N. 22 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 maggio 2006

Ordinanza   emessa   il   5   maggio   2006   (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il 15 gennaio 2007) dalla Corte di appello di Palermo
nel procedimento penale a carico di Buffa Fernando ed altro

Processo  penale  -  Appello  - Modifiche normative - Limitazione del
  potere  di appello del pubblico ministero alle sentenze di condanna
  - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro
  le  sentenze  di  proscioglimento  soltanto  nelle  ipotesi  di cui
  all'art. 603,  comma 2,  se la nuova prova e' decisiva - Ricorso in
  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo  grado - Violazione del
  principio   di   ragionevolezza   -  Ingiustificata  disparita'  di
  trattamento,  tra  pubblico  ministero  e imputato - Ingiustificata
  estensione  dei  poteri  valutativi  della  Corte  di  cassazione -
  Violazione  del  principio  dell'obbligo  di motivazione di tutti i
  provvedimenti  giurisdizionali  -  Violazione  dei  principi  della
  parita'  delle parti nel contraddittorio e della ragionevole durata
  del   processo   -  Lesione  del  principio  della  obbligatorieta'
  dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 111, commi secondo, sesto e settimo, e 112.
Processo   penale  -  Appello  -  Modifiche  normative  -  Disciplina
  transitoria   -   Inammissibilita'   dell'appello   proposto  prima
  dell'entrata  in  vigore della novella - Contrasto con il principio
  di  ragionevolezza  -  Violazione  del  principio di buon andamento
  dell'attivita'    giudiziaria    -    Violazione    del   principio
  costituzionale in tema del ricorso in cassazione.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 97 e 111, comma settimo.
(GU n.8 del 21-2-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Riunita in Camera di consiglio ha emesso la seguente ordinanza.
    Nel  processo  a  carico  di  Buffa  Fernando, nato a Palermo l'8
luglio  1962  e  Brovida  Claudio,  nato  ad Alba il 9 dicembre 1951,
definito   con   sentenza  emessa  dal  Tribunale  di  Palermo  -  in
composizione  monocratica  -  del  1°  dicembre  2003, con la quale i
predetti  imputati sono stati assolti dalle imputazioni loro ascritte
perche' il fatto non sussiste.
    Preso  atto dell'appello ritualmente e tempestivamente interposto
avverso  la predetta sentenza dal Procuratore della Repubblica presso
il  Tribunale di Palermo, che ha richiesto, previa affermazione della
colpevolezza  di  entrambi  gli imputati in ordine ai reati di truffa
aggravata  e  falso  in  certificazioni  pubbliche, la condanna degli
stessi  alle pene di legge, nonche' dell'appello proposto dalla parte
civile  Giuffredo  Rita  con  il  quale e' stata richiesta in riforma
della  sentenza  suddetta,  la  condanna  degli imputati alle pene di
legge ed al risarcimento dei danni;
    Rilevato  che  all'udienza  del  24  marzo  2006  il  procuratore
generale  ha  sollevato  eccezione  di  illegittimita' costituzionale
degli  artt. 1  e  10  della  legge  20  febbraio  2006,  n. 46,  per
violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma Cost.; 3 e 112 Cost. in
relazione  agli artt. 73 e 74 ord. giud.; 97 Cost.; 3, 111, 101 e 104
Cost.; 111, settimo comma Cost.
    Sentita   la  parte  civile  la  quale  ha  rilevato,  nel  corso
dell'udienza   del  21  aprile  2006  ha  sostenuto  l'ammissibilita'
dell'appello  del  p.m.,  avendo  lo stesso - in sede di proposizione
dell'impugnazione  -  richiesto,  previa  rinnovazione  parziale  del
dibattimento,  l'espletamento  di  perizia medicada effettuarsi anche
sulla  ulteriore  documentazione  presentata  dalla  parte civile nel
corso del processo di primo grado;
    Sentiti  i  difensori  degli  imputati che hanno controdedotto in
forma  orale alla medesima udienza, opponendosi tutti, comunque, alle
eccezioni  sollevate  dal  p.g.  nel corso della precedente udienza e
chiedendo  dichiararsi  l'inammissibilita'  dell'appello proposto dal
p.m.

