N. 109 SENTENZA 19 - 29 marzo 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Contenzioso   tributario   -   Poteri  istruttori  delle  Commissioni
  tributarie  - Facolta' di ordinare alle parti, nei limiti dei fatti
  dedotti,  di produrre documenti ritenuti necessari per la decisione
  -   Mancata   previsione   -  Denunciata  assoluta  irrazionalita',
  ingiustificata   discriminazione  tra  cittadini  a  seconda  della
  tipologia  degli accertamenti da svolgere, compressione del diritto
  di difesa del contribuente - Esclusione, in base ad interpretazione
  dei  poteri  officiosi  delle  Commissioni  tributarie  ispirata ai
  principi  della  terzieta'  del  giudice,  dell'onere della prova e
  dell'applicabilita'  (in quanto compatibili) delle norme del codice
  di procedura civile - Non fondatezza della questione.
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 1.
- Costituzione, artt. 3 e 24.
(GU n.14 del 4-4-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Francesco  AMIRANTE,  Ugo  DE  SIERVO, Romano VACCARELLA,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, del
decreto   legislativo  31 dicembre  1992,  n. 546  (Disposizioni  sul
processo  tributario  in attuazione della delega al Governo contenuta
nell'art. 30  della  legge  30 dicembre  1991,  n. 413), promosso con
ordinanza del 26 maggio 2006 dalla Commissione tributaria provinciale
di  Novara sul ricorso proposto da Fallara Francesco contro l'Agenzia
delle  Entrate  di  Novara, iscritta al n. 435 del registro ordinanze
2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, 1ª
serie speciale, dell'anno 2006;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera di consiglio del 21 febbraio 2007 il giudice
relatore Romano Vaccarella.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con ordinanza del 26 maggio 2006 la Commissione tributaria
provinciale  di Novara ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art. 7,  comma 1,  del  decreto  legislativo  31 dicembre  1992,
n. 546  (Disposizioni  sul  processo  tributario  in attuazione della
delega  al  Governo  contenuta  nell'art. 30  della legge 30 dicembre
1991,  n. 413),  nella  parte  in  cui  non  prevede,  tra  i  poteri
istruttori  delle  commissioni  tributarie,  quello  di ordinare alle
parti,  pur  nei  limiti  dei  fatti  dedotti,  di produrre documenti
ritenuti necessari ai fini della decisione.
    1.1. - L'incidente e' stato prospettato nel corso del giudizio di
impugnativa  di  un avviso di accertamento in materia di IVA, fondato
su  due  verbali,  l'uno  del  Servizio Ispettivo dell'INPS (Istituto
Nazionale  della  Previdenza Sociale), nel quale era stato contestato
l'impiego  di quattro lavoratrici non iscritte nei libri obbligatori,
e  l'altro della Guardia di Finanza, col quale era stato quantificato
l'ammontare  delle  ritenute  non  operate  sugli  emolumenti ad esse
corrisposti,  come ricostruiti dagli ispettori che avevano effettuato
la  prima  verifica:  atti  in  base ai quali l'Agenzia delle Entrate
aveva  poi  calcolato,  ai  fini  dell'imposta  sul  valore aggiunto,
l'ammontare   dei  ricavi  non  contabilizzati,  corrispondenti  alle
retribuzioni pagate «in nero».
    Dato  atto  che  nessuna delle parti costituite in giudizio aveva
depositato  i predetti documenti e che gli stessi erano assolutamente
necessari  ai  fini  della  decisione  della controversia, dovendo in
mancanza  il  giudicante risolverla sulla base della regola, per vero
tutta  formale,  dell'onere della prova, piuttosto che sull'effettiva
fondatezza delle pretese hinc et inde addotte dalle parti, osserva il
rimettente,  in  punto  di rilevanza, che l'intervenuta abrogazione -
attuata  con  decreto-legge  30 settembre  2005,  n. 203  (Misure  di
contrasto  all'evasione  fiscale  e  disposizioni  urgenti in materia
tributaria  e  finanziaria),  convertito in legge, con modificazioni,
dall'art. 1,  della  legge  2 dicembre 2005, n. 248 - del terzo comma
dell'art. 7  del  decreto  legislativo  n. 546  del  1992  (il  quale
prevedeva  il  potere officioso di ordinare alle parti il deposito di
documenti  ritenuti  necessari  ai fini della decisione) gli preclude
l'esercizio di tale facolta' ed esclude altresi' la praticabilita' di
opzioni ermeneutiche idonee a recuperarla.
