N. 35 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 maggio 2006

Ordinanza   emessa   il   25   maggio   2006  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il 17 gennaio 2007) dalla Corte di appello di Bologna
nel procedimento penale a carico di Marusi Guareschi Rodolfo ed altri

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   soltanto   nelle  ipotesi  di  cui  all'art. 603,
  comma 2,  se  la nuova prova e' decisiva - Violazione del principio
  di  ragionevolezza  -  Violazione del principio della parita' delle
  parti - Contrasto con il principio di buon andamento della pubblica
  amministrazione  -  Lesione  del principio della ragionevole durata
  del   processo   -  Violazione  del  principio  di  obbligatorieta'
  dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 97, 111 e 112.
Processo   penale  -  Appello  -  Modifiche  normative  -  Disciplina
  transitoria - Applicabilita' della nuova disciplina ai procedimenti
  in  corso  -  Privazione  di  uno specifico mezzo di gravame per la
  parte  che  vi  aveva  riposto congruo affidamento al momento della
  impugnazione  -  Violazione  del  principio di ragionevolezza e del
  principio  del giusto processo con «parita' delle armi» - Contrasto
  con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione -
  Lesione  del  principio  della  ragionevole  durata  del processo -
  Violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 97, 111 e 112.
(GU n.8 del 21-2-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento relativo a:
Marusi  Guareschi  Rodolfo  nato a  Salsomaggiore Terme il 20 gennaio
1950,  Marusi  Quareschi  Valerio  nato a  Parma  il 14 ottobre 1972,
Franceschi Cheti nato a San Benedetto del Tronto il 24 luglio 1964.
    Attesa  la  comunicazione  della Cancelleria secondo cui e' stato
smarrito  l'originale  dell'ordinanza con la quale, in data 25 maggio
2006,  nel procedimento a carico degli imputati indicati in epigrafe,
e'  stata  sollevata  questione  di legittimita' costituzionale degli
artt. 10,  commi  1,  2  e  3  della legge n. 46/2006 e 593, comma 2,
c.p.p.;
    Considerato  che  non  e'  possibile provvedere alla surrogazione
dell'atto  ex  art. 112 c.p.p., stante l'assenza di copie autentiche'
dell'ordinanza;
    Ritenuto  che,  invece, esiste la minuta dell'atto mancante - che
si   allega   al  presente  provvedimento  -  e  che  l'ordinanza  va
ricostituita secondo il tenore della minuta, riconoscendosi in questa
sede,  da parte del dott. Alberto Candi, estensore del provvedimento,
che l'originale era conforme alla minuta;
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 113 c.p.p.,
    Dispone  la  ricostituzione dell'ordinanza in data 25 maggio 2006
secondo il tenore della allegata minuta;
    Manda alla cancelleria per l'esecuzione e l'annotazione sull'atto
ricostituito  degli  estremi  della  presente ordinanza ex art. 41 d.
d'att. c.p.p.
        Bologna, addi' 20 luglio 2006
                        Il Presidente: Romeo
                                      Il consigliere estensore: Candi
                                                             Allegato
    N. 1726/04R.G. App.
                     Corte di appello DI BOLOGNA
              Ordinanza ex art. 23 della legge 87/1953
    La  Corte  di  appello  di  Bologna, Sezione I penale, riunita in
camera di consiglio e composta dai Sigg.
    dott. Giovanni Romeo - Presidente
    dott. Alberto Candi - Consigliere
    dott. Francesco Rosetti - Consigliere
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel procedimento a carico di:
    MARUSI GUARESCHI Rodolfo n. a Salsomaggiore Terme il 20/1/1950,
    MARUSI GUARESCHI Valerio n. a Parma il 14/10/1972,
    FRANCESCHI Cheti n. a San Benedetto del Tronto il 24/7/1964.
