N. 596 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 maggio 2006

Ordinanza emessa il 15 maggio 2006 dalla Corte di assise d'appello di
Bari nel procedimento penale a carico di Borgia Giuseppe ed altri

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione,   salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'art. 603,   comma 2,   se   la   nuova   prova  e'  decisiva  -
  Inammissibilita' dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore
  della  novella  -  Contrasto  con  il principio di ragionevolezza -
  Lesione  del  principio  di  parita'  delle  parti - Violazione del
  principio della ragionevole durata del processo.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46,
  art. 10, commi 1, 2 e 3.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
(GU n.1 del 3-1-2007 )
                    LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO

    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza, nell'ambito del procedimento
penale  a  carico di Piemonte Nicola ed altri per i reati di cui agli
artt.  416-bis  c.p.,  73 e 74 d.P.R. n. 309/1990, 629 c.p., 10 e 12,
legge  n. 497/1974,  56 e 575 c.p., definito con rito abbreviato, con
sentenza  del  28 giugno  2005  il G.u.p. presso il Tribunale di Bari
assolveva gli imputati Borgia Giuseppe, Mari Massimo, Parisi Tommaso,
Parisi Vito e Rana Donato dai reati loro rispettivamente ascritti per
non aver commesso il fatto e/o perche' il fatto non sussisteva.
    Avverso  l'anzidetta pronuncia assolutoria il p.m., anteriormente
all'entrata  in vigore della legge 20 febbraio 2006, n. 46, proponeva
appello  ed al gravame cosi' proposto risulta applicabile il disposto
di  cui  al comma secondo dell'art. 10 della legge n. 46/2006 innanzi
citata,  a mente del quale «l'appello proposto contro una sentenza di
proscioglimento  dall'imputato  o  dal pubblico ministero prima della
data  di  entrata  in  vigore  della  presente legge viene dichiarato
inammissibile con ordinanza non impugnabile».
    Allo    stato,   dunque,   questa   Corte   dovrebbe   dichiarare
l'inammissibilita'  dell'appello  del  p.m.  come  sopra  proposto ed
all'organo appellante rimarrebbe unicamente la facolta' (prevista dal
comma terzo dello stesso articolo) di proporre ricorso per cassazione
entro  quarantacinque  giorni  dalla  notifica  del  provvedimento di
inammissibilita'.
    Iniziatosi  il  dibattimento in grado di appello nell'udienza del
2 maggio  2006, nel corso della stessa il p.g. ha sollevato questione
di  legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato
dalla  legge  n. 46/2006, nonche' dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della
predetta  legge, deducendo - sotto vari profili - il contrasto tra la
normativa  innanzi  specificata  e  gli  artt.  3,  111  e  24  della
Costituzione.
    Ad  avviso  della  corte, la questione cosi' sollevata appare non
manifestamente  infondata con riguardo alla denunciata violazione dei
principi  di  parita'  e  di  ragionevolezza  di  cui agli artt. 111,
secondo comma, e 3 della Costituzione.
    Invero, la norma posta dall'art. 593 c.p.p. come modificata dalla
legge  n. 46  del  2006, innovando il sistema previgente e stabilendo
che imputato e accusa possono appellare solo le sentenze di condanna,
da' luogo - a dispetto di una solo apparente «... uguaglianza ...» di
attribuzioni   -   ad   una   sostanziale  riduzione  del  potere  di
impugnazione della parte pubblica, unica portatrice dell'interesse ad
appellare le sentenze di proscioglimento.
    Infatti,  in virtu' di quanto disposto oggi dall'art. 593 c.p.p.,
a  fronte  della  possibilita' riconosciuta all'imputato di appellare
una sentenza di condanna (e, percio', di promuovere una rivisitazione
critica  nel  merito delle risultanze del processo celebrato in primo
grado),   viene   escluso  analogo  potere  per  la  pubblica  accusa
relativamente  alle  sentenze di proscioglimento, avverso le quali e'
possibile  solo  ricorrere per cassazione secondo il noto paradigma a
critica  vincolata (salva l'ipotesi residuale di cui al secondo comma
del medesimo art. 593).
