N. 337 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 marzo 2006

Ordinanza  emessa  il 22 marzo 2006 dalla Corte di appello di Bologna
nel procedimento penale a carico di Dorigo Paolo

Processo  penale - Revisione - Impossibilita' che i fatti stabiliti a
  fondamento  della  sentenza  o del decreto di condanna si concilino
  con  la sentenza definitiva della Corte europea che abbia accertato
  l'assenza  di  equita'  del  processo,  ai  sensi della Convenzione
  europea  per la salvaguardia dei diritti dell'uomo - Esclusione dai
  casi  di  revisione  - Violazione del principio di ragionevolezza -
  Ingiustificata  discriminazione  tra  casi  analoghi  - Lesione del
  principio secondo cui l'ordinamento italiano si conforma alle norme
  di  diritto  internazionale  generalmente riconosciute - Violazione
  del principio della finalita' rieducativa della pena.
- Codice di procedura penale, art. 630, lett. a).
- Costituzione, artt. 3, 10 e 27; Convenzione per la salvaguardia dei
  diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 6.
(GU n.39 del 27-9-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  a seguito di istanza di
revisione  proposta  in  data  11  gennaio  2006  dall'avv.  Vittorio
Trupiano  del  Foro  di Napoli, procuratore speciale di Dorigo Paolo,
nato  a  Venezia il 24 ottobre 1959, residente in Mira, via Corridoni
4.
    Il  difensore di Dorigo Paolo espone che il proprio assistito sta
espiando, in regime di detenzione domiciliare, la residua parte della
condanna  ad  anni tredici e mesi sei di reclusione inflittagli dalla
Corte  d'assise  di  Udine  con  sentenza  in  data  3  ottobre 1994,
irrevocabile il 27 marzo 1996.
    L'avv.  Trupiano  ricorda  che,  dopo  la  condanna, Dorigo si e'
rivolto  alla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo, la quale, con
sentenza  del  9  settembre  1998,  ha  stabilito  la non equita' del
giudizio  subito  dal  proprio  assistito, per violazione dell'art. 6
della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti dell'uomo. La
lesione  dei  principi contenuti in quest'articolo e' stata ravvisata
nel fatto che i giudici italiani hanno condannato Dorigo in base alle
dichiarazioni  di tre coimputati non esaminati in contraddittorio, in
quanto,  in  dibattimento,  si  sono  avvalsi  della  facolta' di non
rispondere.  Dopo  la  decisione della Corte europea, il Comitato dei
ministri  del  consiglio  d'Europa ha piu' volte sollecitato lo Stato
italiano  ad  adottare  le misure necessarie a garantire l'osservanza
della  pronuncia  del giudice di Strasburgo. Tali sollecitazioni sono
rimaste  prive  d'effetto.  Solo  recentemente  il  procuratore della
Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Udine  ha  sollevato incidente
d'esecuzione  davanti  alla  corte  d'assise  di  quel capoluogo, per
verificare  la  «legittimita»  della  detenzione  di  Dorigo  ed  ha,
contestualmente,  richiesto la sospensione dell'esecuzione della pena
nei  confronti  del condannato. Con ordinanza 5 dicembre 2005, pero',
la corte d'assise di Udine ha rigettato il ricorso affermando che, in
sede  d'incidente  d'esecuzione,  l'indagine  del giudice va limitata
alla  verifica  della  eseguibilita'  del  titolo esecutivo, restando
preclusa   ogni   valutazione  sulla  legittimita'  del  giudizio  di
cognizione  e, dunque, sulla violazione delle regole interne ad esso.
Percio',  il  quesito relativo a quale statuizione dovesse prevalere,
nel  contrasto  tra giudicato interno e sentenza della Corte europea,
andava risolto nel senso della prevalenza della sentenza irrevocabile
del  giudice  italiano.  Nella stessa ordinanza, la corte d'assise di
Udine  ha  osservato che la sospensione dell'esecuzione richiesta dal
procuratore  della  Repubblica  avrebbe  determinato  la  paradossale
situazione di congelare la situazione processuale, con l'effetto che,
alla   liberazione   dell'imputato,   non   sarebbe   seguita  alcuna
celebrazione  di un processo equo con la possibilita' che la condanna
a  carico  di  Dorigo  rimanesse  sospesa  sinedie  senza  che alcuna
autorita' giurisdizionale avesse, poi, modo di deciderne la sorte. Ha
concluso,  quel  giudice,  che meno incongrua gli sembrava la strada,
pure  prospettata  dal  procuratore  della  Repubblica ricorrente, di
un'istanza  di  revisione  per  ottenere  la celebrazione di un nuovo
processo,  tale  da  porre  rimedio ai vizi d'equita' sostanziale che
hanno caratterizzato il precedente giudizio. In tal caso, ha aggiunto
la  corte  d'assise di Udine, l'art. 635 c.p.p. avrebbe consentito al
giudice   adito   per   la   revisione  di  sospendere  l'esecuzione,
accompagnandosi,  cosi',  il  risultato  avuto  di mira ad una strada
giuridicamente piu' corretta.