    1.2. - Quanto alla non manifesta infondatezza del dubbio, secondo
il  giudice  a  quo  non varrebbe a giustificare la norma il richiamo
alla  regola che, nel processo civile ordinario, vieta all'ufficio di
supplire con la sua iniziativa all'inerzia delle parti, in attuazione
del  principio costituzionale della terzieta' della giurisdizione: ed
invero  tale  disciplina,  del  tutto  congruente  al  criterio della
disponibilita'   della   prova,  appare  inaccettabile  nel  processo
tributario,  ove  vige  una  disposizione,  come quella racchiusa nel
menzionato primo comma dell'art. 7 del decreto legislativo n. 546 del
1992,  in base alla quale le commissioni hanno «ai fini istruttori, e
nei  limiti dei fatti dedotti dalle parti, [...] tutte le facolta' di
accesso,   di  richiesta  di  dati,  di  informazioni  e  chiarimenti
conferiti  agli uffici tributari ed all'ente locale da ciascuna legge
di imposta».
    Ne  deriverebbe  un  quadro  normativo assolutamente irrazionale,
atteso  che il giudice, pur avendo, nei limiti dei fatti dedotti, gli
stessi  poteri  istruttori,  anche autoritativi, dell'amministrazione
finanziaria,   non   potrebbe  tuttavia  ordinare  l'acquisizione  di
documenti, ancorche' ritenuti decisivi ai fini della pronuncia.
    Tale  normativa  sarebbe  segnatamente  lesiva  dell'art. 3 della
Costituzione,   sotto  il  profilo  che  da  essa  conseguirebbe  una
ingiustificata  discriminazione  tra  le  posizioni  processuali  dei
cittadini,  a  seconda  della  tipologia di accertamenti da svolgere,
tanto piu' che il giudice, da un lato, avrebbe un potere officioso di
indagine esercitabile anche senza la collaborazione del contribuente,
e,  dall'altro,  non  potrebbe richiedere alle parti la produzione di
documenti  con l'unica sanzione, in caso di inosservanza, di ritenere
non  utilizzabili  quelli  non  depositati  nel  termine  assegnato e
inesistenti le circostanze dagli stessi provate.
    Risulterebbe   altresi'  violato  l'art. 24  della  Costituzione,
perche',  in  un  processo  a  carattere  impugnatorio,  nel quale al
contribuente  e'  richiesto di addurre un principio di prova idoneo a
smentire  la  ricostruzione  dei  fatti autoritativamente operata con
l'atto  impugnato,  il  ricorrente  vedrebbe  sacrificato  il proprio
diritto  di  difesa  in applicazione di un principio di terzieta' del
giudice,  per il resto estraneo alla disciplina processualtributaria,
che riconosce alla commissione rilevanti poteri istruttori officiosi,
da   esercitarsi   prevalentemente,   o   esclusivamente,   a  favore
dell'ufficio,  del  quale,  a  parere  del rimettente, le commissioni
hanno i medesimi poteri di accertamento.
    Ribadito   che   la   ratio   legis   desumibile  dall'intervento
legislativo  che  ha  portato  all'attuale  formulazione dell'art. 7,
comma 1,  del  d.lgs. n. 546 del 1992, non consentirebbe un recupero,
in   via   interpretativa,   del   potere   officioso   di   ordinare
l'acquisizione  di  documenti,  la Commissione solleva l'incidente di
costituzionalita' nei termini innanzi precisati.
    2.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha  chiesto alla Corte di dichiarare inammissibile, o in
subordine manifestamente infondata, la proposta questione.