    Il  tribunale di Parma ha assolto gl'imputati dal delitto di atti
fraudolenti,  sui  beni  propri  o altrui, tali da rendere inefficace
l'esecuzione  esattoriale,  al  fine  di sottrarsi al pagamento delle
imposte,  previsto  dall'art. 97,  comma  6,  del d.p.r. 602/1973. La
vicenda  riguarda  tre  societa',  rispettivamente  denominate Maguro
s.p.a.,   Carisma   s.p.a.,   e   Karman   Holding   S.A.   (societa'
lussemburghese).  MARUSI  GUARECHI  Rodolfo, all'epoca dei fatti, era
presidente  del  consiglio  di  amministrazione  delle  prime  due  e
vicepresidente   dell'organo   amministrativo   della  terza;  MARUSI
GUARECHI  Valerio,  figlio  di  Rodolfo,  era amministratore delegato
della  seconda;  FRANCESCHI  Cheti  era amministratore delegato della
terza.  Stando  alla  ricostruzione  dei  fatti operata dall'accusa e
fatta  propria dal tribunale, dopo che la societa' di riscossione dei
tributi per la provincia di Reggio Emilia, Riscoservice s.p.a., aveva
iniziato  una procedura esecutiva nei confronti della Carisma s.p.a.,
sottoponendo  a  pignoramento  i  beni  immobili di questa societa' a
tutela  di  un credito tributario maturato di oltre cento miliardi di
lire,  gl'imputati,  in  concorso  tra loro, al fine di sottrarre gli
immobili  della Carisma s.p.a. all'esecuzione, simularono una vendita
degli stessi alla Karman, cosi' violando la norma contestata.
    Il tribunale ha ritenuto che il d.l.vo 74/2000 non abbia abrogato
la disposizione dell'art. 97 cit, poiche' - rispetto a quest'ultima -
il  reato ora previsto dall'art. 11 del citato decreto legislativo si
trova  in  rapporto  di continuita' normativa. Ha ritenuto, altresi',
provato  che  la  vendita  di  cui  si tratta fosse un atto simulato,
rientrante nella condotta fraudolenta prevista e punita dall'art. 97,
comma 6, del d.p.r. 602/1973. Ha, tuttavia, affermato l'insussistenza
del  reato,  poiche'  non  si  era verificato l'evento previsto dalla
norma,  consistente  nell'avere  - la condotta contestata - cagionato
l'inefficacia   della  esecuzione  esattoriale.  In  particolare,  ha
osservato  il  primo  giudice  che, nonostante la Corte di appello di
Bologna,  in  data  16/10/2001,  avesse  dichiarato l'inefficacia del
pignoramento  ed  estinta la procedura d'esecuzione, questa procedura
ed  il  pignoramento  dovevano ritenersi ancora validi ed efficaci in
considerazione  del  ricorso  per  cassazione promosso dalla societa'
creditrice,  a  seguito  del  quale la causa era tuttora pendente. Le
Sezioni  unite civili della Corte di cassazione, infatti, ritenuta la
giurisdizione  del  giudice  ordinario, avevano trasmesso gli atti al
Presidente per l'assegnazione della causa ad una sezione semplice. Di
qui,  il  proscioglimento  di tutti gl'imputati per insussistenza del
fatto.
    Contro  la  sentenza  di  primo  grado,  ha  proposto  appello il
procuratore  della  Repubblica di Parma, il quale deduce l'erroneita'
della  sentenza  del  tribunale e chiede che la stessa sia riformata,
con  condanna  degl'imputati  alle  pene  ritenute  di  giustizia. In
particolare,  il  rappresentante della pubblica accusa osserva che il
primo  giudice  ha  errato  nel  ritenere  non  verificatosi l'evento
dell'inefficacia   della   esecuzione  esattoriale.  In  realta',  la
societa' concessionaria del servizio di riscossione dei tributi, dopo
la    sentenza    della    Corte   di   appello,   si   era   trovata
nell'impossibilita' di procedere alla vendita dei beni pignorati e la
procedura esecutiva era stata estinta. Ne' sarebbe stato possibile un
nuovo  pignoramento,  in  considerazione  della  intervenuta simulata
vendita  degli  immobili. Nonostante la vicenda civilistica non fosse
ancora  terminata, essendo ancora in corso il giudizio di cassazione,
una eventuale decisione di annullamento della sentenza della Corte di
appello  di  Bologna  non avrebbe potuto, in ogni caso, cancellare il
fatto storico della intervenuta paralisi della procedura esecutiva in
corso,  integrante  l'evento  del  reato.  Questo,  pertanto,  doveva
intendersi   pienamente   consumato  e  gl'imputati  dovevano  essere
considerati  responsabili  dello stesso. In subordine, doveva in ogni
caso ritenersi perpetrato il tentativo del delitto contestato.
