N. 473 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 giugno 2006

Ordinanza  emessa  l'8  giugno 2006 dalla Corte di appello di Palermo
nel procedimento penale a carico di Argento Franco

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione,   salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'art. 603,  comma 2,  se  la nuova prova e' decisiva - Contrasto
  con  il  principio  di ragionevolezza - Violazione del principio di
  parita' delle parti nel processo.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46,
  art. 10.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
(GU n.45 del 15-11-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  camera  di  consiglio  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza.
    Decidendo sull'eccezione. formulata dal p.g. all'udienza odierna,
concernente la legittimita' costiiuzionale dell'art. 593 c.p.p., come
modificato  dall'art.  1  legge  n. 46/2006.  e  dell'art.  10  della
medesima   legge,   in  relazione  agli  artt. 3,  111  e  112  della
Costituzione,  per violazione dei principi di eguaglianza. di parita'
delle parti nel processo, e di obbligatorieta' della azione penale:
    Sentito il difensore dell'imputato;

                            O s s e r v a

    Con  sentenza  del  tribunale  di Agrigento, del 1° febbraio 2005
Argento Franco e' stato assolto dal reato ascrittogli.
    Avverso la sentenza ha proposto appello il procuratore generale.
    In  data  9  marzo 2006 e' entrata in vigore la legge 20 febbraio
2006,  n. 46  il cui art. 1 ha modificato l'art. 593 c.p.p. limitando
la  possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro
le sentenze di proscioglimento alla sola ipotesi di cui all'art. 603,
comma 2 c.p.p., «se la nuova prova e' decisiva».
    In  tale  residuale  ipotesi  il  giudice,  ove  non  disponga la
rinnovazione  dell'istruttoria dibattimentale, dichiara con ordinanza
l'inammissibilita'  dell'appello  e  le  parti, entro 45 giorni dalla
notifica  del  provvedimento, possono proporre ricorso per cassazione
anche contro la sentenza di primo grado.
    L'art. 10 nel dettare la disciplina transitoria, dispone al comma
2  che  «l'appello  proposto  contro  una sentenza di proscioglimento
dall'imputato o del pubblico ministero prima della data di entrata in
vigore  della  presente  legge dichiarata inammissibile con ordinanza
non  impugnabile»  ed  al comma 3 che «entro 45 giorni dalla notifica
del  provvedimento  di inammissibilita' di cui al comma 2 puo' essere
proposto ricorso per cassazione contro le sentenze di primo grado».
    Ne  consegue  che  in  applicazione della legge n. 46 del 2006 la
Corte,   nel   presente  giudizio.  dovrebbe  emettere  ordinanza  di
inammissibilita'  dell'appello  proposto dal p.m. avverso la sentenza
di assoluzione degli imputati.
      Deve  preliminarmente  evidenziarsi  la  palese rilevanza della
questione  di  legittimita'  costituzionale  proposta  in  quanto  la
normativa  indicata, come gia' esposto, e' applicabile in forza della
disciplina transitoria anche al presente giudizio.
    Il  profilo  di illegittimita' costituzionale dedotto dal p.g. in
riferimento  al  ritenuto  contrasto del nuovo art. 593 c.p.p. con il
principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  (art. 112 della
Costituzione) e' manifestamente infondato.
    La  tesi  del  p.g.  secondo cui l'obbligo di promuovere l'azione
penale  ricomprende  anche  il  potere  di  impugnazione del pubblico
ministero   e'   stata   gia'   piu'   volte   respinta  dalla  Corte
costituzionale  che  ha  escluso  la  violazione  dell'art. 112 della
Costituzione  «non costituendo il potere di impugnazione del pubblico
ministero   una   estrinsecazione   necessaria  dei  poteri  inerenti
all'esercizio  dell'azione  penale»  (cfr. ordinanze n. l10 e 165 del
2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
    Gia'  con  sentenza  n. 280 del 1995 la Corte ha invero affermato
che  «il potere di appello del pubblico ministero non puo' riportarsi
all'obbligo  di  esercitare  l'azione  penale come se di tale obbligo
esso  fosse  -  nel  caso  in  cui  la  sentenza di primo grado abbia
disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione
necessaria  ed ineludibile», rilevando altresi' che «tutto il sistema
delle  impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello ... depone
nel  senso  che  il potere del pubblico ministero di proporre appello
avverso  la  sentenza  di primo grado anche se in certe situazioni ne
possa   apparire   istituzionalmente  doveroso  l'esercizio,  non  e'
riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale».
