N. 251 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 marzo 2005

Ordinanza   emessa  l'8  marzo  2005  dal  tribunale  di  Ragusa  nel
procedimento penale a carico di Panepinto Giuseppe

Processo  penale  -  Ricusazione  -  Impossibilita'  per  il  giudice
  ricusato  di emettere il decreto che dispone il giudizio fino a che
  non  sia  intervenuta  l'ordinanza  che  dichiara  inammissibile  o
  rigetta  la  ricusazione  - Mancata previsione - Irragionevolezza -
  Disparita'  di  trattamento  tra  imputati - Lesione del diritto di
  difesa  -  Violazione  del  principio  del  giusto  processo  e del
  principio di terzieta' ed imparzialita' del giudice.
- Cod. proc. pen., art. 37, comma 2.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
(GU n.19 del 11-5-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza ex art. 23, comma 2, legge 11
marzo 1953, n. 87.
    Esaminati gli atti del procedimento penale n. 600/04 r. g. trib.,
nei confronti di Panepinto Giuseppe, imputato dei seguenti delitti:
        a)  110  c.  p.,  216,  comma 1,  n. 2,  223  r. d. 267/1942,
perche',  in  concorso  con  D'Osi  Bruno,  Leone Pasqualino, Parrino
Orazio,  Panepinto  Annamaria,  Panepinto  Bianca,  nella qualita' di
amministratore,  per il periodo 18 settembre 1989 - 19 febbraio 1994,
della  coop.  Gitas S.r.l. dichiarata fallita dal Tribunale di Ragusa
il  23 ottobre 1995, teneva i libri e le altre scritture contabili in
guisa  da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del
movimento  degli  affari, con lo scopo di procurare a se' un ingiusto
profitto e di recare pregiudizio ai creditori;
        b)  110  c. p., 216, comma 3, 223 r. d. 267/1942, perche', in
concorso   con   D'Orsi  Bruno,  Leone  Pasqualino,  Parrino  Orazio,
Panepinio    Annamaria,   Panepinto   Bianca,   nella   qualita'   di
amministratore,  per il periodo 18 settembre 1989 - 19 febbraio 1994,
della  coop.  Gitas S.r.l. dichiarata fallita dal Tribunale di Ragusa
il  23 ottobre 1995, eseguiva pagamenti allo scopo di favorire taluno
dei  creditori a danno degli altri, per gli importi di L. 959.080.427
nell'anno   1992,  L.  884.992.482  nell'anno  1993,  L.  647.256.254
nell'anno  1994,  L. 33.850.139 nell'anno 1995 ed, in particolare, in
favore delle societa' collegate alla Baia del Sole per L. 472.926.819
nel  1992,  L. 380.000000  nel  1993.  L.  279.000.000  nel 1994 e L.
18.734.137 nel 1995;
        c)  110  c.  p., 216, comma 1, 223 r. d. 267/1942 perche', in
concorso con D'Orsi Bruno, Leone Pasqualino Parrino Orazio, Panepinto
Annamaria, Panepinto Bianca, nella qualita' di amministratore, per il
periodo  18 settembre  1989  -  19 febbraio  1994,  della coop. Gitas
S.r.l. dichiarata fallita dal Tribunale di Ragusa il 23 ottobre 1995,
distraeva  attivita'  aziendali  per gli importi di L. 1.651.805.168,
che  non  venivano  annotati  e  registrati nelle scritture contabili
negli  anni  dal 1992 al 1994; L. 306.829.400, che venivano prelevati
dagli   amministratori  e  non  riversati  nelle  casse  sociali;  L.
81.500.000,  che  venivano  pagati  con assegni a Panepinto Salvatore
senza   alcuna  giustificazione  il  27 dicembre  1991  quanto  a  L.
