N. 59 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 novembre 2004

Ordinanza  emessa  il  17  novembre  2004  dal tribunale di Fermo nel
procedimento penale a carico di Cerreoni Pasquale Primo ed altro

Processo  penale  -  Prove  -  Testimonianza  -  Persone  imputate  o
  giudicate  in  un  procedimento  connesso o per reato collegato che
  assumono  l'ufficio  di  testimone  (c.d.  testimoni  assistiti)  -
  Ipotesi  in cui nei confronti di tali persone sia stata pronunciata
  sentenza    irrevocabile    di    assoluzione   -   Obbligatorieta'
  dell'assistenza  difensiva  -  Applicabilita'  nei  confronti delle
  dichiarazioni rese della disposizione di cui all'art. 192, comma 3,
  cod.  proc.  pen.,  in  forza  del  quale  dette dichiarazioni sono
  valutate  unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano
  l'attendibilita'  - Violazione del principio di uguaglianza, per la
  equiparazione  alle  persone imputate in un procedimento connesso o
  per  reato  collegato,  sentite  ai  sensi dell'art. 210 cod. proc.
  pen., e per il diverso trattamento rispetto ai testimoni ordinari.
- Cod. proc. pen., art. 197-bis, commi 3 e 6.
- Costituzione, art. 3, primo comma.
(GU n.8 del 23-2-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento penale
n. 166/2003  a  carico  di: 1) Cerreoni Pasquale nato a Messina il 22
dicembre  1961  res.  a  Cupra  Marittima  via  Kennedy n. 41, difeso
dall'avv.  Serena Romandini del Foro; 2) Apis Giuseppe nato a Potenza
Picena  il  30  marzo  1943  res.  a Cessapalombo - contrada Coldiele
n. 15,  domiciliato a Vivitanova Marche S.P. Maceratese n. 15, difeso
dall'avv.  Sotero  Adani del Foro di Macerata, di fiducia imputati di
reati  di cui agli artt. 110 c.p. 216, comma 1, n. 2, 222, 223, regio
decreto 16 marzo 1942, n. 267.
    Premesso  in fatto che, a seguito di indagini svolte in relazione
al  fallimento  della  societa'  «Global  Foods»  con  sede  in Cupra
Marittima,  la  locale  Procura procedeva penalmente nei confronti di
Scotti  Francesco,  Cerreoni  Pasquale  Primo  e  Apis  Giuseppe, per
rispondere, in concorso tra loro, del reato di bancarotta fraudolenta
documentale (ed il Cerreoni anche del reato di bancarotta fraudolenta
patrimoniale);
        che,  all'udienza  preliminare,  Scotti Francesco chiedeva di
essere giudicato con le forme del giudizio abbreviato;
        che,  all'esito  del  ricordato  rito  alternativo, lo Scotti
veniva  assolto,  per  non  aver  commesso  il fatto, con sentenza 16
aprile  2003  del  g.u.p. in sede, divenuta irrevocabile il 28 giugno
2003;
        che,  con  decreto  in data 6 febbraio 2003, lo stesso g.u.p.
rinviava  al  giudizio  di  questo tribunale i coimputati Cerreoni ed
Apis;
        che il p.m. indicava, nella lista di cui all'art. 468 c.p.p.,
Scotti    Francesco,   per   deporre   in   ordine   alla   specifica
responsabilita' degli odierni imputati;
        che  all'odierna  udienza  fissata per l'escussione di Scotti
Francesco  quale  testimone  assistito  ex  art. 197-bis  c.p.p.,  il
tribunale   sollevava   d'ufficio   le  questioni  di  illegittimita'
costituzionale   per   violazione   dell'art. 3,  primo  comma  della
Costituzione  - dei commi 3 e 6 dell'art. 197-bis c.p.p., nella parte
in  cui, rispettivamente, prevedono come obbligatoria l'assistenza di
un  difensore,  e  l'applicazione  della  regola  probatoria  di  cui
all'art. 192,  comma 3 c.p.p. (anche) con riferimento all'imputato in
un  procedimento  connesso o di un reato collegato, nei cui confronti
e' stata pronunziata sentenza irrevocabile di assoluzione.
                  Motivi Rilevanza della questione
    Le  questioni  sono entrambe rilevanti nel giudizio in quanto, in
caso di accoglimento, non si dovrebbe invitare il teste a nominare un
difensore  di  fiducia  e,  in  difetto, nominargliene uno di ufficio
(comma  3)  -  con  l'obbligo  per  lo  stesso teste di corrispondere
l'onorario  per  detta imposta assistenza - e, per altro verso (comma
6),  le dichiarazioni accusatorie rese dallo stesso potrebbero essere
valutate alla stregua di qualsiasi altro elemento di prova e, dunque,
ritenute  idonee,  una  volta  superato  il  vaglio  di  credibilita'
intrinseca,   a   fondare  l'affermazione  di  responsabilita'  degli
imputati  pur in assenza di altri elementi di prova (che, nel caso di
specie,  quanto  meno  con riferimento alla posizione dell'Apis fanno
difetto).