                            O s s e r v a

    Questa  Corte  e'  chiamata  a  pronunciarsi  sulla manifesta non
infondatezza  della  questione di compatibilita' costituzionale degli
artt. 1  e  10  della  legge  20 febbraio 2006, n. 46, che ha, tra le
altre, modificato la disposizione di cui all'art. 593, comma 1 c.p.p.
prevedendo   la  possibilita'  dell'appello  da  parte  del  pubblico
ministero e dell'imputato soltanto avverso le sentenze di condanna.
    Piu'  specificamente,  le  norme che si assumono incostituzionali
attengono,  quanto alla prima di esse (art. 593 codice di rito), alla
limitazione  del  potere  di  appello  del pubblico ministero, adesso
circoscritto   alle   sole   sentenze  di  condanna;  alla  residuale
possibilita'  di  esercitare  siffatto potere soltanto in presenza di
una  prova  decisiva  da  articolare ed assumere secondo le modalita'
indicate  nell'art.  603,  comma  2  c.p.p.; alla declaratoria in via
preliminare  di  inammissibilita' dell'appello con ordinanza da parte
del  giudice, ove non venga disposta la rinnovazione del dibattimento
ed  alla  correlata possibilita' - per le parti - di proporre ricorso
per  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo grado nel termine di
giorni  quarantacinque decorrente dalla notificazione della ordinanza
di inammissibilita' dell'appello.
    Quanto  alla  seconda,  la  norma  si  riferisce  alla disciplina
transitoria  che  prevede  l'applicabilita' delle disposizioni di cui
sopra  ai  procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della
novella modificatrice.
    Secondo le prospettazioni esposte dalla parte civile, nel caso in
esame  il  p.m.  manterrebbe  integro  il  suo potere di appello, con
conseguente  ammissibilita' dello stesso, in relazione alla richiesta
di   riapertura   parziale   dell'istruzione   dibattimentale  previo
espletamento di perizia medica richiesto nei motivi.
    In  realta' rileva la Corte che la riapertura dell'istruzione che
-  in  base  alla  nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p. - mantiene
inalterato il potere di appello del p.m. e' circoscritta alle ipotesi
disciplinate dal comma 2 dell'art. 603 c.p.p.
    In  forza  di  tale  disposizione,  pero', in tanto la riapertura
dell'istruzione e' possibile, in quanto si manifesti l'esigenza di un
nuova  prova  sopravvenuta dopo il giudizio di primo grado ovvero non
conoscibile a quell'epoca.
    Conseguentemente  nel  caso  in  esame,  trattandosi  di prova in
realta'  gia'  preesistente  (tanto  che  la richiesta di perizia era
stata  formulata  dalla  parte civile nel corso del giudizio di primo
grado,  venendo  tuttavia  disattesa  dal tribunale), non pare che si
verta nella ipotesi delineata dalla difesa della parte civile.
    Cio' precisato, un primo, preliminare esame riguarda la rilevanza
delle  questioni  proposte: rilevanza nel caso in esame pacificamente
sussistente,  posto  che  non essendo state dedotte da parte del p.m.
appellante prove nuove sopravvenute nei limiti temporali previsti per
la  proposizione  dell'appello  e trovando applicazione - per effetto
della  disciplina  transitoria  -  la  previsione  normativa  di  cui
all'art. 1  della  legge  n. 46/2006,  ne  deriverebbe  la necessaria
pronuncia  di  inammissibilita' dell'appello ai sensi dei commi 2 e 3
dell'art. 10,  in  relazione  alla  previsione  di carattere generale
contenuta nell'art. 593, comma 2 c.p.p.
    La  rilevanza della questione appare evidente - poiche' si tratta
di  una diversa - disciplina del presente processo conclusosi con una
sentenza  di  assoluzione  per  entrambi gli imputati in virtu' della
quale  il  pubblico  ministero  appellante,  per  un  verso  vedrebbe
precluso  il  proprio  potere  di appello e, per altro verbo, sarebbe
costretto  in  tempi peraltro assai ristretti, a proporre ricorso per
cassazione avverso la sentenza di primo grado.
    Tanto  premesso,  ritiene la Corte di dovere fare una ulteriore e
preliminare  puntualizzazione, propedeutica all'esame delle eccezioni
sollevate dal procuratore generale.
