N. 7 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 novembre 2005
Ordinanza emessa il 17 novembre 2005 dal Magistrato di sorveglianza di Pisa nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Vacca Angelo Massimiliano Ordinamento penitenziario - Funzioni del magistrato di sorveglianza - Prevista competenza del magistrato di sorveglianza in ordine all'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali del detenuto lavoratore - Spettanza di tale competenza, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, sia nella ipotesi in cui l'attivita' sia stata svolta per l'amministrazione penitenziaria, sia in quella in cui sia stata svolta all'esterno dell'istituto e alle dipendenze di un datore di lavoro privato - Individuazione dell'amministrazione penitenziaria quale datore di lavoro anche quando l'attivita' lavorativa sia stata svolta per un soggetto diverso - Lesione del diritto di difesa per la inadeguatezza del procedimento ad assicurare una piena tutela processuale alle parti - Violazione del principio di parita' tra i soggetti processuali - Disparita' di trattamento tra lavoratore detenuto e lavoratore non detenuto - Violazione del principio di copertura finanziaria - Contrasto con i principi di personalita' della responsabilita' penale e della finalita' rieducativa della pena - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. - Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 69, comma 6, lett. a). - Costituzione, artt. 3, 24, commi primo e secondo, 27, commi primo e terzo, 81, comma quarto, 97 e 111.(GU n.3 del 18-1-2006 )
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA A scioglimento della riserva formulata all'udienza del 9 novembre 2005 emette la seguente ordinanza, nel procedimento di sorveglianza relativo al reclamo presentato ai sensi dell'art. 69, comma 6, lettera a) dell'ordinamento penitenziario da Vacca Angelo Massimiliano, nato a Monza (MI) il 2 giugno 1971, detenuto presso la Casa circondariale di Pisa, esaminati gli atti e sentite le conclusioni delle parti; Osserva in fatto Con ricorso presentato in data 15 giugno 2004 dinanzi al Tribunale di Monza l'interessato esponeva che in data 6 ottobre 2001 ed ai sensi della legge 22 giugno 2000 n. 193 («Norme per favorire l'attivita' lavorativa dei detenuti») era stata stipulata una convenzione tra la societa' Italcomm S.r.l. e la Casa circondariale di Monza al fine di avviare almeno cinque persone ristrette presso il predetto istituto ad attivita' lavorativa da svolgere in favore della citata impresa in locali posti a disposizione dall'amministrazione penitenziaria. Il Vacca, all'epoca ristretto presso la Casa circondariale di Monza, documentava di aver svolto attivita' lavorativa in favore della Italcomm S.r.l. (cui in data 11 novembre 2002 era subentrata di fatto la PCDET Informatica S.r.l.) a decorrere dal 2 gennaio 2002 e sino a quando in data 30 aprile 2003 gli era stato intimato il licenziamento in forma verbale. Non avendo sortito alcun esito il tentativo di conciliazione avviato presso la direzione provinciale del lavoro, l'interessato aveva pertanto presentato ricorso al Tribunale di Monza al fine di sentire dichiarare la continuita' del rapporto di lavoro gia' svolto in favore delle due imprese, nonche' la natura subordinata ed a tempo indeterminato del predetto rapporto ed infine l'illegittimita' del licenziamento intimato nei suoi confronti, con la conseguente condanna al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute in conseguenza delle richieste declaratorie. Con sentenza emessa in data 27 aprile 2005, il tribunale adito in funzione di giudice del lavoro ha espressamente fatto riferimento all'orientamento ormai costante della suprema Corte, secondo il quale sussiste la competenza del magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 69, comma 6 O.P. in ordine a «l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali» sia quando l'attivita' lavorativa sia stata svolta in favore dell'amministrazione penitenziaria, sia quando questa sia avvenuta all'esterno dell'istituto ed alle dipendenze di un