N. 314 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 marzo 2005

Ordinanza  emessa  l'11  marzo  2005  dal  tribunale  di  Trieste nel
procedimento penale a carico di Breberina Aleksandar

Straniero  - Espulsione amministrativa - Rientro senza autorizzazione
  nel  territorio  dello  Stato dello straniero espulso - Trattamento
  sanzionatorio  -  Reclusione da uno a quattro anni - Violazione del
  principio  di  uguaglianza  sotto  i profili della ragionevolezza e
  della proporzionalita' - Contrasto con il principio della finalita'
  rieducativa della pena.
- Decreto  legislativo  25 luglio  1998,  n. 286,  art. 13, comma 13,
  modificato dall'art. 1, comma 2-ter, del decreto-legge 14 settembre
  2004,   n. 241,   convertito,   con   modificazioni,   dalla  legge
  12 novembre 2004, n. 271.
- Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo.
(GU n.25 del 22-6-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    Nel  processo  nei  confronti  di  Breberina  Aleksandar,  nato a
Zagabria (HR) il 7 aprile 1955, ha emesso la seguente ordinanza.
    1.  -  In data 22 gennaio 2005 Aleksandar Breberina veniva tratto
in  arresto dai Carabinieri, perche' ritenuto versare nella flagranza
del  reato  di  cui  all'art. 13,  comma 3 del d.lgs. n. 286/1998. Il
pubblico   ministero   chiedeva   la   convalida  dell'arresto  e  la
celebrazione  del  giudizio  direttissimo;  fissata  l'udienza del 25
gennaio  2005, l'arresto veniva convalidato, dopo di che il difensore
chiedeva  la  concessione  di termine a difesa, che veniva accordato;
peraltro,  non avendo il pubblico ministero chiesto l'applicazione di
misura  cautelare  di  sorta, l'arrestato veniva liberato; da ultimo,
nell'udienza  odierna,  le  parti  comunicavano di avere raggiunto un
accordo per l'applicazione di una pena, ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
    Percio',  per  provvedere  sulla  richiesta  delle  parti, questo
giudice  deve preventivamente valutare la congruita' della pena sulla
quale   l'accordo  e'  intervenuto  (cfr.  la  sentenza  della  Corte
costituzionale  del 2 luglio 1990, n. 313); tuttavia, rispetto a tale
apprezzamento,   e'   pregiudiziale  la  valutazione  concernente  la
conformita'  alla  carta  costituzionale  delle  norme  di cui potra'
essere   fatta   applicazione   a  tal  fine,  particolarmente  della
previsione  edittale  che  si  riferisce al reato per cui si procede,
peraltro nei limiti in cui tale valutazione e' consentita dall'art. 1
della  legge  costituzionale  9  febbraio  1948, n. 1 e dall'art. 23,
comma 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    2.   -   Anzitutto,   pare   opportuna   una   breve  digressione
sull'evoluzione  della  normativa di cui si deve fare applicazione in
questa sede.
    Prevedeva  l'art. 151  TULPS che lo straniero espulso non potesse
rientrare   nel   territorio   dello   Stato   senza   una   speciale
autorizzazione  del Ministro dell'interno e che il trasgressore fosse
punito con l'arresto da due a sei mesi.
    L'art. 46,  comma 1, lettera a), della legge 6 marzo 1998, n. 40,
ha  abrogato  l'art. 151  TULPS; a questa e' subentrata la previsione
incriminatrice  di  cui  all'art. 13,  comma  13 del d.lgs. 25 luglio
1998,  n. 286,  rimanendo  pero' immutata la sanzione prevista per il
trasgressore.
    L'art. 12,  comma  1  della  legge 30 luglio 2002, n. 189, ha poi
pero'  inasprito  la  sanzione,  prevedendo  che la medesima condotta
fosse punibile con l'arresto da sei mesi a un anno.
    Infine,  la  sanzione  edittale e' stata ulteriormente modificata
dall'art. 1  del  decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito
con  modifiche  dalla legge 12 novembre 2004, n. 271, per il quale la
medesima  condotta  e'  punibile  con  la reclusione da uno a quattro
anni.
