N. 112 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 settembre 2006

Ordinanza  emessa  il  6 settembre 2006 dalla Corte di cassazione nel
procedimento penale a carico di Girardi Pasquale

Reati e pene - Prescrizione - Reati puniti con pena diversa da quella
  detentiva  e  da  quella  pecuniaria  -  Previsione  del termine di
  prescrizione   di   tre  anni  -  Contrasto  con  il  principio  di
  ragionevolezza - Violazione del principio di uguaglianza.
- Codice  penale, art. 157, comma quinto, come sostituito dall'art. 6
  della legge 5 dicembre 2005, n. 251.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.12 del 21-3-2007 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sul ricorso proposto dal
Procuratore  generale della Repubblica presso il G.i.p. del Tribunale
di  Rimini  nei confronti di Girardi Pasquale nato il 1° maggio 1969,
avverso  sentenza  del  1°  marzo  2006  dal  G.i.p. del Tribunale di
Rimini.
    Sentita  la relazione fatta dal consigliere Macchia Alberto lette
le   conclusioni   del  p.g.  dott.  V.  D'Ambrosio  che  ha  chiesto
l'annullamento della sentenza con rinvio.

                            O s s e r v a

    Con  sentenza  del  1°  marzo  2006,  il  Giudice per le indagini
preliminari  del  Tribunale  di Rimini ha pronunciato sentenza con la
quale  ha  dichiarato  non doversi procedere nei confronti di Girardi
Pasquale  in ordine ai reati di cui agli artt. 612 e 594 cod. pen. al
medesimo  ascritti,  e  commessi il 2 ottobre 2001, in quanto estinti
per  intervenuta  prescrizione,  essendo  decorsi  i termini previsti
dall'art.  157  cod. pen., come modificati ad opera dell'art. 6 della
legge  5  dicembre  2005,  n. 251, senza che fossero intervenuti atti
interruttivi, a norma dell'art. 160 cod. pen.
    Avverso   la   statuizione   adottata  dal  giudice  del  merito,
evidentemente  fondata  sulla  disposizione  dettata dal quinto comma
dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della richiamata
legge  n. 251 del 205 - in base al quale e' stabilito che «quando per
il  reato  la  legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da
quella  pecuniaria»  il  termine  di  prescrizione  di  tre anni - ha
proposto  ricorso  per  cassazione  il  pubblico ministero, deducendo
violazione  di  legge.  A  parere  del  ricorrente, infatti, non puo'
ritenersi  accoglibile  la  tesi  secondo  la quale tale disposizione
sarebbe  riferibile ai reati di competenza del giudice di pace, per i
quali  sono previste le peculiari sanzioni dell'obbligo di permanenza
domiciliare   o   del   lavoro  di  pubblica  utilita',  giacche'  si
perverrebbe   all'assurdo  di  ritenere  applicabile  il  termine  di
prescrizione  piu'  breve alle ipotesi piu' gravi, mentre per i reati
meno  gravi,  puniti  con  la  sola  pena della multa o dell'ammenda,
rimarrebbe  applicabile  il  maggior termine di prescrizione previsto
dal  primo comma dell'art. 157 cod. pen. Donde la conclusione secondo
la  quale, non potendosi «ritenere applicabile ai reati di competenza
del giudice di pace il piu' breve termine triennale di prescrizione»,
occorrerebbe  nella  specie fare riferimento al primo comma dell'art.
157  cod.  pen.,  con  la  conseguenza  che - considerata l'epoca del
commesso   reato   -  deve  applicarsi  il  termine  quinquennale  di
prescrizione  previsto  dall'art.  157  nel testo previgente, essendo
esso  piu'  favorevole,  a  norma  dell'art.  2  cod. pen., del nuovo
termine di sei anni stabilito per i delitti dalla novella.