diverso datore di lavoro (vedasi a riguardo le sentenze emesse dalle sezioni unite in data 21 luglio 1999 e in data 14 dicembre 1999, nonche' la sentenza emessa dalla sezione lavoro in data 23 aprile 2004, ric. Rodano e quella emessa dalla prima sezione penale in data 14 ottobre 2004, ric. Arcara); in considerazione ditale orientamento, pertanto, il Tribunale di Monza ha dichiarato la propria incompetenza, individuando il giudice competente nel Magistrato di sorveglianza di Pisa in considerazione del luogo di detenzione del condannato nel momento in cui e' stato presentato il ricorso ai sensi dell'art. 677 c.p.p. L'interessato (ancor oggi ristretto a Pisa) ha pertanto riassunto il procedimento dinanzi a questo giudice nell'ambito delle forme previste dall'art. 69, comma 6 O.P. nonche' dall'art. 14-ter O.P. Lo scrivente magistrato ritiene tuttavia che la predetta disposizione ponga seri dubbi di legittimita' costituzionale, meglio descritti nella parte successiva della motivazione, con particolare riferimento all'interpretazione che ne e' stata recentemente data dalla Corte di cassazione e che costituisce oggi il diritto vivente cui occorre far riferimento. Rileva in diritto La competenza dello scrivente magistrato risulta fondata sull'art. 69, comma 6, dell'ordinamento penitenziario che, al fine di tutelare situazioni giuridiche sino al 1975 riservate alle mera discrezionalita' dell'amministrazione, aveva originariamente previsto che i diritti maturati dalle persone ristrette in un istituto penitenziario a seguito di attivita' lavorativa svolta durante la carcerazione potessero trovare tutela attraverso lo strumento del reclamo nei confronti del magistrato di sorveglianza, il quale avrebbe provveduto attraverso un «ordine di servizio», ovvero nell'ambito di una procedura di carattere amministrativo piuttosto che giurisdizionale. Tale strumento tuttavia aveva ben presto evidenziato una modesta efficacia, tanto che gli ordini di servizio emessi dai magistrati di sorveglianza trovavano scarsa ottemperanza da parte dell'amministrazione penitenziaria; la natura essenzialmente amministrativa del procedimento aveva inoltre condotto a ritenere che «non essendo sul piano delle garanzie assicurati alle parti mezzi di difesa, tale procedimento non sostituisce percio' la tutela giurisdizionale, che e' riservata al giudice dei diritti» (vedasi la pronuncia della Corte costituzionale in data 20 dicembre 1978). In occasione delle modifiche dell'ordinamento penitenziario introdotte con la legge 10 ottobre 1986 n. 663, pertanto, il legislatore e' intervenuto anche per rimodulare in termini giurisdizionali il procedimento posto a tutela dei diritti del detenuto-lavoratore, oggi disciplinato attraverso il rinvio alle forme previste dall'art. 14-ter del medesimo ordinamento: a seguito del reclamo proposto dal condannato prende infatti avvio un procedimento che si concludera' con un'ordinanza ricorribile per Cassazione e nell'ambito del quale possono partecipare il difensore ed il pubblico ministero, mentre l'interessato e l'amministrazione penitenziaria possono presentare memorie. Tale procedimento, attualmente pendente dinanzi allo scrivente magistrato, presenta caratteristiche indubbiamente peculiari: basti pensare che il contraddittorio tra il lavoratore (ovvero il detenuto) ed il datore di lavoro (ovvero l'amministrazione penitenziaria) puo' avvenire soltanto in forma cartolare. Se infatti sussistono orientamenti diversi in ordine alla possibilita' di consentire la partecipazione all'udienza del detenuto (comunque rappresentato dal difensore), e' pacifico che l'amministrazione non possa in alcun modo partecipare alla discussione orale, ne' nominare un proprio rappresentante tecnico (che sicuramente non puo' identificarsi nella figura del pubblico ministero). Il fatto che l'amministrazione non sia qualificabile come parte processuale preclude inoltre la sua possibilita' di ricorrere per cassazione contro il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza, pacificamente impugnabile soltanto dal detenuto. Il procedimento in questione