N. 484 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 marzo 2006

Ordinanza   emessa   il   21   marzo   2006   (pervenuta  alla  Corte
costituzionale il 10 ottobre 2006) dalla Corte di appello di Cagliari
-  Sezione distaccata di Sassari, nel procedimento penale a carico di
Ghisu Sebastiano ed altri

Processo  penale  -  Appello  -  Modifiche  normative - Previsione di
  limiti  al  potere  d'appello  del  pubblico  ministero  contro  le
  sentenze  di  proscioglimento nel giudizio ordinario e nel giudizio
  abbreviato  -  Disparita' di trattamento tra la parte pubblica e le
  parti private - Violazione del principio di parita' delle parti nel
  processo   -   Contrasto   con   i   principi  dell'obbligatorieta'
  dell'azione penale e della finalita' rieducativa della pena.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, artt. 1, 2 e 10.
- Costituzione, artt. 3, 27, comma terzo, 111 e 112.
(GU n.45 del 15-11-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento penale
contro:
        1)  Ghisu Sebastiano, nato a Bitti il 10 giugno 1955 ivi res.
via G. B. Vico n. 2;
        2)  Farre Giuseppe, nato a Bitti il 17 febbraio 1978 ivi res.
via Monte Zebio n. 2;
        3)  Orunesu  Pietro, nato a Sassari il 27 ottobre 1976 res. a
Bitti, via Buggerru n. 26;
        4)  Malduca  Sandro,  nato a Sassari il 22 giugno 1976 res. a
Bitti, via Firenze n. 2;
        5)  Calvisi Gianfranco, nato a Nuoro il 13 giugno 1977 res. a
Bitti, via Brigata Sassari n. 141.
    Appellanti: il p.m. c/o il Tribunale di Nuoro e i difensori.
    Dalla  sentenza  n. 24  in  data 17 gennaio 2005 del Tribunale di
Nuoro,  con  la quale: visti gli artt. 62-bis, 69, 81 cpv. c.p., 521,
533,  535  c.p.p. dichiara Ghisu Sebastiano, Farre Giuseppe e Malduca
Sandro  colpevoli  del  reato  di  cui  all'art. 609-bis  c.p., cosi'
diversamente  qualificata  l'imputazione sub A) e ritenuti i fatti di
minore  gravita'  ai  sensi  del  terzo comma dell'art. 609-bis c.p.,
nonche'  il  Ghisu  colpevole  anche  del  reato  di  cui al capo C),
riconosciute  in  favore  dei  soli  Farre  e  Malduca  le attenuanti
generiche, ritenuti i reati ascritti al Ghisu uniti dal vincolo della
continuazione,   condanna   il  predetto  Ghisu,  con  la  contestata
recidiva,  alla  pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione, il Farre e il
Malduca ciascuno alla pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione.
    Dichiara inoltre Orunesu Pietro colpevole del reato continuato di
cui  al capo D), Farre Giuseppe colpevole del reato continuato di cui
al capo E), Malduca Sandro colpevole dei reati a lui ascritti ai capi
F),  G), H), I), J) e K), ritenuti gli stessi uniti dal vincolo della
continuazione,  e  riconosciute  al  Farre e al Malduca le attenuanti
generiche,   ritenute   per  il  Malduca  equivalenti  all'aggravante
contestata  per  il  capo  K),  condanna l'Orunesu, con la contestata
recidiva,  alla  pena  di  euro 70,00 di multa, il Farre alla pena di
euro 500,00 di multa e il Malduca alla pena di mesi 2 di reclusione e
quindi  tale  ultimo  imputato  in cumulo con la pena inflitta per il
reato  di  cui all'art. 609-bis c.p., alla pena complessiva di anni 2
di reclusione.
    Condanna inoltre i predetti imputati in solido al pagamento delle
spese processuali.
    Visto  l'art. 29 c.p. dichiara il Ghisu interdetto dai PP.UU. per
anni cinque.
    Visto  l'art. 163  c.p. ordina che le pene inflitte al Farre e al
Malduca rimangano sospese per i termini e alle condizioni di legge.