    Il  testo  della  norma  che  viene  qui  in discorso e' peraltro
univoco,  giacche'  altro significato non sembra potersi annettere al
riferimento ai reati per i quali la «legge stabilisce pene diverse da
quella  detentiva  e  da  quella  pecuniaria»,  se  non  quello di un
richiamo ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, per
i  quali  e'  stabilita  l'applicabilita'  delle  cosiddette sanzioni
paradetentive  della  permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica
utilita',  a norma dell'art. 52 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. E'
quindi  del  tutto  evidente  che,  ai  fini della odierna decisione,
occorre  fare  applicazione  della  disposizione  dettata proprio dal
quinto  comma  dell'art.  157  cod.  pen., nel testo risultante dalla
sostituzione   operata  dall'art. 6  della  legge  n. 251  del  2005,
dovendosi  al  tempo stesso escludere la possibilita' di ricorrere ad
interpretazioni   adeguatrici,   tali   da   dissolvere  i  dubbi  di
costituzionalita'  che,  qui  di  seguito,  si illustreranno. Occorre
infatti  a  tal  proposito  qui rilevare come la giurisprudenza delle
sezioni unite di questa Corte abbia in piu' occasioni chiarito che la
cosiddetta  interpretazione  adeguatrice,  pur  corrispondendo  ad un
preciso  ed  ineludibile dovere del giudice, puo' in concreto trovare
applicazione   soltanto   nelle   ipotesi   in  cui  una  determinata
disposizione presenti un carattere «polisenso», cosicche' da essa sia
enuciabile,  senza  manipolarne il contenuto - ed in ossequio, anche,
al  principio  di  conservazione  dei  valori  giuridici  - una norma
compatibile  con  la  Costituzione  «attraverso  l'impiego dei canoni
ermeneutici  prescritti  dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla
legge  in  generale: di talche', nell'impossibilita' di conformare il
significato  della  norma in termini non incostituzionali, il giudice
non   puo'   disapplicarla,   ma   deve  rimettere  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  al  vaglio  della  Corte costituzionale
(Cass., sez. un., 31 marzo 2004, Pezzella; Cass., sez. un., 30 maggio
2006, Pellegrino).
    Ebbene,  a  proposito  delle  sanzioni applicabili dal giudice di
pace  -  o  dal  giudice  comunque  chiamato a giudicare dei reati di
competenza  del  giudice di pace (art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 274
del  2000)  -  l'art. 52 del citato d.lgs. n. 274 del 2000 stabilisce
una  sorta  di  summa  divisio tra i reati per i quali e' prevista la
sola  pena  della  multa  o  dell'ammenda,  per i quali continuano ad
applicarsi le pene pecuniarie vigenti, e tutti gli altri reati, per i
quali il comma 2 dello stesso articolo stabilisce che, in luogo delle
pene  detentive, si applichi - con meccanismi differenziati a seconda
delle  varie  ipotesi  ivi  prese  in  considerazione  -  o  la  pena
pecuniaria  della  specie  rispondente,  o  la  pena della permanenza
domiciliare  o  quella  del  lavoro  di pubblica utilita' (ove per il
reato sia prevista la pena detentiva alternativa a quella pecuniaria,
le  sanzioni  «paradetentive»  sono  applicabili  soltanto se la pena
detentiva  e'  superiore nel massimo a sei mesi). In sostanza: per le
ipotesi  meno  gravi, per le quali la sanzione applicabile e' solo la
pena pecuniaria, il termine di prescrizione e', a norma del novellato
art.  157  cod. pen., quello previsto dal primo comma (sei anni se si
tratta  di  delitto  e quattro anni se si tratta di contravvenzione);
nei  casi  di  maggior  gravita',  quali  quelli  per  i  quali  sono
applicabili  le  pene  della  permanenza  domiciliare o del lavoro di
pubblica utilita', il temine, inspiegabilmente, si riduce a tre anni.