ha pertanto assunto caratteri maggiormente connotati in senso giurisdizionale (tanto da far ritenere che oggi al magistrato di sorveglianza competa una giurisdizione esclusiva in ordine alla materia in questione e non piu' alternativa rispetto al giudice del lavoro, vedasi la sentenza sopra citata emessa dalla Cassazione a sezioni unite in data 14 dicembre 1999), ma tuttavia non risulta ancora in grado di assicurare una piena tutela processuale ne' al detenuto (cui e' sottratto il diritto di partecipare personalmente all'udienza), ne' soprattutto all'amministrazione penitenziaria (che si vede privata di qualsiasi tutela processuale rispetto al procedimento in corso e soprattutto rispetto all'ordinanza che lo concludera), in aperta violazione del diritto fondamentale alla difesa sancito dai commi primo e secondo dell'articolo 24 della Costituzione. La disparita' che si determina tra la posizione del detenuto-lavoratore, che potra' comunque ricorrere contro l'ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza, e quella dell'amministrazione-datore di lavoro, cui e' pacificamente negato tale diritto, configura inoltre una palese violazione del principio di parita' tra i soggetti processuali sancito nel secondo comma dell'art. 111 della nostra Carta costituzionale. La determinazione della competenza in relazione al luogo in cui il detenuto si trova ristretto al momento del reclamo, ai sensi del criterio generale previsto dall'art. 677 c.p.p., senza che rilevi in alcun modo il luogo in cui invece e' stata svolta l'attivita' lavorativa in questione determina inoltre notevoli difficolta' nell'acquisizione degli elementi essenziali per la decisione da parte del magistrato, soprattutto in considerazione dei ripetuti trasferimenti che caratterizzano il percorso penitenziario dei detenuti: basti pensare che l'unico soggetto dell'amministrazione penitenziaria che potrebbe intervenire con memorie scritte nell'ambito del procedimento in corso e' il direttore della Casa circondariale di Pisa, ovvero un soggetto istituzionale che ben difficilmente sara' a conoscenza di elementi utili al presente giudizio (e che infatti non e' intervenuto in alcun modo). Qualsiasi decisione potrebbe pertanto essere assunta soltanto richiedendo ogni opportuna informazione alla Casa circondariale di Monza ed eventualmente nominando un consulente tecnico che si rechi nei luoghi in cui si e' svolta l'attivita' lavorativa e soprattutto presso la sede della PCDET Informatica S.r.l. al fine di acquisire ogni opportuna documentazione contabile dell'impresa, ovvero attraverso modalita' istruttorie che comporterebbero spese processuali assai sostenute, in palese violazione del principio di buon andamento previsto dall'art. 97 della Costituzione anche per quanto riguarda l'organizzazione degli uffici giudiziari. Assai stridente risulta infine il raffronto tra il procedimento che viene posto a disposizione del detenuto-lavoratore e la diversa e ben piu' efficace tutela processuale che viene riconosciuta al lavoratore non detenuto nell'ambito del rito del lavoro. Tale disparita' di trattamento e' stata ritenuta dalla Corte di cassazione comunque ragionevole in considerazione delle peculiarita' del rapporto di lavoro «che, avendo come parte un detenuto» sarebbe strettamente connesso e consequenziale alla pena e pertanto istituzionalmente sottoposto «alla sorveglianza del giudice penale» (cfr. sentenza con cui la Cassazione a sezioni unite in data 26 gennaio 2001 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalita' posta con riferimento all'art. 3 della Costituzione). Queste dichiarazioni non sembrano tuttavia tenere in adeguato conto il percorso compiuto sino ad ggi dal lavoro inframurario, originariamente caratterizzato da modalita' di svolgimento assai tipiche (basti pensare al riferimento alla «mercede» nell'ambito dello stesso art. 69, comma 6 O.P.) ed oggi sostanzialmente equiparabile al lavoro svolto liberamente fuori dall'istituto, tanto che la stessa Corte costituzionale con sentenza emessa in data 10 maggio 2001 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 