    Visti  gli artt. 538 e s.s. c.p.p. condanna Ghisu, Farre, Orunesu
e  Malduca al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti
civili  De  Francesco  Giuseppina  e  De Francesco Nicola, per la cui
liquidazione  rimette  le parti dinanzi al competente giudice civile,
nonche'  alla  rifusione  delle  spese  di  costituzione e difesa che
liquida  in  complessivi  euro  5.280,00  (euro 4.400,00 per la prima
posizione,  aumentata  del  20%  per  la seconda), oltre accessori di
legge.
    Visto  1'art. 530  primo e secondo comma c.p.p. assolve tutti gli
imputati  dal  reato  loro  ascritto  al capo B) perche' il fatto non
sussiste  e  Orunesu  Pietro e Calvisi Gianfranco dal reato di cui al
capo A) per non aver commesso il fatto.
        Nuoro, 17 gennaio 2005
                          Essendo imputati
Tutti:
    A) del  reato  p. e p. dall'art. 609-octies c.p. perche', riuniti
tra loro presso l'abitazione nella disponibilita' di Ghisu Sebastiano
in Bitti alla via Buffoni, partecipavano ad atti di violenza sessuale
commessi  in  danno  di  Defrancesco  Giuseppina - cui il Farre ed il
Malduca  ripetutamente toccavano il seno - trasportandola poi di peso
in  un  locale ubicato al piano sovrastante della predetta abitazione
ed appoggiandola sul pavimento di detto locale, ove le venivano tolte
le  scarpe  e  sbottonati  i  pantaloni  ed  ove il Ghisu, dopo avere
intimato  agli  altri  di andarsene, saliva sul suo corpo, baciandola
sul   collo   e  tentando  di  baciarla  sulla  bocca,  nel  contempo
percuotendola  per  vincerne  la  resistenza,  finche' la vittima non
perdeva i sensi.
    B)  del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2, 110 e 605 c.p. perche'
in  concorso  tra  loro  ed al fine di commettere il reato come sopra
contestato   al  capo  A),  privavano  Defrancesco  Giuseppina  della
liberta'   personale  costringendola  a  trattenersi  contro  la  sua
volonta'   nell'abitazione   in   Bitti  alla  via  Buffoni  per  poi
trasportarla,  priva  di  sensi,  a  bordo di un'auto ed abbandonarla
riversa sull'asfalto della via Isonzo di quel centro.
    Fatti  commessi  in  Bitti  nella  notte tra il 1° ed il 2 luglio
1999.
Ghisu Sebastiano:
    C)  del  reato  p.  e  p.  dagli  artt. 582  e  585 (in relazione
all'art. 576  n. 1)  c.p. perche' al fine di commettere il reato come
sopra  contestato  al  capo  A),  percuotendola con pugni e schiaffi,
cagionava  a  Defrancesco Giuseppina lesioni personali, consistite in
traumi   contusivi   alla   mano  destra  ed  alle  ossa  nasali,  in
escoriazioni  alla  cute laterale del collo, dalle quali derivava una
malattia della durata prevedibile di giorni sette.
    In Bitti nella notte tra il 1° ed il 2 luglio 1999.
Orunesu Pietro:
    D)  del  reato  p.  e  p. dagli artt. 61 n. 2, 81 cpv. e 612 c.p.
perche', al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi
A) e B) minacciava a Defrancesco Anna - sorella minore di Defrancesco
Giuseppina  -  ed  alle  di  lei amiche Ligios Pamela, Ligios Paola e
Giovanetti  Alessandra  un ingiusto danno, proferendo, in particolare
rivolto alla Defrancesco, la frase in lingua sarda, cosi' traducibile
in  italiano:  «adesso  vengo  a  pestarti,  anzi a tutte e quattro»;
ponendosi   subito   a  rincorrere  per  alcuni  metri  le  predette,
allontanatesi intimorite.
    In Bitti il 2 ottobre 1999. Querela sporta da Defrancesco Anna il
4 ottobre 1999.