             Non manifesta infondatezza della questione
    Va  ricordato,  anzitutto,  che  la  Consulta  ha  avuto  modo di
occuparsi   della  compatibilita'  costituzionale  dell'art. 197-bis,
comma 6 c.p.p., dichiarando con ordinanza pronunziata l'8 luglio 2004
(depositata  il  22 luglio) la manifesta infondatezza della questione
sollevata,    in   riferimento   all'art. 3,   primo   comma,   della
Costituzione, dal Tribunale di Novara.
    In  quell'occasione  peraltro,  la  disposizione in questione era
stata   censurata  con  riferimento  alle  dichiarazioni  rese  quale
«testimone assistito» ai sensi dell'art. 197-bis, comma 1, cod. proc.
pen.,  da  persona originariamente coimputata del medesimo reato, nei
cui   confronti   era  stata  pronunciata  sentenza  irrevocabile  di
applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen.
    E'  opportuno ripercorrere la trama argomentativa della ricordata
ordinanza.
    La  normativa censurata esprime - si legge nella motivazione - la
strategia  di  fondo  che  ha  ispirato il legislatore della legge 1°
marzo  2001, n. 63: strategia consistente nell'enucleare una serie di
figure di «dichiaranti» nel processo penale in base ai diversi «stati
di relazione» rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una
graduazione  che,  partendo dalla situazione di assoluta indifferenza
propria  del  teste  ordinario,  giunge  fino alla forma «estrema» di
coinvolgimento,   rappresentata  dal  concorso  del  dichiarante  nel
medesimo  reato.  Ai vari «stati di relazione» corrisponde quindi una
articolata  scansione normativa di figure soggettive, di modalita' di
dichiarazione e di effetti del dichiarato.
    Cio'  premesso,  secondo  il Giudice delle leggi, «la circostanza
che  nei  confronti  dell'imputato  in  un procedimento connesso o di
reato  collegato  ex art. 371, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. sia
stata  pronunciata  sentenza irrevocabile di "patteggiamento", vale a
differenziare la posizione del soggetto considerato rispetto a quella
degli  imputati  in  un  procedimento  connesso  o di reato collegato
ancora  in  attesa  di  giudizio definitivo: giustificando, cosi', la
scelta  legislativa  di permettere l'audizione del soggetto stesso in
veste   di   testimone,   con   correlata   restrizione  (nei  limiti
normativamente previsti) del diritto al silenzio» ma tale circostanza
non  basta  ancora  a  "ripristinare" alla stregua di una ragionevole
valutazione  del  legislatore, la condizione di assoluta indifferenza
rispetto  alla  vicenda  oggetto di giudizio che e' propria del teste
ordinario».
    Tali  principi non sembrano poter trovare applicazione al caso in
esame,  in cui l'estraneita' dell'imputato e' stata accertata in modo
irrevocabile  e,  quindi,  lo  stato  di  relazione rispetto ai fatti
oggetto  del  procedimento si trova agli antipodi rispetto alla forma
«estrema»   di   coinvolgimento,   rappresentata   dal  concorso  del
dichiarante  nel medesimo reato e deve essere, almeno giuridicamente,
assimilata alla situazione di indifferenza del teste ordinario.
    Non  si  comprende,  invero,  per  quale ragione le dichiarazioni
testimoniali  di  un  soggetto  (gia' coimputato o imputato per reati
connessi  o  collegati  nei  cui  confronti  sia intervenuta sentenza
irrevocabile  di assoluzione con la formula piu' ampia debbano essere
considerate,  per  effetto  di  una presunzione legislativa assoluta,
meno   «attendibili»  di  quelle  di  un  qualsiasi  altro  «normale»
testimone  e  parificate  a  quelle della persona di cui all'art. 210
c.p.p.
    Sembra  quasi che l'essere stati (ingiustamente: dato l'esito del
giudizio) perseguiti penalmente, faccia residuare anche nei confronti
del  soggetto di cui sia stata riconosciuta l'assoluta estraneita' ai
fatti,  un marchio (infamante) indelebile. Tale disciplina e' gravida
di  implicazioni  non  solo  di natura «morale», ma soprattutto - per
quel che qui rileva - giuridica.
    Cosi',  solo  a  titolo di esempio, le dichiarazioni di colui che
risulti,   all'esito  del  giudizio,  totalmente  estraneo  al  reato
ipotizzato  a suo carico, essendo stato «trascinato in giudizio» solo
a seguito di altrui condotta calunniosa, non saranno (piu) di per se'
sufficienti  a  fondare  una  sentenza  di condanna nei confronti del
calunniatore,  con  ricadute  anche sull'azione civile proposta dalla
vittima.  Senza  considerare  che  per effetto di tale previsione una
persona che ha subito un processo, affrontandone tutti i costi, ed e'
stata  dichiarata  «non colpevole» dovra' procacciarsi (e pagarsi) un
difensore anche per testimoniare.