    Secondo  le indicazioni contenute nell'art. 134 Cost., e' rimessa
alla   Corte   costituzionale   la  risoluzione  delle  questioni  di
legittimita'  costituzionale di leggi (o atti ad essa equiparati) che
siano  state  sollevate di ufficio ovvero eccepite da una delle parti
nel  corso  del  giudizio,  con  l'unico,  preclusivo  limite,  della
eventuale   manifesta  infondatezza  delle  questioni,  ritenuta  dal
giudice.
    E'   dunque  evidente  che  nel  caso  della  proposizione  della
questione  di  legittimita'  costituzionale competa al giudice che ne
sia  investito  da  una delle parti, effettuare una prima valutazione
della  rilevanza  della  questione  e  della  sua eventuale manifesta
infondatezza  in  stretta sequenza temporale e logica, nel senso che,
una  volta positivamente risolto il problema concernente la rilevanza
della  questione,  dovra' essere affrontato il problema relativo alla
eventuale manifesta infondatezza di essa.
    Tale  ultimo  esame  non  implica,  tuttavia, ad avviso di questa
Corte,  un'analisi  approfondita e particolareggiata dei vari profili
di  illegittimita' prospettati, nel caso in esame, peraltro, non solo
numerosi,  ma  soprattutto  complessi  ed estremamente articolati: se
cosi'  operasse,  la  Corte  finirebbe  con  il  travalicare i propri
compiti,  interferendo sui compiti propri della Corte costituzionale,
unico  giudice  deputato - per legge costituzionale (art. 134 cit.) -
ad  esprimere il richiesto giudizio di legittimita' costituzionale di
quelle norme che si assumono violate.
    Siffatta soluzione attribuisce al giudice chiamato ad operare una
valutazione  per  cosi'  dire  «preliminare»,  il doveroso compito di
rimettere  alla  Corte  costituzionale  unicamente  la risoluzione di
quelle   questioni   che,   oltre  ad  essere  rilevanti,  non  siano
manifestamente  infondate,  intendendosi con tale ultima espressione,
l'insussistenza  o  la  mera apparenza dei dubbi di costituzionalita'
prospettati dalle parti.
    Nel  caso  in  esame,  questa  Corte,  attesi  i  profili, invero
complessi  e tra loro intimamente collegati, delle questioni proposte
dal  procuratore  generale,  ritiene  le  stesse  non  manifestamente
infondate alla luce delle seguenti considerazioni.
    Una   prima   questione   concerne   la  presunta  illegittimita'
costituzionale    dell'art. 1   della   legge   in   esame   rispetto
all'art. 111,  secondo comma, della Costituzione, a tenore del quale,
il  processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni
di  parita',  davanti  ad  un  giudice  terzo  e  imparziale, con una
ragionevole durata assicurata dalla legge.
    Ritiene  la  Corte  che  i  rilievi  prospettati  dal procuratore
generale  non  solo con riferimento all'art. 111 sopra richiamato, ma
anche   con   riguardo   all'art. 3   Cost.,   siano   meritevoli  di
considerazione,  profilandosi  -  per  un  verso - una ingiustificata
compressione della parita' delle parti nel processo, che va inteso in
una  accezione  ampia,  comprensiva  anche delle fasi successive alle
indagini  preliminari,  sino alla sua completa definizione; per altro
verso, profilandosi una irragionevole disparita' tra la posizione del
p.m.  e  quella dell'imputato, solo apparentemente superata dal nuovo
testo normativo.
    Infatti,   quanto   al  significato  da  attribuire  alla  parola
«processo»,   e'  evidente  che  la  Costituzione  intende  riferirsi
all'intero percorso che dalla notitia criminis perviene alla sentenza
definitiva, in armonia con quanto previsto all'art. 24, secondo comma
Cost.
    Ora,  a  fronte  del legittimo potere riconosciuto all'imputato e
costituzionalmente  tutelato  ex  art. 24  Cost.,  di  esercizio  del
proprio diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, non
vi  e'  dubbio  che anche il p.m. e' chiamato a esercitare la propria
pretesa  punitiva  in  ossequio  al  principio  della obbligatorieta'
dell'azione  penale  (garantita attraverso l'art. 112 Cost.), al fine
di   vedere   affermata  la  responsabilita'  penale  di  colui  che,
assoggetto al processo, venga riconosciuto colpevole.
