N. 3 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 novembre 2003
Ordinanza emessa il 12 novembre 2003 dal tribunale di Treviso nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Cavallin Albano ed altri contro I.N.A.I.L. Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Prestazioni erogate dall'INAIL - Rettifica per errore - Esercitabilita' da parte dell'Istituto assicuratore entro il termine prescrizionale di dieci anni dalla data di comunicazione dell'originario provvedimento errato - Irragionevolezza - Violazione del principio della garanzia previdenziale - Incidenza sul principio di buon andamento della pubblica amministrazione. - Decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, art. 9, commi 1, secondo periodo, 3, 5, 6 e 7. - Costituzione, artt. 3, 38 e 97.(GU n.7 del 18-2-2004 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nei procedimenti in materia di previdenza e assistenza obbligatorie nn. 883/2001, 944/2001 e 191/2002 R.G. pendenti tra Cavallin Albano, rappresentato e difeso dall'avv. Sossio Vitale presso cui e' domiciliato, Favaron Loris, rappresentato e difeso dall'avv. Carlo Galeotafiore presso cui e' domiciliato, e Toppan Graziella, rappresentata e difesa dall'avv. Sossio Vitale, presso cui e' domiciliata, ricorrenti, e I.N.A.I.L, rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Saitta e Pasquale Schiavulli, resistente, riuniti all'udienza del 24 ottobre 2003, a scioglimento della riserva che precede, esaminati gli atti di causa e sentite le parti, O s s e r v a I ricorrenti, tutti beneficiari di rendita per ipoacusia professionale, chiedono che, in applicazione dell'art. 9 del decreto legislativo n. 38 del 23 febbraio 2000, che ha abrogato l'art. 55, comma 5, primo periodo, della legge n. 88 del 1989, l'Inail sia dichiarato decaduto dal diritto di rettifica per errore della rendita, essendo trascorsi piu' di dieci anni dalla comunicazione del provvedimento originario. In tutti e tre i casi l'Inail sostiene l'inapplicabilita' del citato art. 9, affermando che alla data della revisione detta norma non era in vigore e che la stessa si applica solamente nei casi in cui il provvedimento di cessazione o riduzione della rendita sia qualificato dallo stesso Istituto come rettifica per errore, mentre nei casi in esame la rendita era stata ridotta o soppressa per accertato miglioramento della malattia professionale ai sensi dell'art. 137 t.u. n. 1124 del 1965. Quest'ultimo assunto dell'Inail e' stato contraddetto dalle risultanze delle CTU medico legali cui sono stati sottoposti i ricorrenti. E' noto che il criterio distintivo tra l'istituto della rettifica per errore e della revisione, deve essere ravvisato nella diversita' di presupposti che caratterizza l'applicazione degli istituti, dovendo la seconda essere utilizzata solo per adattare la rendita al mutamento delle condizioni di salute dell'assicurato, laddove il primo e' utilizzato per rimediare a precedenti errori di valutazione. Quest'ultima e' la situazione verificatasi nei casi in esame. Nel caso del ricorrente Cavallin il perito ha accertato, infatti, che al momento del provvedimento originario (15.12.81) «vi e' stato sia un errore diagnostico, attribuendo l'intera perdita uditiva ad un danno da rumore, sia un errore di valutazione con sovrastima della perdita uditiva e, di conseguenza, sovrastima del grado di inabilita', nel caso del ricorrente Favaron il CTU ha accertato «un errore di valutazione» del provvedimento originario e nel caso della ricorrente Toppan «un errore diagnostico e valutativo». La giurisprudenza della suprema Corte ha rilevato che, nell'indagine condotta per verificare la sussistenza o meno delle condizioni necessarie per la sua rilevanza, l'errore e' verificato dal giudice indipendentemente dal fatto che l'Inail abbia aperto un procedimento rivolto al riesame di quanto deciso in precedenza oppure di revisione per sopravvenienze (cfr. Cass. n. 10842/2000). Ora le conclusioni delle CTU non lasciano dubbi sul fatto che in tutti e tre i casi le originarie determinazioni dei gradi di invalidita' fossero sovrastimate per errore e che, quindi, non si sia in presenza di revisioni dovute a miglioramenti delle malattie degli interessati, disciplinate dall'art. 137 del t.u. del 1965, ma di vere e proprie rettifiche per errore. Trova, pertanto, applicazione l'art. 9 del decreto legislativo n. 38 del 2000, sulla cui portata retroattiva non sussistono dubbi, visto il tenore dei commi 5, 6 e 7 del citato art. 9. Pacifica e' in questo senso la giurisprudenza della Corte di cassazione, che in piu' occasioni ha affermato la retroattivita' della norma, che investe «ogni situazione pregressa, non solo pendente, bensi' coperta da prescrizione o da giudicato» (cfr. Cass. n. 8308/2000, 14959/2000 e 435/2001). L'applicazione della nuova disciplina non potrebbe che portare all'accoglimento della domanda dei ricorrenti, dato che in tutti e tre i casi l'Istituto ha proceduto alla rettifica per errore ben oltre i 10 anni dalla comunicazione del provvedimento originario e cioe' quando l'errore non era piu' rettificabile, con conseguente diritto dei ricorrenti al mantenimento della rendita ai sensi del comma 3 del piu' volte citato art. 9. Sulla costituzionalita' di tale disciplina ha gia' espresso dei dubbi la Corte di cassazione che in un passaggio della sentenza n. 10842/2000 ha testualmente affermato: «Si tratta di una disposizione che potrebbe suscitare qualche dubbio di legittimita' sul piano della conformita' alla Costituzione, poiche' finisce per