N. 7 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 novembre 2005

Ordinanza  emessa  il 17 novembre 2005 dal Magistrato di sorveglianza
di  Pisa  nel  procedimento  di  sorveglianza  nei confronti di Vacca
Angelo Massimiliano

Ordinamento penitenziario - Funzioni del magistrato di sorveglianza -
  Prevista  competenza  del  magistrato  di  sorveglianza  in  ordine
  all'attribuzione  della  qualifica  lavorativa,  la  mercede  e  la
  remunerazione,  nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio
  e  di  lavoro  e le assicurazioni sociali del detenuto lavoratore -
  Spettanza di tale competenza, secondo l'interpretazione della Corte
  di  cassazione,  sia  nella  ipotesi  in  cui l'attivita' sia stata
  svolta  per  l'amministrazione  penitenziaria, sia in quella in cui
  sia  stata svolta all'esterno dell'istituto e alle dipendenze di un
  datore  di  lavoro  privato  -  Individuazione dell'amministrazione
  penitenziaria  quale  datore  di  lavoro  anche  quando l'attivita'
  lavorativa  sia  stata svolta per un soggetto diverso - Lesione del
  diritto   di  difesa  per  la  inadeguatezza  del  procedimento  ad
  assicurare una piena tutela processuale alle parti - Violazione del
  principio  di  parita'  tra  i soggetti processuali - Disparita' di
  trattamento  tra  lavoratore  detenuto  e lavoratore non detenuto -
  Violazione del principio di copertura finanziaria - Contrasto con i
  principi  di  personalita'  della  responsabilita'  penale  e della
  finalita' rieducativa della pena - Violazione del principio di buon
  andamento della pubblica amministrazione.
- Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 69, comma 6, lett. a).
- Costituzione, artt. 3, 24, commi primo e secondo, 27, commi primo e
  terzo, 81, comma quarto, 97 e 111.
(GU n.3 del 18-1-2006 )
                    IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

    A scioglimento della riserva formulata all'udienza del 9 novembre
2005  emette  la seguente ordinanza, nel procedimento di sorveglianza
relativo  al  reclamo  presentato  ai  sensi  dell'art. 69,  comma 6,
lettera   a)   dell'ordinamento   penitenziario   da   Vacca   Angelo
Massimiliano,  nato a Monza (MI) il 2 giugno 1971, detenuto presso la
Casa   circondariale  di  Pisa,  esaminati  gli  atti  e  sentite  le
conclusioni delle parti;

                          Osserva in fatto

    Con  ricorso  presentato  in  data  15  giugno  2004  dinanzi  al
Tribunale  di Monza l'interessato esponeva che in data 6 ottobre 2001
ed  ai  sensi  della legge 22 giugno 2000 n. 193 («Norme per favorire
l'attivita'   lavorativa  dei  detenuti»)  era  stata  stipulata  una
convenzione  tra  la societa' Italcomm S.r.l. e la Casa circondariale
di Monza al fine di avviare almeno cinque persone ristrette presso il
predetto istituto ad attivita' lavorativa da svolgere in favore della
citata  impresa  in  locali posti a disposizione dall'amministrazione
penitenziaria.
    Il  Vacca,  all'epoca  ristretto  presso la Casa circondariale di
Monza,  documentava  di  aver  svolto  attivita' lavorativa in favore
della Italcomm S.r.l. (cui in data 11 novembre 2002 era subentrata di
fatto  la  PCDET Informatica S.r.l.) a decorrere dal 2 gennaio 2002 e
sino  a  quando  in  data  30  aprile  2003 gli era stato intimato il
licenziamento in forma verbale.
    Non  avendo  sortito  alcun  esito  il tentativo di conciliazione
avviato  presso  la  direzione  provinciale del lavoro, l'interessato
aveva  pertanto  presentato  ricorso al Tribunale di Monza al fine di
sentire  dichiarare la continuita' del rapporto di lavoro gia' svolto
in favore delle due imprese, nonche' la natura subordinata ed a tempo
indeterminato  del  predetto  rapporto ed infine l'illegittimita' del
licenziamento   intimato  nei  suoi  confronti,  con  la  conseguente
condanna  al  pagamento  di  tutte  le  somme eventualmente dovute in
conseguenza delle richieste declaratorie.
