all'origine.
H) Bevande di fantasia al gusto di frutta.
  Le  bevande  in parola hanno un contenuto di succo frutta inferiore
al 12% ma devono essere poste in vendita con un nome di fantasia tale
da  non  ingenerare  confusione con le bevande, di cui all'art. 4 del
decreto  del  Presidente  della Repubblica 19 maggio 1958, n. 719 che
disciplina le bevande analcoliche con almeno il 12% di succo.
  Detto  limite  del  12% era previsto anche per le bevande alcoliche
(liquori,  amari,  ecc.)  dall'art.  14  della  legge  n.  1559/1951,
risultato  poi  incompatibile  con  le  disposizioni  comunitarie  in
materia di bevande spiritose.
  Le bibite in questione, comunque, sono generalmente identificate da
nomi  di  fantasia  e  da  ulteriori  diciture  indicative del gusto:
l'indicazione  del  succo  e'  obbligatoria  ai sensi dell'art. 5 del
decreto  legislativo n. 109/1992. Non si tratta, come da alcune parti
si  vuol  far credere, di un modo per trarre in errore il consumatore
ma  di  una precisazione per identificare la natura della bevanda che
potrebbe  essere composta anche solamente da acqua, zucchero, aromi e
coloranti.   Il   tipo  di  aromatizzazione  utilizzato  puo'  essere
evidenziato  con  la dicitura «al gusto di ...», «al sapore di ...» o
dicitura simile.
  Mentre  per le bevande di cui all'art. 4 del decreto del Presidente
della Repubblica n. 719/1958, il requisito di identificazione e' dato
dal nome della bevanda (aranciata, limonata, ecc.), per le bevande di
cui all'art. 7 il requisito e' dato dal suo gusto.
  La  questione  e'  stata affrontata dalla Corte di cassazione nella
sua  sentenza  del 6 marzo 1992, n. 2726 nella quale, con riferimento
ad  una  bevanda  denominata  «quench» che riportava anche la dizione
«cedro gusto arancia» si afferma che:
  «Le  riportate  norme  (cioe'  gli  articoli 4  e 5 del decreto del
Presidente  della  Repubblica  n. 719/1958) non riguardano le bevande
analcoliche  che  siano  commercializzate con un nome di fantasia, le
quali, ancorche' si avvalgano di uno o piu' frutti, non sono soggette
a percentuali minime di presenza dei frutti medesimi».
  La sentenza cosi' prosegue:
  «Tanto  premesso,  si  deve considerare che la bibita in questione,
come  accertato  in  sede  di merito, e' stata messa in commercio con
marchio inequivocabilmente di fantasia («quench», tratto dalla parola
inglese  «quencher»  che  vuol  dire  genericamente  bibita),  mentre
l'ulteriore  dizione  «cedro  gusto arancia», apposta sul recipiente,
non  sostituisce  ne'  snatura detta denominazione di fantasia, ma ha
soltanto la funzione di illustrare gusto e aroma».
  Il  caso esaminato dalla Cassazione e' indubbiamente e strettamente
analogo  a  quello  delle  bibite  in questione in cui si riscontrano
marchi  di pura fantasia accompagnati da dizioni indicative del gusto
(quali talune indicazioni in lingua straniera del tipo orange, lemon)
piuttosto   che   della  mera  composizione  della  bevanda,  ma  che
sicuramente  non  ne  costituiscono  la  denominazione. Queste ultime
(quali  ad  esempio «bevanda analcolica»/«bevanda analcolica al gusto
di  limone») non si riferiscono al frutto di per se' (come ad esempio
la denominazione «Limonata») e rispondono all'esigenza, imposta dalla
norma  dell'art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 109/1992,
novellato   dal   decreto  legislativo  n.  68/2000,  di  «consentire
all'acquirente  di conoscere l'effettiva natura e di distinguerlo dai
prodotti con i quali potrebbe essere confuso».
  L'eventuale  dichiarazione  volontaria  della percentuale del succo
contenuto  va  considerata come elemento di una corretta informazione
circa  le  caratteristiche  compositive  delle  bevande chiarendo che
dette  bevande  appartengono  ad una diversa categoria a piu' elevato
tenore  di  succo  di cui all'art. 4 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 719/1958.
  L'art.  11,  poi,  del  decreto  del Presidente della Repubblica n.