    Peraltro,  il decreto-legge n. 241, nelle modifiche introdotte in
sede   di  conversione,  ha  inasprito  anche  la  sanzione  edittale
stabilita  per il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter del d.lgs. 25
luglio   1998,   n. 286,   portandola  -  dall'originaria  previsione
dell'arresto da sei mesi a un anno - a quella della reclusione da uno
a quattro anni.
    Le  modifiche  alla  normativa  de qua dettate dal citato decreto
conseguono alla pronuncia, da parte della Corte costituzionale, della
sentenza n. 223 del 15 luglio 2004, con la quale era stata dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 14, comma 5-quinquies del
d.lgs.  25 luglio 1998, n. 286, per contrasto con gli articoli 3 e 13
della  Costituzione,  «...  nella  parte in cui stabilisce che per il
reato  previsto  dal comma 5-ter del medesimo art. 14 e' obbligatorio
l'arresto    dell'autore    del    fatto...»,    per   la   manifesta
irragionevolezza della previsione dell'arresto obbligatorio, previsto
dalla  norma  nonostante  che  sulla  base  del  vigente  ordinamento
processuale  esso non fosse suscettibile di sfociare in alcuna misura
cautelare.
    D'altro   canto,   dalle   dichiarazioni  degli  esponenti  della
maggioranza  parlamentare  (nella  misura in cui dalle stesse si puo'
desumere  l'«intenzione»  del  Legislatore) e dagli atti parlamentari
relativi  all'iter  di  approvazione  della  legge  di conversione si
ricavano  indicazioni  univoche, le quali confermano che le modifiche
introdotte  con  il decreto-legge n. 24l del 2004 sono state motivate
dalla necessita' di ovviare alla pronuncia della sentenza della Corte
costituzionale n. 223 del 2004.
    Invero,   in   tali   atti  si  rinviene  piu'  volte  l'espressa
indicazione della necessita' di superare le censure mosse dalla Corte
costituzionale  («... Sul cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la
mannaia   della   Corte   costituzionale...   Ritengo   che   con  il
decreto-legge  in esame il Governo ed il Parlamento siano intervenuti
correttamente per rispondere ai rilievi della Corte...» A.C. n. 5369,
discussione  del  2  novembre  2004  sul testo approvato al Senato il
20 ottobre 2004, repliche del relatore alla legge).
    Va  dunque  notato che l'innalzamento del limite edittale massimo
porta la fattispecie in esame nell'ambito di operativita' del sistema
generale   di   applicabilita'  delle  misure  coercitive,  ai  sensi
dell'art. 280,  comma 2 c.p.p., sicche' viene meno il presupposto dal
quale  la Corte aveva argomentato l'irragionevolezza della previsione
dell'arresto obbligatorio per siffatto reato.
    Peraltro, va notato che, pur non venendo direttamente interessata
dalle  pronunce  della  Corte  costituzionale  la  fattispecie di cui
all'art. 13,  comma  13,  la modifica della sanzione edittale ad essa
relativa   si   giustifica   per   il   coordinamento   del   sistema
sanzionatorio,  posto  che anche in precedenza le previsioni edittali
dell'art. 14, comma 5-ter e dell'art. 13, comma 13 erano analoghe.
    Dunque   anche  per  quest'ultima  fattispecie  e'  ora  previsto
l'arresto obbligatorio in flagranza ed e' possibile l'applicazione di
tutte  le  misure coercitive contemplate nel Capo II del Libro IV del
Codice di procedura penale.
    3.  -  Dubita  lo  scrivente,  giudice  che  la misura della pena
edittale  prevista  per  il  reato  in  esame sia conforme al dettato
costituzionale.
    In  primo  luogo,  essa  pare  in  contrasto  con  l'art. 3 della
Costituzione,   perche'   non  appare  rispettosa  del  principio  di
uguaglianza,   sotto   i   profili   della   ragionevolezza  e  della
proporzionalita'.