    Con sentenza emessa in data 27 aprile 2005, il tribunale adito in
funzione  di  giudice  del  lavoro ha espressamente fatto riferimento
all'orientamento ormai costante della suprema Corte, secondo il quale
sussiste  la  competenza  del  magistrato  di  sorveglianza  ai sensi
dell'art. 69,   comma  6  O.P.  in  ordine  a  «l'attribuzione  della
qualifica  lavorativa,  la  mercede  e  la  remunerazione  nonche' lo
svolgimento   delle   attivita'   di  tirocinio  e  di  lavoro  e  le
assicurazioni  sociali»  sia  quando l'attivita' lavorativa sia stata
svolta  in  favore  dell'amministrazione  penitenziaria,  sia  quando
questa  sia  avvenuta all'esterno dell'istituto ed alle dipendenze di
un  diverso  datore  di  lavoro (vedasi a riguardo le sentenze emesse
dalle  sezioni  unite  in  data  21 luglio 1999 e in data 14 dicembre
1999,  nonche'  la  sentenza  emessa  dalla sezione lavoro in data 23
aprile  2004,  ric. Rodano e quella emessa dalla prima sezione penale
in  data  14  ottobre  2004,  ric.  Arcara); in considerazione ditale
orientamento,  pertanto,  il  Tribunale  di  Monza  ha  dichiarato la
propria   incompetenza,   individuando   il  giudice  competente  nel
Magistrato  di  sorveglianza  di  Pisa in considerazione del luogo di
detenzione  del  condannato nel momento in cui e' stato presentato il
ricorso ai sensi dell'art. 677 c.p.p.
    L'interessato (ancor oggi ristretto a Pisa) ha pertanto riassunto
il  procedimento  dinanzi  a  questo  giudice nell'ambito delle forme
previste dall'art. 69, comma 6 O.P. nonche' dall'art. 14-ter O.P.
    Lo   scrivente   magistrato  ritiene  tuttavia  che  la  predetta
disposizione  ponga seri dubbi di legittimita' costituzionale, meglio
descritti  nella  parte successiva della motivazione, con particolare
riferimento  all'interpretazione  che  ne  e' stata recentemente data
dalla  Corte  di cassazione e che costituisce oggi il diritto vivente
cui occorre far riferimento.
                          Rileva in diritto
    La   competenza   dello   scrivente  magistrato  risulta  fondata
sull'art. 69, comma 6, dell'ordinamento penitenziario che, al fine di
tutelare  situazioni  giuridiche  sino  al  1975  riservate alle mera
discrezionalita' dell'amministrazione, aveva originariamente previsto
che  i  diritti  maturati  dalle  persone  ristrette  in  un istituto
penitenziario  a  seguito  di  attivita' lavorativa svolta durante la
carcerazione  potessero  trovare  tutela  attraverso lo strumento del
reclamo  nei  confronti  del  magistrato  di  sorveglianza,  il quale
avrebbe   provveduto  attraverso  un  «ordine  di  servizio»,  ovvero
nell'ambito  di  una  procedura di carattere amministrativo piuttosto
che giurisdizionale.
    Tale  strumento tuttavia aveva ben presto evidenziato una modesta
efficacia,  tanto che gli ordini di servizio emessi dai magistrati di
sorveglianza     trovavano     scarsa     ottemperanza    da    parte
dell'amministrazione    penitenziaria;   la   natura   essenzialmente
amministrativa del procedimento aveva inoltre condotto a ritenere che
«non  essendo sul piano delle garanzie assicurati alle parti mezzi di
difesa,   tale   procedimento   non  sostituisce  percio'  la  tutela
giurisdizionale,  che e' riservata al giudice dei diritti» (vedasi la
pronuncia della Corte costituzionale in data 20 dicembre 1978).
    In   occasione  delle  modifiche  dell'ordinamento  penitenziario
introdotte  con  la  legge  10  ottobre  1986  n. 663,  pertanto,  il
legislatore   e'   intervenuto   anche   per  rimodulare  in  termini
giurisdizionali  il  procedimento  posto  a  tutela  dei  diritti del
detenuto-lavoratore,  oggi  disciplinato  attraverso  il  rinvio alle
forme  previste  dall'art. 14-ter del medesimo ordinamento: a seguito
del   reclamo   proposto  dal  condannato  prende  infatti  avvio  un
procedimento  che  si  concludera'  con  un'ordinanza ricorribile per
Cassazione  e  nell'ambito del quale possono partecipare il difensore
ed  il  pubblico  ministero, mentre l'interessato e l'amministrazione
penitenziaria possono presentare memorie.