    Il   principio  dell'obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione
penale,  costituzionalmente  previsto  e  garantito,  non puo' dunque
invocarsi  con  riferimento  alla  proposizione,  solo discrezionale,
dell'appello  da parte del pubblico ministero contro una sentenza che
abbia  ritenuto  infondata  la  sua  pretesa  punitiva. specie ove si
consideri  che  la mancata impugnazione non deve in alcun modo essere
motivata e ad essa, se proposta, puo' persino rinunciarsi.
    Rileva   invece   la  Corte  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  593 in riferimento al principio di parita'
delle  parti  (artt. 3 e 111, comma 2 prima parte della Costituzione)
non  appare  manifestamente  infondata  nei  limiti in cui il giudice
ordinario deve effettuare il suo preliminare esame, senza interferire
con  i  poteri propri della Corte di legittimita' cui e' demandato in
via  esclusiva  il  compiuto  giudizio  in ordine alla compatibilita'
costituzionale della normativa.
    E'  noto  che la questione limitiazione del potere di appello del
p.m.  e'  gia'  stata  affrontata  dalla  Corte  costituzionale,  con
specifico riferimento al giudizio abbreviato.
    L'art.  443,  comma  3  c.p.p.  prevede  infatti  che il pubblico
ministero  non  possa proporre appello contro le sentenze di condanna
pronunciate  nel giudizio abbreviato salvo che tratti di sentenza che
modifica il titolo del reato.
    Con  l'ordinanza  n. 165  del  2003  la  Corte  ha  dichiarato la
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  443,  comma  3, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3,
24, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione.
      La  Corte  costituzionale  ha  evidenziato,  in  riferimento al
dedotto contrasto della disposizione impugnata cui gli artt. 3 e 111,
secondo  comma, Costituzione, che il principio di parita' delle parti
«non  comporta  necessariamente  l'identita' tra i poteri processuali
del  pubblico  ministero e quelli dell'imputato», affermando tuttavia
che  una  disparita'  di trattamento puo' risultare giustificata «nei
limiti   della   ragionevolezza   sia   dalla   peculiare   posizione
istituzionale  del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso
affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla corretta amministrazione
della giustizia».
    Con  la  conseguenza  che,  nel  caso del giudizio abbreviato, il
limite   all'appello   della   parte   pubblica  continua  a  trovare
ragionevole  giustificazione  nell'obiettivo  primario della rapida e
completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con un rito
che   implica   una  decisione  fondata,  in  primis,  sul  materiale
probatorio   raccolto   dalla   parte   che  subisce  la  limitazione
denunciata,  fuori  delle  garanzie  del  contraddittorio (cfr. anche
ordinanza  n. 347  del  2002;  e,  con  riferimento al solo art. 111,
secondo comma, Costituzione, ordinanza n. 421 del 2001).
    E'  dunque la rinuncia da parte dell'imputato ad uno dei principi
del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a
giustificare  la  disparita'  di  trattamento che l'art. 443, comma 3
c.p.p.  produce  privando  il  p.m.  della  facolta'  di appellare la
sentenza di condanna a seguito di giudizio abbreviato.
    Non  sembra  dunque  che  la  Corte abbia finora mai affermato il
principio  della  conformita'  costituzionale  di  una  disparita' di
poteri  fondata  solo  sulla  diversa  qualita' della parte (pubblico
ministero  o  imputato),  avendo invece sempre affermato il principio
opposto  secondo  cui  occorre  dare  conto delle ragioni che rendono
razionale a differenziazione nei casi di volta in volta sottoposti al
suo vaglio.
    E'  stato  pertanto  affermato il principio che una disparita' di
trattamento  riguardo  ai  poteri  processuali del pubblico ministero
puo'  essere  giustificata  nei  limiti  della  ragionevolezza  dalla
peculiare  posizione  istituzionale  del  pubblico  ministero,  dalla
funzione  allo  stesso  affidata,  ovvero infine da esigenze connesse
alla corretta amministrazione della giustizia.