    La  difesa  di  Dorigo, condividendo quest'ultima prospettazione,
afferma   -   nell'istanza   presentata   a   questo  giudice  -  che
l'ammissibilita'   del   giudizio   di   revisione   potrebbe  essere
pronunciata,  sin d'ora, ai sensi dell'art. 630, lett. a) c.p.p., per
contrasto  tra  giudicati. Infatti, la decisione della corte europea,
che  in quanto proveniente da organo sopranazionale deve prevalere su
quella  del giudice italiano, puo' essere equiparata alla sentenza di
un  «giudice  speciale».  Ma,  se  cosi'  non  si  dovesse  ritenere,
l'art. 630   c.p.p.   sarebbe   costituzionalmente  illegittimo,  per
contrasto  con  gli  artt. 3  e  111  cost.,  nella  parte in cui non
prevede,  come  titolo  per  ottenere la revisione, la sentenza della
Corte  europea  dei  diritti dell'uomo. Conclude, percio', la difesa,
con la richiesta di emissione del decreto di citazione ex artt. 636 e
601  c.p.p.,  previa  ordinanza  di  sospensione  dell'esecuzione,  e
solleva,   fin  d'ora,  eccezione  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 630 c.p.p., nel senso teste' accennato.
    Il  procuratore  generale  ha  depositato  il proprio parere, nel
quale  osserva  che  le  sentenze  della  Corte  europea  dei diritti
dell'uomo non sono immediatamente eseguibili in Italia e non possono,
quindi,  invalidare  un  giudicato;  ma questo e' tema attinente alla
validita'  di  titolo  esecutivo  e  non  alla  possibilita'  di dare
ingresso al giudizio di revisione.
    Quanto  all'ammissibilita'  di quest'ultima impugnazione, il caso
di specie non puo' farsi rientrare sotto l'art. 630, lett. a) c.p.p.,
perche'  la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  non puo' essere
considerata  un  giudice  speciale. In ordine, poi, alla possibilita'
che  ricorra,  nella  specie, l'ipotesi della lettera c) dello stesso
articolo, non si puo' ignorare - afferma il procuratore generale - la
giurisprudenza  che  esclude  che  da  una  modifica della disciplina
processuale  possa  derivare  un  giudizio  di revisione; tant'e' che
l'esame   in   contraddittorio   di  un  collaboratore  di  giustizia
rifiutatosi  di  rispondere nel corso del giudizio di cognizione, non
e' stato ritenuto un caso di nuova prova.
    Tuttavia, poiche' il concetto di «nuova prova» e' tuttora in fase
di   elaborazione   giurisprudenziale,   e  siccome  il  giudizio  di
ammissibilita'   della  revisione  e'  limitato  ad  una  delibazione
sommaria,  e' necessario che le parti espongano compiutamente le loro
opinioni  nella pienezza del contraddittorio che si instaura solo con
l'udienza.  Conclude,  pertanto,  il  procuratore  generale,  con  la
richiesta   di   emissione   di   decreto   di  citazione,  ai  sensi
dell'art. 636   c.p.p.,   mentre,   sulla  richiesta  di  sospensione
dell'esecuzione della pena, esprime parere contrario.
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata  dalla
difesa e' rilevante e non manifestamente infondata per quanto attiene
la  violazione  dell'art. 3  Cost.;  come  tale, va rimessa al vaglio
della  Corte costituzionale unitamente alle questioni di legittimita'
che,  insieme  ad  essa,  questa corte ritiene di dover sollevare con
riferimento alla violazione degli artt. 10 e 27 della Costituzione.
