N. 80 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 gennaio 2006

Ordinanza  emessa  il  16  gennaio 2006 dalla Corte di cassazione nel
procedimento penale a carico di Rubino Umberto ed altro

Ambiente - Definizione di rifiuti - Norma interpretativa - Esclusione
  dalla  categoria dei rifiuti dei residui di produzione o di consumo
  che  siano semplicemente abbandonati dal produttore o dal detentore
  o che siano riutilizzati in qualsiasi ciclo produttivo o di consumo
  senza  trattamento  recuperatorio  nella  specie:  siero  di  latte
  residuato -  Contrasto  con  la  nozione di rifiuti stabilita dalla
  direttiva   comunitaria   75/442/CE,   modificata  dalla  direttiva
  91/156/CE   e   dalla   decisione   della  Commissione 96/350/CE  -
  Inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
- Decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni,
  nella legge 8 agosto 2002, n. 178, art. 14.
- Costituzione, artt. 11 e 117.
(GU n.13 del 29-3-2006 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto per:
        1) Rubino Umberto, nato ad Aversa l'8 marzo 1957;
        2) Rubino Vito, nato ad Aversa l'11 gennaio 1964,
avverso  la  sentenza  resa  il  10 dicembre 2004 dal tribunale di S.
Maria C. V., sez. dist. di Carinola.
    Vista la sentenza denunciata e il ricorso,
    Udita  la  relazione  svolta in udienza dal consigliere Pierluigi
Onorato,
    Udito  il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore
generale  Guglielmo  Passacantando,  che  ha  concluso  chiedendo  il
rigetto del ricorso,
    Udito il difensore dalla parte civile;
    Udito il difensore dell'imputato;

                            O s s e r v a


                      Svolgimento del processo

    1.  -  Con sentenza del 10 dicembre 2004 il tribunale monocratico
di  S. Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Carinola, dichiarava
i  fratelli  Umberto  e Vito Rubino colpevoli del reato continuato di
cui  all'art. 51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997, perche', il primo quale
legale rappresentante del caseificio «Cirigliana Eredi Rubino Luigi»,
e  il secondo quale titolare dell'omonima azienda zootecnica, avevano
smaltito  e  trasportato,  in  tempi  diversi, rifiuti non pericolosi
senza  la  prescritta  autorizzazione:  in Riardo sino al 14 novembre
2000.
    Per  l'effetto  il tribunale condannava gli imputati alla pena di
5.000  euro  di  ammenda  ciascuno,  col  beneficio della sospensione
condizionale.
    In linea di fatto il giudice accertava che il suddetto caseificio
aveva  venduto  piu'  volte il siero di latte derivante dalla propria
attivita'  produttiva all'azienda zootecnica di Vito Rubino, il quale
lo destinava ad alimento per le bufale.
    In linea di diritto osservava in sostanza:
        che  il  siero  di  latte in questione era qualificabile come
rifiuto,  in  quanto residuo del processo di lavorazione dei prodotti
caseari;
        che  la  norma  interpretativa di cui all'art. 14 della legge
n. 178/2002,  laddove  restringe  la  nozione comunitaria di rifiuto,
recepita nell'art. 6 del d.lgs. n. 22/1997, espungendone i residui di
produzione   riutilizzabili,  senza  pregiudicare  l'ambiente,  nello
stesso  o  in diverso ciclo produttivo senza trattamento preventivo o
con   trattamento   preventivo   non   recuperatorio,  doveva  essere
disapplicata,  appunto perche' contraria al diritto comunitario, come
interpretato  dalla  giurisprudenza  della Corte di Giustizia europea
(in particolare con la sentenza Niselli dell'11 novembre 2004);
        che   pertanto  la  condotta  contestata  agli  imputati  era
penalmente  rilevante  in  base  alla  normativa  di  cui  al  d.lgs.
n. 22/1997  anche  dopo l'entrata in vigore del predetto art. 14, che
doveva   considerarsi  tamquam  non  esset  dopo  l'emanazione  della
suddetta sentenza 11 novembre 2004 della Corte di Giustizia.
    2.  -  Avverso  la condanna ha proposto ricorso per cassazione il
difensore di entrambi gli imputati, deducendo due motivi a sostegno.
    2.1.  -  Col  primo  lamenta  in  sostanza  erronea  applicazione
dell'art. 51   d.lgs.   n. 22/1997   nonche'   mancanza  o  manifesta
illogicita'   di  motivazione  sul  punto,  giacche'  i  c.d.  scarti
alimentari  -  come  il  siero di latte - devono considerarsi materie
prime destinate all'alimentazione animale e non rifiuti.
    Chiede comunque la declaratoria di prescrizione del reato.
    2.2.  -  Col  secondo  motivo  denuncia difetto di motivazione in
ordine alla quantificazione della pena.

                       Motivi della decisione

    3.  -  Va  anzitutto  precisato  che la fattispecie de qua non e'
sussumibile  nella  disciplina  di  cui  al  d.lgs. 14 dicembre 1992,
n. 508  (che  ha  attuato la direttiva 90/667/CEE in materia di norme
sanitarie  per  la eliminazione, la trasformazione e l'immissione sul
mercato  di  rifiuti di origine animale) e al Reg. CE 3 ottobre 2002,
n. 1774 (recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine
animale  non  destinati  al  consumo  umano),  che  ha  espressamente
abrogato la predetta direttiva CEE 90/667.
    Infatti  la  condotta  contestata  agli  imputati  consisteva nel
trasporto  e  nello  smaltimento  del  siero  di  latte derivante dal
processo  produttivo  di  un caseificio, mentre entrambe le normative
succitate  prevedono  norme di polizia sanitaria e veterinaria per il
trasporto,  la  trasformazione,  l'uso  o  l'eliminazione  di rifiuti
(art. 1,  d.lgs.  n. 508/1992) o sottoprodotti di origine animale non
destinati  al consumo umano (art. 1, Reg. CE 1774/2002). E chiaro che
il  latte  cessa di essere un sottoprodotto di origine animale quando
viene  impiegato  come materia prima nella produzione casearia, e che
il  siero  di  latte  che residua da questa produzione va qualificato
come  rifiuto  speciale  ex  art. 7 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22
senza che possa (piu) definirsi di origine animale.