    La  diversificazione  -  in termini cosi' radicali - dei mezzi di
impugnazione    in   capo   alle   parti   del   processo   determina
inevitabilmente   una  sensibile  alterazione  della  «condizione  di
parita»,  senza  che (e cio' risulta essere di decisivo rilievo) tale
alterazione  appaia  riconducibile al criterio della ragionevolezza e
possa,  per  tale  via,  essere  ritenuta  compatibile con i principi
costituzionali sopra richiamati.
    In  particolare,  gli  articoli  di  legge denunciati appaiono in
contrasto con quanto disposto dall'art. 111 Cost., laddove stabilisce
al secondo comma che «... ogni processo si svolge nel contraddittorio
delle  parti,  in  condizioni  di  parita' ...», nonche' con l'art. 3
della  stessa Costituzione che, sancendo il principio di uguaglianza,
impone il limite della ragionevolezza in tutti i casi in cui la legge
ordinaria  detti  discipline  diversificate in funzione di situazioni
differenti.
    Tale  ultimo  concetto e' stato in piu' occasioni e con chiarezza
ribadito  dalla  Corte  costituzionale,  leggendosi  ... testualmente
nella  sentenza  n. 89  del  1996:  «...  Se, dunque, il principio di
eguaglianza  esprime  un  giudizio di relazione in virtu' del quale a
situazioni   eguali   deve  corrispondere  l'identica  disciplina  e,
all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni
differenti,   cio'   equivale  a  postulare  che  la  disamina  della
conformita' di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un
modello   dinamico,   incentrandosi   sul  «perche»  una  determinata
disciplina     operi,    all'interno    del    tessuto    egualitario
dell'ordinamento,  quella  specifica  distinzione, e quindi trarne le
debite  conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Il
giudizio  di  eguaglianza,  pertanto,  ...  e'  in se' un giudizio di
ragionevolezza,  vale  a  dire un apprezzamento di conformita' tra la
regola  introdotta  e la «causa» normativa che la deve assistere: ove
la  disciplina  positiva  si discosti dalla funzione che la stessa e'
chiamata  a  svolgere  nel  sistema  e  ometta,  quindi,  il doveroso
bilanciamento  dei  valori che in concreto risultano coinvolti, sara'
la  stessa  «ragione»  della  norma  a  venir  meno, introducendo una
selezione  di  regime  giuridico  priva  di  causa  giustificativa e,
dunque,  fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano
il canone dell'eguaglianza.
    Ogni  tessuto normativo presenta, quindi, e deve anzi presentare,
una  «motivazione»  obiettivata  nel  sistema,  che si manifesta come
entita'  tipizzante  del  tutto  avulsa  dai  «motivi»,  storicamente
contingenti,  che possono aver indotto il legislatore a formulare una
specifica  opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturira' la
verifica  di  una  carenza  di  «causa»  o «ragione» della disciplina
introdotta, allora e soltanto allora potra' dirsi realizzato un vizio
di  legittimita'  costituzionale della norma, proprio perche' fondato
sulla   «irragionevole»  e  per  cio'  stesso  arbitraria  scelta  di
introdurre  un  regime  che necessariamente finisce per omologare fra
loro  situazioni  diverse  o,  al  contrario,  per  differenziare  il
trattamento di situazioni analoghe ...».
    Chiarito  dunque  che  il limite della ragionevolezza rappresenta
l'essenza  stessa  del  principio  di  eguaglianza,  va soggiunto che
l'art. 111  Cost. individua il principio del contraddittorio non solo
come  metodo  di  formazione  della  prova nel processo penale (comma
quarto),  ma  anche  (e  soprattutto) - con l'affermazione di portata
generale  contenuta nel secondo comma - come regola avente la valenza
oggettiva  di mezzo per raggiungere la verita' e la correttezza della
decisione processuale.
