N. 459 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 maggio 2006

Ordinanza  emessa  il  10  maggio  2006  dal tribunale di Trieste nel
procedimento penale a carico di Fierro Stefano

Processo  penale  - Appello - Disciplina recata dalla legge 46/2006 -
  Inappellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento da parte del
  pubblico  ministero  [salvo  che nelle ipotesi di cui all'art. 603,
  comma 2,  cod.  proc.  pen.,  se  la  nuova  prova  e'  decisiva] -
  Inammissibilita'    sopravvenuta    dell'appello   proposto   prima
  dell'entrata  in  vigore  della  nuova normativa - Contrasto con il
  principio di ragionevolezza - Ingiustificata limitazione dei poteri
  processuali   del   pubblico   ministero  rispetto  all'imputato  -
  Violazione   dei   principi  della  parita'  delle  parti  e  della
  ragionevole  durata  del  processo - Ingiustificata deroga (per gli
  appelli gia' proposti) al principio tempus regit actum.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della  legge 20 febbraio 2006, n. 46; decreto legislativo 28 agosto
  2000,   n. 274,  art. 36,  comma 1,  come  modificato  dall'art. 9,
  comma 2,  della  legge  20 febbraio  2006, n. 46; legge 20 febbraio
  2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.44 del 8-11-2006 )
                            IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento penale n. 5/2006 RG Appello, a carico di Fierro
Stefano,  nato il 6 ottobre 1970 a Trieste, imputato come in atti, ha
emesso la seguente ordinanza.
    Il  tribunale,  recependo integralmente le motivazioni di analoga
ordinanza  della  Corte di appello di Trieste, che condivide in toto,
formula   d'ufficio   l'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 10,   legge   20   febbraio  2006,  n. 46,  in  riferimento
all'art. 593  c.c.p.  (come  modificato  dall'art. 1  della  medesima
legge),  e  all'art. 36, comma 1, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (come
modificato  dall'art. 9  comma 2 della medesima legge) per violazione
del  principio  della  parita'  delle  parti  nel  processo  e  della
ragionevole durata del processo sanciti dall'art. 111 Cost.
    Ritiene  il  tribunale  che la predetta questione di legittimita'
costituzionale  e'  rilevante  e  non  manifestamente  infondata, nei
termini appresso indicati.
    Sotto  il  profilo  della  rilevanza e', infatti, evidente che il
tribunale,  in  applicazione  della  sopravvenuta  normativa  di  cui
all'art. 10  cit., legge n. 46 del 2006 in rif. all'art. 593 c.c.p. e
all'art. 36,  comma 1, d.lgs. n. 274/2000, dovrebbe definire il grado
di  giudizio  mediante  pronuncia  di  ordinanza  non  impugnabile di
inammissibilita',  di  talche'  verrebbe  ad  essere precluso l'esame
delle questioni di merito proposte con l'interposto gravame.
    Sotto  il  diverso  profilo della non manifesta infondatezza, non
par  dubbio  alla  Corte  che  la  menzionata  normativa  si ponga in
contrasto con i parametri degli artt. 3 e 111 Cost.
    A tale riguardo conviene ricordare che nella giurisprudenza della
Corte  costituzionale  e' stato piu' volte «ribadito che il principio
della  parita'  tra  accusa  e  difesa  non  comporta necessariamente
l'identita'  tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato   e   del   suo   difensore»  ed  e'  stato,  altresi',
sottolineato  come  una  diversita'  di  trattamento  rispetto a tali
poteri  possa  risultare  giustificata  sia dalla peculiare posizione
istituzionale  del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso
affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla corretta amministrazione
della  giustizia:  ma, in ogni caso, il diverso trattamento riservato
al  pubblico  ministero,  per  essere conforme a Costituzione, dovra'
trovare  una  ragionevole  motivazione  proprio  in  quella peculiare
posizione   o   in  quella  funzione  o  in  quelle  esigenze  appena
richiamate» (Corte cost. sent. n. 363 del 1991).