    Manca  quindi  qualsiasi  presupposto ex art. 8 d.lgs. n. 22/1997
per  escludere  dal  regime  generale  dei  rifiuti il siero di latte
derivante  dalla produzione casearia, non soltanto perche' la polizia
sanitaria e veterinaria, oggetto del d.lgs. n. 508/1992 e del Reg. CE
1774/2002,  e'  eterogenea,  e non speciale, rispetto alla disciplina
ambientale  della  gestione dei rifiuti (come ritiene Cass. Sez. III,
n. 8520  del 4 marzo 2002, Leuci), quanto piuttosto perche' l'oggetto
della  disciplina  (il  citato siero di latte) non rientra in nessuna
delle  categorie  che  il  predetto  art.  8 esclude dalla disciplina
generale  dei  rifiuti  (e in particolare non rientra nella categoria
delle carogne o dei rifiuti di origine animale).
    Va pertanto disatteso il primo motivo del ricorso (n. 2.1).
    4.  -  Va  anche  respinta la richiesta di dichiararsi estinto il
reato per prescrizione.
    Infatti,  al  periodo  prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e
160 c.p., va aggiunto il periodo in cui il processo e rimasto sospeso
per  impedimento  dell'imputato  o  del suo difensore, ovvero su loro
richiesta,  sempre che questa non sia dettata da esigenze istruttorie
odi  termine  a  difesa (Cass. Sez. Un. n. 1021 dell'11 gennaio 2002,
Cremonese, rv. 220509).
    Nel  caso  di  specie,  al  periodo  di quattro anni e mezzo (che
scadeva  il  14  maggio  2005) va aggiunto il periodo di sette mesi e
nove giorni per la sospensione del processo (dal 25 settembre 2003 al
28 aprile 2004 e dal 3 dicembre 2004 al 10 dicembre 2004), sicche' la
prescrizione maturera' solo il 23 dicembre 2005.
    Nella  materia  e'  recentemente  intervenuta la legge 5 dicembre
2005,  n. 251  (entrata  in  vigore l'8 dicembre 2005), la quale, con
l'art. 6:
        a)  modificando  l'art. 157 c.p., ha aumentato a quattro anni
il tempo di prescrizione ordinaria per tutte le contravvenzioni;
        b)  modificando  l'art. 159  c.p., ha codificato il principio
stabilito  dalla  suddetta  sentenza Cremonese in tema di sospensione
processuale  per  impedimento delle parti o dei difensori, stabilendo
pero'  che  la  sospensione  non  puo' durare piu' di sessanta giorni
oltre la cessazione dell'impedimento;
        c)  modificando gli artt. 160 e 161 c.p., ha stabilito che in
caso di interruzione della prescrizione, i termini prescrizionali non
possono  essere  prolungati  oltre il quarto per gli imputati che non
siano  recidivi specifici o infraquinquennali, delinquenti abituali o
professionali.
    Alla  stregua  della  novella,  nel  caso  di  specie, il periodo
prescrizionale  ordinario  sarebbe scaduto il 14 novembre 2005, ma si
sarebbe  dovuto  prolungare  di  almeno  67  giorni  per le succitate
sospensioni  processuali  intervenute,  arrivando cosi' al 20 gennaio
2006.
    Tuttavia, per effetto della norma transitoria di cui all'art. 10,
comma 2, la disciplina del predetto art. 6 non si applica ai processi
in  corso,  trattandosi  di un reato e di una vicenda processuale per
cui  i  termini  di  prescrizione  risultano  piu'  lunghi  di quelli
previgenti.
    5.1.  -  In  ordine  alla  qualificazione giuridica del fatto, la
sentenza  impugnata  ha  colto  nel  segno laddove ha ritenuto che il
siero  di  latte  residuato dal processo produttivo del caseificio di
Umberto Rubino rientrava nella categoria dei rifiuti speciali, di cui
all'art. 6  e  7  d.lgs. n. 22/1997, e che la cessione e il trasporto
del  siero,  senza  alcuna  autorizzazione,  dal  predetto caseificio
all'azienda  zootecnica  di  Vito  Rubino,  integrava il reato di cui
all'art. 51  dello  stesso  decreto legislativo (in senso conforme v.
Cass. sez. III, n. 33295 del 2 agosto 2004, Cioffi, rv. 229011).
    La  sentenza  e'  incorsa  invece  in errore giuridico laddove ha
ritenuto  che  la  norma interpretativa di cui all'art. 14 del d.l. 8
luglio  2002,  n. 138,  convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178, in
quanto  restringe  indebitamente  la  nozione comunitaria di rifiuto,
debba  essere  direttamente  disapplicata (rectius non applicata) dal
giudice nazionale.
    5.2.  -  Che  la  norma dell'art. 14, pur autoqualificandosi come
interpretativa,  modifichi in senso restrittivo la nozione di rifiuto
precisata  dall'art.  6 d.lgs. n. 22/1997, e quindi sia incompatibile
con  la  nozione  di  rifiuto  stabilita  dalla direttiva comunitaria
75/442/CEE,   modificata   dalla  direttiva  91/156/CEE,  di  cui  la
disposizione   nazionale   e'   sostanzialmente  la  riproduzione,  e
indubbio,  ed  e'  riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza
pressoche' unanimi.
    Invero,  per  l'art. 6  d.lgs.  n. 22/1997  e  per l'art. 1 della
direttiva   75/442/CEE  costituisce  rifiuto  qualsiasi  sostanza  od
oggetto  che  rientra  in  una  delle  sedici  categorie  elencate in
allegato  di  cui  il  detentore  «si  disfi»  o abbia deciso o abbia
l'obbligo   di   «disfarsi».   L'elenco   delle   categorie,  di  cui
all'allegato  A,  e'  un  elenco «aperto», perche' la prima categoria
(Q1) comprende tutti i residui di produzione o di consumo in appresso
non  specificati, e la sedicesima (Q16) qualunque sostanza, materia o
prodotto  che  non  rientri  nelle  altre  categorie. L'art. 14 legge
n. 178/2002,  invece,  nel suo primo comma, identifica il concetto di
«disfarsi» con duello di smaltimento o di recupero, stabilendo che le
parole   «si   disfi»   devono  essere  interpretate  come  qualsiasi
comportamento  attraverso  il  quale  in modo diretto o indiretto una
sostanza,  un  materiale  o  un  bene  sono  avviati  o sottoposti ad
attivita'  di  smaltimento  o di recupero, secondo gli allegati B e C
del d.lgs. n. 22/1997.