20, comma 16 dell'ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedeva che anche il detenuto lavoratore avesse diritto ad un periodo di riposo annuale retribuito. Riservare ad un lavoratore una forma di tutela sostanzialmente ridotta soltanto perche' le prestazioni lavorative oggetto della controversia si sono svolte nel periodo in cui egli si trovava detenuto non appare allo scrivente magistrato una forma ragionevole di esercizio della discrezionalita' che indubbiamente compete al legislatore, bensi' una chiara discriminazione incompatibile con il principio di uguaglianza previsto dall'art. 3 della nostra Carta costituzionale. Il caso oggetto del presente procedimento presenta tuttavia degli aspetti di ulteriore problematicita'. Il reclamante ha infatti svolto attivita' lavorativa in favore di un'impresa privata che, sulla base di una convenzione stipulata in data 16 ottobre 2001 con la Casa circondariale di Monza, aveva creato all'interno dell'istituto penitenziario un laboratorio di riparazione computer e periferiche cui erano addetti alcuni detenuti. L'amministrazione penitenziaria si era in buona sostanza limitata a mettere a disposizione un locale adeguato (peraltro a fronte della corresponsione di un compenso economico), mentre la societa' Italcomm S.r.l. aveva provveduto ad organizzare il lavoro, a formare professionalmente i detenuti, a provvedere ad ogni adempimento imposto ai sensi del d.lgs. n. 626/1994 e soprattutto «a stipulare con i ristretti regolari contratti di lavoro» (art. 8 della convenzione), provvedendo al versamento delle retribuzioni, dei contributi previdenziali e degli assegni familiari eventualmente dovuti (art. 9 della convenzione). A seguito della stipula del predetto contratto, si e' pertanto instaurato un rapporto di lavoro subordinato tra i detenuti selezionati e la predetta impresa, che non a caso si e' impegnata a rispondere ai sensi dell'art. 2049 c.c. per eventuali danni provocati dai ristretti lavoranti nel laboratorio (art. 10 della convenzione). Il reclamante ha ritenuto quindi naturale rivolgersi al giudice del lavoro per ottenere il riconoscimento dei diritti che a suo dire gli competono in conseguenza del contratto stipulato con la Italcomm S.r.l. (cui poi e' subentrata la PCDET Informatica S.r.l.); e' del resto opportuno osservare che, quantomeno sino a pochi anni fa, anche la dottrina e la giurisprudenza ritenevano pacificamente comprese nella competenza del giudice del lavoro le controversie sollevate da detenuti che, all'interno o all'esterno dell'Istituto, avessero svolto attivita' lavorativa in favore di imprenditori privati (basti pensare ai molti condannati ammessi a fruire del regime della semiliberta' o della possibilita' di svolgere attivita' lavorativa all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.). Tale pacifica interpretazione e' stata tuttavia capovolta dalle recenti ed ormai costanti pronunce ampiamente citate dal Tribunale di Monza e che costituiscono oggi il diritto vivente cui fare riferimento: in buona sostanza, la suprema Corte ha ritenuto che l'art. 69, comma 6, lettera a) dell'ordinamento penitenziario non consenta alcuna distinzione tra il lavoro svolto dal detenuto in favore dell'amministrazione penitenziaria e quello svolto in favore di un diverso datore di lavoro. Secondo quanto espresso recentemente in occasione di un conflitto di competenza proposto proprio da un magistrato di sorveglianza nei confronti di un giudice del lavoro (cfr. Cass. pen. sez. I, 14 ottobre 2004 in proc. Arcata), «la controparte per il detenuto e' sempre l'amministrazione, non potendo egli essere parte contraente in autonomia con un estraneo e dovendo sempre passare attraverso l'amministrazione penitenziaria proprio perche' il suo lavoro e' una modalita' di esecuzione della pena». A prescindere dai dubbi che puo' suscitare il riferimento alla «modalita' di esecuzione della pena» (ovvero ad una categoria che viene usualmente utilizzata per indicare una misura alternativa alla detenzione ordinaria piuttosto che l'attivita' lavorativa, qualificabile