    Il  ricorrente,  come  sopra  osservato  prospetta in primo luogo
un'interpretazione  dell'art. 630, lett. a) c.p.p., che eviterebbe la
trasmissione  degli  atti  al  giudice  delle  leggi, ma si tratta di
un'interpretazione  non  consentita.  Si sostiene che tra le sentenze
penali  irrevocabili  del  «giudice speciale» potrebbero rientrare le
sentenze  della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo.  Sennonche'
l'assunto   appare   erroneo.  Se  si  prescinde  dai  giudici  delle
«giurisdizioni  speciali»,  come  la Corte dei conti, il Consiglio di
Stato  e  i tribunali amministrativi regionali, di «giudici speciali»
si puo', ormai, parlare - secondo un tradizionale insegnamento - solo
in  due  casi:  quello  dei  tribunali  militari e quello della Corte
costituzionale.
    I  primi  giudicano  dei  reati militari commessi da appartenenti
alle  forze armate; la seconda delle accuse mosse al Presidente della
Repubblica.  Si  tratta,  in ogni caso, di giudici interni, istituiti
dallo  Stato  e  non  di  giudici  sopranazionali  riconosciuti dalla
Repubblica  in  base a convenzioni internazionali, cosicche', neppure
se  si  segue  un'interpretazione estensiva della norma, pare potersi
assimilare  la  Corte  europea  dei  diritti dell'uomo ad un «giudice
speciale» e, conseguentemente, ritenere che le sue sentenze rientrino
tra quelle di cui parla l'art. 630, lett. a) c.p.p.
    Ne' pare potersi accogliere la strada prospettata dal procuratore
generale,  perche' anche a voler ritenere che la sentenza della Corte
europea  costituisca una «nuova prova», ai sensi dell'art. 630, lett.
c)   ne'   da   sola,  ne'  unita  alle  prove  gia'  valutate,  essa
dimostrerebbe  che  il  condannato  deve  essere  prosciolto  a norma
dell'art. 631  c.p.p.  Quella  sentenza,  infatti,  nulla aggiunge di
diverso rispetto al fatto storico apprezzato nel giudizio considerato
«non  equo,  e cio' a cui essa mira e' la ripetizione (ove possibile)
delle prove ritenute invalide.
    Emerge,  cosi',  la  rilevanza  della  questione  di legittimita'
costituzionale  sollevata.  Allo  stato,  infatti,  la corte dovrebbe
dichiarare  l'istanza  inammissibile,  ai sensi dell'art. 634 c.p.p..
perche'  proposta  fuori delle ipotesi previste dall'art. 630 c.p.p.;
senza  neppure  procedere con il decreto di citazione a giudizio. Se,
invece,  la norma venisse dichiarata incostituzionale, nella parte in
cui  non  ammette  la  revisione nel caso che i fatti stabiliti nella
sentenza (o decreto) di condanna irrevocabile non possono conciliarsi
con  quelli accertati dalla sentenza irrevocabile della Corte europea
dei  diritti  dell'uomo,  allora  il  giudizio  di  revisione sarebbe
ammissibile  e  il  presidente  di  questa corte dovrebbe procedere a
norma dell'art. 636 c.p.p.
    Ritiene  il collegio che, quando l'art. 630, lett. a), del codice
di  rito,  parla  di  contrasto  tra i «fatti» stabili da due diverse
sentenze,  non  si  debba  necessariamente  intendere  l'accezione di
«fatto»  con  esclusivo  riferimento  alle circostanze storiche della
vicenda  sottoposta  a  giudizio.  E  un «fatto» anche l'accertamento
dell'invalidita' (iniquita) della prova assunta nel processo interno,
intervenuto  ad  opera del giudice sopranazionale; infatti, da questo
accertamento   puo'   dipendere   l'esclusione,   dal   novero  delle
acquisizioni  processuali,  dei  verbali  in  precedenza  entrati nel
materiale  utilizzabile  ai  fini  della decisione. «Fatto» - secondo
l'art. 187,  comma  2,  c.p.p.  -  e'  anche  quello  da  cui dipende
«l'applicazione di norme processuali».
    In   ordine  alla  fondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale   sollevata   dalla   difesa,   la  corte  la  ritiene
manifestamente  infondata  nella parte in cui eccepisce la violazione
dell'art. 111 della Costituzione.