    Attraverso  questa  identificazione,  pero',  la  norma sedicente
interpretativa   restringe   la   nozione   comunitaria  di  rifiuto,
escludendone ogni sostanza o materiale di cui il detentore «si disfi»
mediante  semplice «abbandono», posto che nella direttiva comunitaria
e  nel  d.lgs.  n. 22/1997  l'abbandono  e' nettamente distinto dallo
smaltimento  e  a  maggior  ragione  dal  recupero  (per  il  diritto
nazionale  v.  art. 14  d.lgs.  n. 22/1997,  su  cui  Cass. Sez. III,
sent. n. 21024  del 5 aprile 2004, Eoli, rv. 229225-6; per il diritto
comunitario  v.  art. 4,  comma  2,  direttiva  75/442/CEE, su cui C.
Giustizia,  Sez.  II, dell'11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli,
par. 38, 39 e 40).
    In  sostanza,  secondo  il  diritto  comunitario e il legislatore
nazionale  del  1997, ci si puo' disfare di un rifiuto, con l'obbligo
di  sottostare  alla  relativa  disciplina,  non solo avviandolo allo
smaltimento  o  al  recupero,  ma anche semplicemente abbandonandolo;
secondo  il legislatore nazionale del 2002, invece, chi abbandona una
sostanza  rientrante  nelle  anzidette categorie di rifiuti e' esente
dalla  disciplina  imposta  in materia per assicurare la tutela della
salute pubblica e della qualita' ambientale.
    Ma  dove  la  norma  dell'art.  14  assume una portata ancor piu'
socialmente  innovativa  e' nel secondo comma, in forza del quale non
ricorrono le fattispecie della decisione di «disfarsi» e dell'obbligo
di  «disfarsi»  ove  si  tratti  di sostanze e materiali residuali di
produzione  o  di consumo che «possono essere e sono effettivamente e
oggettivamente  utilizzati nel medesimo o in analogo ciclo produttivo
o  di  consumo»:  a)  «senza  subire  alcun  intervento preventivo di
trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente»; ovvero b) «dopo
aver  subito  un trattamento preventivo senza che si renda necessaria
alcuna  operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C
del decreto legislativo n. 22».
    Invero,   secondo   la   definizione   comunitaria   di  rifiuto,
letteralmente  trasfusa  nell'art. 6 d.lgs. n. 22/1997, un residuo di
produzione  o  di  consumo  di  cui il detentore abbia deciso o abbia
l'obbligo  di  «disfarsi»  costituisce sempre rifiuto. Per l'art. 14,
invece,  questo  residuo  perde  la  qualita' di rifiuto se e' o puo'
essere  oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo
ciclo   di  produzione  o  di  consumo,  o  piu'  esattamente  se  e'
riutilizzato  senza  trattamenti  preventivi  e senza pregiudizio per
l'ambiente  ovvero  con  trattamenti  preventivi  che  non comportino
operazioni  di  recupero  (per  esempio  attraverso atti di prelievo,
cernita,  separazione,  compattamento,  frantumazione,  vagliatura  o
macinatura,  che  non  implicano  una  trasformazione  merceologica o
chimica dei materiali).
    E'  quindi  innegabile  che  anche sotto questo profilo l'art. 14
restringe  la nozione comunitaria di rifiuto, giacche' per il diritto
comunitario  la  volonta'  o l'obbligo di «disfarsi» di un residuo di
produzione o di consumo costituisce quest'ultimo come rifiuto, mentre
per  la norma nazionale sedicente interpretativa quel residuo diventa
semplice  materia prima ove ricorra la condizione della sua attuale o
potenziale riutilizzazione.
    Concludendo,  l'art. 14  ha  introdotto  una  doppia  deroga alla
definizione  comunitaria  di  rifiuto,  sia  laddove  ha identificato
l'attivita'  di «disfarsi» della sostanza con quella di smaltimento o
di   recupero   della   medesima  (escludendo  cosi'  l'attivita'  di
abbandono),  sia  laddove  ha  escluso  la  volonta'  o  l'obbligo di
«disfarsi» di residui di produzione o di consumo quando questi sono o
possono  essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori
e  senza  pregiudizio  per  l'ambiente.  In tal modo ha esonerato dal
controllo amministrativo e dalla disciplina sui rifiuti attivita' con
cui  il  detentore  si  disfa  di residui di produzione o di consumo,
creando pericolo per l'ambiente.
    Con  cio' il legislatore italiano e' venuto meno ai suoi obblighi
di  leale  cooperazione  di  cui  all'art. 10 (ex 5) del Trattato CE,
pregiudicando  gli  obiettivi  comunitari  di  salvaguardia, tutela e
miglioramento  della  qualita'  dell'ambiente  e di protezione, della
salute umana di cui all'art. 174 (ex 130 R) dello stesso Trattato.
    6.1.  -  Tale e' del resto la convinzione della Commissione della
comunita'  europea,  la quale ha avviato contro lo Stato italiano una
procedura  di infrazione ai sensi dell'art. 226 (ex 169) del Trattato
in  seguito  all'approvazione  dell'art. 14  del  d.l. 8 luglio 2002,
n. 138.
    Ma  tale  e',  soprattutto, la decisione della Corte di Giustizia
europea,  che  investita  in via pregiudiziale dal tribunale di Terni
della questione della compatibilita' comunitaria dell'art. 14, con la
sentenza  della  Sezione  II  dell'11 novembre  2004, Causa C-457/02,
Niselli,  sviluppando  il  filone giurisprudenziale consacarato nelle
precedenti  sentenze  Zanetti del 10 maggio 1995, C-422/1992, Tombesi
del 25 giugno 1997, C-304/1994, e Palin Granit Oy del 18 aprile 2002,
C-9/00, ha cosi' statuito:
        a)  la  nozione  di rifiuto dipende dal significato del verbo
«disfarsi»,  il  quale  «(deve  essere  interpretato  alla luce della
finalita'  della  direttiva  75/442,  che,  ai  sensi  del  suo terzo
"considerando", e' la tutela della salute umana e dell'ambiente (...)
ma  anche  alla  luce  dell'art.  174  n. 2  CE,  secondo il quale la
politica  della  Comunita'  in  materia  ambientale mira a un elevato
livello  di  tutela  ed  e' fondata in particolare sui principi della
precauzione e dell'azione preventiva» (par. 33).