Farre Giuseppe:
    E)  del  reato  p.  e p. dagli artt. 61 a. 2, 81 e pv. 594, commi
primo  e quarto, e 612 c.p. perche' al fine di conseguire l'impunita'
per  i  reati di cui ai capi A) e B), ed in esecuzione di un medesimo
disegno  criminoso  minacciava a Defrancesco Anna - sorella minore di
Defrancesco Giuseppina - un ingiusto danno, nel contempo offendendone
l'onore  e  il decoro, proferendo al suo indirizzo la seguente frase:
«Bagassa,  il  giorno  che  ti  trovo  da  sola,  non  lo so...». Con
l'aggravante di aver commesso l'offesa in presenza di piu' persone.
    In Bitti il 18 agosto 1999. Querela sporta da Defrancesco Anna il
30 settembre 1999.
Malduca Sandro:
    F)  del  reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2 e 612 c.p. perche', al
fine  di  conseguire  l'impunita'  per  i  reati  di  cui  A)  e  B),
nell'incrociare, alla guida di una Fiat Uno di colore bianco lungo la
piazza  Asproni  di  Bitti,  l'automobile  Fiat 600 condotta da Mannu
Loredana,  in cui viaggiava, sul sedile anteriore destro, Defrancesco
Giuseppina, effettuava una brusca manovra di sterzata per dirigere il
suo  veicolo contro la fiancata anteriore destra dell'autoveicolo ove
si  trovava  la  Defrancesco,  frenando  solo  un  attimo prima della
collisione; con cio' minacciando a quest'ultima un danno ingiusto.
    In   Bitti  il  4 agosto  1999.  Querela  sporta  da  Defrancesco
Giuseppina il 4 ottobre 1999.
    G) del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv., e 594 c.p. perche', con
piu'   azioni   esecutive   di   un   medesimo   disegno   criminoso,
nell'incontrare  Defrancesco  Anna  nella piazza Asproni di Bitti, ne
offendeva  l'onore  e  il  decoro,  rivolgendo  al  suo  indirizzo le
espressioni:  «Bottana,  cogliona»; reiterando le medesime ingiurie a
distanza  di alcune ore, nell'incontrare la Defrancesco, sempre nella
piazza  Asproni di Bitti. Con l'aggravante di avere commesso l'offesa
in presenza di piu' persone.
    In  Bitti  il  29 settembre 1999 alle ore 22,30 e il 30 settembre
1999 alle ore 00,30. Querela sporta in data 30 settembre 1999.
    H)  del  reato  p.  e  p.  dall'art. 581  c.p. perche' percuoteva
Defrancesco Anna, tirandole i capelli.
    In Bitti il 30 settembre 1999. Querela sporta in pari data.
    I)  del  reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2 e 612 c.p. perche', al
fine  di  conseguire  l'impunita' per i reati di cui ai capi A) e B),
nell'incrociare,  alla  guida  dell'autovettura  Alfa Romeo di colore
verde,  Defrancesco  Anna, che percorreva a piedi la via adiacente la
Caserma  dei  Carabinieri  di Bitti, effettuava una brusca manovra di
sterzata  e  di contemporanea accelerazione, per orientare il veicolo
in  direzione della predetta, come per volerla investire, riprendendo
subito  dopo la normale andatura di marcia; con cio' minacciando alla
Defrancesco un danno ingiusto.
    In Bitti il 12 luglio 1999. Querela sporta il 30 settembre 1999.
    J)  del  reato  p.  e  p.  dagli artt. 61 n. 2, 81 cpv., 612 c.p.
perche'  al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi
A) e B) e con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,
minacciava  a  Defrancesco  Anna un danno ingiusto, proferendo al suo
indirizzo,  rispettivamente  in  data  27 agosto  1999 e 14 settembre
1999,  le  seguenti frasi: «la prossima volta che ti trovo da sola ti
faccio  tappare la bocca per sempre», «incomincia a scavarti la fossa
che una di queste sere arriveremo».
    In Bitti il 27 agosto 1999 e il 14 settembre 1999. Querela sporta
il 30 settembre 1999.