    Dal 9/3/2006 e' in vigore la legge 46/2006 sulla inappellabilita'
delle   sentenze   di   proscioglimento.   L'art. 593   c.p.p.,  come
riformulato  dalla  legge,  esclude  che  l'imputato  e  il  pubblico
ministero   possano   presentare   appello   contro  le  sentenze  di
proscioglimento, se non nell'ipotesi prevista dall'art. 603, comma 2,
di  nuova  prova decisiva sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di
primo  grado.  A  sua  volta, l'art. 10 della legge 46/2006, dedicato
alla  disciplina  transitoria, dichiara le nuove norme applicabili ai
giudizi in corso sin dalla entrata in vigore della legge; e aggiunge,
poi,  che  l'appello  proposto dall'imputato o dal pubblico ministero
contro  le  sentenze di proscioglimento prima della entrata in vigore
della   legge,  viene  dichiarato  inammissibile  con  ordinanza  non
impugnabile, con facolta' - per la parte impugnante - del ricorso per
cassazione  contro  la  sentenza  di primo grado entro quarantacinque
giorni dalla notifica del provvedimento d'inammissibilita'.
    Stando  a  queste  disposizioni,  la  corte  dovrebbe  dichiarare
inammissibile  l'appello  proposto  dal pubblico ministero avverso la
sentenza  del tribunale di Parma di cui in premessa. Esistono, pero',
dei  profili  della  nuova  normativa'  che legittimano il dubbio di'
contrarieta'  della stessa alla Costituzione, come meglio si dira'. E
nel  caso  in  cui il giudice delle leggi dovesse ritenere fondata la
questione di legittimita' costituzionale e pronunciarsi nel senso che
gli  artt. 593  c.p.p.,  nella  nuova  formulazione, e 10 della legge
46/2006  sono  contrari  alla  Carta  fondamentale nella parte in cui
impediscono  (al  di  la'  delle  limitate  ipotesi  tuttora ammesse)
l'appello  del  pubblico  ministero  contro  il  proscioglimento  del
giudice  di  primo  grado,  estendendo  l'inappellabilita' anche alle
impugnazioni  proposte  prima  del  9 marzo 2006, allora questa corte
potrebbe  entrare  nel  merito del gravame proposto e decidere per la
conferma  o  la  riforma  della  sentenza  del  tribunale.  Di qui la
rilevanza della questione per il presente procedimento.
    Gli aspetti che rendono non manifestamente infondata la questione
di  costituzionalita'  dell'art. 593  c.p.p.,  come novellato, sono i
seguenti.
    L'avere fortemente limitato la facolta' d'appello dell'imputato e
del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, rimasta
in  piedi  in  casi  del  tutto  marginali,  ha  prodotto un grave ed
irragionevole  squilibrio  tra le parti del processo; in particolare,
infrangendo   la   cosiddetta  «parita'  delle  armi»  loro  offerte.
Difficilmente  l'imputato  ha  da dolersi del proscioglimento, che va
nel   senso   del   suo  interesse;  e'  naturale,  invece,  che  del
proscioglimento  si  dolga  il  pubblico  ministero,  che ha promosso
l'azione  penale  convinto di poter sostenere l'accusa ed ottenere la
condanna  dell'imputato.  La  lettera  della  nuova norma, che sembra
rivolgersi, indifferentemente all'una e all'altra parte dei processo,
tradisce  percio' un forte ridimensionamento delle facolta' d'appello
del solo pubblico ministero.