    Trattasi   di  una  pretesa  punitiva  di  rango  costituzionale,
riconoscendosi  in  capo  al p.m. la funzione di organo preposto alla
realizzazione  degli  interessi  generali  della  giustizia, come del
resto, previsto dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
    Ora,  se e' indubitabile che la previsione di limiti al potere di
impugnazione  del  p.m. non e', di per se', in contrasto con la Carta
fondamentale   (tanto   e'   vero   che,   in  tema  di  sentenze  di
proscioglimento  a  seguito  di giudizio abbreviato, tali limiti sono
stati ritenuti compatibili con il dettato costituzionale - da ultimo,
ord.  Corte  cost.  n. 421/2001), e' tuttavia da rilevare come tra la
speciale  disciplina  prevista  in  materia  di  giudizio  abbreviato
(dettata  anche  da  evidenti ragioni di politica giudiziaria sottese
alla  premialita' del rito) e quella oggi prevista dal nuovo art. 593
c.p.p., vi siano sensibili differenze.
    Manca,   infatti,   in   quest'ultimo   caso   qualsiasi  ragione
giustificativa  per  una limitazione del potere di appello, avvertita
dallo  stesso  Presidente  della  Repubblica  nel  suo messaggio alle
Camere  del  20  gennaio  2006  con  il quale era stata rinviata alle
Camere la prima stesura della legge.
    Il  Presidente della Repubblica aveva, infatti, segnalato che «la
soppressione  dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  rforma,  fa si' che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera  quella  compatibile  con la diversita' delle
funzioni svolte dalle parti stesse nel processo».
    Ne'   -   come   rilevato   dal  p.g.  nella  propria  memoria  -
l'inconveniente  risulta  eliminato  attraverso  la  formulazione del
secondo  comma  dell'art. 593  c.p.p.  che prevede la possibilita' di
appello  per  il  p.m.  a  condizione  che  venga  indicata una prova
sopravvenuta rispetto alla fase precedente: trattasi, infatti, di una
ipotesi  del  tutto residuale e marginale che di fatto rende la norma
sostanzialmente  identica a quella gia' oggetto dei rilievi formulati
dal Presidente della Repubblica.
    L'irragionevolezza  della  norma, peraltro, si coglie appieno la'
dove   si  consideri  che,  partendo  dalla  premessa  che  l'appello
rappresenta  una  forma  di  garanzia contro gli errori contenuti nel
giudizio  di  primo  grado,  la limitazione di esso ad una sola delle
parti  impedisce di pervenire al risultato della decisione giusta cui
mira qualsiasi processo.
    Senza   dire  che  apparirebbero  sostanzialmente  vanificate  le
funzioni  di  rilievo costituionale del p.m. come risultano delineate
dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
    Ritiene,  ancora,  la  Corte di poter condividere la perplessita'
espresse  dal  p.g.  con riferimento alla violazione del principio di
ragionevolezza,  dal  momento  che  non e' dato comprendere in base a
quale  criterio  al  p.m.  e' dato appellare sentenze di condanna, se
ritenute  troppo  miti rispetto alla gravita' del fatto e non e' dato
appellare  avverso  sentenze  di  assoluzione  del  tutto  incoerenti
rispetto alle risultanze processuali.
    Pur  dovendosi  ribadire che, a differenza di quanto previsto per
l'imputato,  il  diritto  del  p.m.  ad una revisione di merito della
decisione   non   trovi  una  diretta  copertura  costituzionale,  e'
innegabile  che  un sistema che preveda lo svolgimento di un processo
giusto - come tale previsto dalla Costituzione all'art. 111 nella sua
interezza   -   contempli   la   possibilita'   che  anche  il  p.m.,
nell'interesse  superiore  della  giustizia, veda riconosciuto il suo
potere di interloquire sempre nel processo fino alla sua conclusione,
passando  attraverso  una  revisione  critica  degli errori contenuti
nella   sentenza,   non   necessariamente  circoscritti  ai  vizi  di
legittimita' indicati nell'art. 606 c.p.p.