    Si  deve  pero'  premettere  che  la  Corte  costituzionale,  pur
riservando  alla  discrezionalita'  del legislatore lo «....stabilire
quali  comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano
essere  la  qualita'  e  la misura della pena ed apprezzare parita' e
disparita'   di   situazioni...»,   ha  affermato  ripetutamente  che
«...l'esercizio di tale discrezionalita' puo' essere censurato quando
esso  non  rispetti il limite della ragionevolezza e dia quindi luogo
ad   una   disparita'  di  trattamento  palese  e  ingiustificata...»
(sentenza  n. 25  del  1994;  il  principio e' richiamato anche nella
sentenza  n. 333  del  1992,  nell'ordinanza  n. 220 del 1996 e nella
sentenza n. 84 del 1997).
    Allora,  riguardo ai profili dianzi richiamati, e' stato chiarito
(sentenza  n. 409  del  1989) che il principio di uguaglianza sancito
dall'art. 3   della   Costituzione   «...   esige  che  la  pena  sia
proporzionata  al  disvalore del fatto illecito commesso, in modo che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni individuali...». Tale
funzione  non  verrebbe  adempiuta  qualora non venisse rispettato il
limite della ragionevolezza.
    Per  meglio  delineare quest'ultimo si puo' fare riferimento alla
giurisprudenza   della  Corte  costituzionale  che,  nell'intento  di
specificare  i connotati del principio costituzionale di uguaglianza,
ha fatto riferimento a un piu' ampio sistema di valori, che abbraccia
molteplici  principi  costituzionali,  che va letto nel suo insieme e
impone  soluzioni interpretative fra loro coerenti: il riferimento va
alla sentenza n. 91 del 1973 e, soprattutto, alla sentenza n. 215 del
1987,  che  afferma  «...Sul  tema  della  condizione  giuridica  del
portatore   di  handicaps  confluiscono  un  sistema  di  valori  che
attingono    ai    fondamentali   motivi   ispiratori   del   disegno
costituzionale...conseguentemente, il canone ermeneutica da impiegare
in  siffatta  materia  e'  essenzialmente  dato dall'interrelazione e
dall'integrazione   tra   i  precetti  in  cui  quei  valori  trovano
espressione  e  tutela...»,  ancor  piu'  esplicitamente, la sentenza
n. 204  del  1982  insegna  che il valore essenziale dell'ordinamento
giuridico  di un paese civile va ricercato «... nella coerenza tra le
parti  di  cui  si  compone... canone di coerenza che nel campo delle
norme  di  diritto  e'  l'espressione del principio di uguaglianza di
trattamento tra eguali posizioni sancito dall'art. 3....».
    Cosi',  la  Corte  costituzionale  ha ripetutamente dimostrato di
ritenere  sindacabile l'esercizio della discrezionalita' da parte del
legislatore,  sul  punto  relativo  alla  corrispondenza delle scelte
legislative  al  canone  di  ragionevolezza:  al riguardo, si possono
ricordare la sentenza n. 55 del 1974 (con la quale si e' ritenuto che
la  norma  impugnata dettasse si' una disciplina differenziata, pero'
per  situazioni  che il legislatore aveva ritenuto diverse e che tale
apprezzamento  non  fosse  privo di razionalita) e la sentenza n. 126
del  1979,  nella  quale  si  insegna  che «... effettuata una scelta
politica  nell'esercizio della sua discrezionalita', logica vuole che
il  legislatore  stesso attui poi con coerenza il criterio prescelto,
mediante  una  disciplina  normativa idonea al conseguimento del fine
voluto.  Diversamente,  ove  l'incoerenza  fosse  tale da determinare
irrazionali  discriminazioni,  la legge risulterebbe viziata non solo
nel   merito,   ma   anche   sotto   il  profilo  della  legittimita'
costituzionale...».
    Anche  sullo specifico tema del giudizio sulla razionalita' delle
scelte  del  legislatore  in tema di proporzione fra reato e pena, la
Corte ha piu' volte affermato la possibilita' di sindacare disparita'
di    trattamento   talmente   rilevanti   da   apparire   prive   di
giustificazione, e cio' e' avvenuto anche quando poi, in concreto, la
Corte ha ritenuto di non rilevare nelle norme denunciate squilibri di
ampiezza  tale  da  comportare il suo intervento demolitivo (cfr., ad
esempio, la sentenza n. 271 del 1974).
