N. 36 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 luglio 2003

Ordinanza   emessa   il   16   luglio   2003  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il  26  gennaio  2004)  dal  tribunale di Firenze nel
procedimento penale a carico di Stoppioni Andrea ed altri

Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche  normative  -  Possibilita'  per le parti di formulare la
  richiesta  di  cui  all'art. 444  cod.  proc. pen., come novellato,
  anche  nei  processi  penali  in  corso  di dibattimento, nei quali
  risulti  decorso  il  termine previsto dall'art. 446, comma 1, cod.
  proc.   pen.   -   Sospensione   del   dibattimento,  su  richiesta
  dell'imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni
  per  valutare  l'opportunita'  della  richiesta  -  Decorrenza  del
  termine  per  richiedere  la  sospensione  del processo dalla prima
  udienza utile anziche' dalla vigenza della legge - Contrasto con le
  finalita'  deflattive  del  rito speciale - Pregiudizio dei diritti
  della  parte  civile - Violazione del principio di ragionevolezza -
  Lesione del principio della ragionevole durata del processo.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, artt. 1 e 5, commi 1 e 2.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.9 del 3-3-2004 )
                         IL GIUDICE DI PACE

    Premesso  che  il  difensore  di  Franco  Buzzichelli, imputato -
insieme  ad  Andrea  Stoppioni,  Massimo Pandolfini, Rina Ganiglieri,
Concetta Monteleone, Enrico Binaghi e Pietro Sanna - dei reati di cui
agli  artt. 483  e  674  c.p.,  51  d.lgs.  5 febbraio 1997 n. 22, ha
chiesto  la  sospensione  del  processo ai sensi dell'art. 5, secondo
comma, legge 12 giugno 2003, n. 134.

                            O s s e r v a

    L'art. 5,   legge   12   giugno   2003,  n. 134,  stabilisce  che
l'imputato,  o  il  suo  difensore  munito di procura speciale, ed il
pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di
entrata  in vigore della legge; possano chiedere l'applicazione della
pena,  ai  sensi  dell'art.  444  c.p.p., come novellato dalla stessa
legge,   anche  nei  processi  penali  dei  quali  sia  in  corso  il
dibattimento  ed  anche  se sia decorso il termine previsto dall'art.
446,  comma  1,  c.p.p. La facolta' e' concessa anche quando sia gia'
stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte
del  pubblico  ministero, o la richiesta sia stata rigettata da parte
del  giudice,  e  sempre  che la nuova richiesta non costituisca mera
riproposizione   della  precedente.  Su  richiesta  dell'imputato  il
dibattimento e' sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque
giorni  per  valutare  l'opportunita'  della richiesta e durante tale
periodo  sono  sospesi  i  termini  di  prescrizione  e  di  custodia
cautelare.
    Il  giudicante  dubita  della  legittimita'  costituzionale della
norma per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    Quanto  all'art. 3,  ed in ispecie al principio di ragionevolezza
che    per   consolidatissima   elaborazione   della   giurisprudenza
costituzionale da esso viene dedotto, la norma non appare ragionevole
a)  perche'  consente  di  formulare  la  richiesta  anche oltre e il
termine   fissato   dall'art. 446,   primo   comma   c.p.p.;   quanto
all'art. 111,  il  contrasto  sussiste b) perche' la norma impone, su
richiesta  dell'imputato,  una  sospensione di quarantacinque giorni,
fissando   il   termine  di  decorrenza  dalla  prima  udienza  utile
successiva alla data di pubblicazione della legge.
    Sub  a:  Il  cosiddetto  patteggiamento  e'  stato introdotto nel
codice  di  rito  vigente  per  determinare un effetto deflattivo del
processo  penale: si e' concesso alle parti di concordare la pena per
evitare  i  costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie
che  il  rito  ordinario  comporta;  in  cambio  di  tale  risparmio,
l'imputato  gode  di  uno sconto di un terzo della pena. La finalita'
indicata  e'  stata  ribadita anche dalla Corte costituzionale con la
sentenza  n. 129 del 1993, in cui si afferma, con riferimento ai riti
speciali,  che  «l'interesse dell'imputato a beneficiare dei vantaggi
conseguenti  a  tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia
al  dibattimento e venga percio' effettivamente adottata una sequenza
procedimentale  che consenta di raggiungere l'obiettivo di una rapida
definizione del processo», deducendone la legittimita' costituzionale
della   preclusione  dei  riti  speciali  in  caso  di  contestazione
suppletiva.  Se  questa e' la finalita' dell'applicazione della pena,
lo  sbarramento  previsto dall'art. 446 primo comma e' necessario per
garantire  che la finalita' venga nel concreto perseguita. La novella
opera,  per  i  processi  in  corso  al  momento della sua entrata in
vigore,  una  scelta del tutto contraria: consente infatti il ricorso
al rito speciale in ogni momento, perfino quando sia stato dichiarata
chiuso  il  dibattimento  e  ci si trovi gia' in fase di discussione.