    La  Corte  di legittimita' sin dal 1991 (cfr. n. 363 del 1991) ha
ritenuto  costituzionalmente  compatibile  una  differenziazione  dei
poteri   processuali   del   pubblico  ministero  rispetto  a  quelli
dell'imputato  e  del  suo  difensore, sottolineando tuttavia che «in
ogni  caso il diverso trattamento riservato al pubblico ministero per
essere  conforme  a  Costituzione,  dovra'  trovare  una  ragionevole
motivazione»  proprio  nella  peculiare  posizione  istituzionale del
pubblico  ministero,  nella  funzione  allo  stesso  affidata,  nelle
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
    Anche  con  l'ordinanza  n. 110 del 2003 e' stato ribadito che il
principio  di parita' tra accusa e difesa di cui all'art. 111 comma 2
della  Cosituzione,  riconosciuto  peraltro  come «pacificamente gia'
presente  fra  i  valori  costituzionali  anche prima delle modifiche
apportate   dalla  legge  costituzionale  n. 2  del  1999»,  pur  non
comportando  necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del
pubblico  ministero e quelli delle altre parti, e' rispettato solo se
una   diversita'   di   trattamento   sia  stabilita  ragionevolmente
nell'ambito delle scelte discrezionali del legislatore, in proprio in
ragione   della   peculiare   posizione  istituzionale  del  pubblico
ministero.
    In  tal senso si e' espresso anche il Presidente della Repubblica
nel  messaggio  con  il  quale  il  20  gennaio  2006  ha rinviato al
Parlamento   la   legge   sull'inappellabilita'   delle  sentenze  di
proscioglimento  dopo la sua prima approvazione, laddove si evidenzia
come  la  soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento
«a  causa  della  disorganicita'  della  riforma fa si' che la stessa
posizione  delle  parti nel processo venga ad assumere una condizione
di  disparita'  che  che  supera quella compatibile con la diversita'
delle   funzioni  svolte  dalle  parti  stesse  nel  processo»  e  si
sottolinea    che    «le    assimmetrie    tra    accusa   e   difesa
costituzionalemente  compatibili  non devono mai travalicare i limiti
fissati  dal  secondo comma dell'art. 111 della Costituzione, a norma
del  quale "Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti,
in condizioni di parita' davanti a giudice terzo e imparziale"».
    Orbene, la soppressione dei potere di impugnazione delle sentenze
di proscioglimento da parte del p.m. introdotto dalla legge n. 46 del
2006,  salva  la  residuale,  e certamente eccezionale, ipotesi della
scoperta   di   una   prova  nuova  e  decisiva  nel  limitato  tempo
intercorrente  tra  la deliberazione della sentenza e la scadenza del
termine per appellare, non sembra trovare ragionevole giustificazione
nei   limiti   richiesti   dalle   richiamate  pronunce  della  Corte
costituzionale.
    La  riforma  infatti  sottrae  solo ad una parte lo strumento del
nuovo  giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della
sua  pretesa  punitiva,  violando il principio sancito dall'art. 111,
comma  2  della Costituzione che prevede che il processo si svolga in
condizione  di  parita'  tra le parti, assicurando a ciascun soggetto
processuale  eguali  strumenti  per  raggiungere  gli  obiettivi suoi
propri, dovendo tale principio essere inteso nel senso piu' ampio con
riferimento alla pronuncia conclusiva sulla propria domanda.
    Risulta  invero  oltremodo  riduttivo  ritenere  che il principio
della  parita'  tra  le  parti  di  cui  all'art. 111,  comma 2 della
Costituzione   sia  previsto  solo  con  riferimento  alla  fase  del
dibattimento   ed   all'acquisizione   della  prova,  dovendo  invece
ritenersi  che esso tuteli il diritto all'intervento dialettico delle
parti  in  ogni  fase  del  giudizio  e  dunque anche il diritto alla
critica  in condizioni di parita' della decisione finale del giudizio
che appaia insoddisfacente per l'una o per l'altra parte.
    Lo  squilibrio  fra  le parti introdotto dalla riforma non appare
ragionevolmente  compatibile  con  i  criteri  che  la  stessa  Corte
costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Non  sembra  esservi  infatti  alcuna ragionevole giustificazione
della disparita' nell'attribuzione del potere di impugnazione, finora
riconnessa,   come   nell'ipotesi   gia'  esaminata  dalla  Corte  di
legittimita'  del  giudizio  abbreviato, a istituti deflattivi in cui
rinunce  dell'imputato  producono  il  risultato  apprezzabile  della
definizione piu' sollecita del processo.
    Giova  peraltro  evidenziare  che l'avere lasciato esclusivamente
all'imputato  lo  strumento di un nuovo giudizio di merito per vedere
riconosciuta  la  propria  innocenza  sembra contrastare con i canoni
della  ragionevolezza  anche  in  considerazione del fatto che, in un
sistema  nel  quale  «il  doppio grado di giurisdizione di merito non
forma  oggetto di garanzia costituzionale» (cfr. ordinanza n. 421 del
2001), «non e' la doppia istanza che garantisce la completa diesa, ma
piuttosto la impossibilita' di prospettare al giudice ogni domanda ed
ogni  ragione  che non siano legittimamente precluse» (cfr. ordinanza
n. 316 del 2002).