    Va  poi  aggiunto che le indicate sanzioni, che «per ogni effetto
giuridico   si   considerano   come   pena   detentiva  della  specie
corrispondente  a  quella  originaria» (art. 58 del d.lgs. n. 274 del
2000,  evocativo  di  un  meccanismo  di «sostituzione» che trasporta
quelle   pene   dallo  schema  dell'editto  alla  sede  squisitamente
applicativa),  vengono  configurate  come  in ogni caso facoltative e
alternative    rispetto    alle   sanzioni   pecuniarie:   cosicche',
commisurazione del termine di prescrizione viene fatto dipendere, non
da una pena strettamente prevista (e di certa applicazione), ma dalla
teorica  irrogabilita'  di  una  sanzione,  la quale in concreto puo'
anche  non  essere applicata. D'altra parte, non e' senza significato
la  circostanza  che  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  si fosse
consolidata  nell'affermare  -  con  riferimento  al  «vecchio» testo
dell'art. 157 cod. pen. - che, ai fini della determinazione del tempo
necessario  per la prescrizione delle contravvenzioni attribuite alla
cognizione  del  giudice di pace, punite con la pena pecuniaria o, in
alternativa,  con le sanzioni cosiddette paradetentive, dovesse farsi
riferimento  all'art. 157,  primo comma, n. 5), cod. pen., che per le
contravvenzioni  punite  con  la  pena  dell'arresto determina(va) il
termine prescrizionale in tre anni; e cio', appunto, proprio in forza
della disposizione contenuta nel richiamato art. 58 del d.lgs. n. 274
del  2000,  in  base  al  quale - come si e' detto - per ogni effetto
giuridico  la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e di lavoro
di  pubblica utilita' si considerano come pena detentiva della specie
corrispondente  a  quella  della  pena originaria (cfr., ex plurimis,
Cass., sez. IV, 16 gennaio 2004, Carlini; Cass., sez. IV, 18 novembre
2003, Cecconi; Cass., sez. IV, 3 dicembre 2002, Guzman Avila).
    La  previsione  che  qui si censura appare dunque essere priva di
razionalita'  intrinseca  e  tale  da  vulnerare,  ad  un  tempo,  il
principio   di   ragionevolezza   ed  il  canone  della  uguaglianza,
presidiati dall'art. 3 della Costituzione. Come infatti ha avuto modo
di  puntualizzare  la  giurisprudenza  costituzionale,  ogni  tessuto
normativo deve «presentare una "motivazione" obiettivata nel sistema,
che  si  manifesta  come  entita'  tipizzante  del  tutto  avulsa dai
"motivi",  storicamente  contingenti,  che  possono  aver  indotto il
legislatore  a  formulare  una  specifica opzione: se dall'analisi di
tale  motivazione  scaturira' la verifica di una carenza di "causa" o
"ragione"  della  disciplina  introdotta,  allora  e  soltanto allora
potra' dirsi realizzato un vizio di legittimita' costituzionale della
norma, proprio perche' fondato sulla "irragionevole" e percio' stesso
arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce
per  omologare  fra  loro  situazioni  diverse  o,  al contrario, per
differenziare  il  trattamento  di situazioni analoghe» (Corte cost.,
sentenza  n. 89  del  1996). La disposizione oggetto di impugnativa -
rilevante,  per  quel che si e' detto, nel presente giudizio - appare
dunque  essere,  ad  avviso  di  questa  Corte,  priva di una «causa»
giustificatrice,   proprio  nel  senso  lumeggiato  dalla  richiamata
pronuncia  costituzionale,  giacche' l'evidente propria normativa che
con essa si introduce nel sistema non puo' giustificarsi alla luce di
nessun  valore,  esigenza  o  ratio  essendi  intrinseca  alla intera
disciplina che il legislatore ha inteso novellare.
    Da  tutto  cio'  la  conseguente  declaratoria di rilevanza e non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  157,  quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6
della  legge  n. 251 del 2005, nella parte in cui appunto prevede che
quando  per  il  reato  la  legge  stabilisce  pene diverse da quella
detentiva  e  da  quella pecuniaria si applica, per la determinazione
del  tempo necessario a prescrivere il reato, il termine di tre anni,
per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata in riferimento
all'art.   3   della   Costituzione,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  157, quinto comma, del codice penale, come
sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al  codice  penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti  generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze  di  reato  per  i recidivi, di usura e di prescrizione),
nella  parte  in  cui  prevede  che  quando  per  il  reato  la legge
stabilisce  pene  diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria,
si applica il termine di tre anni.
    Dispone   la   immediata   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale e la sospensione del giudizio in corso.
    Dispone  che  a  cura della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Cosi' deciso in Roma, addi' 31 agosto 2006.
                       Il Presidente: Fazzioli
Il consigliere estensore: Macchia
06C0306