50.000.000,  il  6 dicembre  1992  quanto  a L. 10.000.000, il giorno
11 agosto  1992  quanto a L. 10.500.000 ed il 26 luglio 1993 quanto a
L. 11.000.000.
    Commessi in Ragusa il 23 ottobre 1995.
    Ritenuta   ammissibile  e  rilevante  nel  predetto  giudizio  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 37, comma 2, c. p.
p.,  nella parte in cui non prevede che il giudice ricusato non possa
pronunciare decreto di rinvio a giudizio;

                            O s s e r v a

    1. - Sulla rilevanza della questione.
    Con  sentenza  n. 24/1999  del  25 febbraio  1999 il Tribunale di
Ragusa condannava Panepinto Bianca e D'Orsi Bruno per reati tributari
e    previdenziali    commessi    nell'esercizio   di   funzioni   di
amministrazione attiva della societa' cooperativa Gitas S.r.l.
    Le persone condannate nel predetto giudizio risultano imputate in
concorso con Panepinto Giuseppe nell'odierno procedimento per i reati
fallimentari sopra meglio descritti.
    Rinviati  a  giudizio  tutti gli amministratori della sopra detta
persona  giuridica  per  le condotte di bancarotta fraudolenta di cui
alla  rubrica,  disposta  la  separazione  degli  atti  per l'odierno
imputato, in sede di udienza preliminare Panepinto Giuseppe ed il suo
difensore  di  fiducia,  all'udienza del 20 ottobre 2004 depositavano
dichiarazione  di  ricusazione  nei confronti del g.u.p., coincidente
con  la  medesima  persona  del  giudice,  componente del collegio ed
estensore,  della  sentenza  n. 24/1999,  sopra menzionata. L'istanza
veniva  fondata  sulla  circostanza  che  il giudice ricusato avrebbe
preso   cognizione   dei  fatti  relativi  all'amministrazione  della
societa'  nel procedimento prima indicato, conclusosi con la sentenza
resa in data 25 febbraio 1999.
    In  data  10  novembre  2004 il giudice dell'udienza preliminare,
rilevato  che  non  era  pervenuto  alcun  provvedimento interdittivo
dell'attivita'  procedimentale  da  parte  della  Corte di appello di
Catania  -  giudice della ricusazione - in virtu' dell'art. 41, comma
2,  c.p.p.,  e che l'unica attivita' impedita al giudice, ex art. 37,
comma 2,  c.p.p.,  era  quella  di  emettere  sentenza, non potendosi
prevedere l'esito dell'udienza preliminare, e ritenendo non vulnerato
il   diritto   di   difesa,   atteso  che  l'eventuale  pronuncia  di
accoglimento   dell'istanza   avrebbe   consentito   all'imputato  di
avvalersi del regime delle nullita' processuali, disponeva procedersi
oltre.
    All'esito   dell'udienza   preliminare,   tenutasi  nella  stessa
giornata,  il  giudice  dell'udienza preliminare emetteva decreto che
dispone il giudizio nei confronti dell'imputato.
    La Corte di appello decideva sull'istanza di ricusazione soltanto
in  data 1° dicembre 2004, con ordinanza di rigetto. L'imputato ed il
suo  difensore  proponevano  ricorso  per  Cassazione  avverso  detto
provvedimento, ad oggi pendente.
    Nel  corso  della  prima  udienza  dibattimentale,  celebrata  il
25 gennaio  2005, il difensore dell'imputato eccepiva la nullita' del
decreto  che  dispone  il giudizio nell'odierno procedimento, poiche'
emesso  in pendenza del giudizio di ricusazione davanti alla Corte di
appello  competente,  fondando  detta nullita', sull'equiparabilita',
per  analogia iuris del decreto che dispone il giudizio alla sentenza
di cui all'art. 37, comma 2, c.p.p..