    Una sostanza o un materiale non soggetto a obbligo di smaltimento
o  di  recupero  e  di  cui il detentore «si disfi» mediante semplice
abbandono  e'  considerato  rifiuto  ai  sensi della direttiva 75/442
(par.  38).  E  poiche'  l'abbandono  non puo' essere considerato una
modalita'  di  smaltimento  del  rifiuto,  ma  e'  ben distinto dallo
smaltimento (par. 39), la definizione comunitaria di rifiuto non puo'
essere interpretata nel senso di ricomprendere soltanto le sostanze e
i  materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di
recupero (par. 40);
        b)  per  l'art. 14  del  decreto-legge  italiano  n. 138/2002
«affinche'  un  residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla
qualifica  di rifiuto sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere
riutilizzato  in  qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in
assenza   di   trattamento   preventivo   e   senza   arrecare  danni
all'ambiente,  vuoi  previo trattamento ma senza che occorra tuttavia
un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva
75/442»  (par.  50).  Ma  «un'interpretazione  del  genere si risolve
manifestamente  nel  sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di
produzione  o  di  consumo  che invece corrispondono alla definizione
sancita  dall'art. 1,  lett. a),  primo comma della direttiva 75/442»
(par. 51).
    Pertanto,  la  nozione  comunitaria  di  rifiuto  non puo' essere
interpretata   nel  senso  di  escludere  l'insieme  dei  residui  di
produzione  o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un
ciclo  di  produzione o di consumo senza trattamento preventivo o con
trattamento non recuperatorio (par. 53).
    Tuttavia - secondo la sentenza Niselli, che riprende sul punto la
precedente sentenza Palin Granit Oy del 18 aprile 2002 - puo' esulare
dalla  nozione  comunitaria  di  rifiuto un materiale derivante da un
processo  di  fabbricazione o di estrazione che non e' principalmente
destinato   a   produrlo,   che   il   produttore  riutilizza,  senza
trasformazione   preliminare,   nel   corso   dello  stesso  processo
produttivo:  in  tal  caso  non si tratta di un residuo, bensi' di un
«sottoprodotto»,  che  non ha la qualifica di rifiuto propria perche'
il produttore non intende «disfarsene», ma vuole invece riutilizzarlo
nel medesimo ciclo produttivo (parr. 44-52).
    Per  distinguere  il  «sottoprodotto»  dal  rifiuto  e'  comunque
necessario  che  il  riutilizzo  sia  certo, che avvenga nel medesimo
processo  produttivo  e senza trasformazioni preliminari, cioe' senza
modificazioni  del  carattere  chimico  o merceologico della sostanza
(par. 47).
    Che   il  ciclo  produttivo  debba  essere  il  medesimo  risulta
chiaramente  dal  par. 52 della sentenza. Del resto, se il riutilizzo
avvenisse  in  un  diverso  ciclo  produttivo  vorrebbe  dire  che il
produttore  ha  inteso «disfarsi» del residuo per commercializzarlo o
comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.
    6.2. - La sentenza Niselli e' stata emessa ai sensi dell'art. 234
(ex  177)  del  Trattato CE e quindi si e' limitata a interpretare la
norma  del  diritto  comunitario che definisce la nozione di rifiuto;
mentre  solo procedendo ex art. 226 (ex 169), in esito alla procedura
di infrazione attivata dalla Commissione, avrebbe potuto direttamente
interpretare la norma nazionale denunciata come lesiva degli obblighi
comunitari.
    I  diversi  poteri  della  Corte  di  Giustizia nell'ambito delle
diverse  procedure sono chiaramente enunciati dalla stessa Corte, che
ha avuto modo di chiarire il principio secondo cui essa «non puo', ai
sensi  dell'art. 177 [ora 234] del Trattato, statuire sulla validita'
di  una norma di diritto interno con riguardo al diritto comunitario,
come le sarebbe consentito fare nell'ambito di un ricorso ex art. 169
[ora  226]  del trattato CE»; peraltro «essa e' tuttavia competente a
fornire  al  giudice  nazionale tutti gli elementi di interpretazione
che  rientrano  nel  diritto  comunitario,  atti  a  consentirgli  di
pronunciarsi  su  tale  compatibilita»  (sentenza  Tombesi citata del
25 giugno 1997, par. 36).
    Si  puo'  quindi  concludere  che  la  sentenza  Niselli, pur non
interpretando  direttamente l'art. 14 del d.l. 8 luglio 2002, n. 138,
offre  al  giudice italiano elementi ermeneutici precisi per ritenere
tale norma indiscutibilmente incompatibile col diritto comunitario.
    7.1.  -  Resta  ora  da  esaminare  quale strumento giuridico sia
esperibile per rimediare a questo innegabile vulnus che l'art. 14 del
d.l. 8 luglio 2002, n. 138, ha recato al diritto comunitario.
    Al  riguardo,  la  sentenza impugnata e alcune pronunce di questa
Corte  hanno  sostenuto  la necessita' della disapplicazione (rectius
non  applicazione)  della norma nazionale in forza della prevalenza e
immediata  applicabilita'  del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125
del  17  gennaio  2003,  Ferretti, rv. 223291; Sez. III, n. 14762 del
9 aprile  2002, Amadori, rv. 221573; Sez. III, n. 17656 del 15 aprile
2003, Gonzales e altro, rv. 224716).
    Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che
l'art. 14 e' vincolante per il giudice italiano giacche' la direttiva
comunitaria  sui  rifiuti  non e' autoapplicativa (sel-fexecuting) in
quanto  necessita  di  atto  di  recepimento  da  parte  dello  Stato
nazionale  (Sez.  III,  n. 4052  del 29 gennaio 2003, Passerotti, rv.
223532;  Sez.  III,  n. 4051  del 29 gennaio 2003, Ronco, rv. 223604;
Sez.  III, n. 9057 del 26 febbraio 2003, Costa, rv. 224172; Sez. III,
n. 13114  del  24  marzo  2003,  Mortellaro,  rv.  224721;  Sez. III,
n. 32235 del 31 luglio 2003, Agogliati e altri, rv. 226156; Sez. III,
n. 38567 del 19 ottobre 2003, De Fronzo, rv. 226574).
    7.2. - Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro
dallo  stesso relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come
modificata  dalla  direttiva  91/156/CEE,  non  ha  efficacia diretta
nell'ordinamento  nazionale,  ma  sostengono  ugualmente  la  diretta
applicabilita' della nozione comunitaria di rifiuti, in base al fatto
che essa e' stata richiamata dal regolamento comunitario n. 259/1993,
che ha indubbiamente carattere selfexecuting.
    Ma tale singolare argomento, benche' condiviso da qualche autore,
non puo' accettarsi.
    Invero,  il  Reg.  CEE  del  1.2.1993  n. 259/1993 «relativo alla
sorveglianza  e  al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno
della  comunita'  europea,  nonche'  in  entrata  e in uscita dal suo
territorio»,  all'art.  2,  lett.  a)  stabilisce  che  «ai sensi del
presente  regolamento»  si  intendono  per  rifiuti  «i rifiuti quali
definiti nell'art. 1 lettera a) della direttiva 75/442/CEE».