    Questione di non poco momento e' poi quella afferente il rapporto
-  che  si  assume  violato - tra l'art. 1 della legge in argomento e
l'art. 111, commi primo, sesto e settimo Cost.
    In  conseguenza delle modifiche apportate con tale legge, risulta
notevolmente  ed  irragionevolmente  estesa  l'area  del  giudizio di
merito   della   Cassazione,   trasformata   quindi   da  giudice  di
legittimita', (anche) a giudice di merito.
    A  norma  dell'art. 111,  settimo  comma  Cost. e' sempre ammesso
ricorso  avverso  le sentenze ed i provvedimenti adottati, in tema di
liberta'  personale, davanti la Corte di cassazione per violazione di
legge: e' dunque evidente che l'intero sistema processuale si e' fino
a  questo  momento  poggiato  sul c.d. «doppio giudizio di merito» da
parte  di  un  giudice di primo grado e, di seguito, di un giudice di
secondo  grado,  mentre  alla  Corte  di  cassazione  e'  rimesso  il
delicatissimo  compito  di  riesaminare  il  processo  solo  nei casi
tassativamente determinati di violazione di legge.
    Tale  compito,  correlato  all'obbligo di motivazione di tutti in
provvedimenti    giurisdizionali    contemplato   nel   sesto   comma
dell'art. 111  Cost.,  finisce con l'essere vanificato per effetto di
una  riforma  che  introduce tra i vizi ricorribili per cassazione il
travisamento del fatto non piu' ancorato al testo della decisione, ma
riferito a tutti i dati processuali.
    E'  da  escludere comunque un controllo di merito in via generale
per  le  sentenze  di  proscioglimato, posto che non tutti gli errori
contenuti  nella  sentenza  potranno  rientrare  in una delle ipotesi
enunciate nell'art. 606 c.p.p.
    Non  e'  chi  non  veda  in  un  sistema  di tal fatta una palese
irragionevolezza  rappresentata,  oltre  che  da una ingiustificabile
estensione  dei  poteri  valutativi  della  Cassazione  con correlata
indeterminatezza  dei  criteri cui dovra' essere informato il ricorso
per  cassazione,  rimessi  esclusivamente al giudice di legittimita',
anche  da un possibile, quanto ingiustificato, allungamento dei tempi
di definizione del processo.
    Del  resto  proprio  su  tali  punti  si  e',  ancora  una volta,
incentrato  il messaggio del Capo dello Stato in sede di rinvio della
legge  alle  Camere  che,  tuttavia,  pare  essere stato ignorato dal
legislatore.
    Profili  di  incostituzionalita'  sono,  ancora, rinvenibili, per
quanto  rileva  in  questa  sede,  nell'art. 10 della nuova legge che
regola la disciplina transitoria.
    Premesso  che  con  tale disciplina si e' di fatto verificata una
sostanziale abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti al p.m.
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento, relativamente ai processi
pendenti  alla  data  di  entrata  in vigore della legge, la norma in
esame  appare,  anzitutto, confliggere con l'art. 97 Cost., in quanto
il   rispetto   del   principio   di  buon  andamento  dell'attivita'
giudiziaria   avrebbe  dovuto  imporre  la  previsione  di  norme  di
salvaguardia  delle  attivita' processuali compiute dalle parti prima
dell'entrata   in   vigore  della  legge,  per  evitare  il  collasso
dell'intero sistema processuale.
    Ancora piu' grave appare l'inconciliabilita' della norma rispetto
al    principio   costituzionalmente   garantito   all'art. 3   della
ragionevolezza,  essendo  indiscutibile  un effetto retroattivo della
legge processuale.
    E,  seppure  va rimarcata la possibilita' ex art. 25 Cost. di una
retroattivita'  delle  norme processuali, esclusa invece per le norme
di   diritto   penale   sostanziale,   e'   comunque  innegabile  una
interferenza   diretta   delle   leggi   retroattive   sull'attivita'
giurisdizionale,  che  esige  la ragionevolezza della retroattivita',
certamente  non assicurata laddove la scelta legislativa che sta alla
base non abbia alcuna plausibile ragione giustificatrice.