719/1958  secondo  il  quale «le confezioni per le bibite di cui agli
articoli 6  e  7  del  presente regolamento non debbono avere forma o
colore  ne'  portare  figure  o  indicazioni  che  facciano  comunque
riferimento  a  frutta, piante o loro parti» e' da ritenersi abrogato
dall'art. 29 del decreto legislativo n. 109/1992.
  Per quanto riguarda infine i coloranti, va posto in evidenza che il
loro  uso  e'  subordinato  all'integrale rispetto delle disposizioni
comunitarie  in materia. In particolare viene richiamata l'attenzione
sull'art.  31,  primo  comma,  della  legge comunitaria n. 52/1996 ai
sensi  del quale sono abrogate, tra l'altro, «g) articoli 8, 10 e 16,
primo  comma,  lettera  c), del regolamento approvato con decreto del
Presidente  della  Repubblica  19 maggio  1958,  n. 719, nonche' ogni
altra disposizione in contrasto.»
  La   legge   n.  286/1961  risulta  praticamente  inapplicabile  in
considerazione di quanto sopradetto; si attende ora solo una sorta di
norma  che  provveda  alla  relativa soppressione, allo scopo di fare
chiarezza.
  Si  richiama  infine  la  sentenza  della  Corte costituzionale del
30 dicembre  1997, n. 443 che, occupandosi della legge n. 580/1967 in
materia  di  paste alimentari, ha stabilito il principio che le norme
nazionali  che  impongono  ai  produttori  nazionali obblighi che non
incombono  sui  fabbricanti di altri Paesi membri dell'Unione europea
(che  peraltro  possono liberamente commercializzare in Italia i loro
prodotti  non  conformi alle norme italiane, purche' rispondenti alla
legislazione   del  Paese  d'origine)  sono  contrarie  al  principio
costituzionale di non discriminazione.
  Qualora   si   volesse   ritenere   che  le  indicazioni  riportate
sull'etichetta  delle  bevande  in  questione  e la loro composizione
contrastino  con  norme italiane ritenute tuttora vigenti, le imprese
nazionali  produttrici di tali bevande sarebbero, in base ai principi
affermati   dalla   sentenza   in   questione,   incostituzionalmente
discriminate  nei  confronti dei fabbricanti dei numerosi altri paesi
membri  dell'Unione europea in cui non vigono le restrizioni previste
dal decreto del Presidente della Repubblica n. 719/1958 e dalla legge
n.   286/1961.   Tali   produttori   sarebbero   infatti   liberi  di
commercializzare  sul  mercato  nazionale  loro prodotti non conformi
alle  norme  italiane  citate,  con  conseguente  indebito  vantaggio
competitivo nei confronti delle imprese nazionali.
I) Etichettatura delle carni, quali ingredienti.
  Con  la  circolare  n.  165 del 31 marzo 2000 furono dettate regole
dettagliate  circa l'applicazione dell'art. 8 del decreto legislativo
n. 109/1992.
  La   direttiva  101/2001/CE  attuata  con  l'art.  15  del  decreto
legislativo  23 giugno 2003, n. 181, ha posto altri problemi connessi
con  la  definizione  di  carne.  Si ritiene pertanto utile, dopo una
attenta  disamina  dei  diversi  aspetti  relativi  ai  prodotti piu'
significativi  esistenti  sul  mercato, fornire taluni chiarimenti al
riguardo.
  La  norma  in  parola  si  applica  a  tutti  i prodotti alimentari
contenenti carne, in quanto ingrediente, siano essi preconfezionati o
meno. Essa non si applica alle carni commercializzate tal quali.
  Per  carne  si  intende la carne muscolare scheletrica dell'animale
compresa  la  quantita'  massima  di  grasso  e di tessuto connettivo
prescritti,  naturalmente aderenti alle masse muscolari scheletriche.
Le  carni  di  qualsiasi  specie  vanno  designate col nome specifico
previsto  dalla  normativa  comunitaria  o,  in  mancanza,  da  usi e
consuetudini nazionali. In luogo del nome specifico puo' essere usato
il nome della categoria: «carne di» seguito dal nome della specie.
  Di  conseguenza non e' piu' consentito utilizzare, come in passato,
il  solo  termine  relativo  alla  specie,  quale  «bovino», «suino»,
essendo  stato  soppresso  il  comma  10  dell'art.  5 del decreto n.
109/1992.