    Osserva l'esponente che il giudice a quo avrebbe anzitutto omesso
di   esplicitare  in  maniera  adeguata  le  ragioni  della  ritenuta
rilevanza  del dubbio, essendosi limitato a prospettare una asserita,
assoluta essenzialita' dei documenti mancanti ai fini della decisione
e  l'inevitabilita', in siffatto contesto probatorio, di un esito del
giudizio parametrato sul mancato assolvimento dell'onere della prova,
omettendo  di  spiegare  sia  le  ragioni  per le quali non ha inteso
accedere,  attraverso  i  poteri istruttori riconosciutigli dal primo
comma  dell'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, a quei chiarimenti e a
quelle  informazioni  che  gli avrebbero consentito di sopperire alle
prospettate  deficienze  della produzione documentale, sia le ragioni
per  le quali il ricorso a detti poteri officiosi di indagine avrebbe
alterato  il  principio di eguaglianza o sacrificato illegittimamente
il  diritto  di  difesa, di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione,
mentre  il  ripristino  della  facolta'  del  giudice  di ordinare il
deposito  dei  documenti  ritenuti essenziali ai fini della decisione
sanerebbe  la prospettata situazione di illegittimita' costituzionale
dell'impianto istruttorio del processo tributario.
    Ricordato  che,  proprio  con riguardo al processo tributario, la
Corte  costituzionale  (sentenza  n. 18  del  2000)  ha avuto modo di
chiarire  che il principio di eguaglianza si sostanzia nella «parita'
di armi» tra le parti del processo, osserva la difesa erariale che la
norma  impugnata,  fissando  una  regola  astrattamente  valevole per
entrambe  le parti, e facendone dipendere dalle peculiarita' del caso
concreto  gli effetti, a seconda dei casi, sfavorevoli o vantaggiosi,
per   l'una   o   per  l'altra,  sarebbe  conforme  all'art. 3  della
Costituzione.
    Segnala   anche  l'interveniente  come  la  giurisprudenza  della
Suprema  Corte  abbia  evidenziato anche in tempi recentissimi (Cass.
11 gennaio  2006,  n. 339)  che  il  processo tributario si fonda sul
principio  dispositivo  di  cui  all'art. 115  cod.  proc. civ., alla
stregua  di  quanto  previsto dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546
del  1992,  mentre  gia'  in  precedenza,  con  riguardo  all'assetto
normativo  antecedente  all'abrogazione  del terzo comma dell'art. 7,
aveva  escluso che tale norma potesse essere utilizzata «come rimedio
ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti».
    In  tale  contesto  la  soppressione della predetta disposizione,
distonica  rispetto ai principi ispiratori del processo tributario, e
la   conseguente   riconduzione   della   disciplina  di  questo  suo
particolare segmento alle regole generali, non potrebbe connotarsi di
illogicita' o di irragionevolezza, tenuto anche conto che, secondo il
consolidato  orientamento della Corte costituzionale, l'esercizio, da
parte  del  legislatore,  dei  suoi poteri discrezionali si presta ad
essere   sindacato   solo  ove  la  legge  discrimini  senza  ragione
situazioni  affini  o,  al contrario, tratti illogicamente in maniera
identica situazioni diverse.
    Infine  giammai  potrebbe ritenersi leso il diritto di difesa ove
sia  la  parte  a  non  esercitarlo, di modo che quella che ometta di
produrre   i  documenti  utili  a  che  il  giudice  accolga  le  sue
prospettazioni  non  puo' poi dolersi del mancato esercizio, da parte
della  Commissione,  del potere officioso di ordinare il deposito dei
documenti.

                       Considerato in diritto

    1. - La Commissione tributaria provinciale di Novara dubita della
legittimita'  costituzionale,  in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione,  dell'art. 7,  comma 1,  del decreto legislativo n. 546
del  1992  (Disposizioni  sul processo tributario in attuazione della
delega  al  Governo  contenuta  nell'art. 30  della legge 30 dicembre
1991,  n. 413),  nella  parte  in  cui  non  prevede,  tra  i  poteri
istruttori  delle  commissioni  tributarie,  quello  di ordinare alle
parti,  pur  nei  limiti  dei  fatti  dedotti,  di produrre documenti
ritenuti necessari ai fini della decisione.
    2. - La questione non e' fondata.