    La  Corte  costituzionale  ha  insegnato,  in  materia  di limiti
all'appello  del  pubblico  ministero  contro  le  sentenze  emesse a
seguito  di  giudizio abbreviato, che «il principio della parita' fra
accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri
processuali  del  pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo
difensore»  1).  Ma  non  ha  mancato  di aggiungere che un eventuale
diverso trattamento delle facolta' processuali - e, quindi, anche del
potere  d'appello  -  del  pubblico  ministero, per essere conforme a
Costituzione,   deve   trovare   una  ragionevole  motivazione  nella
peculiare  posizione istituzionale del p.m., o nella funzione ad esso
affidata,  o  nelle  esigenze  di  una corretta amministrazione della
giustizia 2). Nulla di tutto cio' si riscontra nella novella in esame
ai  sensi  della  quale - diversamente dal caso di cui, all'epoca, si
occupo'  la  Corte  -  non  si  impedisce  al  pubblico  ministero di
appellare  contro  delle  sentenze  di  condanna. bensi' contro delle
sentenze  di  proscioglimento. Cio' sembra configurare una violazione
della par condicio tra le parti. Non si vede come possa rientrare nel
processo  «ad  armi  pari»  la  facolta', per l'imputato, di proporre
appello  contro  la  decisione  a  lui negativa ed il divieto, per il
pubblico  ministero, di proporre lo stesso tipo di gravame in caso di
sentenza  a  lui  sfavorevole.  Ne'  sembrano ravvisabili esigenze di
corretta  amministrazione  della  giustizia,  o  fattori  legati alla
posizione  o alla funzione tipica del pubblico ministero, che possano
giustificare   il  diniego  a  quest'ultimo  dell'appello  contro  le
sentenze  di  proscioglimento. Al contrario, sia la funzione affidata
al  pubblico  ministero  come  organo  di  giustizia, sia un'adeguata
amministrazione  di  quest'ultima,  dovrebbero  indurre  a garantire,
attraverso strumenti congrui, e non deboli, il ripristino della legge
violata  e  la  punizione dei colpevoli. Non si puo' dimenticare che,
alla  base  del  processo  penale,  vi  e'  l'esigenza dello Stato di
garantire il ripristino dei diritti della persona offesa; diritti che
non  sono  puramente  e semplicemente quelli relativi al risarcimento
del  danno  cagionato  dal  reato,  ma  che si spingono alla garanzia
dell'interesse  della  vittima  di vedere tutelata dallo Stato, nella
sede  penale  a  cio'  deputata,  la  violazione  della propria sfera
personale,  colpita  da una condotta costituente reato. E' certamente
vero  che,  nel presente caso, il danneggiato dal reato e' il fisco e
non  una  persona  privata,  ma la tutela dell'offeso non appare, per
cio'  solo,  di  minore  dignita'.  Va,  infatti,  considerato che le
disposizioni  relative  all'imposizione  tributaria sono, pur sempre,
dettate  in  funzione  della  solidarieta'  che lega tra loro tutti i
cittadini  e  del piu' adeguato sviluppo che lo Stato deve offrire, a
ciascuno  di costoro, in seno alla comunita' (artt. 53, 2 e 3 Cost.).
Appare,   percio',  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
violazione  dell'art.  111 della Costituzione. La par condicio tra le
parti non si limita al contraddittorio che avviene in primo grado, ma
necessariamente  si  estende  al  giudizio  in  grado  d'appello.  Il
contraddittorio tra le parti in condizioni di parita' di cui parla il
secondo   comma  dell'art.  111  Cost.,  non  sembra  coincidere  col
contraddittorio  sulla  prova  di  cui  al  quarto comma dello stesso
articolo,  ne'  limitarsi  ad  esso.  Ed,  allora, restringere, senza
ragionevoli  e  giustificati  motivi,  i casi d'appello solo, per una
parte  del  processo,  e  non  per l'altra, appare lesivo della norma
costituzionale.  Va  aggiunto  che il riferimento che viene da taluno
invocato,  per  giustificare  la  nuova  disciplina, alla Convenzione
Europea  sulla  salvaguardia  dei  diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali non appare fondato. Infatti, se e' vero che l'art. 2 del
protocollo  11  della  citata  Convenzione prevede che chiunque venga
dichiarato  colpevole  di un reato da un giudice di primo grado ha il
diritto  di sottoporre ad un ufficio della giurisdizione superiore la
dichiarazione  di  condanna,  e'  vero  altresi' che il secondo comma
dello  stesso  articolo consente eccezione a detto principio nel caso
in cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da
un  tribunale della giurisdizione piu' elevata o sia stata dichiarata
colpevole  e  condannata  a  seguito  di  un  ricorso  avverso il suo
proscioglimento;  e questo era, appunto, cio' che avveniva in caso di
accoglimento  dell'appello  contro il proscioglimento in primo grado,
prima dell'intervento riformatore.