  Le  altre parti dell'animale, escluse dalla definizione di «muscoli
scheletrici»,  sono  etichettate  con  il  loro nome specifico di uso
comune.  Questi  nomi  specifici, se non sono legati a specie animali
individuate,  devono  essere  completate  con  il  nome  della specie
animale da cui provengono. Esempio: la cotenna e' solo di suino e non
di  altri animali, per cui il prodotto puo' essere designato col nome
«cotenna» in luogo di «cotenna suina».
  La   tabella  seguente  riporta  l'indicazione  da  utilizzare,  ad
esempio, per le parti di suino che non rientrano nella definizione di
«muscoli  scheletrici»  il  cui  impiego  risulta possibile in alcune
ricette tradizionali:


Parti                                                Designazione
  -                                                        -
Grasso (eccedente i limiti prescritti)              Grasso suino
Cotenna (eccedente i limiti prescritti)             Cotenna
Trippino                                            Trippino suino
Magro di testa (diverso dal massetere)              Magro suino di
                                                     testa

  I  limiti di grasso e di tessuto connettivo contenuti nella tabella
dell'art.  15  del decreto n. 181/2003, si intendono riferiti ad ogni
specie separatamente. In un prodotto, ad esempio, costituito da carne
bovina  e  carne  suina, detti limiti sono, per il grasso, 30% per la
carne suina e 25% per la carne bovina.
  Le  parti  anatomiche  dell'animale,  quali coscia suina e pancetta
suina,  designate  con  il  loro  nome, non soggiacciono ai limiti di
grasso   e   di   tessuto   connettivo  prescritti.  Esse  non  vanno
accompagnate  da  qualificazioni, suscettibili di trarre in errore il
consumatore   sulla   effettiva  natura  del  prodotto  e  di  creare
concorrenza  sleale,  quale  il  termine  «fresco»,  salvo il caso di
specifica previsione in una norma comunitaria.
  La  carne  meccanicamente separata deve essere designata come tale,
completata  dal  nome  della  specie animale. Esempio: carne di pollo
separata meccanicamente, carne suina separata meccanicamente.
  I limiti di grasso e di tessuto connettivo sono basati su analisi e
calcolati a livello di messa in opera. Non si tiene conto del budello
o dell'involucro che sono elementi estranei all'impasto.
  Per   il   calcolo  si  prendono  in  considerazione  il  contenuto
percentuale  di  «proteina  di carne», «collagene» e «grasso» di ogni
specie  animale  separatamente. Tali contenuti, tutti identificati al
momento  della  messa  in  opera,  si  basano  su  uno  dei  seguenti
dati/analisi:
    a) dati di composizione generalmente accettati relativi alle sole
parti dell'animale rientranti nella definizione di carne;
    b) analisi  rappresentative  relative  solamente  alle specifiche
parti dell'animale rientranti nella definizione di carne;
    c) analisi rappresentative di miscele relative solamente a quelle
parti dell'animale rientranti nella definizione di carne.
  Tali  dati  ed  analisi  devono  escludere  a  priori  la possibile
presenza di sostanze non rientranti nella definizione di carne, quali
fegato e cuore, proteine vegetali, additivi ed aromi.
  Per  quanto  riguarda, infine, l'obbligo di indicare la percentuale
di  carne utilizzata nella preparazione di prodotti composti, essa e'
prescritta solo per i prodotti preconfezionati destinati tal quali al
consumatore.  Tale  obbligo  non  si  applica  ai prodotti costituiti
essenzialmente  da  carne  a  condizione  che  la  quantita' di acqua
aggiunta  non  superi  nel  prodotto  finito  il  5% e non contengano
sostanze  diverse  da  quelle  tecnologiche  (sale,  aromi, additivi,
......).   E'  fatta  salva  comunque  la  facolta'  dell'impresa  di
indicare,   per   una   migliore  informazione  del  consumatore,  la
percentuale  di  carne utilizzata anche nei casi in cui non ve ne sia
l'obbligo.
  I  controlli, come gia' ribadito nella precedente circolare n. 165,
finalizzati all'accertamento della quantita' di carne e dei limiti di
grasso  e  di  connettivo vanno effettuati ovviamente all'origine. Il
controllo  sul  prodotto  prelevato  nelle  fasi commerciali non puo'
essere  preso  a riferimento per valutarne la conformita', in quanto,
ai  sensi  dell'art.  5  del decreto legislativo n. 109/1992, occorre
riferirsi al momento della utilizzazione degli ingredienti.