    3.  -  Il giudice a quo sostiene che la soppressione del potere -
in precedenza contemplato dall'art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del
1992  -  di  «ordinare  alle  parti il deposito di documenti ritenuti
necessari   per   la   decisione  della  controversia»  avrebbe  reso
«assolutamente  irrazionale  un  quadro  normativo per il quale in un
processo  di  parti  sono  riconosciuti  al  giudice [...] gli stessi
poteri    istruttori    anche    autoritativi    dell'amministrazione
finanziaria,     con     l'unica    ed    ingiustificata    eccezione
dell'acquisizione  di  documenti»:  assoluta  irrazionalita' che, non
essendo frutto di «consapevole scelta del legislatore tra un processo
dispositivo  ed  uno nel quale il giudice abbia in determinata misura
poteri   di   indagine   ex   officio»,   si   risolverebbe  in  «una
discriminazione  ingiustificata tra i cittadini [...] a seconda della
tipologia  di  accertamenti da svolgere» e, inoltre, in un sacrificio
del  diritto  di  difesa  del  contribuente  al quale, in un giudizio
avente  carattere di impugnazione, «e' richiesto di addurre almeno un
principio  di  prova  idoneo  a  smentire  la ricostruzione dei fatti
(autoritativamente)  operata  con  l'atto  impugnato».  Il «principio
della    terzieta'    del   giudice»   -   affermato   con   riguardo
all'acquisizione  di  documenti - sarebbe «per il resto estraneo alla
disciplina  processualtributaria che [...] riconosce alla Commissione
ben  piu' rilevanti poteri istruttori da esercitarsi (prevalentemente
o  esclusivamente)  a  favore  dell'ufficio finanziario, del quale le
Commissioni tributarie hanno i medesimi poteri di accertamento».
    4. - L'ordinanza di rimessione ripropone - sotto il profilo della
(pretesa)  illegittimita'  costituzionale  -  le valutazioni critiche
mosse  da  una  consistente  dottrina  nei  confronti dell'intervento
legislativo   che,   nel  2005,  ha  soppresso  il  potere  officioso
attribuito  alle  Commissioni tributarie, con riguardo al deposito di
documenti,  dall'art. 7, comma 3, ed ha lasciato inalterato il potere
di  esercitare  «tutte  le facolta' di accesso, di richiesta dati, di
informazioni   e  chiarimenti  conferite  agli  uffici  tributari  ed
all'ente  locale da ciascuna legge d'imposta» (comma 1). Il giudice a
quo,   sottolineata   l'impraticabilita'  di  una  interpretazione  -
suggerita  da una parte minoritaria della dottrina - secondo la quale
l'innovazione  legislativa  sarebbe  «neutralizzabile» in forza della
lata formulazione del comma 1, muove dall'idea che, poiche' l'art. 7,
comma 1,  riconosce  alle  Commissioni  «gli stessi poteri istruttori
anche   autoritativi   dell'amministrazione   finanziaria   [...]  da
esercitarsi  (prevalentemente o esclusivamente) a favore dell'ufficio
finanziario»,  l'intento  del  legislatore  di  valorizzare,  in tale
contesto,  il  principio  della  disponibilita'  della  prova e della
terzieta' del giudice si sarebbe risolto in un sacrificio del diritto
di difesa del contribuente; i poteri officiosi del giudice sarebbero,
oggi,  spendibili  solo  a  favore  dell'amministrazione, laddove del
soppresso  potere  di  ordinare  il  deposito di documenti si sarebbe
normalmente  giovato,  per  alleviare il proprio onere probatorio, il
contribuente.
    5.   -  Il  legislatore,  attraverso  l'abrogazione  dell'art. 7,
comma 3,  del  d.lgs.  n. 546  del  1992,  ha  voluto  rafforzare  il
carattere  dispositivo  del processo tributario espungendo da esso il
potere  officioso dal quale soprattutto, pressocche' unanimemente, la
giurisprudenza  e  la  dottrina desumevano, quanto all'istruzione, la
sua  natura  di processo inquisitorio (o, secondo altra terminologia,
acquisitivo):  si  diceva,  in sintesi, che il giudice tributario era
tenuto a giudicare iuxta alligata ma non anche iuxta probata partium.