    Dal  precedente excursus si evince chiaramente la rilevanza della
questione.  L'accoglimento  della predetta eccezione comporterebbe la
regressione   del  procedimento  alla  fase  precedente,  vanificando
l'attivita'  istruttoria  dibattimentale  eventualmente espletata. Ed
invero   la  nullita'  conseguente  ad  una  eventuale  pronuncia  di
accoglimento   della   dichiarazione  di  ricusazione  rientra  nelle
nullita'  di ordine generale ed assolute di cui all'art. 178, lettera
a),  c.p.p.  (Cass.  12 giugno  1998  n. 7082,  Gallo  e altro; Cass.
7 marzo  2000  n. 275,  Anello  R.; Cass. 14 novembre 2001, n. 40511,
Martinenghi).
    Non  risulta  dirimente  neanche  la  immediata  esecutivita' del
provvedimento sul merito della ricusazione pronunciato dalla Cotte di
Appello,   «coerente   all'esigenza   di   restituire  sollecitamente
all'esercizio  dei compiti giurisdizionali la naturale terzieta' e la
necessaria trasparenza, fuori dai condizionamenti, ancorche' soltanto
soggettivi, indotti dalla presenza dell'iudex suspectus».
    Ed  infatti  la emanazione del decreto che dispone il giudizio e'
avvenuta,  da  parte  del giudice ricusato, prima della pronuncia sul
merito  della  ricusazione,  e  non  consente,  pertanto, di ritenere
sanata   con   efficacia   retroattiva   la   nullita'  eventualmente
verificatasi.
    E  l'eventuale accoglimento dell'istanza, da parte della Corte di
cassazione,   chiamata   a   pronunciarsi   sulla   questione   della
ricusazione,  potrebbe  comunque  lasciare  irrisolto il dubbio sulla
coerenza alla Carta costituzionale dell'attuale testo della norma.
    2 - Sulla non manifesta infondatezza della questione.
    Questo   tribunale   ritiene   non  manifestamente  infondata  la
questione sotto i profili di seguito esaminati.
    La  Corte  costituzionale,  con  le  note  sentenze n. 224/2001 e
335/2002   ha   evidenziato   la   nuova   connotazione  dell'udienza
preliminare.
    Essa,   a   seguito   delle   modifiche   apportate  dalla  legge
n. 479/1999,  e',  infatti,  divenuta  «un momento di giudizio», e la
attivita'  svolta  dal  giudice  durante  detta fase del procedimento
penale assume efficacia pregiudicante nei confronti dell'indagato.
    Bastera'  semplicemente  richiamare  testualmente alcune puntuali
osservazioni della Corte sui nuovi contenuti dagli esiti dell'udienza
preliminare:  «in  base  alla  nuova  formulazione dell'art. 425 cod.
proc.  pen., infatti, la regula iuris posta a fondamento del rinvio a
giudizio;   si   radica  -  in  positivo  -  sulla  sufficienza,  non
contraddittorieta'  e, comunque, idoneita' degli elementi acquisiti a
sostenere  l'accusa  in  giudizio,  imponendosi,  in  caso di diverso
apprezzamento  l'adozione  della  sentenza  di non luogo a procedere.
Quest'ultima, a sua volta, puo' scaturire anche dal riconoscimento di
circostanze   attenuanti   e  dalla  correlativa  applicazione  della
disciplina  di cui all'art. 69 cod. pen., con i riflessi tipici delle
statuizioni  che  incidono  sul merito della causa; ed ugualmente sul
merito  finisce  per proiettarsi la sentenza di non luogo a procedere
per difetto di imputabilita' - ora consentita, quando non ne consegua
l'applicazione  di una misura di sicurezza -, trattandosi di sentenza
che,  come  questa  Corte ha gia' avuto modo di affermare, postula il
necessario  accertamento  di responsabilita' in ordine al fatto reato
(cfr.  sentenza n. 41 del 1993). L'alternativa decisoria che si offre
al giudice quale epilogo dell'udienza preliminare, riposa, dunque, su
una  valutazione del merito della accusa ormai non piu' distinguibile
-  quanto  ad  intensita'  e completezza del panorama delibativo - da
quella  propria  di altri momenti processuali, gia' ritenuti non solo
"pregiudicanti"  ma anche "pregiudicabili", ai fini della sussistenza
della incompatibilita» (Corte cost. sent. n. 224/2001).