    La   violazione   dell'art.   111   della   Costituzione   sembra
prospettarsi  anche  per  contrasto  della  nuova  disciplina  con il
principio  della ragionevole durata del processo. L'impossibilita' di
proporre   appello   contro   le   sentenze   di   proscioglimento  e
l'allargamento  dei  casi  del  ricorso  per  cassazione  mediante la
possibilita', affidata alla Suprema corte, di scrutinare la logicita'
della  motivazione  sulla scorta degli atti processuali, determinera'
un  aumento  esponenziale  del  lavoro di quest'ultima ed, in caso di
accoglimento  del ricorso, un regresso alla fase del primo grado, con
evidente  dilatazione  dei tempi processuali, scarsamente compatibile
con  il dettato costituzionale. Prospettandosi, altresi'. il rischio,
palese  nel  presente  caso,  che  -  se fondata - l'istanza punitiva
portata  avanti  dal  pubblico  ministero  si  trovi frustrata per il
decorso dei termini massimi di prescrizione, certamente calcolati dal
legislatore   quando   il   meccanismo  processuale  prevedeva  altre
scansioni temporali ed una diversa disciplina dei gradi del processo.
    Quest'ultimo  rilievo  permette  di  introdurre  il  ragionamento
relativo  ad  un'altra  disposizione  della  Costituzione. la cui non
manifesta  violazione  e'  prospettabile:  l'art.  112.  La  corte e'
consapevole  che  non sempre il giudice delle leggi ha ricollegato la
facolta'   d'appello   del   pubblico   ministero   al  principio  di
obbligatorieta'  della  azione  penale  3). Tuttavia. vi e' un altro,
anche  se  piu' datato, indirizzo della Corte costituzionale, secondo
cui  l'esercizio  del  potere  d'appello della pubblica accusa non e'
altro che un'emanazione del principio fissato dall'art. 112 Cost. Se,
nell'interpretazione  di  cui  la Consulta e' organo sovrano, dovesse
prevalere  questo  secondo  indirizzo,  la  questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  593,  comma  2,  c.p.p.,  come  novellato,
sarebbe  non manifestamente infondata anche con riguardo all'art. 112
della Carta fondamentale. A favore di questo secondo indirizzo milita
anche  l'osservazione  teste'  accennata.  La  dilatazione  dei tempi
processuali  che  si  e'  ottenuta  con  l'abolizione  della facolta'
d'appello    del   pubblico   ministero   contro   le   sentenze   di
proscioglimento,  rende  assai  verosimile - in ragione degli attuali
tempi  della giustizia - che l'istanza punitiva dello Stato, anche se
fondata,  non  trovi  soddisfazione  in  ragione  del  decorso  della
prescrizione.  Evento  - questo - che rischia di svilire l'obbligo di
esercizio  dell'azione penale da precetto costituzionale a stentorea,
quanto  vacua,  proclamazione  di potere destinata a non avere alcuna
concreta incidenza nella pratica.
    La  terza  norma  costituzionale,  con la quale il nuovo art. 593
c.p.p.  sembra  confliggere, e' l'art. 3 della Carta fondamentale. Se
il  principio  di  ragionevolezza  si  sostanzia  nella necessita' di
trattamento  dei  casi simili in modo simile, e dei casi disuguali in
modo  disuguale,  si  stenta  a  comprendere perche' la norma attuale
permetta  al  pubblico  ministero - la cui funzione nel perseguimento
dei  colpevoli  e'  sempre  la  stessa  - di appellare le sentenze di
condanna  chiedendo  l'aumento  di una pena ritenuta troppo blanda, e
gl'impedisca,  invece,  di  appellare le sentenze di proscioglimento,
che ben piu' gravemente disattendono l'aspettativa di punizione dello
Stato.