Consente,  cioe',  la  riduzione  della pena anche a chi non ha fatto
risparmiare  alcuna risorsa allo Stato, e cio' appare irragionevole e
contrasta  con  le  finalita'  del  rito  speciale,  cioe'  la rapida
definizione  dei  singolo  processo  e  l'efficienza  complessiva del
sistema   giudiziario  penale,  oggi  costituzionalmente  valorizzate
dall'art. 111 Cost.
    Sub  b:  La  sospensione  per  quarantacinque giorni del processo
contrasta, ad avviso del giudicante, con l'art. 111 appena richiamato
oltre che, sotto diverso profilo, con l'art. 3 Cost. Il contrasto con
il  principio  della ragionevole durata del processo appare chiaro se
si  da'  della  riformata  norma costituzionale una lettura che abbia
riguardo  non solo all'interesse di ogni singolo imputato, ma anche a
quello  di  tutte  le  altre  parti  processuali,  dello  Stato e dei
cittadini  in  generale.  Infatti,  se  la  speditezza processuale si
intende  come  forma  di tutela del singolo imputato, la richiesta di
rito   alternativa   avanzata   nel  corso  di  un  processo  in  cui
l'istruttoria  dibattimentale  sia  iniziata o addirittura terminata,
non  incontrerebbe  ostacoli  nell'art. 111 Cost., dal momento che il
singolo  imputato,  a  seconda  dei casi, ha interesse ad un processo
piu'  lungo  nella speranza della prescrizione del reato, oppure piu'
breve, attraverso riti alternativi, quando la prescrizione sia ancora
lontana.  Si  ritiene, invece, piu' fondata una lettura del principio
della  ragionevole  durata  del  processo  quale garanzia dell'intera
collettivita', sulla scorta delle considerazioni che seguono.
    In  primo  luogo  si  osserva  che la regola di cui si discute e'
contenuta  nel  secondo  comma  dell'art. 111,  relativo  a  tutti  i
processi,  non solo a quello penale. Cio' evidenzia in maniera chiara
che  il  principio  non  puo' essere inteso solo come funzionale agli
interessi  di  una  sola  delle  parti  di  uno solo dei vari tipi di
processo  che  il nostro ordinamento prevede. Sono i commi successivi
della  norma che si occupano specificamente del processo penale e che
prevedono  garanzie  dell'imputato, nessuna delle quali, tuttavia, e'
delineata  in  maniera  tale  da  derogare  apertamente  alla  regola
generale  della  ragionevole  durata.  Unica  di tali garanzie che in
qualche modo s'interseca con il principio generale e' quella inerente
il  diritto  dell'imputato  a  dispone  del  tempo e delle condizioni
necessarie a preparare la sua difesa, che tuttavia riguarda il merito
dell'accusa, non la semplice strategia processuale, e sarebbe percio'
richiamata  a  sproposito  nella  materia  di  cui si sta discutendo,
soprattutto  quando il punto di scontro fra le due esigenze si situa,
come avviene applicando la norma transitoria, a dibattimento iniziato
o  perfino  concluso,  cioe' in un momento in cui l'imputato ha ormai
impostato o anche attuato la sua linea difensiva.
    L'interpretazione  dell'art. 111  Cost.  che collega il principio
della  ragionevole durata non ai contingenti interessi dell'imputato,
ma  a  quello  della  collettivita',  si avvalora poi alla luce della
produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma
costituzionale.  Si  consideri  che la legge 24 marzo 2001 n. 89, che
consente  alle  parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia
avuto  una  durata  eccessiva,  indipendentemente  dalle  ragioni che
l'abbiano  determinata,  attribuisce  il diritto all'equa riparazione
non  solo all'imputato, ma anche alla parte civile. Da cio' si evince
che  la ragionevole durata del processo penale non e' un diritto solo
dell'imputato,  ma  anche delle altre parti processuali, ivi compresa
la parte civile, il che costituisce chiaro indice della sua natura di
principio generale, non di forma di tutela di una parte.