    Alla  luce delle considerazioni che precedono, se e' indubbia che
la pronuncia di una sentenza di merito, a causa del compimento di una
valutazione  contenutistica  dell'ipotesi  di  accusa,  e'  attivita'
idonea  a  pregiudicare il successivo esercizio di analoghe funizioni
da parte del medesimo giudice nell'ambito dello stesso processo, deve
riconoscersi  che tale pregiudizio puo' in concreto realizzarsi anche
quando  l'attivita'  giurisdizionale a cui il giudice e' chiamato sia
costituita  dall'udienza  preliminare. Anche in tale ipotesi ricorre,
infatti,  il  pericolo  che  l'art. 34,  comma  1, cod. proc. pen. e'
finalizzato  a scongiurare: vale a dire, che le valutazioni demandate
al   giudice   dell'udienza  preliminare  siano  a  possano  apparire
condizionate  dalla  cosiddetta  «forza  della  prevenzione», e cioe'
dalla naturale propensione a tenere fermo il giudizio precedentemente
espresso   in   ordine  alla  medesima  res  iudicanda  (Corte  cost.
224/2001).
    Anche  la  suprema  Corte  di  cassazione,  nei suoi piu' recenti
arresti   e   nella  composizione  piu'  autorevole,  parafrasando  i
contenuti  della  pronuncia del giudice delle leggi, ha fatto proprio
detto   orientamento  nelle  sentenze  n. 39915/2002,  ric.  Vottari,
n. 31312/2002,  ric. D'Alterio ed in quella n. 3535.8 del 9 settembre
2003, ric. Ferrara.
    Va aggiunto che, con sentenza n. 283/2000 la Corte costituzionale
ha  dichiarato la parziale illegittimita' costituzionale dell'art. 37
nella  parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti
il  giudice  che,  chiamato  a  decidere  sulla responsabilita' di un
imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una
valutazione  di  merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo
soggetto.  «Ne  emerge  un  sistema  che  si propone di apprestare la
necessaria  tutela  del principio del giusto processo in tutti i casi
in  cui  puo'  risultare  compromessa l'imparzialita' del giudice: le
ragioni  del  pregiudizio  sono  infatti oggettivamente identiche sia
quando il giudice ha manifestato il proprio convincimento all'interno
del  medesimo  procedimento  mediante  un  atto  o l'esercizio di una
funzione   a   cui   il   legislatore   attribuisce  astrattamente  e
preventivamente  effetti  pregiudicanti, sia quando la valutazione di
merito  e'  stata  espressa  in  un  diverso procedimento (ovvero nel
medesimo  procedimento,  ma  mediante  un atto che non presuppone una
tale  valutazione)  e gli effetti pregiudicanti debbano quindi essere
accertati  in  concreto, grazie agli istituti dell'astensione e della
ricusazione» (Corte cost. sent. n. 283/2000).
    Risulta  evidente,  dunque,  la  non manifesta infondatezza della
questione nella fattispecie.
    Il giudice del dibattimento non puo' valutare i motivi a sostegno
della  ricusazione  del  giudice,  in  quanto  detta attivita' spetta
soltanto  all'ufficio  giudiziario  funzionalmente  deputato  a detta
ricognizione (al momento pende ricorso per Cassazione).
    E  proprio  questa  considerazione evidenzia, nel caso di specie,
quanto possa risultare in concreto penalizzante per l'imputato che il
g.u.p.   ricusato   emetta   il   provvedimento  finale  dell'udienza
preliminare.