    Peraltro,  la gia' citata sentenza n. 409 del 1989 costituisce un
importante  punto di arrivo nel percorso interpretativo seguito dalla
Corte,   venendo   in   essa   esplicitato   che   il   principio  di
proporzionalita' induce a negare legittimita' alle «...incriminazioni
che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali
di  prevenzione,  producono,  attraverso la pena, danni all'individuo
(ai  suoi  diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela    dei    beni    e   dei   valori   offesi   dalle   predette
incriminazioni...».
    4.  - Nel caso di specie ritiene questo giudice che, in relazione
ai  principi  sopra  ricordati,  la sanzione edittale prevista per il
reato  in  esame sia eccessiva, oltre che del tutto sproporzionata al
disvalore della condotta che intende reprimere.
    Si  nota,  invero, che l'inasprimento operato dall'ultima novella
e'  macroscopico,  sia  perche'  la  medesima condotta ora integra un
delitto  anziche'  una  contravvenzione, sia perche' l'odierno minimo
edittale  coincide  col previgente massimo edittale; se poi si guarda
al  periodo  immediatamente  precedente,  si  nota  che  la  medesima
condotta  fino al 2002 veniva punita con l'arresto da due a sei mesi,
dunque  con  una  sanzione  che,  al  massimo,  arrivava  alla  meta'
dell'odierno minimo edittale.
    Al contempo, pero', il fenomeno dell'immigrazione clandestina che
la  normativa  in  esame  si  propone  di  contrastare  non ha subito
apprezzabili evoluzioni, ne' si sono registrati mutamenti che possano
avere  indotto  il  legislatore  a  riconsiderare  il valore dei beni
giuridici tutelati e a introdurre norme piu' severe, e questo nemmeno
se  si  prende  in  esame il maggior arco di tempo che risale fino al
1998.
    D'altro  canto,  una qualche giustificazione sotto questo profilo
non  si  rinviene  nemmeno  dall'esame  dei  lavori  parlamentari: in
particolare,  non  si  rinviene  nella  relazione all'emendamento del
decreto-legge  n. 241/2004,  posto  che  i relatori fanno riferimento
esplicito  soltanto  alla necessita' di adeguarsi alla sentenza della
Corte  costituzionale  n. 223  del  2004, intendendo tale adeguamento
come   inasprimento   della   pena,  cosi'  da  consentire  l'arresto
obbligatorio per coloro che non ottemperino all'ordine del questore.
    Infine,  va  notato  che  l'irragionevolezza  della previsione in
esame  e'  confermata anche dal raffronto con la fattispecie prevista
dall'art. 13, comma 13-bis, prima parte, la quale commina la medesima
pena  a colui che rientri nel territorio nazionale dopo un'espulsione
disposta  dal  giudice: fatto quest'ultimo che, pero', e' da ritenere
ben  piu'  grave,  in  quanto presuppone la commissione di un reato o
quantomeno  la  pendenza  di  un procedimento penale, mentre cio' non
ricorre per la fattispecie di cui all'art. 13, comma 13.
    5.  -  Ritiene ancora lo scrivente giudice che la norma penale in
esame contrasti con l'art. 27, comma 3 della Costituzione.
    Invero,   deve   venire   anzitutto   ricordato   come  la  Corte
costituzionale,  dopo  avere  inizialmente  ritenuto  che il precetto
costituzionale    appena   invocato   si   riferisse   essenzialmente
all'esecuzione  penale  e  dunque  non  avesse  riguardo  alla misura
edittale   della  pena  fissata  dal  legislatore,  ha  ripetutamente
affermato  che  esso  si  riferisce  a tutti i momenti in cui vige la
sanzione  penale, particolarmente in quello in cui la minaccia di una
pena   per   un   determinato   comportamento  esplica  finalita'  di
prevenzione   generale:   «...se  la  finalita'  rieducativa  venisse
limitata  alla  fase  esecutiva,  rischierebbe  grave  compromissione
ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione  non  fossero state
calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne' in quella applicativa) alle
necessita'  rieducative del soggetto...» (v. sentenza n. 313 del 1990
e sentenza n. 341 del 1994).