    Se   poi  si  ha  riguardo  agli  effetti  concreti  della  norma
denunciata  nello  svolgimento  dei  processi, l'implausibiita' della
lettura  del  principio della ragionevole durata come tutela del solo
imputato,  da  questi  disponibile  e rinunciabile discrezionalmente,
risulta  ancor  piu'  chiara. Si consideri che nell'attuale sistema i
poteri  istruttori,  e  conseguentemente quelli decisori, del giudice
sono  stati  ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti. Ogni
volta   che   sia   disposta   la   rinnovazione   del  dibattimento,
l'istruttoria  dibattimentale  deve  ricominciare  da capo, salvo nel
caso  in cui le parti prestino il consenso alla lettura degli atti in
precedenza  svolti.  Percio', se il processo ha piu' imputati, di cui
solo  uno  chieda  la sospensione, ai sensi dell'art. 5 comma 2 della
legge  134  citata,  il  giudice  deve,  innanzitutto,  stabilire  se
proseguire  il  giudizio nei confronti dei coimputati, stralciando la
posizione  del richiedente - opzione che sembra la piu' corretta alla
luce  dell'attuale  formulazione  dell'art. 18 lett. b)c.p.p., ma che
puo'   rivelarsi   inutile,   se   il   rito  alternativo  non  viene
concretamente  richiesto,con  dispendio  di  energie  e  di attivita'
processuali  -;  oppure se, anziche' sospendere il processo anche nei
confronti  dei  coimputati,  rinviarlo  in  attesa  del  decorso  dei
quarantacinque   giorni   prescritti.   In   quest'ultimo   caso,  se
l'interessato  poi  chiede  l'applicazione della pena, l'accoglimento
dell'istanza  rende  il  giudice  incompatibile a giudicare gli altri
coimputati,  mentre  il  rigetto  della richiesta lo rende ugualmente
incompatibile a giudicare l'imputato: se non si procede allo stralcio
gia'  al momento della richiesta di sospensione, quindi, il processo,
per  la  parte  che  prosegue  con  rito ordinario, deve in ogni caso
iniziare   ex   novo  innanzi  ad  altro  giudice,  con  rinnovazione
dell'istruttoria   dibattimentale.   In   tale  ipotesi,  non  vi  e'
speditezza  processuale  ne'  per l'interessato ne' per i coimputati,
ma,  al contrario, una dilatazione dei tempi della decisione. La cosa
e' particolarmente evidente quando l'istruttoria e' gia' esaurita: ad
una   decisione   con  rito  ordinario  ormai  certa  nel  tempo,  si
sostituisce  un'attivita'  interlocutoria di sospensione che potrebbe
concludersi con il rigetta della richiesta di applicazione della pena
e  con  la  necessita'  di  iniziare  nuovamente il processo con rito
ordinario,  in  caso  di  unico  imputato;  oppure,  se  vi sono piu'
imputati  ed  uno  solo  chiede  il rito alternativo, con lo stralcio
delle  posizioni  degli eventuali coimputati, per i quali il processo
ricomincerebbe, anche se fosse ormai conclusa l'istruttoria.
    Il  giudicante  non  ignora  che  la  Corte  costituzionale,  con
sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che «l'applicazione della pena
concordata  con  il  pubblico ministero da uno solo degli imputati di
concorso  nel  medesimo  reato costituisce un procedimento congegnato
come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine
al  quale  e'  previsto  un controllo giurisdizionale che non include
pero'  la  valutazione delle posizioni dei coimputati». La questione,
tuttavia,  era  stata esaminata solo con riferimento all'art. 3 Cost.
ed   inoltre  era  relativa  ad  una  disposizione  ordinaria  e  non
all'introduzione   di   una   norma  transitoria,  come  quella  oggi
denunciata,  che  mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti
in  corso,  anche  se  in  fase  dibattimentale,  sicche' quella oggi
sollevata  e'  questione  nuova e diversa. Inoltre la sentenza citata
era antecedente alla riforma dell'art. 111 Cost.