  Allo   scopo   poi   di  assicurare  comportamenti  omogenei  nella
commercializzazione  di  taluni  prodotti  particolarmente diffusi si
forniscono  delle  linee  guide  che integrano quelle riportate nella
circolare n. 165 del 31 marzo 2000:
  1) cotechino e zampone «puro suino» sono prodotti di solo suino.
  La dicitura «puro suino», peraltro non obbligatoria, evidenzia solo
che  le carni utilizzate nella preparazione del prodotto sono solo di
suino.
  Ai  fini  della  determinazione  dell'ordine  ponderale decrescente
nell'elenco degli ingredienti, il tenore di carne va conseguentemente
ridotto   quando   grasso  e  connettivo  sono  superiori  ai  limiti
prescritti.
  Esempio  di  zampone costituito da carne avente 35% di grasso e 30%
di  cotenna.  L'elenco  degli ingredienti e il seguente: carne suina,
cotenna, grasso suino, aromi.
  Esempio  di cotechino costituito da carne avente 30% di grasso, 20%
di  cotenna e 20% di magro di testa (diverso dal massetere). L'elenco
degli  ingredienti e' il seguente: carne suina, magro suino di testa,
aromi.
  Non  e'  richiesta  l'indicazione di grasso e di cotenna, in quanto
sono entro i limiti massimi prescritti per la non indicazione.
  Si evidenzia che, in entrambi i casi, l'elenco degli ingredienti va
completato    con    l'indicazione    delle   sostanze   tecnologiche
eventualmente utilizzate e che la cotenna puo' non essere seguita dal
termine «suino», giacche' essa e' solo di suino.
  2) Prosciutto cotto.
  Si  tratta  di  prodotto,  costituito  da  carni,  acqua e sostanze
tecnologiche.
  Nel  caso  di  prodotto con una quantita' d'acqua aggiunta entro il
limite  del  5% nel prodotto finito, non si procede a quantificazione
della carne.
  Qualora la quantita' d'acqua aggiunta superi nel prodotto finito il
5%,   occorre   indicare  l'acqua  nell'elenco  degli  ingredienti  e
quantificare  la  carne  suina,  ai  sensi dell'art. 8 del decreto n.
109/1992.
  3) Mortadella puro suino.
  Il  riferimento al suino e' fatto solo per indicare l'utilizzazione
di un solo tipo di carne, quella suina.
  Come   nel   caso   di  zampone  e  cotechino  non  v'e'  l'obbligo
dell'indicazione  percentuale di carne anche in presenza di eventuale
aggiunta di grasso suino e/o di cotenna e/o di trippino. Il grasso ed
il  connettivo,  se  superano  i  limiti  prescritti,  vanno indicati
nell'elenco  degli  ingredienti  della  mortadella  senza indicazione
percentuale della carne.
  Le parti anatomiche dell'animale, che non sono considerate carne ai
sensi  dell'art.  15 del decreto legislativo, vanno indicate col loro
nome specifico nell'elenco degli ingredienti della mortadella.
  In  taluni  casi  viene  posto  in  evidenza  una  parte  anatomica
dell'animale per valorizzare il prodotto: mortadella di fegato oppure
mortadella  con fegato. Trattandosi di un ingrediente non considerato
carne, ma caratterizzante per il prodotto, il fegato va quantificato,
come  nell'esempio  seguente:  ingredienti: carne suina, fegato suino
30%, grasso suino, trippino suino, aromi.
  Nel  caso,  poi,  di  prodotti ottenuti da carni di piu' specie, le
relative specie vanno tutte quantificate in percentuale.
  4) Wurstel.
  Si  tratta  di  prodotto ottenuto utilizzando anche acqua, aromi ed
altre  parti anatomiche. I principi cui ispirarsi per l'etichettatura
sono gli stessi indicati per altri prodotti carnei.
  Esempi:
    a) Wurstel  costituito da 60% di carne suina, 30% di acqua, 8% di
aromi,  ....  ha  il seguente elenco di ingredienti: carne suina 60%,
acqua, aromi, ...., se i limiti di grasso e di connettivo sono quelli
prescritti.