    L'estrema  vaghezza del dettato legislativo («e' sempre data alle
Commissioni tributarie facolta' di ordinare alle parti il deposito di
documenti  ritenuti  necessari  per la decisione della controversia»)
aveva  favorito  il  formarsi  di  vari indirizzi giurisprudenziali -
talvolta  radicalmente divergenti se non contrapposti - a seconda che
della   norma  fosse  valorizzata  la  sua  derivazione,  pressocche'
testuale,  dall'art. 36,  comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636
(Revisione della disciplina del contenzioso tributario), ovvero fosse
sottolineata  l'esigenza  del suo coordinamento, in generale, con «le
norme  del  codice  di procedura civile» (art. 1, comma 2, del d.lgs.
n. 546 del 1992) e, in particolare, con il principio dell'allegazione
dei  fatti  riservata  alle  parti  (introdotto dal d.lgs. n. 546 del
1992,  ed  estraneo  al  d.P.R. n. 636 del 1972, come si desume dall'
art. 35 di quest'ultimo).
    L'indirizzo  originariamente  prevalente,  infatti, era nel senso
che   le   Commissioni   tributarie   godevano   di   una  amplissima
discrezionalita'  (una  «facolta»,  appunto)  nell'esercizio del loro
potere,  non  sindacabile  in  sede  di  legittimita': indirizzo che,
fondandosi    sulla    rilevanza   e   sulla   natura   pubblicistica
dell'obbligazione  tributaria nonche' sulla cosiddetto presunzione di
legittimita'    del    provvedimento   (amministrativo)   impositivo,
presupponeva    che    il   processo   tributario   dovesse   tendere
all'accertamento   della   cosiddetta   verita'   materiale   e   non
acquietarsi,  quindi,  alla  cosiddetta  verita'  formale, presidiata
dalla  regola  di  giudizio  discendente dal riparto dell'onere della
prova.
    In tempi relativamente recenti la giurisprudenza di legittimita',
tuttavia, si e' andata sempre piu' orientando nel senso che, a fronte
del  mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto
onerato,  il  giudice tributario non e' tenuto ad acquisire d'ufficio
le   prove,   in   forza  dei  poteri  istruttori  a  lui  attribuiti
dall'art. 7,   in  quanto  tali  poteri  sono  meramente  integrativi
dell'onere probatorio principale e sono utilizzabili solo qualora sia
impossibile  o  sommamente  difficile fornire, da parte di chi vi era
tenuto, le prove richieste.
    6.  -  E'  evidente  come,  alla luce della giurisprudenza appena
ricordata  (prevalente  ma  non  consolidata),  a taluno possa essere
apparsa  inopportuna  l'abrogazione  della  norma  che conferiva alle
commissioni  la  «facolta'  di  ordinare  il  deposito  di  documenti
ritenuti   necessari   per   la  decisione  della  controversia»,  ma
altrettanto  evidente  e'  che tale valutazione di inopportunita' non
giustifica un dubbio di legittimita' costituzionale, quanto piuttosto
sollecita  un'interpretazione  dei poteri officiosi delle Commissioni
che  tenga  conto della soppressione dell'art. 7, comma 3, del d.lgs.
n. 546  del  1992,  e  che  muova dalla premessa che un'accentuazione
della  terzieta' del giudice, quanto ai profili istruttori, non puo',
per definizione, dar luogo a dubbi di legittimita' costituzionale.
    La    rilevanza    pubblicistica   dell'obbligazione   tributaria
giustifica  ampiamente  i  penetranti  poteri che la legge conferisce
all'amministrazione   nel   corso   del   procedimento   destinato  a
concludersi  con  il  provvedimento  impositivo,  ma  certamente  non
implica affatto - ne' consente - che tale posizione si perpetui nella
successiva  fase  giurisdizionale e che, in tal modo, sia contaminata
l'essenza  stessa  del ruolo del giudice facendone una sorta di longa
manus  dell'amministrazione:  in  particolare, attribuendo al giudice
poteri  officiosi  che,  per  la indeterminatezza dei presupposti del
loro  esercizio  (o  non  esercizio),  sono  potenzialmente  idonei a
risolversi in una vera e propria supplenza dell'amministrazione.
