N. 100 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 maggio 2006

Ordinanza   emessa   il   16   maggio   2006  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale il 9 febbraio 2007) dalla Corte di appello di Cagliari
-  Sezione distaccata di Sassari, nel procedimento penale a carico di
Cosseddu Salvatore

Processo  penale  -  Appello  -  Modifiche  normative - Previsione di
  limiti  al  potere  d'appello  del  pubblico  ministero  contro  le
  sentenze  di  proscioglimento nel giudizio ordinario e nel giudizio
  abbreviato  -  Disparita' di trattamento tra la parte pubblica e le
  parti private - Violazione del principio di parita' delle parti nel
  processo   -   Contrasto   con   i   principi  dell'obbligatorieta'
  dell'azione penale e della finalita' rieducativa della pena.
- Legge  20 febbraio  2006, n. 46, artt. 1 (sostitutivo dell'art. 593
  del  codice di procedura penale), 2 (modificativo dell'art. 443 del
  codice di procedura penale) e 10.
- Costituzione, artt. 3, 27, comma terzo, 111 e 112.
(GU n.11 del 14-3-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso la seguente ordinanza nel giudizio in grado d'appello,
su  impugnazione  del  pubblico  ministero c/o il Tribunale di Tempio
Pausania,   a  carico  di  Cosseddu  Salvatore,  nato  a  Sassari  il
10 ottobre  1936 res. Olbia, via Del Cisto, n. 24; assolto perche' il
fatto  non costituisce reato con sentenza n. 758 del 10 dicembre 2003
del  Tribunale di Tempio P. Sezione Distaccata di Olbia; imputato dal
reato  di  cui  all'art. 589,  primo  e  secondo  comma c.p. perche',
messosi  alla  guida dell'autovettura «Jeep Cherokee» targata AA594JF
con  a  bordo  Deiana  Giovanni  Maria, percorrendo la S.S. 199 verso
Sassari,  giunto  in prossimita' del viadotto ubicato al Km 45 circa,
per  colpa,  consistita  nel non moderare la velocita' nonostante sul
viadotto   l'asfalto   fosse   ghiacciato,   perdeva   il   controllo
dell'autovettura, sbandava sulla propria sinistra invadendo l'opposta
corsia  di marcia, quindi urtava vari veicoli e il guardrail, in modo
tale  che  il  passeggero  Deiana  Giovanni Maria, in conseguenza dei
ripetuti  urti,  riportava una contusione rachide cervico-dorsale con
lussazione  C6 su C7, trauma cranico, ferite lacero contuse al viso e
decedeva  a  causa di scompenso cardiaco acuto trombo embolia massiva
dell'arteria  polmonare.  Con l'aggravante di avere commesso il fatto
in  violazione  dell'art. 114,  primo  comma  c.  d. s. per non avere
tempestivamente  moderato la velocita' di marcia nonostante l'asfalto
ghiacciato.
    Comm.  in  Olbia  l'8 dicembre  1998  (incidente  stradale del 22
novembre 1998).
    Sentito  nella  odierna  udienza  il  procuratore generale che ha
insistito sulla questione di legittimita' costituzionale in relazione
agli  artt. 1,  2  e  10  legge  20 febbraio 2006, n. 64, ritenuti in
contrasto con gli artt. 3, 27, 111 e 112 della Costituzione sollevata
con  la memoria depositata in atti in vista dell'udienza del 31 marzo
2006;
    Sentito  il  difensore del Cosseddu che, anche a mezzo di memoria
depositata  nell'imminenza dell'udienza odierna sostiene la manifesta
infondatezza  della questione sollevata con le osservazioni di cui si
dara' conto;

                            O s s e r v a

    Il  p.g. ha rilevato che, a seguito della entrata in vigore della
legge  20  febbraio 2006, n. 46, applicabile, a norma dell'art. 10 di
essa,  anche  ai  procedimenti  in  corso, il gravame del Procuratore
della  Repubblica dovrebbe essere, con ordinanza inoppugnabile giusta
l'art. 10.2  della  legge  citata,  dichiarato  inammissibile  avendo
l'art. 1  della  medesima  legge  reso  inappellabili  le sentenze di
proscioglimento,  salvo  che  per  i  casi previsti dal secondo comma
dell'art. 593  c.p.p.  come  novellato  dalla  medesima  legge, e che
tuttavia,  essendo  ravvisabile  contrasto fra gli articoli 1, 2 e 10
della  legge  n. 46/2006  e  gli artt. 3 e 111 della Costituzione, la
Corte dovrebbe rimettere gli atti alla Corte costituzionale.
    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo principio, nella, previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito  dal  medesimo  articolo  111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con  le  ripetute  pronunce  negative  rese  dalla  Corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarita' di questo.
    Il risultato sarebbe quello della rapida definizione dei processi
penali  conseguita  attraverso  la  decisione del processo solo sulla
base del materiale probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato,  in  vista del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita', ad intervenire
nel delicato momento della formazione della prova.