    K)  del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2, 56 e 610 c.p. perche',
al  fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi G), H),
I)  e  J),  proferendo  all'indirizzo di Defrancesco Anna la seguente
frase: «ritira le denunce se no buschi pure tu», compiva atti idonei,
diretti   in   modo  non  equivoco  a  costringere  con  minaccia  la
Defrancesco a ritirare la querela sporta nei confronti del Malduca in
data 30 settembre 1999.
    In Bitti il 24 dicembre 1999.
    Con    la    recidiva    semplice   per   Ghisu   Sebastiano   ed
infraquinquennale per Calvisi Gianfranco e Orunesu Pietro.
    la  Corte  ritenuto che con memoria presentata in data 20 u.s. il
p.g.  ha osservato che, a seguito della entrata in vigore della legge
20  febbraio  2006  n. 46, applicabile, a norma dell'art. 10 di essa,
anche  ai  procedimenti  in  corso,  il gravame del Procuratore della
Repubblica   presso  il  Tribunale  di  Nuoro  dovrebbe  essere,  con
ordinanza   inoppugnabile  giusta  l'art. 10.2  della  legge  citata,
dichiarato  inammissibile  avendo  l'art. 2 della medesima legge reso
inappellabili  le  sentenze  di  assoluzione, e che tuttavia, essendo
ravvisabile  contrasto fra gli articoli 1, 2 e 10 della legge 46/2006
e  gli  artt. 3 e 111 della Costituzione, la corte dovrebbe rimettere
gli atti alla Corte costituzionale;
    Sentito il difensore di parte civile che si rimette e i difensori
degli imputati che chiedono il rigetto dell'eccezione;

                            O s s e r v a

    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito  dal  medesimo  articolo  111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze di assoluzione con lo stesso mezzo riconosciuto all'imputato
avverso  le  sentenze di condanna comporta l'introduzione nel sistema
delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole  disparita'  di
trattamento  che  contrasta con il richiamato principio della parita'
delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con   le   ripetute   pronunce   negative   della   Corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il  ricorso  al  rito  abbreviato  e delle peculiarita' di questo. Il
risultato  e'  quello  della  rapida  definizione dei processi penali
conseguita  attraverso  la decisione del processo solo sulla base del
materiale   probatorio   raccolto  dalla  parte  pubblica  fuori  del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato  ad  intervenire  nel delicato momento della formazione
della  prova,  in  vista  del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se
in  un  quadro  siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di
impugnazione  del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna
(e   pertanto   in   relazione   alla  quantificazione  della  pena),
altrettanto  non  pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze
di  assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante
il  perdurante  interesse della parte pubblica all'accertamento della
verita'   (e   quindi   della   responsabilita'   dell'imputato   che
dall'acclaramento  della verita' possa risultare), come d'altro canto
dimostra  il  fatto  che  e'  stata conservata al p.m. la facolta' di
appellarsi  contro  le sentenze di condanna che modifichino il titolo
del  reato.  A  proposito  del generale interesse del p.m. a proporre
appello   contro   le  sentenze  di  proscioglimento  conserva  piena
validita'  il  richiamo  contenuto nel messaggio del Presidente della
Repubblica  alle  Camere  la'  dove  si  osserva che «la soppressione
dell'appello  delle  sentenze  di  proscioglimento  ... fa si' che la
stessa  posizione  delle  parti  nel  processo  venga ad assumere una
condizione  di  disparita'  che  supera  quella  compatibile  con  la
diversita'  delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le
asimmetrie  tra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'art. 111 della Costituzione».
    Ed  e' appena il caso di notare come le osservazioni sopra svolte
debbano  valere, a maggior ragione quando, come nel caso in esame, si
verta in materia di assoluzione pronunciata ad esito di dibattimento:
in  questa ipotesi disparita' di trattamento risulta in maniera ancor
piu'  evidente  e incontestabile, dato che non e' stato salvaguardato
in  alcun  modo  l'interesse dell'ordinamento alla celere definizione
del  processo  ne', tanto meno, all'accusa, che si e' confrontata con
la  difesa  su  un  piano  di  parita',  e'  stato riconosciuto alcun
vantaggio  processuale.  Davvero  non  si  comprende come limitare la
facolta'   d'appello  del  p.m.  in  casi  come  questo  possa  dirsi
ragionevole.