    Le  valutazioni  di  merito  che  consentono  a  detto giudice di
vagliare   la  fondatezza  dell'ipotesi  accusatoria  al  fine  della
eventuale  fase  dibattimentale,  ad  avviso  di  questo  giudicante,
riverberano  i  loro effetti sul principio dell'imparzialita' e della
terzieta' del giudice e sul diritto di difesa degli imputati, tali da
determinare  un  chiaro  vulnus  a  detti principi qualora il giudice
ricusato conduca al naturale esito la medesima udienza preliminare.
    A prescindere, dunque, dalla valutazione nel merito dei motivi di
ricusazione  sollevati  dall'imputato  -  peraltro  esclusi  da  ogni
giudizio  nella odierna fase dibattimentale -, la presentazione della
dichiarazione di ricusazione, pur non inibendo al giudice ricusato lo
svolgimento  di  attivita' processuale (ex art. 41, comma 2, c.p.p.),
deve  impedire  al  decidente  di  pervenire ad un provvedimento che,
comunque, definisca nel merito la fase del giudizio nel quale egli e'
chiamato a svolgere attivita' giurisdizionale.
    Non  e'  consentita,  invero, ad avviso del decidente, neanche la
interpretazione  analogica in virtu' della quale estendere al decreto
che dispone il giudizio la norma procedimentale impugnata.
    L'art. 37,  comma 2,  c.p.p.,  infatti,  inibisce  al  giudice di
pronunciare o concorrere a pronunciare «sentenza».
    Il  decreto  che dispone il giudizio ha, invece, un contenuto del
tutto  peculiare,  essendo privo di una vera e propria motivazione, e
caratterizzato   essenzialmente   dagli   elementi   necessari   alla
contestazione  dell'accusa ed alla vocatio in iudicium dell'imputato.
Esso,  costituendo  lo  snodo  procedimentale  di collegamento tra la
chiusura dell'udienza preliminare ed il dibattimento, risulta carente
anche del carattere di definitivita', proprio di una sentenza. Per il
principio  di  tassativita'  dei mezzi di gravame, infine, il decreto
che  dispone  il  giudizio  non  e' autonomamente impugnabile ed ogni
questione  inerente  alla  sua validita' deve essere fatta valere nel
corso  della  fase dibattimentale e con i modi in essa previsti (cfr.
Cass. 19 novembre 1997, Costa, in Ced Cass. rv. 208920; Cass 2 agosto
1996, Rapisarda).
    3. - Il contrasto con le norme della Carta costituzionale.
    In  virtu'  delle  precedenti  considerazioni l'art. 37, comma 2,
c.p.p. risulterebbe illegittimo ed in contrasto con le seguenti norme
della Costituzione.
    Art.  3 Cost.. La mancata previsione, in seno all'art. 37 c.p.p.,
della  inibizione al giudice dell'udienza preliminare dell'emanazione
del  decreto  che  dispone  il  giudizio  manifesterebbe  una  palese
irragionevolezza del medesimo dettato normativo.
    Ed  invero  al  g.u.p.  sarebbe  inibito il potere di emettere la
sentenza  di  non  luogo  a  procedere (a favore del reo), mentre gli
sarebbe  consentito pronunciare decreto che dispone il giudizio, che,
pur  non  motivato, contiene in se' il convincimento della fondatezza
degli elementi di accusa a carico dell'imputato e la probabilita' che
essi  possano  pervenire ad un giudizio di colpevolezza nei confronti
del  medesimo  (argomenta ex art. 425, comma 3, c.p.p. come da ultimo
modificato).  Il  parametro  costituzionale dell'art. 3 Cost. sarebbe
vulnerato  anche  sotto  altro  profilo.  Emergerebbe,  infatti,  una
profonda  disparita'  di  trattamento  tra gli indagati soggetti alla
medesima  fase procedimentale che, esclusivamente sulla base del tipo
di  provvedimento  conclusivo dell'udienza preliminare, si vedrebbero
esposti  ora  alla sospensione del giudizio in attesa della pronuncia
del  giudice  della  ricusazione (nel caso di sentenza di non luogo a
procedere),  ora  alla  successiva fase dibattimentale, senza neanche
conoscere  l'esito  del  giudizio  di ricusazione proprio del giudice
sospetto, nel caso di decreto che dispone il giudizio.