    Invero,  subito dopo aver approvato il nuovo testo dell'art. 111,
che  ha  introdotto all'interno della Carta fondamentale il principio
del  «giusto  processo»,  lo  stesso legislatore costituzionale si e'
occupato  dei  delicati problemi di diritto transitorio che nascevano
da  quella  introduzione.  Li  ha risolti con un'altra legge di rango
costituzionale  -  la n. 2 del 23 novembre 1999 - che ha demandato al
legislatore   ordinario   l'applicazione   dei   principi   contenuti
nell'art. 111  ai procedimenti penali in corso; con cio', escludendo,
tra  l'altro,  l'applicazione degli stessi principi ai procedimenti -
come  quello  in  esame  -  gia' definiti. I principi che regolano la
successione  di  leggi  in materia processuale (tempus regit actum) e
l'intangibilita'  del  giudicato,  e  la  stessa  chiara  lettera del
legislatore  costituzionale  (ubi  lex  'dixit,  voluit,  ubi noluit,
tacuit)   escludono,   pertanto,  l'applicabilita'  del  nuovo  testo
dell'art. 111 ai casi come quello di Dorigo.
    La   prima  norma  della  Costituzione  rispetto  alla  quale  la
questione   di   legittimita'  sollevata  non  appare  manifestamente
infondata  e'  l'art. 3. Se il principio d'uguaglianza va inteso come
princpio  di  ragionevolezza  e di non ingiustificata discriminazione
tra  casi  uguali  o simili, allora l'art. 630, lett. a), c.p.p., che
prevede la rilevanza - ai fini dell'aminissibilita' della revisione -
del  contrasto  tra  i fatti stabiliti dalla sentenza (o dal decreto)
penale  di  condanna  ed  i  fatti stabiliti nella sentenza penale di
altro  giudice,  sembra  violare  quel  principio, nella parte in cui
esclude,  dai  casi di revisione, la sentenza della Corte europea dei
diritti  dell'uomo  emessa  ai  sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della
Convenzione europea.
    Come  si  e'  gia'  rilevato,  per «fatto» non deve semplicemente
intendersi il fatto storico all'origine della vicenda processuale, ma
anche  l'accertamento  della  invalidita' di una prova del precedente
giudizio,  essendo  questo un fatto «dal quale dipende l'applicazione
di norme processuali», che determina il venir meno della legittimita'
delle  prove  assunte  e,  dunque,  dei  fatti  sui quali la sentenza
interna di condanna si e' fondata.
    La  situazione  in  esame  non  e'  assimilabile  al  caso di una
modifica  della disciplina processuale intervenuta successivamente al
giudizio in cui la prova di cui si tratta e' stata acquisita, perche'
il  giudizio  della Corte europea prescinde da modifiche legislative;
esso   consiste  in  un  raffronto  tra  la  normativa  convenzionale
previgente  (art. 6,  Conv.)  e  quella  interna, ed entra nel merito
della  legittimita'  delle  prove gia' acquisite e, dunque, dei fatti
accertati  dalla  sentenza  di  condanna  irrevocabile, dimostrandone
l'inconsistenza.  Dunque,  casi che hanno alla base la medesima rado,
vengono trattati diversamente.
    La  seconda norma costituzionale che appare violata e' l'articolo
10,  alla  stregua  del  quale  «l'ordinamento  giuridico italiano si
conforma   alle   norme   del   diritto  internazionale  generalmente
riconosciute».  La  frase e' stata intesa nel senso dell'adattamento,
di  tipo  automatico, delle nostre norme alle (sole) disposizioni del
diritto   internazionale   consuetudinario.   In   dottrina   si   e'
autorevolmente  affermato  che alcune norme della Convenzione di Roma
del  1950,  «anzi, alcune specifiche garanzie (in esse) contenute ...