    Tale  procedimento,  attualmente  pendente dinanzi allo scrivente
magistrato,  presenta  caratteristiche indubbiamente peculiari: basti
pensare che il contraddittorio tra il lavoratore (ovvero il detenuto)
ed  il datore di lavoro (ovvero l'amministrazione penitenziaria) puo'
avvenire soltanto in forma cartolare.
    Se   infatti  sussistono  orientamenti  diversi  in  ordine  alla
possibilita' di consentire la partecipazione all'udienza del detenuto
(comunque    rappresentato    dal   difensore),   e'   pacifico   che
l'amministrazione   non   possa   in   alcun  modo  partecipare  alla
discussione  orale,  ne'  nominare  un proprio rappresentante tecnico
(che  sicuramente  non  puo'  identificarsi nella figura del pubblico
ministero).
    Il  fatto  che l'amministrazione non sia qualificabile come parte
processuale  preclude  inoltre  la  sua possibilita' di ricorrere per
cassazione   contro   il   provvedimento  emesso  dal  magistrato  di
sorveglianza, pacificamente impugnabile soltanto dal detenuto.
    Il  procedimento  in  questione  ha  pertanto  assunto  caratteri
maggiormente   connotati  in  senso  giurisdizionale  (tanto  da  far
ritenere   che   oggi  al  magistrato  di  sorveglianza  competa  una
giurisdizione  esclusiva  in  ordine  alla materia in questione e non
piu'  alternativa  rispetto al giudice del lavoro, vedasi la sentenza
sopra  citata  emessa  dalla  Cassazione  a  sezioni unite in data 14
dicembre 1999), ma tuttavia non risulta ancora in grado di assicurare
una  piena  tutela  processuale  ne' al detenuto (cui e' sottratto il
diritto  di  partecipare  personalmente all'udienza), ne' soprattutto
all'amministrazione  penitenziaria  (che si vede privata di qualsiasi
tutela  processuale  rispetto  al procedimento in corso e soprattutto
rispetto  all'ordinanza  che lo concludera), in aperta violazione del
diritto  fondamentale  alla  difesa sancito dai commi primo e secondo
dell'articolo 24 della Costituzione.
    La   disparita'   che   si   determina   tra   la  posizione  del
detenuto-lavoratore, che potra' comunque ricorrere contro l'ordinanza
emessa     dal     magistrato     di     sorveglianza,    e    quella
dell'amministrazione-datore  di  lavoro,  cui e' pacificamente negato
tale  diritto,  configura inoltre una palese violazione del principio
di  parita'  tra  i  soggetti  processuali  sancito nel secondo comma
dell'art. 111 della nostra Carta costituzionale.
    La  determinazione  della competenza in relazione al luogo in cui
il  detenuto  si trova ristretto al momento del reclamo, ai sensi del
criterio  generale previsto dall'art. 677 c.p.p., senza che rilevi in
alcun  modo  il  luogo  in  cui  invece  e'  stata svolta l'attivita'
lavorativa   in  questione  determina  inoltre  notevoli  difficolta'
nell'acquisizione degli elementi essenziali per la decisione da parte
del   magistrato,   soprattutto   in   considerazione   dei  ripetuti
trasferimenti   che  caratterizzano  il  percorso  penitenziario  dei
detenuti:  basti  pensare  che  l'unico soggetto dell'amministrazione
penitenziaria   che   potrebbe   intervenire   con   memorie  scritte
nell'ambito  del  procedimento  in  corso  e' il direttore della Casa
circondariale  di  Pisa,  ovvero  un  soggetto  istituzionale che ben
difficilmente  sara'  a  conoscenza  di  elementi  utili  al presente
giudizio (e che infatti non e' intervenuto in alcun modo).