    Sempre  in  punto  di  effetti concreti delle norme impugnate, si
osserva, ancora, che, nel caso di applicazione della pena in corso di
giudizio,  l'esercizio  del  diritto  di  azione  della  parte civile
costituita, garantito dall'art. 24 Cost. viene oltremodo sacrificato,
giacche'  tutta l'attivita' processuale fino a quel momento svolta si
vanifica  nel merito e puo' portare solo alla condanna alle spese, in
forza della sentenza n. 443 del 1990 della Corte costituzionale. E se
e'  vero  che  il  giudice  delle leggi ha risolto nel limitato senso
indicato  il  problema relativo all'esclusione della parte civile nel
rito  de quo e' anche vero che, di nuovo, la decisione si riferiva al
sistema  ordinario  di  applicazione  della  pena  e non ad una norma
transitoria,  come  quella in esame, che interviene a disciplinare un
giudizio  in  corso  in  cui  la  parte civile sta gia' esercitando o
addirittura  ha  gia'  del  tutto  esercitato  il  propria diritto di
azione.
    Sicche'  anche  sotto  tale  aspetto  la frustrazione dei diritti
della  parte civile e della ragionevole durata - anche per essa - del
processo  finisce  con  il  violare i principi di ragionevolezza e di
ragionevole durata stabiliti dagli artt. 3 e 111 Cost.
    Sia in astratto che in concreto, percio', una norma, quale quella
di  cui  si  discute,  che  consente  all'imputato  di dilazionare ad
libitum  per  ben  quarantacinque  giorni  il  giudizio, senza alcuna
conseguenza negativa in caso di mancato ricorso al patteggiamento, ad
avviso  del  giudicante  stride  in maniera evidente con il principio
della   ragionevole   durata   del   processo  letto  come  interesse
dell'intera collettivita'.
    Il  contrasto  appare poi ancor piu' chiaro, e risulta assai poco
ragionevole  la  disciplina  della  novella, con ulteriore violazione
dell'art.  3  Cost.,  in  relazione  alla  decorrenza del termine per
richiedere  la  sospensione  del  processo dalla prima udienza utile,
anziche'  dalla  pubblicazione  della  legge.  Sotto  tale profilo si
osserva che ogni cittadino e' tenuto a conoscere le leggi pubblicate.
Pertanto ogni imputato e' stato posto in grado, nel momento in cui la
legge  in  esame  e'  stata pubblicata, di valutare l'opportunita' di
avvalersi  della pena concordata, tanto piu' se si considera che ogni
imputato  e'  assistito  da  un  difensore,  sicche' ha avuto modo di
consultarsi con questi per valutare l'opportunita' di avvalersi della
novella.  La concessione di un termine di durata notevole, decorrente
dalla  prima  udienza  anziche'  dalla  vigenza  della  legge, appare
irragionevole.   Tale  irragionevolezza  risulta  di  tutta  evidenza
allorche'  la  fase  istruttoria  sia  esaurita  o  il  processo  sia
addirittura  in  fase  di  discussione,  e,  quindi, l'imputato abbia
potuto  valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della
convenienza  eventuale di concordare la pena. Una volta accertato che
il  rapporto  esistente tra imputato e difensore consente ad entrambi
di valutare momento per momento le opportunita' di scelte processuali
e  che,  dunque, non v'e' lesione del diritto di difesa se si dispone
che l'imputato, alla prima udienza utile, debba dichiarare se intende
patteggiare  o no, anziche' chiedere un lungo termine di riflessione,
deve  ritenersi  che la sospensione obbligatoria incida - si passi il
bisticcio  - irragionevolmente sulla ragionevole durata del processo.
Nel   bilanciamento   tra  l'interesse  dell'imputato  e  l'interesse
generale  alla ragionevole durata del processo sembra debba prevalere
quest'ultimo, non indiscriminatamente il primo.
    Ancora,  lo  spatium  deliberandi  obbligatorio  appare  istituto
nuovo, quantomeno nell'ambito del processo penale, e contrastante con
le soluzioni adottate anche di recente dal legislatore: si consideri,
ad  esempio, che la legge 25 giugno 1999 n. 205, che ha introdotto la
procedibilita'  a  querela  per  il  reato di furto, nella disciplina
transitoria  dell'esercizio  del  diritto  di  querela  per  i  reati
commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della legge stessa, di cui
all'art. 19,   non   prevedeva,   per  i  processi  pendenti,  alcuna
sospensione  automatica  del  processo  per  un  tempo  necessario  a
decidere  se  proporre  querela,  ma  solo un obbligo di informazione
della  persona  offesa circa la facolta' di esercitare tale diritto e
la decorrenza del termine di cui all'art. 124 c.p. dal momento in cui
veniva  ricevuta  l'informazione  che,  se l'interessato era presente
all'udienza, si identificava con l'udienza stessa.