  La  quantificazione  percentuale  della  carne e' richiesta perche'
v'e' una quantita' d'acqua aggiunta superiore a 5%.
    b) Wurstel  costituito da carne suina 90%, acqua 5%, aromi, e' un
prodotto costituito essenzialmente da carne. La carne puo' non essere
quantificata  e l'acqua, non superando il 5% del prodotto finito, non
viene   indicata   nell'elenco   degli  ingredienti.  L'elenco  degli
ingredienti e', quindi, il seguente: carne suina, aromi;
    c) «Wurstel  di  pollo»: identifica un prodotto ottenuto da carne
di  pollo,  generalmente  meccanicamente  separata. Tale carne non e'
considerata  carne ai fini dell'etichettatura e deve essere designata
con la dicitura «carne di pollo separata meccanicamente».
  Essa  non risponde, ovviamente, ai limiti di grasso e di connettivo
previsti  per  le carni avicole. La pelle ed altre parti dell'animale
composte  di  grasso e di connettivo rientrano nell'unica voce «carni
di ...... separate meccanicamente».
  Lo  stesso vale per le altre carni avicole quale quelle di tacchino
e di anatra.
  Un  esempio  di  elenco  degli  ingredienti  puo'  essere: carne di
tacchino meccanicamente separata 80%, acqua, aromi, ...... Qualora la
quantita'  di carne sia piu' elevata e l'acqua aggiunta non superi il
5%,  l'elenco  degli  ingredienti  puo'  essere:  carne  di  tacchino
separata meccanicamente, aromi, .....
  Nel  caso  di  miscele, poi, le specie vanno quantificate: carne di
pollo   separata  meccanicamente  50%,  carne  di  tacchino  separata
meccanicamente  40%,  ....  Per  evitare  di  ripetere  ogni volta la
dicitura  «meccanicamente  separata»,  la cui indicazione occuperebbe
inutilmente  molto  spazio  in etichetta, non si ravvisano problemi a
inserire  dopo  «carne di pollo» e «carne di tacchino» un asterisco e
riportare  in  fondo  alla  lista degli ingredienti la detta dicitura
accanto  all'asterisco.  Modalita'  questa  gia'  prevista  da alcune
regolamentazioni comunitarie specifiche.
  5) Strutto.
  Lo  strutto,  generalmente e' un monoingrediente, per cui non porta
l'elenco  degli  ingredienti.  Viceversa  lo  stesso,  se  ha  subito
aggiunte,  nell'elenco degli ingredienti puo' essere designato con la
voce «grasso suino» ma nulla osta a designarlo come strutto.
  6) Ciccioli, cigoli e simili.
  I  ciccioli  e simili sono prodotti proteici ottenuti dalla fusione
di  tessuto  adiposo  del suino. Possono contenere anche una parte di
carne,  che  non  e'  ingrediente.  Conseguentemente  l'elenco  degli
ingredienti  puo'  essere diverso a seconda della sua presentazione e
cioe':
    a) nessun elenco di ingredienti, se il prodotto e' ottenuto senza
aggiunte;
    b) ingredienti: grasso suino, aromi, sale;
    c) ingredienti: ciccioli, aromi, sale.
  Importante  e'  che  il  messaggio sia formulato in termini chiari,
senza trarre in errore il consumatore sulla corretta composizione del
prodotto.
  7) Pancetta cubettata e prodotti simili.
  Si  tratta di prodotto suino in pezzi, che mantiene comunque la sua
riconoscibilita'.  Il  riferimento  al  taglio anatomico puo' essere,
pertanto,  effettuato  nell'elenco  degli  ingredienti  con  la  voce
«pancetta suina».
J) Commercializzazione degli oli di oliva, quali ingredienti.
  Col  decreto  legislativo  n. 181/2003 e' stato aggiunto all'art. 4
del  decreto  legislativo  n.  109/1992  il comma 5-bis, ai sensi del
quale,  nella denominazione di vendita di un prodotto trasformato, un
ingrediente  puo'  essere  indicato col nome della categoria anziche'
col  nome specifico. Esempio: «Carciofini all'olio di oliva» in luogo
di  «Carciofini all'olio di oliva composto da olio di oliva raffinato
ed olio di oliva vergine».
  Lo stesso comma prescrive, pero', che nell'elenco degli ingredienti
il nome deve essere completo.