    Orbene,  e'  sufficiente osservare come la norma del regolamento,
che  come tale e' direttamente applicabile nell'ordinamento italiano,
recepisca  la  nozione di rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE
soltanto   ai   fini   della   specifica   materia  disciplinata  dal
regolamento,  ovverosia limitatamente alle spedizioni di rifiuti, che
a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e munite
di un documento di accompagnamento.
    Questa   nozione   «regolamentare»  quindi  non  e'  direttamente
applicabile  ne'  per  l'attivita'  di  abbandono  ne'  per  tutte le
attivita'  di  gestione  dei  rifiuti  elencate  nell'art. 6 lett. g)
d.lgs. n. 22/1997, che sono ben diverse dall'attivita' di spedizione:
e cioe' raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.
    Anche  una  risalente  sentenza della Corte di Giustizia ha avuto
modo  di stabilire che la nozione «regolamentate» di rifiuti, «che e'
stata  istituita  al  fine  di  garantire  che i sistemi nazionali di
sorveglianza  e  controllo  delle  spedizioni  di  rifiuti rispettino
criteri  minimi  si  applica  direttamente  anche  alle spedizioni di
rifiuti  all'interno  di  qualsiasi  Stato membro»; ma non ha affatto
esteso   la   diretta   applicabilita'   della   nozione  alle  altre
tradizionali  attivita'  di  gestione  o  all'attivita' di abbandono,
comunque  diverse dalla spedizione (C.G.,VI Sez., sent. del 25 giugno
1997, Tombesi e altri, v. mass. e parr. 44, 45 e 46).
    Non si puo' quindi parlare a tale riguardo di una novazione della
fonte  del  diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso
generale e illimitato.
    Inoltre,  come  e' stato opportunamente sottolineato in dottrina,
l'argomento  da  una  parte non e' stato mai considerato dalla stessa
Corte  lussemburghese, che, chiamata piu' volte a interpretare in via
pregiudiziale   la   nozione   comunitaria   di  rifiuto,  ha  sempre
focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata
dalla  direttiva  91/156;  dall'altra non e' stato utilizzato neppure
dalla  Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta
contro lo Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo
che  il  tentativo di restringere la nozione di rifiuto era del tutto
velleitario,  attesa  la  immediata  applicabilita'  nell'ordinamento
nazionale del Reg. 259/1993/CEE.
    In   conclusione,   si  tratta  di  argomento  che  appare  ormai
abbandonato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, le quali non
mettono  piu' in discussione la inapplicabiita' diretta della nozione
comunitaria  di  rifiuto  (al di fuori della materia delle spedizioni
disciplinata dal menzionato regolamento).
    7.3.  -  L'orientamento  giurisprudenziale minoritario, pur dando
per   scontato  il  carattere  non  autoapplicativo  della  direttiva
75/444/CEE, modificata dalla direttiva 91/1 56/CEE, giunge ugualmente
a non applicare l'art. 14 del d.l. n. 138/2002, in base all'argomento
che,   in   ossequio   al  principio  della  prevalenza  del  diritto
comunitario,  sia originario, sia derivato, il giudice nazionale deve
comunque  dare  applicazione  alle  sentenze della Corte di Giustizia
europea,  che  a piu' riprese hanno offerto una interpretazione della
nozione  comunitaria  di  rifiuto  contrastante con quella risultante
dall'art. 14:  in  particolare  devono  dare  attuazione  alla citata
sentenza  Niselli,  che espressamente ha statuito la incompatibilita'
comunitaria di quest'ultima norma.
    Ma  anche  questo  argomento,  apparentemente convincente, non e'
accoglibile.
    A  rigore,  la  pronuncia  della Corte di Giustizia che precisa o
integra  il  significato  di  una  norma  comunitaria  ha  la  stessa
efficacia  di  quest'ultima,  sicche' la pronuncia e' direttamente ed
immediatamente  efficace nell'ordinamento nazionale se e in quanto lo
sia anche la norma interpretata.
    In   tal   senso   e'   l'insegnamento   costante   della   Corte
costituzionale.  Basti  ricordare la sentenza 11 luglio 1989, n. 389,
in  cui  la Consulta, trattando del principio di applicazione diretta
di  norme comunitarie immediatamente efficaci nel diritto interno, ha
avuto  modo  di precisare che «quando questo principio viene riferito
ad  una  norma  comunitaria  avente  "effetti diretti" (...) non v`e'
dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo
compiute   attraverso   una  sentenza  dichiarativa  della  Corte  di
Giustizia  abbiano  la  stessa immediata efficacia delle disposizioni
interpretate».
    Invero,  nei  casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato
il significato di una norma comunitaria direttamente efficace in modo
tale  che  una  norma del diritto nazionale risulti incompatibile con
essa,  il  giudice nazionale non deve piu' applicare la norma interna
per  la  definizione  dalla  controversia  al  suo esame (senza poter
sollevare questione di costituzionalita': v. Corte cost. n. 94/1995).
    Nei  casi  invece  in cui la Corte lussemburghese ha interpretato
una norma comunitaria priva di efficacia diretta in modo tale che una
norma interna risulti incompatibile con la prima, il giudice italiano
non  ha altra scelta che applicare la norma interna o sollevare sulla
stessa  l'eccezione  di  illegittimita' costituzionale per violazione
degli  obblighi  dello  Stato  italiano  di  conformarsi  al  diritto
comunitario, consacrati negli artt. 11 e 117 Cost. (e' implicitamente
in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte cost.).
    7.4.  -  Piu'  di  recente,  un'altra  pronuncia di legittimita',
seguendo  il  principio indicato dalla Corte costituzionale con sent.
190/2000,  ha  correttamente  sostenuto  la necessita' per il giudice
italiano  di  interpretare la normativa nazionale in termini tali che
essa  non  risulti  in  contrasto con la normativa comunitaria (Cass.
Sez. III, n. 746 del 1° giugno 2005, Colli).
    A  questa  stregua, ha ritenuto, sulla scia della citata sentenza
Niselli,  che  l'art. 14  in  questione  non contrasta con la nozione
comunitaria   di  rifiuto  solo  laddove  esclude  dall'ambito  della
relativa  disciplina  i  c.d.  sottoprodotti,  cioe'  quei residui di
produzione (esclusi i residui di consumo) dei quali il produttore non
abbia  intenzione di disfarsi e che siano riutilizzati in modo certo,
senza   previa  trasformazione,  nell'ambito  dello  stesso  processo
produttivo.  I  «sottoprodotti» infatti, in quanto riutilizzati nello
stesso ciclo produttivo come materie prime, non presentano rischi per
l'ambiente,  sicche'  per  essi  non  ha ragion d'essere applicare la
disciplina dei rifiuti.