attribuire prestazioni previdenziali a soggetti che non ne avrebbero diritto...». Rileva il giudicante che, in effetti, l'applicazione della norma comporta il riconoscimento definitivo della prestazione economica a prescindere dalla sussistenza dei requisiti, previsti per legge, che ne sorreggono l'erogazione e un tale riconoscimento si pone in netto contrasto con i principi di base che caratterizzano l'intero assetto previdenziale, ed in particolar modo con quelli inerenti alla liberazione dal bisogno; quest'ultimo e' strettamente correlato alla effettiva sussistenza dello stato invalidante e costituisce il fondamento si cui si basa qualsiasi prestazione previdenziale. L'intervento dello Stato, in quanto finalizzato alla soddisfazione di un interesse che appartiene sia al singolo che alla generalita' dei consociati, risponde ai principi costituzionali sanciti dall'articolo 38, che esprime l'intenzione del costituente di elevare la «liberazione dal bisogno» a principio cardine dell'intero sistema previdenziale (cosi' M. Persiani, Diritto della Previdenza Sociale, p. 24 e ss.). Ne consegue che qualsiasi prestazione priva di un'adeguata giustificazione, in quanto erogata in assenza dei requisiti di legge (cioe' in assenza di quella situazione di inabilita' al lavoro, che determina il bisogno e che giustifica l'erogazione della prestazione), non realizza le finalita' di tutela previste dalla Costituzione e finisce col porsi, percio', in contrasto con i principi costituzionali sanciti dall'art. 38 Cost. Il consolidamento di una prestazione economica in capo ad un soggetto che non ne avrebbe diritto, con il conseguente ingiustificato aggravio delle spese di gestione di un ente appartenente alla P.A., confligge anche con una altro interesse di natura pubblica, di rango costituzionale, che si concretizza nel principio di buon andamento che deve informare l'azione di tutti i pubblici uffici, sancito dall'art. 97 della Costituzione. Tale principio impone il corretto impiego delle risorse finanziarie di cui godono gli enti pubblici e in questo contesto l'erogazione di una prestazione non dovuta appare come una palese incongruenza, tale da sollevare seri dubbi di legittimita' costituzionale della norma anche sotto questo aspetto, tanto piu' in un periodo storico caratterizzato dalle esigenze di contenimento della spesa previdenziale. Ma vi e' un altro profilo di illegittimita' costituzionale dell'art. 9. Il riesame di procedimenti gia' conclusi per effetto di prescrizione o, addirittura, coperti da giudicato si pone in contrasto col principio di certezza del diritto tutelato dall'art. 3 della Costituzione (cosi' Corte costituzionale n. 416/1999). Gli istituti della prescrizione e del giudicato, com'e' noto, assolvono, infatti, la funzione di salvaguardia della certezza dei rapporti giuridici, la prima mediante l'estinzione del diritto o dell'azione, il secondo attraverso la preclusione di nuovi giudizi. Tale funzione viene sacrificata dalla possibilita', riconosciuta dalla norma in questione ai beneficiari di prestazioni non dovute, di riaprire procedimenti che sono gia' stati definiti. La norma appare irragionevole quando, nell'intento di realizzare attraverso l'introduzione del limite temporale decennale alla rettifica la certezza del diritto, crea incertezza in ordine a situazioni di per se' certe, in quanto gia' legittimamente definite. Un esempio se ne ha anche nei casi qui in esame considerato che i provvedimenti di revisione dell'Inail sono intervenuti per Cavallin nel 1997, per Toppan nel 1996 e per Favaron addirittura nel 1993. L'art. 9 ha riconosciuto agli interessati, che beneficiavano di una prestazione non dovuta, successivamente rettificata, di riaprire situazioni gia' definite, tra l'altro in un periodo in cui il potere di rettifica dell'Inail non incontrava, ai sensi dell'art. 55, comma 5, della legge n. 88 del 1989, alcun limite temporale. L'inerzia ultradecennale dell'istituto viene considerata, dalla nuova disciplina, come riconoscimento tacito della sussistenza della patologia non solo per fattispecie future, ma anche ora per allora, quando l'Inail poteva procedere in qualsiasi tempo alla rettifica e tale soluzione pare senz'altro lesiva del principio costituzionale della certezza del diritto, vulnerato da tale incondizionata retroattivita' della norma. Le svolte considerazioni portano questo giudice a ritenere non manifestamente infondata sotto i profili suindicati la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9 del decreto legislativo n. 38 del 23 febbraio 2000, primo comma, nella parte in cui prevede che l'istituto assicuratore possa, salvi i casi di dolo e colpa grave dell'interessato, esercitare la facolta' di rettifica entro 10 anni dalla data di comunicazione dell'originario provvedimento errato, nonche' dei commi 3, 5 , 6 e 7. Sussiste altresi' la rilevanza della questione nel presente giudizio, richiamate le circostanze in fatto e le argomentazioni in diritto suesposte.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost. e 21, legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta non manifestamente infondata e rilevante la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1, secondo periodo, 3, 5, 6 e 7, decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, in relazione agli artt. 3, 38 e 97 della Costituzione per le argomentazioni indicate nella parte motiva della presente ordinanza; Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Treviso, addi' 12 novembre 2003 Il giudice unico del lavoro: De Luca 04C0154