  La  Commissione  europea  -  D.G.  agricoltura  -  D.C. mercato dei
prodotti  di  origine  vegetale,  tuttavia,  su  richiesta  di alcune
organizzazioni professionali (ANCIT, Federolio) ha precisato, a norma
dell'art.  6 del regolamento (CE) della Commissione n. 1019/2002, che
«se in un prodotto alimentare diverso da quelli indicati al paragrafo
1  dell'art.  6  e'  presente  come ingrediente la categoria «olio di
oliva  composto  da  oli  di oliva raffinati e oli di oliva vergini»,
nell'elenco degli ingredienti puo' figurare la denominazione generica
«olio  di  oliva».  Tuttavia,  se nel prodotto alimentare e' presente
olio  di sansa di oliva, nella denominazione di vendita e nell'elenco
degli  ingredienti,  deve figurare la denominazione «olio di sansa di
oliva,  conformemente  al  disposto  dell'art.  6,  paragrafo  3, del
regolamento in oggetto».
  Quanto  sopra  si  porta a conoscenza degli operatori interessati e
degli  organi  di  vigilanza  e  di controllo, per quanto riguarda la
corretta applicazione delle norme sopracitate.
L) Prodotti venduti sfusi.
  L'art.  16 del decreto n. 109/1992, nel testo originario, prevedeva
per i prodotti preincartati l'uso del cartello con un limitato numero
di  indicazioni  obbligatorie. Nell'attivita' di vigilanza sono stati
seguiti  comportamenti  non  sempre  coerenti, contestando la mancata
indicazione   di   altre   diciture  che  la  norma  non  prescriveva
espressamente, quale la data di scadenza.
  Nel   concetto  di  prodotto  preincartato  rientrava,  secondo  la
definizione  data  all'art.  1,  qualsiasi operazione di incarto e di
preconfezionamento  sul  luogo  di vendita, cosi' come previsto dalla
direttiva n. 79/112 all'art. 12 (art. 14 della direttiva 2000/13) per
le quali gli Stati membri potevano prevedere regole meno severe.
  Per  superare  le  difficolta'  sorte,  soprattutto a seguito della
recente  sentenza  della Corte di cassazione, il comma 1 dell'art. 16
del  decreto n. 109/1992 e' stato modificato attraverso l'indicazione
dettagliata  dei  casi  in  cui  si applicano le disposizioni di tale
articolo, tra cui figurano «i prodotti preconfezionati destinati alla
vendita immediata» nell'esercizio ove sono stati preparati. Si tratta
di  preimballaggi  a  tutti gli effetti, ma con la peculiarita' della
destinazione  alla vendita immediata, assimilati, quindi, ai prodotti
sfusi.
  Relativamente  alla  dicitura  «vendita  immediata», si precisa che
essa  significa  «vendita  a libero servizio» senza la presenza di un
addetto.
  Si     richiama    l'attenzione,    al    riguardo,    sull'obbligo
dell'indicazione  della data di scadenza, che - giova ribadire - deve
figurare,  con  la  dicitura «da consumarsi entro» seguita dalla data
stessa, solamente sulle paste fresche (categoria nella quale non sono
comprese le paste stabilizzate). Gli altri prodotti ne sono esenti.
M) Preparati per brodo e condimento.
  La legge 6 ottobre 1950, n. 836 ed il suo regolamento di esecuzione
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1953,
n.  567  sottoponevano  ad  autorizzazione ministeriale preventiva la
produzione a scopo di vendita dei preparati per brodo e condimento.
  L'autorizzazione,    oltre    a    disciplinare   la   composizione
standardizzata   degli  stessi,  serviva  soprattutto  per  ammettere
l'impiego  di  altri  ingredienti  che  potevano  rivelarsi utili per
esigenze  tecnologiche, per migliorare la qualita' di detti prodotti,
per  innovare  i  processi  produttivi ed altro nonche' per garantire
trasparenza sul mercato e soddisfare le esigenze dei consumatori.
  La  legislazione  suddetta e' stata oggetto di condanna dell'Italia
da parte della Corte di giustizia con sentenza del 19 giugno 1990, in
ragione   delle   restrizioni  attinenti  alla  composizione  e  alla
denominazione subordinando inoltre la messa in commercio dei prodotti
ad una preventiva autorizzazione.
  L'autorizzazione  e'  stata  soppressa  con  l'art.  52 della legge
29 dicembre  1990,  n.  428,  mentre  in  materia  di composizione le
restrizioni,  gia'  oggetto  della condanna di cui sopra, non trovano
piu'    alcuna   giustificazione   neppure   dal   punto   di   vista
igienico-sanitario.  Infatti, ai sensi degli articoli 28 e successivi
del  trattato UE i divieti di utilizzazione di ingredienti alimentari
nella  preparazione  dei  prodotti  in parola trovano giustificazione
solo se dettati da esigenze di ordine igienico sanitario.