    Qualsiasi  decisione  potrebbe  pertanto  essere assunta soltanto
richiedendo  ogni  opportuna  informazione alla Casa circondariale di
Monza  ed  eventualmente nominando un consulente tecnico che si rechi
nei  luoghi  in cui si e' svolta l'attivita' lavorativa e soprattutto
presso  la  sede  della PCDET Informatica S.r.l. al fine di acquisire
ogni   opportuna   documentazione   contabile   dell'impresa,  ovvero
attraverso    modalita'   istruttorie   che   comporterebbero   spese
processuali  assai  sostenute,  in palese violazione del principio di
buon  andamento  previsto  dall'art. 97  della Costituzione anche per
quanto riguarda l'organizzazione degli uffici giudiziari.
    Assai  stridente  risulta infine il raffronto tra il procedimento
che viene posto a disposizione del detenuto-lavoratore e la diversa e
ben  piu'  efficace  tutela  processuale  che  viene  riconosciuta al
lavoratore non detenuto nell'ambito del rito del lavoro.
    Tale  disparita'  di trattamento e' stata ritenuta dalla Corte di
cassazione  comunque ragionevole in considerazione delle peculiarita'
del  rapporto  di lavoro «che, avendo come parte un detenuto» sarebbe
strettamente   connesso   e   consequenziale  alla  pena  e  pertanto
istituzionalmente  sottoposto  «alla sorveglianza del giudice penale»
(cfr.  sentenza  con  cui  la  Cassazione  a sezioni unite in data 26
gennaio  2001  ha dichiarato manifestamente infondata la questione di
costituzionalita'    posta    con    riferimento   all'art. 3   della
Costituzione).
    Queste  dichiarazioni  non  sembrano  tuttavia tenere in adeguato
conto  il  percorso  compiuto  sino  ad  ggi dal lavoro inframurario,
originariamente  caratterizzato  da  modalita'  di  svolgimento assai
tipiche  (basti  pensare  al  riferimento  alla «mercede» nell'ambito
dello   stesso   art. 69,  comma  6  O.P.)  ed  oggi  sostanzialmente
equiparabile  al lavoro svolto liberamente fuori dall'istituto, tanto
che  la  stessa  Corte  costituzionale con sentenza emessa in data 10
maggio    2001    ha   dichiarato   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 20,  comma 16 dell'ordinamento penitenziario nella parte in
cui  non prevedeva che anche il detenuto lavoratore avesse diritto ad
un periodo di riposo annuale retribuito.
    Riservare  ad  un  lavoratore una forma di tutela sostanzialmente
ridotta  soltanto  perche'  le  prestazioni  lavorative oggetto della
controversia  si  sono  svolte  nel  periodo  in  cui egli si trovava
detenuto  non  appare allo scrivente magistrato una forma ragionevole
di  esercizio  della  discrezionalita'  che  indubbiamente compete al
legislatore,  bensi'  una chiara discriminazione incompatibile con il
principio  di  uguaglianza  previsto  dall'art. 3  della nostra Carta
costituzionale.
    Il caso oggetto del presente procedimento presenta tuttavia degli
aspetti di ulteriore problematicita'.
    Il reclamante ha infatti svolto attivita' lavorativa in favore di
un'impresa  privata  che,  sulla base di una convenzione stipulata in
data 16 ottobre 2001 con la Casa circondariale di Monza, aveva creato
all'interno dell'istituto penitenziario un laboratorio di riparazione
computer e periferiche cui erano addetti alcuni detenuti.
    L'amministrazione penitenziaria si era in buona sostanza limitata
a  mettere a disposizione un locale adeguato (peraltro a fronte della
corresponsione di un compenso economico), mentre la societa' Italcomm
S.r.l.   aveva   provveduto  ad  organizzare  il  lavoro,  a  formare
professionalmente  i  detenuti,  a  provvedere  ad  ogni  adempimento
imposto  ai  sensi  del d.lgs. n. 626/1994 e soprattutto «a stipulare
con   i   ristretti  regolari  contratti  di  lavoro»  (art. 8  della
convenzione),  provvedendo  al  versamento  delle  retribuzioni,  dei
contributi  previdenziali  e  degli  assegni  familiari eventualmente
dovuti (art. 9 della convenzione).