    Art.  24  Cost.  Viene  palesemente  violato il diritto di difesa
dell'imputato,  che  e' diritto ad avere un giusto processo, da parte
di  un giudice terzo imparziale (Corte cost. 283/2000). Se il giudice
ricusato  ha il potere di emettere il decreto che dispone il giudizio
nei   confronti   dell'imputato   in   pendenza  del  giudizio  sulla
ricusazione,  detto  comportamento  pregiudica  fortemente  i diritti
della  difesa  in  sede  di  udienza  preliminare, atteso che proprio
l'udienza   preliminare   e'   lo   snodo   fondamentale   dei   riti
extradibattimentali nel nostro ordinamento giuridico.
    Essa  costituisce,  infatti,  il  termine  finale per avanzare le
predette  richieste  di  definizione  alternativa  del  procedimento.
Risulta  evidente,  pertanto,  come  sarebbe  fortemente  menomato il
diritto  di  difesa  dell'imputato, ove questi si trovasse davanti un
che  reputa  non  terzo, ne' imparziale, non potendo cosi' esercitare
serenamente   e   liberamente   la   scelta   di  un  eventuale  rito
extradibattimentale  (si  pensi  al  giudizio  abbreviato,  ma  anche
all'applicazione della pena su richiesta delle parti). Oltre a questo
profilo,  infine, il diritto di difesa sarebbe violato nel momento in
cui,  disposto  il  rinvio  a  giudizio,  l'imputato,  in  attesa del
provvedimento  sulla  ricusazione,  si vedrebbe proiettato gia' nella
fase  del  giudizio  dibattimentale,  perdendo  cosi'  i benefici del
vaglio dell'udienza preliminare da parte di un giudice non sospetto e
maturando,  per scelte per cosi' dire necessitate, la scadenza per la
proposizione delle richieste alternative del processo.
    Art.  111  Cost.  La attuale disposizione normativa dell'art. 37,
comma 2, c.p.p. determina, ad avviso di questo giudicante, la lesione
del  principio del giusto processo e del giudice terzo ed imparziale.
Bastera'   richiamare,   in   ordine   a   detto  profilo,  la  ratio
dell'istituto   della   ricusazione   per  ritenere  macroscopico  il
contrasto  della  norma impugnata con il principio cardine del giusto
processo.
    La   possibilita'  per  il  iudex  suspectus  di  pronunciare  il
provvedimento  finale della fase che lo interessa, seppure non avente
lo  status  di  definitivita'  della sentenza, incide sulla capacita'
pregiudicante  del medesimo in modo radicale e definitivo, atteso che
il decreto che dispone il giudizio contiene-comunque l'accertamento -
speculare  rispetto  alla  sentenza  di non luogo a procedere - della
sussistenza di fondate probabilita' di sostenere l'accusa in giudizio
nei confronti del prevenuto, e spoglia il giudice sospetto del potere
giurisdizionale  nella  fase, divenuta di fondamentale importanza nel
rito  accusatorio  -  specie  per  quanto  concerne la scelta di riti
extradibattimentali - della udienza preliminare.
                              P. Q. M.
    Dispone   la   immediata   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale;
    Ordina   che  a  cura  della  cancelleria  copia  della  presente
ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri;
    Dispone,  altresi',  che  venga  data comunicazione, a cura della
cancelleria  al Presidente della Camera dei deputati ed al Presidente
del Senato;
    Sospende il giudizio in corso.
        Ragusa, addi' 8 marzo 2005
                       Il Presidente: Ciarcia'
                    Il giudice estensore: Reale
05C0534