    Il   presidio  dell'essenziale  funzione  del  processo  e  della
terzieta'  del  giudice  e' costituito dal principio dell'onere della
prova,  la cui ripartizione tra le parti del processo non puo' essere
ancorata  alla  posizione  formale  (di  attore  o convenuto) da esse
assunto  in  ragione della struttura del processo, ma deve modellarsi
sulla  struttura  del  rapporto  giuridico  formalizzato, in esito al
procedimento  amministrativo,  nel provvedimento impositivo: cio' che
la  giurisprudenza di legittimita', definitivamente ripudiando l'idea
che  la  cosiddetta  presunzione  di  legittimita'  del provvedimento
amministrativo  possa  intendersi  in  senso  tecnico  e  quindi come
inversione  dell'onere  della  prova,  ha  riconosciuto statuendo che
l'onere   della  prova  grava  sull'Amministrazione  finanziaria,  in
qualita'  di  attrice in senso sostanziale, e si trasferisce a carico
del  contribuente  soltanto  quando  l'Ufficio  abbia  fornito indizi
sufficienti    per   affermare   la   sussistenza   dell'obbligazione
tributaria.
    7.  - E' in questo contesto che si colloca l'abrogazione - volta,
si  e'  detto  (Cass. 11 gennaio 2006 n. 366), ad eliminare qualsiasi
ostacolo   alla   piena   applicabilita'   nel   processo  tributario
dell'art. 2697  cod.  civ.  - dell'art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546
del 1992.
    E' evidente che, nel quadro normativo innovato con la abrogazione
dell'art. 7,   comma 3,   i   poteri   officiosi   riconosciuti  alle
Commissioni  dall'art. 7,  comma 1,  non possono essere intesi - come
presuppone  l'ordinanza  di rimessione, laddove attribuisce a quello,
soppresso,  di  cui al comma 3, la funzione di riequilibrio in favore
del  contribuente  -  come  strumenti  attraverso i quali il giudice,
sostituendosi  all'Amministrazione,  svolge  in  sede giurisdizionale
attivita'  di  controllo  e/o  di  accertamento  proprie  della  fase
procedimentale;  sicche'  non  e' soltanto in ossequio all'intenzione
del  legislatore  del  2005,  ma  anche  e  soprattutto in virtu' del
principio  di  terzieta'  del  giudice - chiamato a verificare, in un
giudizio  di  natura  impugnatoria,  in  primis,  la legittimita' del
provvedimento  amministrativo sotto il profilo della congruita' della
sua  motivazione rispetto agli elementi di fatto sui quali si fonda e
alla  prova  degli  stessi  -  che e' impensabile una «reviviscenza»,
sotto   le   spoglie  di  una  applicazione  estensiva  del  disposto
dell'art. 7,  comma 1,  del  d.lgs.  n. 546  del  1992, del soppresso
potere di ordinare il deposito di documenti ritenuti necessari per la
decisione.
    Peraltro,   non  soltanto  il  principio  dell'applicabilita'  al
processo tributario, in quanto compatibili, delle norme del codice di
procedura  civile  (art. 1,  comma 2),  ma  anche  il  carattere  non
esaustivo  della  disciplina  dell'istruzione  contenuta  nell'art. 7
impongono  di  ritenere  che  la  produzione  di documenti, oltre che
spontanea,  possa  essere  ordinata  a norma dell'art. 210 cod. proc.
civ.  (e,  quindi,  anche  nei  confronti  di terzi): ed e' ovvio che
l'esigenza di un'istanza di parte affinche' il giudice possa ordinare
l'esibizione  di  documenti  e' coerente con il principio dispositivo
che,  anche relativamente alle prove, il legislatore vuole governi il
processo tributario e vale ad escludere in radice per il giudice ogni
ruolo  di  supplenza della parte inerte, sia essa l'amministrazione o
il contribuente. Ne' puo' trascurarsi che, ove necessario, il giudice
ha  il potere - nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse da
quella che e' parte del giudizio davanti a lui pendente - di chiedere
informazioni  o  documenti  ai sensi dell'art. 213 cod. proc. civ., e
cioe'   attivarsi   in  funzione  di  chiarificazione  dei  risultati
probatori  prodotti  dai  mezzi di prova dei quali si sono servite le
parti.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 7,  comma 1,  del  decreto  legislativo  31 dicembre  1992,
n. 546  (Disposizioni  sul  processo  tributario  in attuazione della
delega  al  Governo  contenuta  nell'art. 30  della legge 30 dicembre
1991,  n. 413),  sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della
Costituzione,  dalla Commissione tributaria provinciale di Novara con
l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007.
                         Il Presidente: Bile
                      Il redattore: Vaccarella
                      Il cancelliere:Fruscella
    Depositata in cancelleria il 29 marzo 2007.
                      Il cancelliere:Fruscella
07C0406