    Per  i  processi relativi a fatti anteriori all'entrata in vigore
della  legge,  ma  iniziati  successivamente  all'entrata  in  vigore
stessa,  la  legge  -  in  coerenza con l'obbligo di conoscenza delle
norme  -  non  prevedeva invece alcuna informazione ed il termine per
propone  querela  decorreva  dall'entrata  in  vigore della legge. La
norma  che  si denuncia ha invece operato scelte diverse senza alcuna
ragione  apparente  o  cogente,  ma  - sembra di capire - per mero ed
ingiustificato  favor  nei  confronti  degli  imputati anche di gravi
reati.
    In  punto  di  rilevanza  si  osserva  che  in questo processo si
verificano    tutte    le   situazioni   che   vengono   pregiudicate
dall'improvvida   scelta   legislativa.   L'istruttoria  si  e'  oggi
conclusa,  con  l'audizione  dell'ultimo teste. Il dibattimento e' in
corsa  da  piu'  di  un anno, essendo iniziata il 6 giugno 2002. Sono
stati  sentiti  trenta  fra  testi  e consulenti tecnici nel corso di
numerose  udienze,  incastonate  con  grandi difficolta', dovute agli
impegni del pubblico ministero e dei numerosi difensori, nei turni di
udienza,  monocratica  e  collegiale,  di questo giudice: vi e' stato
dunque  grande  dispendio  di energie della macchina della giustizia,
impegno  che  potrebbe  divenire  del tutto vano, perlomeno in ordine
all'imputato  che  ha chiesto la sospensione, qualora la richiesta di
patteggiamento fosse effettivamente perseguita. Tale evenienza appare
al  giudicante  del tutto irragionevole. Vi sono due parti civili che
hanno esercitato il loro diritto di azione, che potrebbero vedere del
tutto  vanificato  lo sforzo durato. Dunque, e' ipotizzabile, in caso
di  effettiva  applicazione  della  pena, una stridente disparita' di
trattamento  fra due parti di questo processo: l'imputato Buzzichelli
che   viene   «premiato»   con   uno  sconto  di  pena  senza  alcuna
contropartita  per  la  collettivita';  le  parti  civili  che invece
vengono  oltremodo  punite,  perche' dovranno ricominciare daccapo la
causa  civile  in  altra  sede,  vedendo  allontanarsi  in  un futuro
certamente  remoto la decisione cui hanno costituzionalmente diritto.
Ancora,  gli  altri  imputati  non  hanno  richiesto la sospensione e
quindi,  per le loro posizioni, si ripropongono le alternative, tutte
negative  per l'interesse della collettivita' alla rapida definizione
dei  processi  penali, prima analizzate in astratto. Oltre a cio', in
ogni  caso,  cioe'  anche  se  non vi sara' richiesta di applicazione
della  pena,  la  semplice  sospensione inciderebbe sulla ragionevole
durata di questo processo.
    In  relazione alla separazione dei giudizi richiesta dal pubblico
ministero  il  giudicante ritiene di non poterla accogliere in questo
momento  dal  momento  che  essa deriverebbe dall'applicazione di una
norma  che  sospetta di incostituzianalita' e che sta sottoponendo al
vaglio del giudice delle leggi.
                              P. Q. M.
    Rigetta  la  richiesta  di  separazione del giudizio in relazione
alla posizione dell'imputato Buzzichelli.
    Vista  la  legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23
della  legge  11  marzo  1953  n. 87;  ritenutala  non manifestamente
infondata  e  rilevante  ai  fini  del  presente giudizio, solleva la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 1 e dell'art. 5.
commi  primo  e  secondo,  della  legge  12  giugno  2003, n. 134 per
contrasto  con  gli artt. 3 e 111 della Costituzione nei limiti e nei
termini di cui in motivazione.
    Sospende il giudizio in corso.
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia notificata al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  e  comunicata  ai Presidenti delle due
camere del Parlamento.
        Firenze, addi' 26 luglio 2003
                        Il giudice: Lamberti
04C0188