    Come  osservato  dal  p.g., non solo non e' dato rinvenire alcuna
plausibile  ragione  alla  base  di  tale scelta, ma - come affermato
nella  sentenza  n. 525/2000 della Corte costituzionale - anche nella
materia  processuale vale la regola della tutela dell'affidamento che
esige  che  le  parti  conoscano  il momento in cui sorgono oneri con
effetti  pregiudizievoli  e,  ancor piu', confidino nello svolgimento
del giudizio secondo le regole vigenti all'epoca del compimento degli
atti processuali.
    In ultima analisi, il mutamento improvviso della disciplina per i
processi   in   corso,  senza  alcuna  garanzia  di  tipo  intermedio
dell'effetto  conservativo,  anche per consentire un'entrata a regime
della legge, appare del tutto priva di giustificazione logica.
    Nel  caso  in  esame,  peraltro,  si manifesta in modo ancor piu'
evidente  l'irragionevolezza  della  norma,  apparendo  il  principio
dell'affidamento  vulnerato  ancor  piu'  intensamente  nei confronti
della  parte  civile  che,  dopo aver scelto di far valere le proprie
pretese   risarcitorie  in  sede  penale,  confidando  nei  mezzi  di
impugnazione  previsti  dalla  legge,  si  vede ex abrupto privata di
qualsiasi rimedio diverso dal ricorso per cassazione.
    Non  e' infatti piu' previsto alcun potere per la parte civile di
appellare  contro  le  sentenze  di proscioglimento, prima consentito
dall'estensione  alla  stessa  dei mezzi di impugnazione accordati al
p.m., principio oggi abrogato per effetto dell'art. 6, comma 1, lett.
a) della legge n. 46/2006.
    Ad  accentuare  le  rilevate  stridenti  anomalie, mette conto di
evidenziare  la  mancata  espressa  previsione per la parte civile di
usufruire  di  appositi  termini per proporre ricorso per Cassazione,
diversamente  da  quanto  previsto  per  il  p.m.  (il  quale  ha  la
possibilita'  di  proporre  ricorso  nel  termine  dei quarantacinque
giorni  dalla pronuncia di inammissibilita' dell'appello, ex art. 593
c.p.p., nuova formulazione).
    Si tratta, ancora una volta, di uno scardinamento del sistema che
urta  contro  diversi  principi  di  rango  costituzionale  e  che il
legislatore  ha  mostrato  di  voler evitare anche per la materia del
diritto  penale  sostanziale,  nonostante la copertura costituzionale
dell'art. 25, secondo comma Cost. in materia di mutamento dei termini
di  prescrizione dei reati, prevedendo opportunamente una «moratoria»
per i processi in corso il cui dibattimento sia stato aperto in primo
grado.
    A  conclusioni  non  dissimili  sul  piano  della  compatibilita'
costituzionale   deve   giungersi   con   riferimento   al  contenuto
dell'art. 10,  comma  2 della legge in esame che prevede la pronuncia
di  una  ordinanza  non  impugnabile di inammissibilita' dell'appello
proposto dal p.m. avverso la sentenza di proscioglimento: avendo tale
ordinanza  avente  -  per  il  suo  contenuto definitorio - natura di
sentenza, va riconosciuto il potere di ricorrere per Cassazione, pena
la violazione, per un verso, dell'art. 111, settimo comma che prevede
la   ricorribilita',   per   violazione   di   legge,   di  qualsiasi
provvedimento  giurisdizionale  e, per altro verso, dell'art. 3 sotto
l'aspetto  della  irragionevolezza  della  norma  che  sconvolgerebbe
l'intero sistema delle impugnazioni
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli artt. 593 c.p.p., come modificato
dall'art. 1  della  legge  n. 46/2006  e  10 della medesima legge per
violazione  degli  artt. 3, 111, commi secondo, sesto e settimo, 97 e
112 Cost. nei termini e per le ragioni esposte in motivazione;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale, sospendendo il giudizio in corso;
    Dispone  che la presente ordinanza venga notificata, a cura della
cancelleria  al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti
dei due rami del Parlamento.
        Palermo, addi' 5 maggio 2006
                        Il Presidente: Luzio
Il consigliere estensore: Grillo
07C0167