    E' principio, cioe', che identifica il metodo che deve presiedere
allo svolgimento del processo in ogni fase.
    E' sicuramente vero che il doppio, grado di merito, come si avra'
modo  di meglio chiarire successivamente, non rappresenta una opzione
garantita   da   copertura  costituzionale.  E',  pero',  altrettanto
innegabile  che, qualora la si operi (con cio' stesso riconoscendo la
necessita'  di  un  controllo  a garanzia contro gli eventuali errori
commessi  dal primo giudice), il metodo dialettico costituzionalmente
prescelto,  e  valutato  come  il  piu'  adeguato  al fine ultimo del
processo,  importa inevitabilmente che ciascuna parte sia posta nella
condizione  di  promuovere  quel controllo destinato a tradursi in un
approfondimento  della conoscenza dei fatti processuali attraverso la
critica  a  tutto  campo  vuoi  degli  elementi  sui  quali  si  basa
l'accertamento  del  fatto, vuoi del ragionamento attraverso il quale
il  primo  giudice  ha  valutato  le  prove  ed e' pervenuto alla sua
decisione.
    In  altri termini, il principio del contraddittorio in condizioni
di  parita'  non  puo'  avere  una  operativita'  limitata  alla fase
precedente  l'emanazione  della  sentenza ma, a causa della valenza a
portata metodologica assegnatagli dalla Costituzione, deve esplicarsi
anche  nelle fasi successive, posto che queste ultime - al pari della
prima - sono finalizzate non solo a garantire l'innocente ma, piu' in
generale, a ricercare la verita'.
    Che   tale   ultima  ricerca  rappresenti  «il  fine  primario  e
ineludibile  del  processo  penale», in un ordinamento «improntato al
principio  di  legalita'  (art. 25,  secondo comma Cost.) - che rende
doverosa  la punizione di condotte penalmente sanzionate - nonche' al
connesso  principio  di obbligatorieta' dell'azione penale», e' stato
piu'  volte  ribadito  dalla  Corte costituzionale (cfr. ex plurimis:
sentenza  n. 111/1993),  la  quale  ha  altresi'  riconosciuto che il
processo   penale,   volto   alla   ricerca   della  verita'  per  la
riaffermazione   dei   valori   irrinunciabili   della   legalita'  e
dell'eguaglianza dei cittadini, e' costruito come «processo di parti»
e  che,  all'interno  di  «un  ordinamento costituzionale fondato sui
principi  di  uguaglianza  e  di  legalita»,  e' attribuito al p.m. -
«magistrato  indipendente  appartenente  all'ordine giudiziario» - il
ruolo  di  parte  che  «agisce esclusivamente a tutela dell'interesse
generale all'osservanza della legge» (cfr. sentenza n. 255/1992).
    Se tale e' il quadro costituzionale di riferimento, la violazione
della   regola   metodologica   generale  di  cui  al  comma  secondo
dell'art. 111   Cost.   (violazione  rappresentata  dalla  esclusione
radicale  del potere del p.m. di promuovere una rivisitazione critica
nel  merito della decisione di proscioglimento) si configura come una
vera e propria alterazione di quel quadro, al quale «non sono consone
norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole
il   processo  di  accertamento  del  fatto  storico  necessario  per
pervenire ad una giusta decisione» (cfr. sentenza n. 111/1993).
    Non  si ignora che l'ordinamento conosce non poche asimmetrie tra
i  poteri  delle  parti  del  processo e cio' anche con riguardo alla
disciplina delle impugnazioni.
    Trattasi,  pero',  di  asimmetrie  che esprimono la diversita' di
posizione  sostanziale  e  processuale  tra  il  p.m.  e  l'imputato,
dovendosi  qui  ribadire  che  il  principio  di  parita' deve essere
comunque adeguato alla natura dell'interesse sostanziale sotteso alla
specifica disciplina.