    A  seguito  della  stipula del predetto contratto, si e' pertanto
instaurato   un   rapporto  di  lavoro  subordinato  tra  i  detenuti
selezionati  e  la predetta impresa, che non a caso si e' impegnata a
rispondere ai sensi dell'art. 2049 c.c. per eventuali danni provocati
dai ristretti lavoranti nel laboratorio (art. 10 della convenzione).
    Il  reclamante  ha ritenuto quindi naturale rivolgersi al giudice
del  lavoro per ottenere il riconoscimento dei diritti che a suo dire
gli  competono in conseguenza del contratto stipulato con la Italcomm
S.r.l.  (cui  poi  e' subentrata la PCDET Informatica S.r.l.); e' del
resto opportuno osservare che, quantomeno sino a pochi anni fa, anche
la  dottrina  e  la  giurisprudenza ritenevano pacificamente comprese
nella  competenza del giudice del lavoro le controversie sollevate da
detenuti  che,  all'interno  o  all'esterno  dell'Istituto,  avessero
svolto  attivita' lavorativa in favore di imprenditori privati (basti
pensare  ai  molti  condannati  ammessi  a  fruire  del  regime della
semiliberta'  o  della  possibilita' di svolgere attivita' lavorativa
all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.).
    Tale  pacifica  interpretazione e' stata tuttavia capovolta dalle
recenti ed ormai costanti pronunce ampiamente citate dal Tribunale di
Monza   e   che  costituiscono  oggi  il  diritto  vivente  cui  fare
riferimento:  in  buona  sostanza,  la  suprema Corte ha ritenuto che
l'art. 69,  comma  6,  lettera  a) dell'ordinamento penitenziario non
consenta  alcuna  distinzione  tra  il  lavoro svolto dal detenuto in
favore  dell'amministrazione  penitenziaria e quello svolto in favore
di un diverso datore di lavoro.
    Secondo quanto espresso recentemente in occasione di un conflitto
di  competenza  proposto proprio da un magistrato di sorveglianza nei
confronti  di  un  giudice  del  lavoro  (cfr.  Cass. pen. sez. I, 14
ottobre  2004  in  proc.  Arcata), «la controparte per il detenuto e'
sempre l'amministrazione, non potendo egli essere parte contraente in
autonomia  con  un  estraneo  e  dovendo  sempre  passare  attraverso
l'amministrazione  penitenziaria proprio perche' il suo lavoro e' una
modalita' di esecuzione della pena».
    A  prescindere  dai  dubbi che puo' suscitare il riferimento alla
«modalita'  di  esecuzione  della  pena» (ovvero ad una categoria che
viene  usualmente utilizzata per indicare una misura alternativa alla
detenzione    ordinaria   piuttosto   che   l'attivita'   lavorativa,
qualificabile eventualmente come uno tra gli elementi del trattamento
inframurario  ai  sensi dell'art. 15 dell'ordinamento penitenziario),
lo  scrivente  magistrato  ritiene opportuno evidenziare le rilevanti
conseguenze     pratiche     che     derivano     dall'individuazione
dell'amministrazione  penitenziaria  quale  datore  di  lavoro  anche
quando   l'attivita'  sia  stata  svolta  in  favore  di  un  privato
imprenditore   o   comunque  di  un  soggetto  diverso  dalla  stessa
direzione.
    Tale  interpretazione  impone infatti all'amministrazione tutti i
doveri e gli oneri tipici del datore di lavoro non solo nei confronti
dei  detenuti  che  svolgono  quotidianamente attivita' lavorativa su
ordine  della direzione e sotto il controllo del personale di polizia
penitenziaria, bensi' anche sui condannati che effettuano prestazioni
in  favore  di  imprenditori  privati in locali che l'amministrazione
abbia  ceduto  ai  medesimi  imprenditori,  riservandosi soltanto una
facolta'   di  accesso  e  di  ispezione  a  tutela  della  sicurezza
dell'istituto  (vedasi  l'art. 13  della  convenzione stipulata dalla
Casa  circondariale di Monza) ed altresi' sui condannati che svolgono
attivita'  lavorativa  fuori  dall'istituto,  rispetto  ai  quali gli
operatori   penitenziari   possono   effettuare   soltanto  controlli
occasionali.