    E'  tuttavia,  se  in  un  quadro  siffatto  e' parso ragionevole
limitare  la  facolta'  di impugnazione del pubblico ministero quanto
alle   sentenze   di   condanna   (e   pertanto   in  relazione  alla
quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi
in  relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito
di  rito  abbreviato,  stante  il  perdurante  interesse  della parte
pubblica    all'accertamento    della   verita'   (e   quindi   della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna  che  modifichino  il  titolo  del  reato.  A  proposito dei
generale  interesse del p.m. a proporre appello contro le sentenza di
proscioglimento  conserva  piena  validita' il richiamo contenuto nel
messaggio  del  Presidente  della Repubblica alle Camere, la' dove si
osserva   che   «la   soppressione  dell'appello  delle  sentenze  di
proscioglimento  ...  fa  si' che la stessa posizione delle parti nel
processo  venga  ad  assumere una condizione di disparita' che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse  nel  processo.  Le  asimmetrie  tra  accusa  e  difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad   essere   sacrificate   quando,   nel  caso  non  infrequente  di
accoglimento  del  ricorso per cassazione proposto dal p.m. contro la
sentenza  assolutoria,  il  processo ritornera' in primo grado con la
prospettiva della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso
di  condanna  dell'imputato. Il principio di non colpevolezza implica
soltanto  il fatto che le conseguenze pratiche della condanna possano
discendere solo dalla sentenza definitiva, e nessuna indicazione puo'
trarsi  da  esso  circa  l'iter  per  il  quale si debba pervenire al
giudicato.
    Quello  per  il  quale la colpevolezza puo' essere affermata solo
quando  sia  provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in
questo  caso,  un  principio  di  lettura  equivoca, posto che ove si
sostenga  la  inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice
abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna
non  potrebbe  essere  pronunciata  fuor  di ogni ragionevole dubbio,
potrebbe  altrettanto  legittimamente sostenersi che sarebbe del pari
inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad
esito  di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti,
sarebbe  pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che dimostrino con la
stessa sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e  tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei
diritti  della difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo
e  non  gia'  nel  senso  che  il  confronto fra le tesi debba essere
evitato  (in  altri  termini  deve  potersi  esercitare la difesa nel
processo  e  non  gia' dal processo). Nessuno dubita che nel giudizio
d'appello  l'imputato  debba  poi  godere del pieno dispiegamento dei
diritti  che  la  legge  gli riconosce: ma non si vede in che cosa la
celebrazione  del  secondo  grado del giudizio di merito, sia pure ad
istanza  del  pubblico  ministero,  possa compromettere il diritto di
difesa  (diverso  sarebbe  se ci si appellasse al principio del favor
rei,  che  pero'  vale  nei  soli casi in cui la legge faccia ad esso
riferimento   e  non  risulta  essere  stato  ricompreso  fra  quelli
garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art. 111  (ed anche, a questo
punto,  all'art. 3)  della costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando  si  osservi  che  nella  stesura  definitiva  della  legge 20
febbraio  2006  n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il
diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art. 576   c.p.p.   alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista  nell'appello).  Si  deve constatare pertanto che alla parte
pubblica,   portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui  si
tornera'   tra  breve,  e'  stato  del  tutto  ingiustificatamente  e
irragionevolmente  riservato  un potere di' impugnazione piu' ridotto
che  alle parti private e questo dato, indubitabile, non puo' che far
risaltare  in  maniera  ancor  piu'  evidente  il  vulnus subito, per
effetto  delle  norme  che vengono sottoposte al giudice delle leggi,
dal principio della parita' delle parti.
    Non  sono  tali  da  convincere  della non manifesta infondatezza
della  questione sollevata dal p.g. le notazioni della difesa, che ha
riproposto    gli   argomenti   desumibili   dalla   gia'   ricordata
giurisprudenza della Corte costituzionale e del cui significato si e'
gia'  detto.  Del  tutto priva di rilevanza sembra poi l'osservazione
secondo   la   quale   nel  sistema  processuale  italiano  sarebbero
ravvisabili  anche  asimmetrie  di altro genere, essendo riservati al
p.m. poteri dei quali le altre parti non possono disporre: a parte il
rilievo circa la peculiarita' della posizione del pubblico ministero,
sulla  quale  si  tornera'  fra  breve,  e quindi sulla necessita' di
assicuragli  i  mezzi  per  l'attuazione  dei  suoi compiti, non deve
sfuggire che, sopratutto a seguito della novella sulle investigazioni
difensive, alle parti private siano oggi riconosciute facolta' per il
pregresso  negate,  e  che  si sia ormai pervenuti ad una sostanziale
parita'  di  mezzi processuali fra le parti. Ma cio' che in ogni caso
deve  essere  chiaro  e'  che  ad assicurare la parita' dei mezzi ben
potrebbe  il legislatore, ove ne ravvisi ancora l'esigenza, pervenire
attraverso  l'accesso  delle  parti  private agli strumenti che siano
fln'ora   riservati   alla  parte  pubblica,  e  non  gia'  mutilando
quest'ultima  di  una importante facolta' riservata invece alle parti
private  (si ribadisce: la difesa deve essere esercitata nel processo
e non gia' dal processo).