    Non  sembra  manifestamente  infondata  neppure  la  questione di
legittimita'   relativa   alla   violazione  dell'articolo  97  della
Costituzione,   che   presidia   i   beni   del   buon   andamento  e
dell'imparzialita'   della   pubblica   amministrazione.   La   Corte
costituzionale  si  e'  espressa  piu'  volte  nel  senso di ritenere
applicabile questa norma anche agli organi dell'amministrazione della
giustizia  4).  Ove  si  intenda il riferimento al «buon andamento» e
all'«imparzialita»  dell'amministrazione  in termini non solamente di
efficienza  della  macchina  giudiziaria, ma anche di assicurazione a
tutti  gl'interessati,  tra  cui  le parti lese, del piu' completo ed
imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati, allora si
deve  ritenere  che  una  norma che lede le opportunita' del pubblico
ministero  di  emendare l'erroneo proscioglimento dell'imputato e che
mortifica,  al  tempo  stesso,  le legittime aspettative di giustizia
delle  persone  offese,  violi il disposto della norma costituzionale
indicata.
    In  ordine  all'art. 10, comma 1, della legge 46/2006, osserva la
corte  che anch'esso sembra violare gli artt. 3, 97, 111 e 112 Cost.,
laddove  afferma  applicabile  l'attuale art. 593, comma 2, c.p.p. ai
procedimenti in corso. Le ragioni di questa violazione sono le stesse
esposte  sopra.  Si  profila,  altresi',  un'ulteriore  disparita' di
trattamento   sotto   il   seguente   aspetto.   Non  e'  ragionevole
l'estensione  della  nuova  disciplina  al  caso  degli  appelli gia'
proposti.  E' privo di ragionevolezza (e, percio', contrario all'art.
3  della  Costituzione), oltre che contrario al principio del «giusto
processo» con «parita' delle armi» (e, quindi, contrario all'art. 111
della  Carta), privare di uno specifico mezzo di gravame la parte che
vi   aveva   riposto   congruo   affidamento   perche',   al  momento
dell'impugnazione,  quel  mezzo le era garantito dall'ordinamento. Si
sottrae,  cosi',  ad  uno solo dei contendenti, mentre e' in corso il
contraddittorio  processuale,  un'arma  sin  li' giudicata pienamente
conforme con il principio del giusto processo, e sin li' garantita ad
entrambe le parti.
    Anche  i  commi  2  e  3 dell'art. 10 sembrano in contrasto con i
principi  costituzionali.  Tali  commi  -  nell'interpretazione  piu'
restrittiva  -  impongono  al  giudice  di  dichiarare  in  ogni caso
l'inammissibilita'  degli  appelli  proposti  prima  dell'entrata  in
vigore  della  legge  46/2006 (anche nei casi in cui lo consentirebbe
l'attuale  art.  593, comma 2, c.p.p.). L'unica possibilita' concessa
al   ricorrente   e'   di   proporre  ricorso  per  cassazione  entro
quarantacinque    giorni    dalla   declaratoria   d'inammissibilita'
dell'appello.  Le ragioni d'incostituzionalita' sopra esposte valgono
anche per queste disposizioni.
    La corte,
          1) Cost. Corte costituzionale. sent. 363/1991.
          2)  V.  la  sentenza della Corte costituzionale di cui alla
          nota che precede.
          3)  Questa  connessione  e' stata negata, ad esempio, dalla
          sentenza della Corte costituzionale n. 280, 1995.
          4) Cfr. le sentenze n. ri 18/1989 e 86/1982.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
                              DICHIARA
    rilevante  ai fini del giudizio e non manifestamente infondata la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 10, commi 1, 2 e
3,  della  legge 46/2006, per violazione degli artt. 3, 97, 111 e 112
della Costituzione;
    rilevante   e   non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  593,  comma  2, c.p.p., come
modificato dall'art. 1 della legge 46/2006, nella parte in cui limita
l'appello  dell'imputato  e del pubblico ministero contro le sentenze
di  proscioglimento  alle  sole  ipotesi  ivi previste, nonche' dalle
parole  «Qualora il giudice» sino alla fine del comma, per violazione
degli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione;
                               DISPONE
    la  trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale e
sospende il giudizio in corso;
                               ORDINA
    che,   a  cura  della  cancelleria,  la  presente  ordinanza  sia
notificata  al  Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Bologna, li' 25 maggio 2006
                            Il Presidente
                         Dr. Giovanni Romeo
                      Il Consigliere estensore
                          Dr. Alberto Candi
07C0180