    In  base  a  tale  orientamento,  la  Corte  ha,  in particolare,
costantemente  ritenuto  che l'art. 443, comma 3, c.c.p., nella parte
in  cui  non  prevede  la  possibilita'  per il pubblico ministero di
proporre  appello avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di
giudizio  abbreviato, salvo che si tratti di sentenza che modifica il
titolo del reato, non contrasta con l'art. 111, secondo comma, Cost.,
come  inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che
ha  conferito veste autonoma ad un principio, quale quello di parita'
delle  parti,  pacificamente  gia'  insito  nel pregresso sistema dei
valori  costituzionali,  trovando  tale  preclusione  giustificazione
«nell'obiettivo  primario  di  una  rapida e completa definizione dei
processi  svoltisi  in primo grado secondo il rito alternativo di cui
si   tratta:  rito  che  -  sia  pure,  oggi,  per  scelta  esclusiva
dell'imputato  -  implica  una  decisione  fondata,  in  primis,  sul
materiale  raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata,
fuori delle garanzie del contraddittorio» (ord. n. 21 del 2001; nello
stesso  senso, ord. n. 363 del 1991, n. 373 del 1991, n. 305 del 1992
e n. 165 del 2003).
    Orbene,  l'esame della relazione di accompagnamento alla proposta
di  legge  (Camera  dei  deputati  n. 4604)  rende  evidente  che  la
limitazione  dei poteri processuali del pubblico ministero, lungi dal
venire   giustificata   in  ragione  della  sua  peculiare  posizione
istituzionale,  o  della  funzione  ad  esso  affidata  ovvero  delle
esigenze  connesse  alla corretta amministrazione della giustizia, e'
stata   ricondotta  esclusivamente  alla  necessita'  di  adeguamento
dell'ordinamento   interno   al   principio  sancito  dal  Protocollo
addizionale  n. 7  alla  Convenzione  per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22.
novembre  1984,  reso esecutivo dalla legge 9 aprile 1990, n. 98, che
«all'art. 2  statuisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in
materia  penale  per  chiunque  venga  dichiarato  colpevole  di  una
infrazione  penale  da  un  tribunale»,  e  cio' sul rilievo che tale
principio  «allo  stato  e' reso vano dal vigente codice di procedura
penale  nella  parte in cui, prevedendo che possa essere impugnata la
sentenza di primo grado di proscioglimento dell'imputato da parte del
pubblico  ministero,  in  caso  di  sentenza  di  condanna in sede di
gravame,  non concede la possibilita' di ottenere un secondo grado di
giudizio  nel merito in favore del condannato, che ne avrebbe diritto
in forza del principio esposto».
    Le  ragioni  addotte  a  fondamento della disciplina normativa in
esame  appaiono alla Corte non solo estranee a quelle che legittimano
una  limitazione  dei  poteri  processuali  del pubblico ministero ma
anche del tutto prive di fondamento.
    Ed,  infatti,  la  Corte  costituzionale, mentre ha ripetutamente
affermato  che  «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma
oggetto  di  garanzia  costituzionale»  (sent. n. 117 del 1973; sent.
n. 62  del  1981;  sent. n. 301 del 1986; n. 543 del 1989, n. 438 del
1994;  ord.  n. 421 del 2001) ha ritenuto che «il tenore dell'art. 2,
comma  1,  del  Protocollo  addizionale  n. 7,  anche  attraverso  il
confronto   con   quanto   gia'  disposto  in  tema  di  impugnazioni
dall'art. 14,  comma  1, del patto internazionale relativo ai diritti
civili  e  politici  del 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con
legge  25 ottobre 1977, n. 881, non legittima una interpretazione per
cui  il  riesame  ad opera di un tribunale superiore debba coincidere
con un giudizio di merito. La formulazione dell'art. 2, nel demandare
al  legislatore  interno  ampi spazi per la disciplina dell'esercizio
del  diritto all'impugnazione, non esclude, infatti, che il principio
si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione, gia' previsto
dalla Costituzione italiana».
    Ne',  secondo  la  Corte,  varrebbe  sostenere  che,  essendo  la
ricorribilita'   in  Cassazione  gia'  prevista  dalla  Costituzione,
l'art. 2, comma 1, della Convenzione avrebbe introdotto il diritto ad
un secondo giudizio di merito, poiche' in tal modo si incorrerebbe in
un  palese  vizio  logico  «in quanto la norma convenzionale verrebbe
interpretata  alla  luce del diritto interno, come se la disposizione
pattizia  avesse  il  ruolo  di  riempire  i  vuoti  dell'ordinamento
nazionale.  Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione
con   l'ordinamento   costituzionale   italiano,   alla   luce  della
consolidata  giurisprudenza  di questa Corte in tema di non rilevanza
costituzionale  della  garanzia  del  doppio  grado di giurisdizione»
(sent. n. 288 del 1997).