    Di  nessun  pregio e' l'osservazione secondo la quale ad esito di
un giudizio di merito di secondo grado instaurato su appello del p.m.
potrebbe pervenirsi alla condanna per la prima volta sulla base di un
dibattimento  solo  cartolare  e  nel  quale non sarebbe garantito il
contraddittorio:  non  puo' sfuggire che la stessa doglianza potrebbe
avanzare  la  parte  pubblica  nell'ipotesi di assoluzione in secondo
grado,  ma il fatto e' che, con tutta evidenza, il giudizio d'appello
non   consiste,   almeno  di  norma,  nella  raccolta  del  materiale
probatorio,  che  e'  proprio  il  momento in cui si e' voluto che il
principio  del contraddittorio fosse garantito (art. 111.4 Cost.), ma
nella  sola  interpretazione  delle prove gia' raccolte e all'analisi
critica  dei risultati di esse. Chiaro che quel materiale deve essere
stato raccolto nel rispetto dei diritti dell'accusato, ma non e' dato
comprendere    perche'   si   possa   lamentare   la   mancanza   del
contraddittorio  con riguardo al giudizio di merito di secondo grado,
che ha, e non puo' che avere, carattere eminentemente valutativo.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso l'imputato (ed in realta', sebbene le ultime riforme
in   materia   processuale  abbiano  avuto  di  mira  soprattutto  il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della verita' e, quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art. 112  della  Costituzione  e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal comma terzo
dell'art. 27  della  stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di
queste  due norme si ricava che ufficio del pubblico ministero (parte
pubblica,  e  quindi  tenuta  al rispetto di comportamenti ispirati a
massima  correttezza  e  moralita',  oltre  che  onerata  anche della
ricerca  degli  elementi  favorevoli  all'imputato)  non  e' l'ottusa
persecuzione  degli incolpati, ma la realizzazione del compito, della
cui  primaria  importanza  si  e'  detto,  di  far si' che i soggetti
devianti  vengano  recuperati  ad una convivenza civile e ordinata. E
menomare  i mezzi attraverso i quali l'azione del pubblico ministero,
nel  rispetto del principio di parita' delle parti, si deve esplicare
significa  in  definitiva  legiferare in contrasto, anche, con le due
previsioni costituzionali ora richiamate.
    Vero  e'  che il Giudice delle leggi ha gia' osservato non essere
il  potere  di  impugnazione  del  pubblico ministero estrinsecazione
necessaria  dei  poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale, ma
(e non senza aver per richiamato anche in questo punto il contesto in
cui  quella  affermazione,  citata  nella memoria difensiva, e' stata
formulata)  non  si puo' non osservare che, in questo caso, il potere
di  impugnazione del p.m. deve essere visto in confronto al parallelo
potere  delle  parti  private,  e  deve  essere  letto,  almeno nella
prospettiva  qui  suggerita, in relazione al principio dell'emenda (o
anche,  se si vuole, della tutela sociale, ben potendosi ritenere che
questo  ultimo  obiettivo possa essere conseguito anche attraverso la
rieducazione  di chi delinqua). Che poi il potere di impugnazione del
p.m.  non  sia ne' automatico, ne' obbligatorio e sia rinunciabile e'
osservazione  che non sposta in alcun modo i termini della questione,
poiche'  caratteristiche affatto analoghe hanno le impugnazioni delle
parti private.
    Negare  infine  che il potere di impugnazione del p.m. avverso le
sentenze  di  assoluzione  contrasti  con l'esigenza di dare compiuta
attuazione  al  principio  della  obbligatorieta'  dell'azione penale
nella  prospettiva  dell'emenda (o anche e sopratutto dell'emenda) di
responsabili  di  reati  significa in definitiva negare allo Stato (e
per  esso  al  p.m.)  la potesta' di individuare e perseguire - senza
ricorrere  per  questo  ad  alcuna  anticipazione di pena - chi debba
essere  destinatario  della  risposta  giudiziaria  alle  devianze. E
significativamente  la  memoria  della difesa si chiude adombrando il
dubbio  che  il  processo  sia  strumento  inteso  alla ricerca della
verita': ma davvero non si saprebbe quale altro fine, oltre a quello,
successivo   e  variamente  condizionato,  della  applicazione  della
sanzione di legge ed eventualmente della riparazione del danno, possa
assegnarsi,  e  storicamente  sia stato sempre assegnato, al processo
penale.
    La  corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della   questione   di'  legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione  del  processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti la definizione del processo a carico
del  Cosseddu  con il possibile ribaltamento della decisione di primo
grado  e  la  condanna  dell'imputato), dispone la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale sospendendo il giudizio in corso.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevanti e
non   manifestamente   infondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale  esposte  in  parte  motiva, e, sospeso il processo in
corso,   ordina   l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale perche' giudichi:
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra  gli  artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e
gli artt. 3 e 111 della Costituzione;
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto fra gli artt 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e gli
artt. 27, comma terzo e 112 della Costituzione.
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
        Sassari, addi' 16 maggio 2006
                       Il Presidente: Tabasso
07C0275