    Se  pertanto  durante  la  fisiologica  gestione  del rapporto di
lavoro  sara' il privato imprenditore a corrispondere la retribuzione
e   a   provvedere   ad   ogni  conseguente  onere  previdenziale  ed
assicurativo  (cosi'  come  previsto  nella citata convenzione e come
usualmente  indicato  nei programmi di trattamento per i semiliberi e
per  i condannati ammessi a svolgere attivita' lavorativa all'esterno
ai   sensi   dell'art. 21   O.P.),   sara'  invece  l'amministrazione
penitenziaria  a dover rispondere a fronte di una qualsiasi patologia
nel rapporto di lavoro.
    Secondo  quanto  indicato  dall'orientamento ormai costante della
suprema   Corte,  infatti,  un  eventuale  accoglimento  del  reclamo
presentato  dal  detenuto  al  magistrato  di  sorveglianza  dovrebbe
comportare  la  condanna  dell'amministrazione alla corresponsione di
tutti  i  crediti  retributivi  e  previdenziali omessi dal datore di
lavoro   privato;   in   buona  sostanza,  il  predetto  orientamento
costituisce     la    predetta    amministrazione    quale    garante
dell'adempimento  di tutti i diritti che il detenuto-lavoratore possa
vantare   in  dipendenza  del  contratto  di  lavoro  in  corso,  con
conseguenti e non preventivabili oneri a carico dell'erario.
    Tale  conseguenza,  di  fatto  assai  gravosa per le gia' modeste
risorse  destinate all'esecuzione della pena, a sommesso avviso dello
scrivente  giudice  si  pone anche in aperta violazione dell'art. 81,
comma 4 della nostra Carta costituzionale, ai sensi della quale nuove
e maggiori spese possono venir poste a carico dell'erario soltanto in
forza di una legge che deve peraltro indicare anche i mezzi per farvi
fronte;  nel  caso  di  specie,  nessun  onere  particolare era stato
previsto    nell'ambito    della   vigente   legge   sull'ordinamento
penitenziario.
    Poco rilevante appare in questo contesto l'eventuale possibilita'
per  l'amministrazione  di  rivalersi  a  sua volta nell'ambito di un
separato  procedimento  civile nei confronti del privato imprenditore
che  non  abbia  adempiuto ai propri obblighi, tenuto conto della non
remota  possibilita' che l'azienda sia ormai cessata o fallita, o che
il  credito si sia ormai prescritto; l'instaurazione del procedimento
dinanzi  al  magistrato di sorveglianza, infatti, non determina alcun
effetto  interruttivo  della  prescrizione  nei confronti del privato
estraneo al procedimento disciplinato dall'art. 69 O.P.
    Assai  grave  risulta poi la conseguenza che tale interpretazione
determina  in  ordine  alla  responsabilita' in caso di infortuni sul
lavoro:   se  infatti  la  qualifica  di  datore  di  lavoro  compete
esclusivamente  all'amministrazione penitenziaria, sara' il direttore
a  dover  rispondere  anche in sede penale di tutti gli infortuni che
eventualmente  coinvolgano  persone  ristrette nel suo istituto e che
spesso  svolgono  attivita'  lavorativa in cantieri posti ben lontano
dalle mura del carcere.
    Tale  conclusione ad avviso dello scrivente magistrato si pone in
aperta  contraddizione  con  il  principio  della  personalita' della
responsabilita'   penale   sancito   dall'art. 27,   comma   1  della
Costituzione.
    E'   ben   vero  che  l'ordinamento  penitenziario  riserva  alla
direzione  un  generale potere di controllo, quantomeno nei confronti
di  coloro  che  sono  stati  ammessi a svolgere attivita' lavorativa
all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.: tale potere non puo' tuttavia
incidere  sull'organizzazione  concreta  del  lavoro,  che compete al
privato  imprenditore  e che non a caso giustifica l'attribuzione nei
suoi  confronti  di  ogni  onere  rilevante in materia di prevenzione
infortunistica  (vedasi  a riguardo l'art. 2 della citata convenzione
stipulata   dalla  Casa  circondariale  di  Monza,  ma  anche  quanto
usualmente  indicato  nei  programmi  di trattamento dei semiliberi e
delle  persone  ammesse  a  svolgere attivita' lavorativa all'esterno
dell'istituto).