    Tale   e'   il   senso   delle   numerose  pronunce  della  Corte
costituzionale che, valutando le disparita' di poteri tra le parti di
volta  in  volta  denunciate, ha escluso che con le stesse restassero
violati  i  principi di cui agli artt. 3, 111 (e 112) Cost. in quanto
giustificate  da altri interessi meritevoli di tutela, preminenti sul
piano  costituzionale,  e  cio' in un'ottica di bilanciamento che non
sacrifica   irrimediabilmente   uno   dei   valori  eventualmente  in
conflitto.
    In  altri  termini, alla stregua della consolidata giurisprudenza
costituzionale,  deve  ritenersi  pacifico  che puo' anche esservi un
trattamento  differenziato tra le parti processuali, con attribuzione
di  poteri  diversi  anche  con riguardo alla specifica materia delle
impugnazioni,  senza  che tale diversita' si ponga di per se' sola in
contrasto con i precetti costituzionali.
    E',   pero',   altrettanto   pacifico   che   la   compatibilita'
costituzionale della disparita' di poteri tra le parti processuali e'
sempre   stata   subordinata   alla   sussistenza  del  limite  della
ragionevolezza  e  cio'  con riferimento alla posizione istituzionale
del  p.m.,  alla  funzione  allo  stesso  affidata  ed  alle esigenze
connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
    Significativa in tale senso e' la sentenza n. 401 del 2001 con la
quale,  premesso  che  nell'indicata ottica era stato «gia' escluso -
proprio con riferimento alla nuova disciplina del giudizio abbreviato
introdotta  dalla  legge  16  dicembre  1999, n. 479 - che il mancato
riconoscimento  al  pubblico  ministero  di  un  potere di iniziativa
probatoria, analogo a quello attribuito... all'imputato... , violi il
nuovo  parametro  costituzionale»  dal  momento  che  «si  tratta  di
asimmetria  ragionevolmente  giustificata  dalla diversa posizione in
cui  vengono  a  trovarsi  i due soggetti processuali nell'ambito del
giudizio  abbreviato  (cfr. sentenza n. 115 del 2001)», si ribadi' da
parte  della  Corte  che  «nella  cornice  di un sistema nel quale il
doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia
costituzionale e il potere di impugnazione del pubblico ministero non
costituisce    estrinsecazione   necessaria   dei   poteri   inerenti
all'esercizio  dell'azione  penale  (cfr.  sentenza  n. 280 del 1995;
ordinanza  n. 426 del 1998) - la preclusione dell'appello della parte
pubblica  contro  le  sentenze  di  condanna...  continua  a  trovare
giustificazione - come per il passato (cfr. sentenze n. 98 del 1994 e
n. 363  del  1991;  ordinanze  n. 305  del  1992 e n. 373 del 1991) -
nell'obbiettivo  primario  di  una  rapida e completa definizione dei
processi  svoltisi  in  primo  grado con il rito abbreviato di cui si
tratta».
    Dalla  giurisprudenza della Corte costituzionale si trae, dunque,
il  chiaro  principio  per il quale le possibili asimmetrie di poteri
tra  le  parti,  di  per  se' non necessariamente contrastanti con il
dettato  degli  artt. 3,  111  e  112  Cost., devono comunque trovare
giustificazione  nella  salvaguardia  di  qualche  interesse di rango
costituzionale  pari  o  superiore;  giustificazione  che  sola  puo'
ricondurre detta asimmetria nei limiti della ragionevolezza.
    E'  proprio nelle richiamate pronunce del Giudice delle leggi che
si  rinviene l'indirizzo interpretativo che consente oggi di eccepire
l'illegittimita'  costituzionale  della  normativa sopra specificata,
apparendo  evidente  che  quest'ultima determina uno squilibrio nella
posizione   delle   parti  privo  di  ragionevolezza  e  destinato  a
ripercuotersi  a  catena  sul complessivo assetto del processo penale
(che  cosi'  perde  coerenza  ed armonia), senza che nel contempo sia
tutelato in cambio alcun valore costituzionale alternativo.