     Nel caso di specie, come si e' gia' notato sopra, l'inasprimento
della   pena   e'   stato   dettato   unicamente   dall'esigenza   di
legittimazione   costituzionale   -   sotto  il  particolare  profilo
esplicitato  dalla Corte nella sentenza 223 del 2004 - un determinato
iter  procedurale,  che  passa  attraverso la previsione dell'arresto
obbligatorio  (art. 13,  comma  3-ter) e la possibilita' di applicare
misure  cautelari  coercitive,  verosimilmente perche' tali scansioni
procedimentali si intendono quali strumenti di prevenzione speciale.
    Tuttavia,  cio'  ha comportato un vero e proprio rovesciamento di
prospettiva,  che  conferisce  al  diritto  sostanziale  una funzione
servente rispetto alle norme processuali.
    Invero,   nel  nostro  ordinamento  la  fissazione  della  misura
edittale   della  pena  risponde  certamente  a  scelte  di  politica
criminale  che  il legislatore pone in essere sulla base del contesto
sociale  in  cui  opera  e avendo di mira la difesa di un determinato
bene  giuridico;  peraltro,  il  dettato costituzionale impone che la
pena  - anche nell'astratta previsione edittale - venga proporzionata
in guisa tale da riuscire utile alla rieducazione del condannato.
    Per  tale  ragione,  una  previsione  edittale che venga modulata
unicamente  in  funzione  dell'esperibilita'  di  un determinato iter
processuale,   in   mancanza  di  altre  ragioni  che  obiettivamente
giustifichino   il   suo   notevole   inasprimento,  viene  di  fatto
disancorata dagli ordinari parametri di riferimento e, percio', perde
anche la sua precipua funzione rieducativa.
    Quindi,  l'entita'  della pena non e' una leva che il legislatore
possa  muovere  ad  arbitrio,  per  conseguire  finalita' di politica
criminale  determinate,  senza  tenere  in  conto  il disvalore della
condotta  e  il  bisogno  di  rieducazione  del reo che essa mette in
evidenza.
    Fermo  restando  che  non si intende anticipare in questa sede la
valutazione  in  ordine alla responsabilita' dell'imputato (ovvero in
ordine  alla congruita' della specifica pena concordata dalle parti),
va   notato  che  il  presente  giudizio  non  puo'  venire  definito
indipendentemente    dalla    risoluzione   della   questione   sopra
evidenziata,    apparendo    che   necessariamente   dovrebbe   farsi
applicazione  della  norma  sopra citata e sospetta di illegittimita'
costituzionale.
    Per  le  ragioni  sopra  indicate,  questo  giudice  ritiene  non
manifestamente   infondata   l'esposta   questione   di  legittimita'
costituzionale.
    Il processo percio' deve venire sospeso e gli atti immediatamente
trasmessi   alla  Corte  costituzionale,  per  la  risoluzione  della
questione.
    Va ordinata altresi', a cura della cancelleria, la notifica della
presente  ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua
comunicazione ai Presidenti delle Camere.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'   costituzionale   dell'art. 13,   comma 13  del  d.lgs.
n. 286/1998  -  come  modificato  dall'art. 1  del  decreto-legge  14
settembre  2004,  n. 241,  convertito  con  modifiche  dalla legge 12
novembre  2004,  n. 271  -  nella  parte in cui prevede la pena della
reclusione da uno a quattro anni per lo straniero espulso che rientri
nel  territorio  dello  Stato  senza  la  speciale autorizzazione del
Ministro  dell'interno, per violazione degli articoli 3 e 27, comma 3
della Costituzione;
    Dispone  la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per
la risoluzione della questione;
    Sospende il giudizio nei confronti dell'imputato;
    Dispone  la  notifica  della  presente  ordinanza,  a  cura della
cancelleria, al Presidente del Consiglio dei ministri;
    Dispone  la  comunicazione della presente ordinanza, a cura della
cancelleria, ai Presidenti delle Camere;
    Manda alla cancelleria per gli altri adempimenti di competenza.
        Trieste, addi' 11 marzo 2005.
                         Il giudice: Antoni
05c0676