  Siffatta   situazione   e'  stata  causata  anche  da  una  erronea
interpretazione  delle  disposizioni  in  materia, che hanno indicato
solo  gli  ingredienti di base che potevano essere utilizzati, mentre
con  il  decreto  di  autorizzazione si consentiva l'impiego anche di
altri ingredienti alimentari idonei allo scopo.
  La  soppressione  dell'autorizzazione  ha  fatto  venir  meno  tale
procedura,  per cui, alla luce delle recenti nuove regole comunitarie
che  hanno  imposto  al  fabbricante  l'autocontrollo  sulla  propria
produzione  in  collaborazione  anche  con  la  competente  autorita'
sanitaria,  si  puo'  ritenere  che  quanto  poteva essere oggetto di
autorizzazione  e'  direttamente  ammissibile nella fabbricazione dei
prodotti  in  parola,  fatta  eccezione degli additivi il cui impiego
soggiace alle disposizioni del decreto n. 209 del 27 febbraio 1996.
  Quanto sopra trova piena rispondenza nell'indirizzo delineato dalla
Corte  costituzionale  con  la  sentenza n. 443/1997, secondo cui non
possono  essere  posti  a carico delle aziende italiane oneri che non
trovano  riscontro  negli altri Stati membri e che non siano motivati
da comprovate esigenze di tutela della salute.
N) Formaggi freschi a pasta filata.
  Come  e'  noto  i  formaggi  freschi  a  pasta  filata destinati al
consumatore  devono  essere  posti  in vendita preconfezionati, cosi'
come  precisato  dall'art. 23 del decreto legislativo n. 109/1992. Il
preconfezionamento  deve  essere  effettuato all'origine direttamente
dal produttore.
  Al  venditore  al  dettaglio, salvo nel caso di vendita diretta nel
caseificio,  non  e'  concesso  di  vendere allo stato sfuso o previo
ulteriore   preconfezionamento   ai  fini  della  vendita  immediata,
ricorrendo ad artifizi, quale l'aggiunta di un po' d'olio d'oliva e/o
qualche oliva.
  E'  ben  nota e tradizionale l'aggiunta di ingredienti non lattieri
ai  formaggi,  ad esempio spezie, erbe, noci, olive e simili, e detta
aggiunta  non  e'  tale  da  modificare  la  natura  merceologica del
formaggio fresco a pasta filata.
  Perche'  detto  formaggio  possa essere venduto non preconfezionato
deve essere ingrediente di una preparazione gastronomica, al di fuori
del  campo  di  applicazione  dell'art. 23 del decreto legislativo n.
109/1992;  e'  necessario,  quindi,  che il formaggio sia lavorato in
maniera  sostanziale  ed  il prodotto finito sia posto in vendita con
una  diversa  specifica  denominazione  di  vendita,  che deve essere
utilizzata anche dal dettagliante.
  Anche   in  precedenti  occasioni  questo  Ministero  ha  precisato
espressamente  che  la  vendita  allo  stato sfuso di detti formaggi,
salvo  che  nei  caseifici,  e'  vietata e che sui relativi involucri
devono  figurare  tutte  le  indicazioni  obbligatorie prescritte nel
decreto  legislativo  n. 109/1992, salvo quella della quantita' netta
per il formaggio pesato su richiesta e alla presenza dell'acquirente.
  Gli  organi  di  vigilanza  sono  invitati  ad  applicare,  per  le
violazioni rilevate, le sanzioni amministrative previste dall'art. 18
del citato decreto n. 109/1992.
O) Peso/Peso netto.
  L'art.  9,  comma  3, del decreto legislativo n. 109/1992 prescrive
che  la  quantita'  dei  prodotti  alimentari  preconfezionati, per i
prodotti  diversi  da quelli liquidi, debba essere espressa in unita'
di massa.
  Viene  segnalato  che,  in  taluni  Paesi  dell'Unione  europea, e'
richiesto  di  far  precedere  l'indicazione  della  quantita'  dalla
dicitura  «Peso  netto»  per  i  prodotti diversi da quelli liquidi e
viene   richiesto   anche   di   conoscere  se  tale  indicazione  e'
effettivamente obbligatoria.