    Ad   avviso   di   questo   giudice,  tali  ulteriori  e  gravose
responsabilita'  che  si  determinano  a  carico  dei direttori degli
istituti  penitenziari  finiranno  verosimilmente  per disincentivare
l'inserimento lavorativo dei detenuti, pregiudicando tante iniziative
che  sul  territorio  nazionale sono state avviate proprio al fine di
dare  un  significato  concreto alla finalita' rieducativa della pena
sancita   dall'art. 27,  comma  3  della  Costituzione,  determinando
pertanto  anche  una  violazione dei principi sanciti da quest'ultima
disposizione.
    Tutti   i   profili   di   illegittimita'   costituzionale  sopra
evidenziati   impongono   pertanto   di   disattendere   il  predetto
orientamento  ormai  costantemente  espresso  dalla suprema Corte: il
datore   di   lavoro   dovra'  quindi  essere  individuato  non  piu'
nell'amministrazione  penitenziaria, bensi' nella persona del privato
imprenditore   che   ha   stipulato  un  regolare  contratto  con  il
lavoratore-detenuto e che pertanto se ne e' liberamente assunto tutte
le obbligazioni che ne scaturiscono.
    E'  tuttavia  evidente  che il procedimento pendente dinanzi allo
scrivente  magistrato,  gia'  nei  precedenti paragrafi indicato come
poco  adeguato a risolvere le controversie lavoristiche che insorgano
tra il lavoratore-detenuto e l'amministrazione penitenziaria, risulta
ancor   meno   idoneo   nei   confronti  di  un  rapporto  di  lavoro
privatistico.
    Basti   pensare   che   l'imprenditore   non  potra'  partecipare
all'udienza,  ne' nominare un proprio difensore, ne' produrre memorie
scritte   (facolta'  espressamente  riservata  alla  direzione),  ne'
tantomeno  impugnare  in Cassazione l'ordinanza con cui il magistrato
di   sorveglianza,  all'esito  degli  accertamenti  svolti,  potrebbe
riconoscere i diritti affermati dal detenuto nel ricorso.
    L'impossibilita' di trovare spazi per un intervento del datore di
lavoro  privato nell'ambito del particolare procedimento disciplinato
dagli  art. 69 e 14-ter O.P. determina pertanto una palese violazione
del  diritto  intangibile  ad una piena tutela processuale dei propri
diritti,  cosi'  come  sancito dai commi primo e secondo dell'art. 24
della Costituzione.
    E'  del  resto  doveroso osservare che anche la tutela offerta al
lavoratore-detenuto  non  puo'  considerarsi  piena, tenuto conto che
l'ordinanza  eventualmente emessa dal magistrato di sorveglianza, pur
venendo qualificata come «un provvedimento avente natura di sentenza»
(cfr.  Cassazione  a sezioni unite, 14 dicembre 1999, Umbertino), non
costituisce sicuramente titolo esecutivo.
    E'  altresi'  opportuno evidenziare che tale orientamento sottrae
una  controversia  di lavoro tipicamente privatistica alla competenza
del   giudice   che  ordinariamente  dirime  analoghe  questioni  che
coinvolgono  lavoratori  e datori di lavoro privati ed anche pubblici
per attribuirla ad un magistrato specializzato nell'esecuzione penale
e  di  fatto poco preparato a svolgere funzioni che esulano del tutto
dai  compiti  attribuiti dall'ordinamento penitenziario: lo scrivente
giudice   dubita   pertanto   anche   della  ragionevolezza  di  tale
ripartizione   di  competenze,  che  appare  francamente  lesiva  del
principio  di buon andamento sancito dall'art. 97 della Costituzione,
pacificamente   riferibile   anche  all'organizzazione  degli  uffici
giudiziari.
    Deve  inoltre  osservarsi  che  anche  la  principale motivazione
spesso  addotta  per  giustificare  la  competenza  del magistrato di
sorveglianza,  ovvero  la  difficolta'  che incontrerebbe una persona
detenuta  nel  difendersi  nell'ambito  di  un ordinario procedimento
civile, appare poco rispondente all'attuale situazione penitenziaria,
nell'ambito  della  quale  la  maggior parte delle persone ristrette,
anche  grazie  alla normativa che favorisce la difesa tecnica a spese
dello  Stato,  risulta  oggi difesa in modo adeguato, talora anche in
modo migliore rispetto a quanto puo' accadere a tanti altri cittadini
che si trovino coinvolti in un procedimento civile o penale.