eventualmente come uno tra gli elementi del trattamento inframurario ai sensi dell'art. 15 dell'ordinamento penitenziario), lo scrivente magistrato ritiene opportuno evidenziare le rilevanti conseguenze pratiche che derivano dall'individuazione dell'amministrazione penitenziaria quale datore di lavoro anche quando l'attivita' sia stata svolta in favore di un privato imprenditore o comunque di un soggetto diverso dalla stessa direzione. Tale interpretazione impone infatti all'amministrazione tutti i doveri e gli oneri tipici del datore di lavoro non solo nei confronti dei detenuti che svolgono quotidianamente attivita' lavorativa su ordine della direzione e sotto il controllo del personale di polizia penitenziaria, bensi' anche sui condannati che effettuano prestazioni in favore di imprenditori privati in locali che l'amministrazione abbia ceduto ai medesimi imprenditori, riservandosi soltanto una facolta' di accesso e di ispezione a tutela della sicurezza dell'istituto (vedasi l'art. 13 della convenzione stipulata dalla Casa circondariale di Monza) ed altresi' sui condannati che svolgono attivita' lavorativa fuori dall'istituto, rispetto ai quali gli operatori penitenziari possono effettuare soltanto controlli occasionali. Se pertanto durante la fisiologica gestione del rapporto di lavoro sara' il privato imprenditore a corrispondere la retribuzione e a provvedere ad ogni conseguente onere previdenziale ed assicurativo (cosi' come previsto nella citata convenzione e come usualmente indicato nei programmi di trattamento per i semiliberi e per i condannati ammessi a svolgere attivita' lavorativa all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.), sara' invece l'amministrazione penitenziaria a dover rispondere a fronte di una qualsiasi patologia nel rapporto di lavoro. Secondo quanto indicato dall'orientamento ormai costante della suprema Corte, infatti, un eventuale accoglimento del reclamo presentato dal detenuto al magistrato di sorveglianza dovrebbe comportare la condanna dell'amministrazione alla corresponsione di tutti i crediti retributivi e previdenziali omessi dal datore di lavoro privato; in buona sostanza, il predetto orientamento costituisce la predetta amministrazione quale garante dell'adempimento di tutti i diritti che il detenuto-lavoratore possa vantare in dipendenza del contratto di lavoro in corso, con conseguenti e non preventivabili oneri a carico dell'erario. Tale conseguenza, di fatto assai gravosa per le gia' modeste risorse destinate all'esecuzione della pena, a sommesso avviso dello scrivente giudice si pone anche in aperta violazione dell'art. 81, comma 4 della nostra Carta costituzionale, ai sensi della quale nuove e maggiori spese possono venir poste a carico dell'erario soltanto in forza di una legge che deve peraltro indicare anche i mezzi per farvi fronte; nel caso di specie, nessun onere particolare era stato previsto nell'ambito della vigente legge sull'ordinamento penitenziario. Poco rilevante appare in questo contesto l'eventuale possibilita' per l'amministrazione di rivalersi a sua volta nell'ambito di un separato procedimento civile nei confronti del privato imprenditore che non abbia adempiuto ai propri obblighi, tenuto conto della non remota possibilita' che l'azienda sia ormai cessata o fallita, o che il credito si sia ormai prescritto; l'instaurazione del procedimento dinanzi al magistrato di sorveglianza, infatti, non determina alcun effetto interruttivo della prescrizione nei confronti del privato estraneo al procedimento disciplinato dall'art. 69 O.P. Assai grave risulta poi la conseguenza che tale interpretazione determina in ordine alla responsabilita' in caso di infortuni sul lavoro: se infatti la qualifica di datore di lavoro compete esclusivamente all'amministrazione penitenziaria, sara' il direttore a dover rispondere anche in sede penale di tutti gli infortuni che eventualmente coinvolgano persone ristrette nel suo istituto e che spesso svolgono attivita' lavorativa in cantieri posti ben lontano dalle mura del carcere. Tale conclusione ad avviso dello