    Cio'   posto,  appare  evidente  che  la  nuova  disciplina  crea
un'irragionevole  disparita' di trattamento, rilevante ai sensi degli
artt. 3 e 111 Cost., a sfavore del pubblico ministero, disparita' che
non  puo'  trovare  giustificazione  nel  fatto  che  la proposizione
dell'appello  sia  formalmente  preclusa  ad  entrambe  le parti, ben
diverso  essendo  il  rispettivo  interesse  sostanziale  a  proporre
impugnazione   avverso   sentenza   di  proscioglimento,  ne'  appare
legittimata da alcun'altra apprezzabile esigenza.
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale del cit. art. 10,
legge n. 46 del 2006 in riferimento ai novellati artt. 593 cod. proc.
pen. e   36,   comma  1,  d.lgs.  n. 274/2000  appare,  inoltre,  non
manifestamente   infondata  anche  sotto  il  diverso  profilo  della
violazione  del  parametro  della  ragionevole  durata  del  processo
sancito dall'art. 111, comma 2, seconda ipotesi, Cost.
    Va,  invero,  rilevato  che, nell'ipotesi di ingiusta sentenza di
proscioglimento  e  di  conseguente impugnazione accolta, il percorso
processuale   ordinario   imposto  dalla  nuova  normativa  si  snoda
attraverso non meno di cinque gradi di giudizio (assoluzione in primo
grado,  annullamento  della  Cassazione,  condanna  in  primo  grado,
conferma  in appello, rigetto del ricorso in Cassazione), laddove nel
precedente  sistema esso si completava in soli tre gradi (assoluzione
in   primo   grado,  riforma  in  appello,  rigetto  del  ricorso  in
Cassazione).
    L'allungamento  dei tempi processuali che ne deriva - e dunque la
compressione del principio, a rilevanza costituzionale, di efficienza
del   processo   -   risulta   ancora   piu'  sensibile  e  privo  di
giustificazione  se si considera che con la recente legge n. 251/2005
sono  stati  ridotti i termini di prescrizione per numerosi reati, in
ordine  ai  quali  dunque l'iter processuale innescato da un'ingiusta
sentenza  di  proscioglimento  pare  destinato  a concludersi con una
sentenza  dichiarativa  della  prescrizione,  piuttosto  che  con una
sentenza definitiva che accerti nel merito la penale responsabilita'.
    La  violazione  del  principio di ragionevole durata del processo
appare  ancora piu' evidente qualora, come appunto nella fattispecie,
debba  farsi  applicazione della disciplina transitoria contenuta nel
cit. art. 10, legge n. 46 del 2006.
    Detta  disposizione,  la  quale  tratteggia la sorte dei processi
pendenti  in  sede  di  gravame in forza di un appello legittimamente
presentato  dal pubblico ministero, destinandoli ad un'indiscriminata
declaratoria  d'inammissibilita'  e  ad  un  successivo  ricorso  per
Cassazione  da  parte del pubblico ministero avverso l'assoluzione di
primo  grado,  aggiunge ulteriori motivi di violazione del principio,
gia' intaccato dal nuovo disegno normativo, di ragionevole durata del
processo.
    Ed,  infatti,  il nuovo sistema normativo, derogando al principio
tempus  regit  actum  che  governa  la  materia processuale, non solo
sacrifica   ineludibilmente   un   atto  di  gravame  tempestivamente
proposto,  costringendo  la parte interessata a presentarne un altro,
ma  comporta  l'inevitabile  differimento della presentazione di esso
all'eseguita   notifica  del  provvedimento  di  inammissibilita'  e,
pertanto,  ad  un  termine  futuro ed incerto, considerati i tempi di
fissazione  dei  processi  di appello normalmente scanditi in base ai
termini  prescrizionali  misurati  sui tre gradi del giudizio, sinora
fisiologici.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'   costituzionale  dell'art. 593  cod.  proc.  pen. (come
modificato   dall'art. 1   della  legge  20  febbraio  2006,  n. 46),
dell'art. 36,   comma   1,   d.lgs.   n. 274/2000   (come  modificato
dall'art. 9,  comma  2  della  legge  20  febbraio  2006,  n. 46),  e
dell'art. 10  della  medesima  legge  n. 46/2006, in riferimento agli
artt. 3 e 111 Cost.;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale, sospendendo il giudizio in corso;
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata
ai   Presidenti   della  Camera  dei  deputati  e  del  Senato  della
Repubblica.
        Cosi' deciso in Trieste, il 10 maggio 2006.
                        Il giudice: Dainotti
06C0960