siano  effettivamente  riproduttive di analoghe norme consuetudinarie
esistenti  nella  comunita'  internazionale»1).  In  particolare, tra
queste  garanzie sono state individuate quelle previste dagli artt. 2
(diritto  alla  vita),  3  (divieto  di tortura), 4 (inammissibilita'
della  condizione  di  schiavitu),  6  (presunzione d'innocenza), e 7
(irretroattivita'  della  legge penale). Si e', ancora, osservato che
la  particolare  importanza  di  queste  norme  e' sottolineata dalla
stessa  Convenzione,  che  le  esclude  (con l'eccezione dell'art. 6)
dalla  possibilita'  di  deroga  anche  nei casi di guerra o di altro
pericolo  pubblico  che  minacci  l'integrita'  dello Stato (art. 15,
Conv.)2).  E'  vero che la presunzione d'innocenza pare esclusa dalla
particolare  forza riconosciuta ai predetti principi, tuttavia, da un
lato,   anch'essa   e',   comunque,   annoverabile   tra   le   norme
internazionali  di carattere consuetudinario, dall'altro, non si deve
dimenticare   che   l'art. 4  del  VII  protocollo  aggiuntivo  della
Convezione,  relativo  al  divieto  di  bis  in idem afferma che tale
divieto  non  impedisce  «la  riapertura  del  processo  ... se fatti
sopravvenuti  o  nuove  rivelazioni  o  un  vizio  fondamentale nella
pocedura   antecedente   sono   in   grado  d'inficiare  la  sentenza
intervenuta (comma 2).
    Quindi,  si  precisa  (art. 4,  comma 3) che: «Non e' autorizzata
alcuna  deroga  a  presente  articolo  ai  sensi  dell'art. 15  della
Convenzione».   Sembra,   cosi',  che  quella  particolare  forza  di
resistenza  che  viene attribuita ai principi indicati in tale ultima
norma  venga,  altresi',  riconosciuta  a  quell'aspetto della tutela
dell'innocenza  che  si  sostanzia  nel diritto alla revisione di una
condanna  pronunciata in violazione delle garanzie dell'equo processo
e, per quanto specificamente qui interessa, del diritto dell'accusato
d'interrogare e fare interrogare chi lo accusa, ai sensi dell'art. 6,
comma 3, lett. d), della Convenzione europea.
    1)   Cosi'   P.   Pustorino,  Sull'applicabilita'  diretta  e  la
prevalenza   delle   norme  della  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo  nell'ordinamento  italiano,  in  Riv. int dir. uomo, 1995,
p. 34.
    2) Cfr. P. Pustorino, ibidem.
    Se,  dunque,  siamo  di  fronte  a norme che configurano garanzie
provenienti  dal  diritto  internazionale  consuetudinario  e  che si
adattano  automaticamente,  per  volere dell'art. 10, comma 1, Cost.,
nell'ordinamento  interno, allora e' chiara la violazione del dettato
costituzionale, da parte dell'art. 630, lett. a), c.p.p., nella parte
in  cui  esclude  la revisione del processo quando una sentenza della
Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  abbia  accertato  un  «vizio
fondamentale nella procedura precedente».
    A    conclusione   dell'esame   del   contrasto,   ritenuto   non
manifestamente   infondato,   dell'art. 630,   lett. a)  c.p.p.,  con
l'art. 10   della   Costituzione,   la   corte   deve   prendere   in
considerazione  un  indirizzo  giurisprndenziale  che  permetterebbe,
forse,  di  ritenere  che  il  procedimento  di  revisione,  in  caso
d'inconciliabilita' della sentenza di condanna con la pronuncia della
Corte  europea  di «non equita» della procedura, sia gia' ammissibile
con  l'attuale  assetto normativo, in modo da evitare la declaratoria
d'incostituzionalita'  della norma del codice di rito. S'intende fare
riferimento all'insegnamento della Corte di cassazione secondo cui le
norme  della  Convenzione europea del 1950 che non siano di contenuto
generico  e trovino nel diritto interno un modello normativo completo
nei  suoi  elementi  essenziali,  sono  di immediata applicazione nel
nostro  paese3).  Stando a questo indirizzo, poiche', l'art. 46 della
Convenzione  di  Roma,  sulla  forza  vincolante delle sentenze della
Corte  europea,  non  pare  un  precetto generico, e nell'ordinamento
interno  esiste  il  modello  della  revisione,  che sembra idoneo ad
accogliere   tale  precetto,  si  potrebbe  affermare  che  la  norma
internazionale  trova  automatico adattamento nel nostro ordinamento,
imponendo  l'ammissione  del  giudizio  di revisione, anche se questo
caso  non  e esplicitamente menzionato tra quelli di cui all'art. 630
c.p.p.  La  soluzione  prospettata,  non  e'  in contrasto, anzi pare
incoraggiata,  dalle  affermazioni  della stessa Corte costituzionale
contenute nella sentenza n. 10/1993. In essa, il giudice delle leggi,
pronunciandosi  sulla  legittimita'  costituzionale  di  alcune norme
relative  alla  citazione  a  giudizio  che  - secondo la censura dei
giudici di merito - non prevedevano l'obbligo di traduzione dell'atto
nella  lingua  dell'imputato  straniero,  ha affermato che il diritto
dell'accusato  di essere immediatamente informato in una lingua a lui
comprensibile, contemplato dall'art. 6 della Convenzione europea - lo
stesso  che riguarda il presente caso - andava direttamente collegato
con  la previsione dell'art. 143 c.p.p., in quanto diritto soggettivo
«direttamente  azionabile».  E,  cosi', ha salvato dalla declaratoria
d'illegittimita'  le norme del codice di rito sottoposte al vaglio di
costituzionalita' dai giudici di merito.