scrivente magistrato si pone in aperta contraddizione con il principio della personalita' della responsabilita' penale sancito dall'art. 27, comma 1 della Costituzione. E' ben vero che l'ordinamento penitenziario riserva alla direzione un generale potere di controllo, quantomeno nei confronti di coloro che sono stati ammessi a svolgere attivita' lavorativa all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.: tale potere non puo' tuttavia incidere sull'organizzazione concreta del lavoro, che compete al privato imprenditore e che non a caso giustifica l'attribuzione nei suoi confronti di ogni onere rilevante in materia di prevenzione infortunistica (vedasi a riguardo l'art. 2 della citata convenzione stipulata dalla Casa circondariale di Monza, ma anche quanto usualmente indicato nei programmi di trattamento dei semiliberi e delle persone ammesse a svolgere attivita' lavorativa all'esterno dell'istituto). Ad avviso di questo giudice, tali ulteriori e gravose responsabilita' che si determinano a carico dei direttori degli istituti penitenziari finiranno verosimilmente per disincentivare l'inserimento lavorativo dei detenuti, pregiudicando tante iniziative che sul territorio nazionale sono state avviate proprio al fine di dare un significato concreto alla finalita' rieducativa della pena sancita dall'art. 27, comma 3 della Costituzione, determinando pertanto anche una violazione dei principi sanciti da quest'ultima disposizione. Tutti i profili di illegittimita' costituzionale sopra evidenziati impongono pertanto di disattendere il predetto orientamento ormai costantemente espresso dalla suprema Corte: il datore di lavoro dovra' quindi essere individuato non piu' nell'amministrazione penitenziaria, bensi' nella persona del privato imprenditore che ha stipulato un regolare contratto con il lavoratore-detenuto e che pertanto se ne e' liberamente assunto tutte le obbligazioni che ne scaturiscono. E' tuttavia evidente che il procedimento pendente dinanzi allo scrivente magistrato, gia' nei precedenti paragrafi indicato come poco adeguato a risolvere le controversie lavoristiche che insorgano tra il lavoratore-detenuto e l'amministrazione penitenziaria, risulta ancor meno idoneo nei confronti di un rapporto di lavoro privatistico. Basti pensare che l'imprenditore non potra' partecipare all'udienza, ne' nominare un proprio difensore, ne' produrre memorie scritte (facolta' espressamente riservata alla direzione), ne' tantomeno impugnare in Cassazione l'ordinanza con cui il magistrato di sorveglianza, all'esito degli accertamenti svolti, potrebbe riconoscere i diritti affermati dal detenuto nel ricorso. L'impossibilita' di trovare spazi per un intervento del datore di lavoro privato nell'ambito del particolare procedimento disciplinato dagli art. 69 e 14-ter O.P. determina pertanto una palese violazione del diritto intangibile ad una piena tutela processuale dei propri diritti, cosi' come sancito dai commi primo e secondo dell'art. 24 della Costituzione. E' del resto doveroso osservare che anche la tutela offerta al lavoratore-detenuto non puo' considerarsi piena, tenuto conto che l'ordinanza eventualmente emessa dal magistrato di sorveglianza, pur venendo qualificata come «un provvedimento avente natura di sentenza» (cfr. Cassazione a sezioni unite, 14 dicembre 1999, Umbertino), non costituisce sicuramente titolo esecutivo. E' altresi' opportuno evidenziare che tale orientamento sottrae una controversia di lavoro tipicamente privatistica alla competenza del giudice che ordinariamente dirime analoghe questioni che coinvolgono lavoratori e datori di lavoro privati ed anche pubblici per attribuirla ad un magistrato specializzato nell'esecuzione penale e di fatto poco preparato a svolgere funzioni che esulano del tutto dai compiti attribuiti dall'ordinamento penitenziario: lo scrivente giudice dubita pertanto anche della ragionevolezza di tale ripartizione di competenze, che appare francamente lesiva del principio di buon andamento sancito dall'art. 97 della Costituzione, pacificamente riferibile anche all'organizzazione degli