    In particolare, e' da escludere che la compressione del potere di
impugnazione   del   p.m.   possa   considerarsi   bilanciata   dalla
salvaguardia  di  quel valore costituzionale che va comunemente sotto
il nome di «ragionevole durata del processo».
    Si e' gia' rammentato che le sentenze della Corte costituzionale,
nel  ritenere  riconducibile  al  principio  della  ragionevolezza  -
nell'ipotesi di giudizio abbreviato - tanto la contrazione dei poteri
di  iniziativa  probatoria (sent. n. 115/2001), quanto la contrazione
del  potere  di impugnazione del p.m. (sent. n. 421/2001), cio' hanno
affermato   in   ragione  della  peculiarita'  del  rito  abbreviato,
considerando   cioe'   la   denunciata   disparita'  come  funzionale
«all'obbiettivo  primario  di  una  rapida e completa definizione dei
processi  svoltisi  in  primo  grado  secondo  il rito alternativo» e
rispondendo  «il  minor dispendio di tempo e di energie processuali»,
che  di  quel  rito  «resta un carattere essenziale», all'interesse -
costituzionalmente  protetto  - della ragionevole durata del processo
medesimo.
    La  riforma  introdotta  dalla  legge  n. 46 del 2006, con il suo
«carattere  disorganico  e  asistematico»  denunciato  dal Capo dello
Stato  nel  messaggio  alle  Camere del 20 gennaio 2006, non risponde
affatto alle esigenze di accelerazione dei tempi del processo.
    Al  contrario,  istituzionalizza  uno  schema processuale che, in
caso di annullamento della sentenza di proscioglimento intervenuta in
primo  grado  e  stante  il  carattere  rescindente  del  ricorso  di
legittimita', comportera' non meno di cinque gradi di giudizio (primo
grado,  ricorso  per  cassazione del p.m., nuovo primo grado, secondo
grado   e  ricorso  per  cassazione  dell'imputato  contro  eventuale
sentenza di condanna).
    In  altri  termini, se prima della riforma i processi conclusi in
primo  grado  con  sentenza  di  proscioglimento si definivano in tre
gradi di giudizio (ovvero in quattro, nei casi del ricorso per saltum
seguito  da  annullamento  e  rinvio  al giudice appello ex art. 569,
quarto comma, c.p.p.), con la nuova disciplina il sistema comportera'
fisiologicamente  un  allungamento dei tempi nei quali e' destinato a
concludersi il processo.
    Il  che, se da un lato esclude che il sacrificio del principio di
parita'  delle parti possa ritenersi bilanciato dalla maggiore tutela
assicurata  al  diritto  dell'imputato  ad  essere giudicato in tempi
ragionevoli,  dall'altro porta ad evidenziare un ulteriore profilo di
illegittimita'  della  norma  denunciata  che,  di fatto, finisce col
violare anche il principio costituzionalizzato nella parte finale del
secondo  comma dell'art. 111 Cost. e, cioe', il diritto della persona
accusata alla rapida definizione del processo.
    Diritto  -  quest'ultimo  -  la  cui  tutela  rappresenta oggi un
obbiettivo   primario   ed   urgente   ove  si  abbia  riguardo  alle
numerosissime  sentenze  con  le  quali  la Corte europea dei diritti
dell'uomo, pronunciando nei confronti dell'Italia, ha riconosciuto la
violazione  dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo che, come e' noto, obbliga gli Stati contraenti
ad  organizzare  il sistema giudiziario in termini tali da assicurare
la ragionevole durata del processo.
    Alla citata norma internazionale fanno espresso riferimento anche
alcune  decisioni  della Corte costituzionale per ribadire che quello
della   ragionevole   durata   del   processo   rappresenta  un  bene
costituzionale   e  per  inserire  il  relativo  diritto  tra  quelli
fondamentali   del   nostro  ordinamento,  oggetto  di  immediata  ed
inviolabile  tutela  (cfr.  sent.  n. 78  del 2002, n. 888 del 1992 e
ordinanza n. 305 del 2001).