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello  del p.m. contro le sentenze di assoluzione risponderebbe a
generali  esigenze  di  celerita'  del  processo, e sarebbe per altro
verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o con il
precetto  per  il  quale la colpevolezza deve essere dimostrata oltre
ogni  ragionevole  dubbio.  Quanto  alla  prima  di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato. Il principio di non colpevolezza comporta soltanto che
le  conseguenze pratiche della condanna possano discendere solo dalla
sentenza  definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa
l'iter  per  il  quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il
quale  la  colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata
oltre  ogni  ragionevole  dubbio  sembra,  invece, in questo caso, un
principio   di   lettura  equivoca,  posto  che  se  si  sostiene  la
inappellabilita'  della  sentenza  con  la  quale  un  giudice  abbia
pronunciato  assoluzione  poiche' l'eventuale successiva condanna non
potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe
altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un
giudizio  d'appello  contro una sentenza di condanna che, ad esito di
un  processo  celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che  dimostrino  con la stessa
sicurezza la colpevolezza.
    che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
assoluzione   da   parte   della   accusa   pubblica   sia   coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa,  da  far  valere tuttavia
nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi
debba  essere  evitato  (in  altri termini deve potersi esercitare la
difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel
giudizio   d'appello   l'imputato   debba   poi   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma
non  si  vede  in  che  cosa  la  celebrazione  del secondo grado del
giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa
compromettere  il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si
appellasse  al  principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi
in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato
ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
Corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art. 111  (ed anche, a questo
punto,  all'art. 3)  della Costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando  si  osservi  che  nella  stesura  definitiva  della  legge 20
febbraio  2006  n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il
diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art. 576   c.p.p.   alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista  nell'appello).  Si  deve constatare pertanto che alla parte
pubblica,   portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui  si
tornera' tra breve, e' stato del tutto irragionevolmente riservato un
potere  di  impugnazione piu' ridotto che alle parti private e questo
dato,  indubitabile, non puo' che far risaltare in maniera ancor piu'
evidente  il  vulnus  subito,  per  effetto  delle  norme che vengono
sottoposte  al giudice delle leggi, dal principio della parita' delle
parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della  verita' e quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario
interesse  della collettivita' e' espressione la previsione dell'art.
112  della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa l'emenda
del  condannato  sancita  dal  comma  terzo dell'art. 27 della stessa
Costituzione:  dalla lettura coordinata di queste due norme si ricava
che l'ufficio del pubblico ministero (parte pubblica, e quindi tenuta
al  rispetto  di  comportamenti  ispirati  a  massima  correttezza  e
moralita',  oltre  che  onerata  anche  della  ricerca degli elementi
favorevoli  all'imputato)  non  e' quello di ottuso persecutore degli
incolpati, ma di soggetto che persegue il compito, della cui primaria
importanza  si  e'  detto, di far si' che i soggetti devianti vengano
recuperati  ad  una  convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi
attraverso  i quali l'azione del Pubblico Ministero, nel rispetto del
principio  di  parita'  delle  parti,  si deve esplicare significa in
definitiva  legiferare  in  contrasto,  anche,  con le due previsioni
costituzionali ora richiamate.
      La  corte,  riconosciuta pertanto la non manifesta infondatezza
della   questione   di   legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione  del  processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
degli  imputati  nei  termini  sollecitati dall'appellante pubblico),
dispone   la   trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale
sospendendo il giudizio in corso.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimita'  costituzionale  esposte  in parte motiva, e, sospeso il
processo  in  corso,  ordina l'immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale perche' giudichi:
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra gli artt. 1, 2 e 10 legge 20 febbraio 2006 n. 46 e gli
artt. 3 e 111 della Costituzione;
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra gli artt. 1, 2 e 10 legge 20 febbraio 2006 n. 46 e gli
artt. 27, terzo comma e 112 della Costituzione.
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
        Sassari, addi' 21 marzo 2006
                  Il Presidente estensore: Tabasso
06C1002