    Questo   collegio,   tuttavia,   di   fronte  al  dato  letterale
dell'art. 630,   lett. a)   c.p.p.,   non  e'  in  grado  di  sposare
pacificamente  la  soluzione delineata, e dovendo compiere, in questa
sede,  una  mera  delibazione  di  non  manifesta  infondatezza della
questione di legittimita' costituzionale prospettata, reputa di dover
rimettere  ogni valutazione piu' approfondita al sovrano giudizio del
giudice delle leggi.
    La  terza  violazione  delle regole costituzionali e' ravvisabile
per  contrasto  l'art. 27  Cost. Infatti, il principio secondo cui le
pene  devono  «tendere alla rieducazione del condannato», ha un senso
solo  se  si  parte  dal  presupposto  che tali pene siano inflitte a
seguito  di  un  processo giusto. Nessun condannato potra' sentire il
dovere  di rieducarsi e di riadattarsi alle regole sociali, se queste
regole  lo  hanno  condannato  secondo  un processo privo di equita';
correlativamente,  lo  Stato  non potra' pretendere dal condannato la
rieducazione  e  il  reinserimento nella societa', se lo ha giudicato
secondo regole inique. La stessa finzione retributiva della pena pare
messa  in  discussione,  nel  caso essa venga inflitta in esito ad un
processo  le cui regole non garantiscono l'innocente. Infatti, in tal
caso, la retribuzione ricade su chi, con elevata probabilita', non ha
commesso le colpe attribuitegli.
    L'art. 27   della  Costituzione  presuppone  istanze  etiche  che
trovano  contrappunto  in  regole processuali non inique. Il fatto di
non  consentire  la  revisione del processo a chi e' stato condannato
con  una procedura giudicata non equa dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo,  le  cui  decisioni  il  nostro  Paese  si  e' impegnato a
rispettare,  sembra,  pertanto, violare anche la norma costituzionale
che presidia la corretta finzione della pena.
    In  esito  alla  disamina  della  questione,  va precisato che la
corte,  in  ossequio  alla  disposizione  di  cui  all'art. 46  della
Convenzione  del  1950, in cui e' stabilita la forza vincolante delle
sentenze   della  Corte  europea,  ed  in  considerazione  della  non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
prospettata, ha provveduto, con separata ordinanza gia' depositata, a
sospendere  l'esecuzione  della  pena  inflitta  a  Dorigo,  a  mente
dell'art. 635 c.p.p.
    3)  Cfr.,  se  non se ne e' frainteso il senso, la sentenza della
Corte  di  cassazione,  Sezioni unite, sent. 15 del 23 novembre 1988,
Rv. 181288, imp. Polo Castro.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva    la    questione    di    legittimita'   costituzionale
dell'art. 630,  lett. a) c.p.p., nella parte in cui esclude, dai casi
di  revisione,  l'impossibilita'  che  i fatti stabiliti a fondamento
della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza
definitiva  della  Corte  europea  che  abbia  accertato l'assenza di
equita'  del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo, per contrasto con gli
artt. 3, 10 e 27 della Costituzione;
    Dispone   la   trasmissione   immediata  degli  atti  alla  Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso;
    Dispone  che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  al  ricorrente  ed  al  procuratore  generale, nonche' al
presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e  ai presidenti delle due
Camere del Parlamento.
        Bologna, addi' 15 marzo 2006
                        Il Presidente: Angeli
Il consigliere estensore: Candi
06C0787