    Si  osserva  che  la  indispensabilita' di un secondo giudizio di
merito   troverebbe   fondamento   nell'art.  2  del  VII  Protocollo
addizionale  alla  Convenzione  europea per la salguardia dei diritti
dell'uomo,  firmato  a  Strasburgo  il  22  novembre  1984, rubricato
«Diritto  ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale», che
al  suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata
rea da un tribunale di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o la condanna da un tribunale della giurisdizione la superiore».
    Ma  a tale osservazione si obietta fondatamente che e' proprio la
medesima  fonte  internazionale  a  prevedere  il  riconoscimento del
«diritto  ad  un  doppio grado di giurisdizione» anche a favore della
parte pubblica, se e' vero che il secondo comma del menzionato art. 2
sancisce  che  il  diritto al secondo giudizio di merito «puo' essere
oggetto  di  eccezioni»,  tra  l'altro,  proprio  nell'ipotesi in cui
l'imputato  «e'  stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di
un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    Se  dunque  il legislatore consente ad una parte di sottoporre la
decisione   ad   un   controllo   critico  da  parte  di  un  giudice
sovraordinato,  tale  diritto  non  puo'  non essere assicurato anche
all'altra   parte,   salvo  che  sussistano  ragionevoli  motivi  che
legittimino la disparita' di trattamento.
    Il  contrasto  con il canone della ragionevolezza emerge altresi'
dal   rilievo  -  anch'esso  sottolineato  nel  menzionato  messaggio
Presidenziale  del  20  gennaio  2006 (Un'ulteriore incongrita' della
nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico ministero totalmente
soccombente  non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito
quando  la  sua  soccombenza  sia  solo parziale, avendo ottenuto una
condanna  diversa  da  quella richiesta») - che la nuova normativa fa
salvo  il potere del p.m. di appellare la sentenza di condanna ad una
pena  ritenuta  inadeguata.  laddove  e'  incontestabile  il maggiore
interesse  della  parte  pubblica  ad appellare la sentenza che abbia
respinto l'istanza punitiva.
    Ne'  pare  conducente  l'osservazione  secondo  cui  la  modifica
apportata  dall'art. 5  legge  n. 46  del  2006  all'art. 533 comma 1
c.p.p.,  nella  parte in cui impone che il giudice pronuncia sentenza
di  condanna  solo  se l'imputato risulta colpevole «al di la di ogni
ragionevole  dubbio»,  giustificherebbe la soppressione del potere di
appello della sentenza assolutoria da parte del p.m., sul rilievo che
non  puo'  ammettersi  la  condanna  di  un  imputato pronunciata dal
giudice  di appello dopo che il giudice di primo grado lo ha assolto,
cosi'  ritenendo sussistente almeno il «ragionevole dubbio» della sua
colpevolezza.
    La  regola  introdotta  dalla  nuova  legge, invero, non presenta
sostanziali  caratteri di novita' rispetto alla previgente disciplina
limitandosi  a prevedere espressamente sul piano nornativo quanto era
stato  gia'  affermato  in  giurisprudenza  anche dalle sezioni Unite
della    Suprema    Corte    in    ordine    alla    riconducibilita'
dell'insufficienza.   della   contraddittorieta'   e  dell'incertezza
probatoria,  previste  dall'art. 530 comma 2 c.p.p., al «plausibile e
ragionevole dubbio» (cfr. Sez. unite sent. n. 3028 del 2002).
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della lege 11 marzo 1953 n. 87, 159 c.p.p.
    Dichiara      manifestamente     infondata     l'eccezione     di
incostituzionalita' dell'art. 593 c.p.p.. come modificato dall'art. 1
legge  n. 46/2006,  e dell'art. 10 della medesima legge, in relazione
all'art. 97 e 112 della Costituzione;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 593  c.p.p..  come modificato
dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, e dell'art. 10 della medesima
legge,  in  relazione agli artt. 3 e 111, comma 2 della Costituzione,
nei termini di cui alla motivazione.
    Sospende  il  giudizio  in  corso e i termini di prescrizione del
reato.
    Dispone  la  trasmissione  degli  atti alla Corte costituzionale,
ordinando  alla  cancelleria  di  notificare la presente ordinanza al
Presidente  del Consiglio dei ministri e di comunicarla ai Presidenti
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Palermo, addi' 8 giugno 2006
                      Il Presidente: La Commare
06C0991