    Il  profilo di incompatibilita' della normativa denunciata con il
bene costituzionale della ragionevole durata del processo ha formato,
tra  l'altro,  oggetto  di  puntuale richiamo da parte del Capo dello
Stato che, nel messaggio alle Camere del 20 gennaio 2006, ha rilevato
come  «...  una  delle  finalita'  della  legge avrebbe dovuto essere
quella  della deflazione del carico di lavoro della giustizia penale,
mentre,  come  si  e'  piu'  sopra  posto in luce, la legge approvata
provochera'   invece   un   insostenibile  aggravio  di  lavoro,  con
allungamento certo dei tempi del processo...».
    Escluso  che  il  sacrificio del principio di parita' delle parti
trovi   un   bilanciamento   nella   maggiore   tutela   del  bene  -
costituzionalmente  protetto - della ragionevole durata del processo,
va  rilevato  che  un  bilanciamento siffatto neppure potrebbe essere
ravvisato nel c.d. principio della «doppia conforme».
    Nei  lavori preparatori si e' frequentemente fatto riferimento al
diritto  dell'imputato ad avere un doppio grado di giudizio di merito
nell'ipotesi  di  condanna  e,  di conseguenza, si e' giustificata la
scelta    di    escludere    l'appellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento proprio con l'esigenza di evitare che taluno, assolto
in  primo  grado  e  condannato  in  grado  di appello, venga privato
dell'anzidetto diritto.
    E',  pero',  agevole  replicare che il diritto al doppio grado di
giudizio   di   merito   non   e'   riconosciuto   ne'   dalla  carta
costituzionale, ne' dalle convenzioni internazionali.
    La  stessa  Corte  costituzionale si e' piu' volte pronunciata in
tal   senso,   chiarendo   che  l'art. 2,  comma  1,  del  protocollo
addizionale  n. 7  della  Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti  dell'uomo  e  delle liberta' fondamentali «non legittima una
interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore
debba   coincidere   con  un  giudizio  di  merito.  La  formulazione
dell'art. 2,  nel  demandare al legislatore interno ampi spazi per la
disciplina  dell'esercizio  del diritto di impugnazione, non esciude,
infatti,  che  il  principio si sostanzi nella previsione del ricorso
per cassazione, gia' previsto dalla Costituzione italiana».
    Le  indicazioni  cosi' fornite sono destinate a spiegare riflessi
sulla valutazione delle motivazioni, di ordine diverso, che pure sono
state  evocate durante i lavori parlamentari a sostegno della riforma
cosi'  come  articolata e della scelta di assicurare, nell'ipotesi di
condanna, la c.d. «doppia conforme».
    Invero,   l'esigenza   di   escludere   che  un  individuo,  gia'
riconosciuto  innocente  all'esito  di  un  regolare  processo, venga
nuovamente sottoposto ai patimenti del processo penale per consentire
al p.m. di provare davanti ad altro giudice che il primo e' caduto in
errore;  l'assenta  contraddittorieta'  di un sistema che consente di
modificare  la  prima  favorevole decisione, assunta nel rispetto dei
principi   dell'oralita'   e   dell'immediatezza   coerenti  al  rito
accusatorio,  sulla  base  di un secondo giudizio svolto invece sulle
sole  carte;  l'affermazione secondo cui, intervenuta una sentenza di
proscioglimento,    l'eventuale    successiva    condanna    verrebbe
inevitabilmente inficiata da un ragionevole dubbio sulla colpevolezza
(e  cio'  in violazione dell'art. 533, comma 1, come modificato dalla
stessa  legge  n. 46  del  2006);  sono  tutte argomentazioni che, se
valutate  alla luce della giurisprudenza del Giudice delle leggi, non
conducono   comunque  ad  individuare  un  valore  costituzionalmente
garantito  che sia in grado di bilanciare l'amputazione del potere di
impugnazione nel merito di una sola delle parti processuali.