  Al  riguardo  va  anzitutto  precisato  che,  nella  vigenza  della
normativa  nazionale anteriore a quella comunitaria, almeno in Italia
si  era creata l'usanza di indicare la quantita' netta per i prodotti
liquidi,  senza aggiunta della dicitura «volume netto», e di indicare
per  gli altri prodotti la dicitura «peso netto» e simili prima della
indicazione  della  quantita'. Nessuna norma ha mai prescritto regole
al riguardo neppure il decreto legislativo n. 109/1992.
  Sulle modalita' di indicazione la direttiva 2000/13/CE, ma anche le
precedenti,  hanno  solo  precisato  all'art.  8, paragrafo 2 a), che
qualunque  sia il tipo di quantita' riportato in etichetta (nominale,
netta, media, meccanicamente determinata e simili), tale quantita' e'
la quantita' netta ai sensi della direttiva.
  Il   decreto   legislativo   n.   109/1992,  come  anche  le  norme
metrologiche,  nulla  hanno prescritto circa l'obbligo di indicazione
della dicitura «peso netto».
  La   dicitura   «peso   netto»,   pertanto,  e'  da  ritenersi  non
obbligatoria, ma la sua indicazione non e' vietata.
P) Etichettatura degli imballaggi e dei contenitori per liquidi.
  L'art.  36  del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 dispone,
al  comma  5,  che «tutti gli imballaggi devono essere opportunamente
etichettati   secondo   le   modalita'  stabilite  dalla  Commissione
dell'Unione  europea,  per  facilitare la raccolta, il riutilizzo, il
recupero  ed  il  riciclaggio  degli imballaggi, nonche' per dare una
corretta  informazione ai consumatori sulle destinazioni finali degli
imballaggi.  Fino  alla  definizione  del  sistema di identificazione
europeo  si  applica agli imballaggi per liquidi la normativa vigente
in materia di etichettatura».
  L'ultimo  periodo  della suddetta disposizione e' stato abrogato in
forza dell'art. 9 della legge n. 14/2003.
  Nella  sostanza cio' significa che non dovra' essere piu' applicato
il   decreto  del  Ministro  dell'ambiente  di  concerto  con  quello
dell'industria   del  commercio  e  dell'artigianato  28 giugno  1989
(pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale  n.  166  del 18 luglio 1989)
relativo  all'apposizione  su  imballaggi  e  contenitori per liquidi
dell'invito  a  non  disperderli  nell'ambiente  e  dei  contrassegni
recanti l'abbreviazione del materiale per essi utilizzato.
  Le  aziende  interessate possono, tuttavia, continuare ad applicare
le  disposizioni  del citato decreto in via facoltativa e, per quanto
riguarda  i contrassegni, questi possono essere riportati anche nelle
forme esistenti negli altri Stati membri.
Q) Prodotti con edulcoranti.
  L'allegato  VIII del decreto del Ministro della sanita' n. 209/1996
elenca   gli   edulcoranti   che   possono  essere  utilizzati  nella
fabbricazione  di  taluni  prodotti alimentari, indicando casi e dosi
d'impiego.  Per  quanto riguarda i casi d'impiego vengono indicate le
categorie  merceologiche  e  non  i  singoli prodotti con le relative
denominazioni  di  vendita.  Vi rientrano i prodotti di cioccolato, i
succhi  e nettari di frutta, le confetture, le gelatine di frutta, le
marmellate e la crema di marroni nonche' altri prodotti.
  Le denominazioni di vendita di questi prodotti rimangono inalterate
con la sostituzione totale o parziale degli zuccheri ma devono essere
accompagnate  dalla  dicitura  «con  edulcorante  (i)»  oppure  « con
zucchero  (i)  ed  edulcorante  (i)»  a  seconda  che  si  tratti  di
sostituzione  totale  o  parziale  dello  zucchero,  inteso  come  il
complesso   dei   mono-disaccaridi,  secondo  quanto  previsto  dalle
disposizioni  di  etichettatura di cui all'allegato 2, sezione II del
decreto legislativo n. 109/1992 e successive modificazioni:
  Esempio  di  prodotto  di  cioccolato  con  sostituzione  totale di
zucchero: cioccolato fondente con edulcorante;
  Esempio  di  prodotto  di  cioccolato  con sostituzione parziale di
zucchero: cioccolato al latte con zucchero ed edulcorante (i).
    Roma, 10 novembre 2003


                                                  Il Ministro
                                           delle attività produttive
                                                    Marzano