    La  fattispecie  dedotta  nel  presente processo, pero', esula da
ogni  possibile  interpretazione  adeguatrice,  giacche'  il siero di
latte residuato dalla produzione casearia veniva trasportato e ceduto
a  un'altra azienda, esercente attivita' zootecnica, che lo destinava
ad  alimento per gli animali. Alla luce del diritto comunitario, come
autoritativamente  interpretato dalla Corte di Giustizia europea, non
poteva  quindi  classificarsi  come «sottoprodotto», ma era invece un
vero  e  proprio  rifiuto  di  cui il produttore si disfaceva perche'
fosse riutilizzato tal quale in altro processo produttivo.
    Per  la  norma  nazionale  di cui si discute, invece, il siero di
latte  prodotto  nel  caseificio  e  riutilizzato  in diversa azienda
zootecnica  resta indiscutibilmente escluso dalla nozione di rifiuto,
e  non vi puo' rientrare in forza di una interpretazione adeguatrice.
Esso  resta  percio' sottratto alla disciplina sui rifiuti, in palese
contrasto col diritto comunitario.
    8. - L'unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato
da   una   legge  nazionale  contro  una  direttiva  comunitaria  non
direttamente  applicabile  e',  quindi,  il  ricorso al giudice delle
leggi.
    Invero,  la  norma  in  questione, escludendo dalla categoria dei
rifiuti  i residui di produzione o di consumo che siano semplicemente
abbandonati   dal  produttore  o  dal  detentore,  ovvero  che  siano
riutilizzati  in  qualsiasi  ciclo  produttivo  o  di  consumo  senza
trattamento  recuperatorio,  si  pone  in insanabile contrasto con la
nozione  di  rifiuti stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CE,
modificata   dalla   direttiva  91/156/CE  e  dalla  decisione  della
Commissione 96/350/CE.
    Nel  caso  di specie, quindi, va sollevata d'ufficio questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 14 d.l. 8 luglio 2002, n. 138,
convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178, perche' in contrasto:
        a)  con  l'art. 11  Cost.,  laddove  questo stabilisce che lo
Stato  italiano deve osservare la limitazione di sovranita' derivante
dalla  sua  partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello
della comunita' europea;
        b)  nonche',  ancor  piu'  esplicitamente,  con  il novellato
art. 117  Cost.,  che  nel  suo  primo  comma  impone  allo  Stato di
esercitare  la  sua  potesta'  legislativa  nel  rispetto dei vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario.
    L'ipotizzato  vulnus  comunitario  e  costituzionale appare tanto
piu'  grave  in  quanto,  dopo  che la Commissione di Bruxelles aveva
aperto  la  menzionata  procedura  di  infrazione, e poco dopo che la
Corte  di Giustizia europea aveva emanato la citata sentenza Niselli,
il  legislatore  nazionale,  con  la  legge  15 dicembre 2004, n. 308
(delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione
della   legislazione  in  materia  ambientale  e  misure  di  diretta
applicazione),  ha  ribadito  la  sua volonta' normativa al riguardo,
stabilendo  al  comma 26 dell'art. 1: «Fermo restando quanto disposto
dall'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178, ...».
    La  non  manifesta  infondatezza  della  questione  risulta dalle
considerazioni  svolte  in  precedenza,  secondo  le  quali  la norma
denunciata  e'  incompatibile  (nei  limiti anzidetti) con il diritto
comunitario  e  per  conseguenza  lede gli obblighi costituzionali di
adeguamento all'ordinamento comunitario stesso.
    9.1  -  Dalle considerazioni precedenti risulta altresi' evidente
la  rilevanza della questione, atteso che il processo non puo' essere
definito  prescindendo  dall'applicabilita'  del denunciato art. 14 e
quindi  dalla  risoluzione della relativa eccezione di illegittimita'
costituzionale.
    Se  la  norma resistesse al vaglio di costituzionalita', infatti,
la  sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio perche'
il  fatto  non  e'  piu'  previsto  dalla  legge  come  reato, avendo
l'art. 14  sottratto  alla  disciplina  dei rifiuti il siero di latte
riutilizzato senza trattamenti preventivi in altro ciclo produttivo.
    Se   invece   la   norma   fosse   dichiarata  costituzionalmente
illegittima  e  quindi  inapplicabile ai caso di specie, al giudice a
quo si aprirebbe la duplice possibilita' di rigettare il ricorso, con
la  conferma  della  condanna  degli  imputati,  o di annullare senza
rinvio  la  sentenza  impugnata  per difetto dell'elemento soggettivo
della   contravvenzione   contestata,   avendo   gli  imputati  fatto
affidamento  incolpevole  sulla portata normativa di una disposizione
(l'art. 14)  successivamente  caducata dall'ordinamento. Nella prima,
ma  -  sia  pur  in  misura  minore - anche nella seconda ipotesi, la
sentenza  di  accoglimento  della  Corte  costituzionale  avrebbe  un
effetto in malam partem.
    Emerge  qui  il  noto problema del sindacato di costituzionalita'
sulle  norme penali di favore, cioe' delle norme che, per determinati
soggetti  o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo
precedenti disposizioni incriminatrici.
    Tale appare indubbiamente la nonna dell'art. 14, giacche' essa si
configura    come   disposizione   extrapenale   integratrice   della
fattispecie  penale  di cui agli artt. 6 e 51 d.lgs. n. 22/1997, che,
«restringendo»   l'ampiezza   dell'oggetto  materiale  del  reato  (i
rifiuti),  finisce  per  derogare  o  abrogare  parzialmente,  ovvero
modificare   in   senso   favorevole  al  reo,  la  precedente  norma
incriminatrice.
    9.2  - Com'e' noto, muovendo dalla considerazione che l'eventuale
accoglimento  della  eccezione di illegittimita' costituzionale della
norma  penale  piu'  favorevole  non potrebbe influire sull'esito del
giudizio   a   quo  per  il  principio  di  irretroattivita'  di  cui
all'art. 25,  comma  2, Cost. e all'art. 2, comma 1, cod. pen., si e'
tratta    in   passato   la   conclusione   che   le   eccezioni   di
incostituzionalita'  delle  norme penali di favore sono «tipicamente»
irrilevanti,  con la conseguenza che dette norme restano sottratte al
controllo costituzionale.