    Paradossalmente  la  disciplina  del  c.d. giusto processo che ha
esteso gli ambiti della testimonianza e limitato l'area del silenzio,
ha  reso la deposizione dell'imputato (di reato connesso o collegato)
assolto  con  sentenza  passata  in giudicato, sotto il profilo della
valenza  del  mezzo  di prova, deteriore rispetto a quella previgente
(in  base alla quale il prosciolto con sentenza irrevocabile assumeva
a  tutti  gli  effetti  la  qualifica  di  testimone «comune», le cui
dichiarazioni  non  erano  assoggettate alla corroboration: cfr. art.
197 lett. a) c.p.p. nella previgente formulazione).
    Si ritiene che detta disciplina determini un vulnus del principio
di   uguaglianza   ed   esprima   un  esercizio  irragionevole  della
discrezionalita' che al legislatore compete nella conformazione degli
istituti  processuali, laddove parifica la posizione dell'imputato in
procedimento  connesso  o  di  reato  collegato  assolto con sentenza
irrevocabile  alla  persona  di  cui  all'art.  210  c.p.p.  - e, per
converso,  la  diversifica  profondamente  da  quella  del  testimone
ordinario,  anche  se  vittima  del  reato o prossimo congiunto delle
parti  in  causa  -  sotto  il  profilo  dell'obbligo dell'assistenza
difensiva   e   sotto  il  profilo  della  semiplena  probatio  delle
rispettive dichiarazioni.
    Il  210cista  e'  obbligatoriamente assistito dal difensore ed e'
considerato  suspectus incapace a testimoniare in quanto non solo non
ha  definito la propria posizione e risulta invischiato nel reato per
cui  si procede, ma non ha ne' l'obbligo di rispondere, ne' quello di
dire la verita'.
    Ripugna   invece  al  senso  comune,  oltre  che  alla  coscienza
giuridica, che una persona giudicata innocente (senza possibilita' di
prova  contraria,  non  essendo  prevista revisione in pejus) rimanga
vittima  di  un  meccanismo  processuale irrazionale, per effetto del
quale:
        e' considerato teste suspectus, si presume che possa mentire,
in considerazione dei suoi trascorsi giudiziari;
        cio' nonostante lo si obbliga incondizionatamente a deporre e
ad essere assistito da un difensore;
        le  sue dichiarazioni hanno una valenza probatoria identica a
quella   della  persona  di  cui  all'art.  210  c.p.p.,  incapace  a
testimoniare  assoggettate  alla  restrizione  della  corroboration e
quindi prive di autarchica valenza probatoria.
    In tal modo si sovrappongono e confondono la sfera della limitata
capacita'  testimoniale  con  quella dell'attendibilita' in concreto,
che attiene al principio del libero convincimento del giudice.
    Anche   la   persona  offesa  dal  reato,  i  prossimi  congiunti
dell'imputato  o  della vittima, il «collega» di (altri) cento reati,
espressione  dello  stesso  substrato criminale dell'imputato possono
porre seri problemi di attendibilita'. Ma rispetto ad essi nessuno si
e' mai sognato di sostenere una capitis deminutio testimoniale.
    Va  rilevato,  infine, che il «corpo» di garanzie delineato dallo
stesso  art.  197-bis  al  comma  5  appaiono  persino  superflue con
riferimento  al  caso in esame e rappresentano, in ogni caso, cautela
piu' che sufficiente per escludere qualsiasi limitazione di capacita'
testimoniale in capo all'assolto.
    Esse  sembrano  legate  al fatto storico della vissuta esperienza
processuale  (cosi'  come  la  facolta'  attribuita  ad  alcuni testi
dall'art.  199 c.p.p. e' connessa al rapporto - non processuale ma di
parentela,  affinita'  o  coniugio ecc. - del teste con l'imputato) e
non  sembrano elementi essenziali per connotare una figura nettamente
differenziata rispetto al testimone ordinario.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge n. 87/1953;
    Solleva  d'ufficio  e  dichiara  rilevante  e  non manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale dei commi 3 e 6
dell'art.  197-bis  c.p.p.  in  riferimento all'art. 3, comma 1 della
Costituzione,   nella   parte   in  cui,  rispettivamente,  prevedono
l'obbligo    dell'assistenza   difensiva   e   l'applicazione   della
disposizione  di  cui  all'art.  192,  comma  3  c.p.p.  (anche) alle
dichiarazioni  rese  dalle  persone  indicate al comma 1 dello stesso
art.  197-bis,  nei  cui  confronti  sia  stata  pronunziata sentenza
irrevocabile di assoluzione;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia notificata al Presidente
del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle Camere;
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito.
        Fermo, addi' 17 novembre 2004
                        Il Presidente: Fanuli
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