uffici giudiziari. Deve inoltre osservarsi che anche la principale motivazione spesso addotta per giustificare la competenza del magistrato di sorveglianza, ovvero la difficolta' che incontrerebbe una persona detenuta nel difendersi nell'ambito di un ordinario procedimento civile, appare poco rispondente all'attuale situazione penitenziaria, nell'ambito della quale la maggior parte delle persone ristrette, anche grazie alla normativa che favorisce la difesa tecnica a spese dello Stato, risulta oggi difesa in modo adeguato, talora anche in modo migliore rispetto a quanto puo' accadere a tanti altri cittadini che si trovino coinvolti in un procedimento civile o penale. E' peraltro opportuno rammentare che non compete comunque al magistrato di sorveglianza una generale giurisdizione su qualsiasi diritto o interesse legittimo del detenuto, neppure se vantato nei confronti dell'amministrazione penitenziaria: e' ad esempio pacifico in dottrina e giurisprudenza che eventuali danni alla salute del detenuto conseguenti a comportamenti asseritamente colposi o dolosi del personale penitenziario debbano essere tutelati nelle ordinarie sedi civili. Tutto cio' premesso, risulta evidente che anche la controversia oggetto del presente procedimento dovrebbe ricondursi nell'ambito della generale competenza del giudice del lavoro, che potrebbe assicurare alle parti coinvolte nel presente procedimento una tutela processuale adeguata ed efficace. Lo scrivente magistrato dovrebbe pertanto sollevare conflitto di competenza dinanzi alla Corte di cassazione al fine di ottenere che il Tribunale di Monza in funzione di giudice del lavoro (che ha gia' declinato la propria competenza) venga individuato quale magistrato competente sulla questione oggetto del presente procedimento: tale conflitto avrebbe tuttavia un esito sicuramente diverso da quello auspicato, tenuto conto che analoghi procedimenti si sono gia' conclusi con la riaffermazione della competenza della magistratura di sorveglianza (vedasi da ultimo la gia' citata pronunzia della Cassazione, sezione I penale, 14 ottobre 2004 in proc. Arcara), ovvero con la conferma di quell'orientamento rispetto al quale lo scrivente magistrato ha precedentemente sollevato svariati dubbi di legittimita' costituzionale. L'unica strada per assicurare alle parti del presente procedimento un'adeguata tutela processuale, conforme a tutti i principi costituzionali sopra indicati, risulta pertanto rivolgersi alla Corte costituzionale confidando che vengano accolti i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati con riferimento alla disposizione prevista dall'art. 69, comma 6, lettera a) dell'ordinamento penitenziario o che quantomeno vengano condivisi i dubbi evidenziati con particolare riferimento all'interpretazione che ne e' stata recentemente data dalla Corte di cassazione e che costituisce oggi il diritto vivente cui occorre far riferimento. La presente questione e' evidentemente rilevante, tenuto conto che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale o anche una pronuncia di carattere meramente interpretativo farebbe venir meno la competenza in ordine al procedimento in corso.
P. Q. M. Visti gli artt. 23 e ss. legge 11 marzo 1957 n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della disposizione prevista dall'art. 69, comma 6, lettera a) della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta), con riferimento agli articoli 3, 24 commi primo e secondo, 27 commi primo e terzo, 81 comma quarto, 97 e 111 della Costituzione, nella parte in cui prevede la competenza del magistrato di sorveglianza in ordine all'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali. Sospende il procedimento in corso. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dispone la notifica all'interessato, al suo difensore, alla direzione penitenziaria ed al pubblico ministero, nonche' la notifica a mani a cura dell'Ufficio notifiche presso la Corte d'appello di Roma al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Pisa, addi' 9 novembre 2005 Il magistrato di sorveglianza: Rascione 06C0010