    E' innegabile che la soluzione della c.d. «doppia conforme» nasce
da  incongruenze  di  sistema  originate  dal mancato adeguamento del
regime  delle  impugnazioni  (ed,  in  particolare,  del  giudizio di
appello)  alla  scelta  del metodo accusatorio operata con la riforma
del 1989.
    Non  e'  un  caso  che  tali  incongruenze  agitano  da  tempo il
dibattito dottrinale e giurisprudenziale e pongono il problema di una
«(ri)perimetrazione  delle  opzioni  decisorie  consentite al giudice
d'appello»,  se  non  addirittura  di  un  generale  ripensamento del
«sistema  delle  impugnazioni... alla luce dei criteri ispiratori del
codice  vigente  dal  1989» (cfr. Cass., S.U., sent. 30 ottobre 2003,
n. 45276, Andreotti).
    Ma  l'esistenza di una esigenza siffatta non puo' di per se' sola
tradursi  in  una  giustificazione  della scelta operata con la legge
n. 46  del  2006:  la soluzione adottata dal legislatore, comportando
una  indubbia asimmetria nella posizione delle parti del processo, in
tanto  puo'  ritenersi  costituzionalmente  compatibile in quanto sia
riconducibile   nei   binari   della   ragionevolezza  (binari  della
ragionevolezza  che,  a  loro  volta, devono essere segnati non dalla
mera  necessita'  di  un  cambiamento,  ma solo dal bilanciamento del
sacrificio del principio di parita' con la tutela di un concorrente e
superiore interesse di rango costituzionale).
    Tale   interesse,   per   quanto   sopra   specificato,   non  e'
identificabile  ne'  nella  ragionevole durata del processo (esigenza
che,  anzi,  viene  ulteriormente frustrata dalla riforma), ne' nella
necessita'  di  un doppio grado di giudizio di merito nell'ipotesi di
condanna  (necessita'  di  per  se' estranea ai principi fondamentali
della  carta  costituzionale  ed  alle  convenzioni internazionali in
materia).
    In  definitiva,  a fronte del sacrificio del principio di parita'
delle parti del processo, non e' dato scorgere il rafforzamento della
tutela  di  altro  concorrente  interesse  di rango costituzionale e,
pertanto,  il  sacrificio  medesimo  sembra  violare  il limite della
ragionevolezza   (che   del   principio  di  uguaglianza  rappresenta
l'essenza stessa), esso traducendosi in una ingiustificata asimmetria
nella posizione delle parti.
    Le  considerazioni  sopra  svolte, evidenziando profili di dubbia
legittimita'  costituzionale  della  normativa denunciata, richiedono
l'intervento della Corte costituzionale.
    La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale cosi'
sollevata   e'   in  re  ipsa,  apparendo  evidente  che  l'eventuale
accoglimento  della  stessa consentirebbe di celebrare a carico degli
imputati  prima menzionati quel giudizio di appello che e' allo stato
precluso dalla normativa denunciata.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87:
        1)  dichiara  non  manifestamente  infondata  e  rilevante la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come
modificato  dall'art. 1  della  legge  20  febbraio  2006,  n. 46,  e
dell'art. 10,  commi  1,  2  e 3, della legge n. 46/2006 suddetta per
contrasto con gli articoli 111, secondo comma, e 3 della Costituzione
e per le ragioni specificate in premessa;
        2) per l'effetto, previa separazione della posizione relativa
agli  imputati  Borgia Giuseppe, Mari Massimo, Parisi Tommaso, Parisi
Vito  e  Rana  Donato,  ordina trasmettersi immediatamente i relativi
atti  alla  Corte costituzionale e sospende il processo nei confronti
degli imputati predetti;
        3)   ordina  che,  a  cura  della  cancelleria,  la  presente
ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Bari, addi' 15 maggio 2006
                      Il Presidente: Cristiani
06C1213