    E'  peraltro  opportuno  rammentare  che  non compete comunque al
magistrato  di  sorveglianza  una generale giurisdizione su qualsiasi
diritto  o  interesse  legittimo del detenuto, neppure se vantato nei
confronti  dell'amministrazione penitenziaria: e' ad esempio pacifico
in  dottrina  e  giurisprudenza  che  eventuali danni alla salute del
detenuto  conseguenti  a comportamenti asseritamente colposi o dolosi
del  personale  penitenziario debbano essere tutelati nelle ordinarie
sedi civili.
    Tutto  cio'  premesso, risulta evidente che anche la controversia
oggetto  del  presente  procedimento  dovrebbe ricondursi nell'ambito
della  generale  competenza  del  giudice  del  lavoro,  che potrebbe
assicurare  alle parti coinvolte nel presente procedimento una tutela
processuale adeguata ed efficace.
    Lo  scrivente magistrato dovrebbe pertanto sollevare conflitto di
competenza  dinanzi  alla Corte di cassazione al fine di ottenere che
il  Tribunale di Monza in funzione di giudice del lavoro (che ha gia'
declinato  la  propria competenza) venga individuato quale magistrato
competente  sulla  questione  oggetto del presente procedimento: tale
conflitto  avrebbe  tuttavia  un  esito sicuramente diverso da quello
auspicato,  tenuto  conto  che  analoghi  procedimenti  si  sono gia'
conclusi con la riaffermazione della competenza della magistratura di
sorveglianza  (vedasi  da  ultimo  la  gia'  citata  pronunzia  della
Cassazione,  sezione  I  penale,  14  ottobre  2004 in proc. Arcara),
ovvero  con  la  conferma  di quell'orientamento rispetto al quale lo
scrivente  magistrato  ha precedentemente sollevato svariati dubbi di
legittimita' costituzionale.
    L'unica   strada   per   assicurare   alle   parti  del  presente
procedimento  un'adeguata  tutela  processuale,  conforme  a  tutti i
principi  costituzionali  sopra indicati, risulta pertanto rivolgersi
alla  Corte  costituzionale confidando che vengano accolti i dubbi di
legittimita'    costituzionale   sollevati   con   riferimento   alla
disposizione    prevista    dall'art. 69,   comma   6,   lettera   a)
dell'ordinamento  penitenziario  o che quantomeno vengano condivisi i
dubbi evidenziati con particolare riferimento all'interpretazione che
ne  e'  stata  recentemente  data  dalla  Corte  di  cassazione e che
costituisce oggi il diritto vivente cui occorre far riferimento.
    La  presente  questione  e' evidentemente rilevante, tenuto conto
che  un'eventuale  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale o
anche  una  pronuncia  di  carattere meramente interpretativo farebbe
venir meno la competenza in ordine al procedimento in corso.
                              P. Q. M.
    Visti gli artt. 23 e ss. legge 11 marzo 1957 n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale della disposizione prevista dall'art. 69,
comma  6,  lettera  a)  della  legge  26  luglio  1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento   penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure
privative  e limitative della liberta), con riferimento agli articoli
3, 24 commi primo e secondo, 27 commi primo e terzo, 81 comma quarto,
97 e 111 della Costituzione, nella parte in cui prevede la competenza
del  magistrato  di  sorveglianza  in  ordine  all'attribuzione della
qualifica  lavorativa,  la  mercede  e  la  remunerazione, nonche' lo
svolgimento   delle   attivita'   di  tirocinio  e  di  lavoro  e  le
assicurazioni sociali.
    Sospende il procedimento in corso.
    Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Dispone  la  notifica  all'interessato,  al  suo  difensore, alla
direzione penitenziaria ed al pubblico ministero, nonche' la notifica
a  mani  a  cura  dell'Ufficio notifiche presso la Corte d'appello di
Roma  al  Presidente  del Consiglio dei ministri ed ai Presidenti dei
due rami del Parlamento.
        Pisa, addi' 9 novembre 2005
               Il magistrato di sorveglianza: Rascione
06C0010