    Peraltro, occorre al riguardo precisare che nel caso di specie il
fatto  contestato  e'  stato commesso sino al 14 novembre 2000, cioe'
sotto  il  vigore della norma incriminatrice di cui agli artt. 6 e 51
d.lgs.  n. 22/1997,  sicuramente  conformi  al diritto comunitario, e
prima  dell'entrata  in  vigore  dell'art. 14  d.l. n. 138/2002, che,
escludendo  alcune  categorie  di  rifiuti,  ha  ridotto  l'area  del
penalmente illecito, in contrasto col diritto comunitario.
    Orbene,  e'  doveroso  osservare  che  in un caso siffatto, se la
Corte   dichiarasse  costituzionalmente  illegittima  la  norma  piu'
favorevole  di  cui  all'art. 14,  la  conferma della responsabilita'
degli imputati in base alle norma piu' sfavorevole di cui ai suddetti
artt. 6 e 51:
        a)  non violerebbe il principio di irretroattivita' di cui al
secondo comma dell'art. 25 Cost., posto che la norma dell'art. 51 era
entrata m vigore prima del fatto contestato;
        b)  non  violerebbe  neppure  il  principio di retroattivita'
dell'abolitio criminis di cui al secondo comma dell'art. 2 cod. pen.,
giacche'  la norma dell'art. 14, entrata in vigore dopo il fatto, con
l'effetto   di   depenalizzarlo   attraverso  l'abrogazione  parziale
dell'art. 6  d.lgs. n. 22/1997, non potrebbe essere applicata proprio
in   quanto   resa   inefficace  dalla  pronuncia  di  illegittimita'
costituzionale:  in  altri  termini,  la  retroattivita'  della norma
parzialmente depenalizzatrice non potrebbe operare per la caducazione
della norma stessa dall'ordinamento.
    Questa conclusione e' indubbiamente in linea con la nota sentenza
n. 51/1985  della  Consulta,  che  ha  dichiarato  la  illegittimita'
costituzionale  dell'ultimo  comma dell'art. 2 cod. pen., nella parte
in  cui  prevedeva  la  retroattivita' ai fatti pregressi della norma
penale  favorevole  contenuta in un decreto-legge non convertito, per
contrasto   con   l'art. 77,  ultimo  comma,  Cost.  (secondo  cui  i
decreti-legge  non  convertiti  perdono  efficacia  sin dall'inizio).
Esaminando  il  problema  se  il  principio di irretroattivita' della
norma  penale  sfavorevole  fosse  d'ostacolo  al risultato normativo
derivante  dalla pronuncia di illegittimita' costituzionale, la Corte
ha  precisato  che detto principio sarebbe applicabile soltanto per i
fatti   «concomitanti»,   commessi   cioe'   sotto   il   vigore  del
decreto-legge  non  convertito,  ma  non  per  i  fatti  «pregressi»,
commessi cioe' prima che il decreto-legge entrasse in vigore.
    Anche  nel  presente  processo il fatto e' «pregresso» e non gia'
«concomitante»  rispetto  al periodo di vigenza della norma penale di
favore.
    9.3.  -  Comunque,  il  problema  e'  ora  risolto dalla sentenza
n. 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilita' delle
questioni  di  illegittimita'  costituzionale  sulle  norme penali di
favore  in base al duplice argomento secondo cui l'accoglimento della
questione:   a)   verrebbe  comunque  a  incidere  sulle  formule  di
proscioglimento   o  sui  dispositivi  della  sentenza  penale  e  si
rifletterebbe  sullo schema argomentativo della relativa motivazione;
b) avrebbe comunque un «effetto di sistema» la cui valutazione spetta
ai  giudici  comuni  e non al giudice costituzionale. E cio' perche',
senza  vanificare  la  garanzia  dell'art. 25  Cost.,  anche le norme
penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalita',
«pena   di   istituire   zone  franche  del  tutto  impreviste  dalla
Costituzione,  all'interno  delle  quali  la  legislazione  ordinaria
diverrebbe incontrollabile».
    Questo   approdo  ermeneutico  non  e'  scalfito  dalle  numerose
statuizioni  della  Consulta  che  hanno  ribadito l'inammissibilita'
delle  sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25, comma
2, Cost., stante la strutturale diversita' delle due ipotesi.
    Infatti,  quando  e' dedotta la questione di costituzionalita' di
una  norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere
ablativo   della   deroga  oggettiva  o  soggettiva  introdotta,  con
l'effetto  di  ripristinare  la  piena portata normativa di una norma
incriminatrice  preesistente.  Al  contrario, la sentenza additiva di
accoglimento  (che  dichiara  incostituzionale  la  norma  sospettata
«nella parte in cui non prevede» etc.) ha l'effetto di creare ex novo
una  norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie
penale  esistente,  usurpando  in  entrambi  i  casi  una prerogativa
spettante alla discrezionalita' del legislatore.
    (Diverso  sembra  il caso della sentenza n. 440/1995, in cui, con
un meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forze del
principio  di  uguaglianza,  ha  esteso  il  reato di bestemmia della
divinita'  anche  a  tutela  delle  religioni non cattoliche, creando
cosi'  una  nuova  figura  di reato, che pero' non era applicabile al
fatto contestato nel processo a quo).
    Per  diversa  ragione  l'approdo  della  sentenza n. 148/1983 non
appare intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cost., la
quale   ha   escluso   la   possibilita'  di  estendere  l'ambito  di
applicazione  della  norma  incriminatrice  di cui all'art. 2621 cod.
civ.  (false  comunicazioni  sociali),  come  sostituito  dall'art. 1
d.lgs.  11 aprile  2002,  n. 61, attraverso la rimozione delle soglie
minime  di  punibilita' ivi previste. Qui infatti la Corte ha escluso
la  possibilita'  di  ampliare o aggravare la figura di un reato gia'
esistente  attraverso  la  «demolizione» delle soglie di punibilita',
sul  rilievo  che  queste  soglie  integrano  requisiti essenziali di
tipicita'  del  fatto  ovvero condizioni di punibilita', e cioe' sono
comunque  «un  elemento  che  "delimita"  l'area  d'intervento  della
sanzione  prevista  dalla  norma incriminatrice, e non gia' "sottrae"
determinati  fatti  all'ambito  di  applicazione di altra norma, piu'
generale».
    Tale  essendo  la ratio decidendi, essa non puo' essere applicata
ai  casi  -  come  quello  presente  - in cui la norma denunciata per
incostituzionalita' e' una norma penale di favore, la quale «sottrae»
determinate  ipotesi  (nel caso specifico, la gestione dei residui di
produzione   utilizzati  in  altri  cicli  produttivi)  a  una  norma
incriminatrice  generale (gli artt. 6 e 51 d.lgs.). In altri termini,
facendo  cadere  per incostituzionalita' l'art. 14 si ripristinerebbe
la  portata  originaria  di  una  norma  incriminatrice gia' presente
nell'ordinamento,  che l'art. 14 aveva parzialmente derogato; facendo
cadere  le  soglie di punibilita' previste nell'art. 2621, invece, si
amplierebbe la portata penale della stessa norma al di la' dei limiti
in cui il legislatore l'aveva configurata.
    9.4.  - Analogo problema si e' presentato alla Corte di Giustizia
europea,  chiamata  a  interpretare la nozione comunitaria di rifiuto
dal  giudice  del  processo  Niselli,  posto che la sua ricostruzione
ermeneutica  poteva  avere  effetti  tali  da  entrare  in  rotta  di
collisione con il principio di legalita' e irretroattivita' dei reati
e  delle  pene,  che  e'  ritenuto parte integrante anche del diritto
comunitario.
    Al  riguardo la sentenza Niselli, premesso che «una direttiva non
puo'  avere  l'effetto,  di  per se' e indipendentemente da una norma
giuridica  di  uno  Stato  membro  adottata per la sua attuazione, di
determinare  o  di  aggravare la responsabilita' penale di coloro che
agiscono  in  violazione  delle  sue disposizioni», preso atto che il
fatto  contestato  all'imputato  era  stato  commesso sotto il vigore
delle  disposizioni  incriminatrici  di  cui  al d.lgs. n. 22/1997, e
prima  dell'entrata  in  vigore  dell'art. 14  d.l.  n. 138/2002,  ha
concluso  che  non  vi  era  «motivo  di esaminare le conseguenze che
potrebbero  discendere  dal  principio  di  legalita'  delle pene per
l'applicazione della direttiva 75/442» (parr. 29 e 30).
    Non  occorre  qui  sottolineare  l'analogia  fattuale tra il caso
Niselli  e  il caso presente riguardo al rapporto tra tempus commissi
delicti e successione delle leggi penali nel tempo.
    Diverso  e' il caso affrontato piu' di recente dalla stessa Corte
europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la
questione  se  il  trattamento sanzionatorio piu' favorevole previsto
dai  novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false
comunicazioni  sociali  in  danno dei soci o dei creditori) cod. civ.
fosse  o  meno adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva
comunitaria  sul  diritto  societario  (sentenza 3 maggio 2005, Cause
riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).
    La  sentenza  ha  osservato  che  il  principio dell'applicazione
retroattiva della pena piu' mite fa parte integrante delle tradizioni
costituzionali  comuni degli Stati membri e dei principi generali del
diritto  comunitario  (parr.  68  e  69); e ha concluso che «la prima
direttiva  sul  diritto societario non puo' essere invocata in quanto
tale  dalle  autorita'  di uno Stato membro nei confronti di imputati
nell'ambito  di  procedimenti  penali, poiche' una direttiva non puo'
avere  come  effetto,  di  per  se'  e indipendentemente da una legge
interna  di  uno  Stato  membro  adottata  per  la sua attuazione, di
determinare  o  aggravare  la  responsabilita' penale degli imputati»
(par. 78 e dispositivo).
    Basti  rilevare  in proposito che, nel caso esaminato dalla corte
europea,   ne'   gli  originati  artt. 2621  e  2622  cod. civ.,  che
prevedevano  un  trattamento  sanzionatorio  piu'  severo, e sotto la
vigenza  dei  quali  erano  stati  commessi i reati contestati, ne' i
nuovi   artt. 2621   e  2622  cod.  civ.,  che  hanno  introdotto  un
trattamento  penale  piu' mite, costituiscono attuazione di direttive
comunitarie;  sicche'  si  comprende  l'affermazione  secondo cui una
direttiva  comunitaria,  per se stessa e senza la mediazione di leggi
nazionali  di  attuazione,  non  possa  determinare  o  aggravare una
responsabilita'  penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della
disciplina  sui  rifiuti, la direttiva comunitaria e' stata trasposta
nell'ordinamento  nazionale  attraverso  il d.lgs. n. 22/1997, che ha
previsto  in  aggiunta  un  sistema  sanzionatorio  a  presidio della
disciplina  stessa,  sicche'  ne' la previsione della responsabilita'
penale,  ne' la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva
comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51
del   d.lgs.   n. 22/1997,   e   la  seconda  dall'art. 14  del  d.l.
n. 138/2002.  Nella  presente  vicenda  processuale, quindi, non puo'
farsi   ricorso   al   principio  statuito  nella  suddetta  sentenza
comunitaria  del 3 maggio 2005, proprio perche' presupposto di questo
principio e' la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva
comunitaria.
    9.5.  -  Per  tutte  queste  ragioni  non  sembra  dubitabile  la
rilevanza della dedotta questione.
    A  conforto  di  questa  tesi,  peraltro,  militano  le  numerose
sentenze  di  questa Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno
dichiarato  la illegittimita' costituzionale di varie leggi regionali
che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente
autorizzato  di  rifiuti  tossici e nocivi (n. 306/1992; n. 437/1992;
n. 194/1993)  o  l'accumulo  temporaneo  di  rifiuti tossici e nocivi
(sent.   n. 213/1991),  o  che  avevano  escluso  dagli  impianti  di
smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di
rifiuti  liquidi,  cosi'  esonerando la loro gestione dall'obbligo di
autorizzazione (sent. n. 173/1998).
    Qui   la   caducazione  delle  norme  legislative  regionali  per
contrasto    con    fonti    normative   gerarchicamente   superiori,
costituzionali  e  comunitarie,  e' perfettamente sovrapponibile alla
richiesta caducazione dell'art. 14 d.l. n. 138/2002; ed ha gli stessi
effetti   sul  trattamento  penale  degli  imputati  nell'ambito  dei
processi principali.
                              P. Q. M.
    La Corte di cassazione, terza sezione penale, visti gli artt. 134
Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, solleva d'ufficio questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  14  del  d.l. 8 luglio 2002,
convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178, per violazione degli artt.
11   e   117   della  Costituzione,  dichiarandola  rilevante  e  non
manifestamente infondata;
    Sospende  il giudizio in corso e ordina la immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che,  a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  agli  imputati e al loro difensore, nonche' al Presidente
del Consiglio dei ministri;
    Da  altresi'  mandato  alla cancelleria di comunicare la presente
ordinanza  ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica.
        Cosi' deciso in Roma, il 14 dicembre 2005.
                       Il Presidente: De Maio
Il consigliere estensore: Onorato  06C0254