N. 177 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 settembre 2006
Ordinanza emessa il 12 settembre 2006 dal tribunale di Genova nei procedimenti civili riuniti promossi da Canepa Giuseppe ed altri contro Ilva S.p.A. Lavoro e previdenza (controversie in materia di) - Questione pregiudiziale concernente l'efficacia, validita' ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi - Previsione tra i motivi del ricorso per cassazione della violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro - Denunciata lesione del principio di liberta' dell'organizzazione e dell'attivita' sindacale - Asserita violazione del principio costituzionale concernente la funzione nomofilattica attribuita alla Suprema Corte di cassazione - Illegittimita' consequenziale dell'art. 420-bis c.p.c. che prevede la risoluzione di questioni pregiudiziali concernenti l'efficacia, validita' ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi con sentenza impugnabile con ricorso immediato per cassazione. - Codice di procedura civile, art. 360, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40. - Costituzione, artt. 39 e 111. Lavoro e previdenza (controversie in materia di) - Questione pregiudiziale concernente l'efficacia, validita' ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi - Risoluzione della questione pregiudiziale con sentenza impugnabile con ricorso immediato per cassazione - Sospensione del processo conseguente al deposito del ricorso per cassazione - Denunciata violazione del principio di ragionevolezza - Asserita lesione del principio di ragionevole durata del processo - Eccesso di delega. - Codice di procedura civile, art. 420-bis. - Costituzione, artt. 3, 76 e 111.(GU n.14 del 4-4-2007 )
IL TRIBUNALE Letti gli atti rileva quanto segue. Con distinti ricorsi, poi riuniti attesa la identita' delle questioni dedotte, gli attori premesso: 1) che lavorano presso lo stabilimento Italsider Genova-Cornigliano, in cui si sono succedute, quali datori di lavoro, diverse societa' ultima delle quali, a decorrere dal 17 gennaio 1998, la Ilva S.p.A; 2) che dal giorno 11 marzo 1996 la rilevazione degli orari di lavoro avviene attraverso un sistema di terminali marcatempo installati nei vari reparti, e non piu', come invece avveniva in precedenza, presso i tre varchi di accesso allo stabilimento, nel quali il personale inseriva il proprio cartellino segna orario effettuandone la timbratura; 3) che dal momento in cui entrano nello stabilimento al momento in cui timbrano il cartellino segna orario in entrata impiegano nelle diverse operazioni (inclusa la vestizione della tuta) mediamente 20 minuti; ed inversamente compiono analoghe operazioni, per la medesima durata, dal momento in cui timbrano il cartellino in uscita a quello in cui escono effettivamente dallo stabilimento. Tutto cio' premesso convengono in giudizio Ilva S.p.A. per sentirla condannare al pagamento in loro favore delle retribuzioni spettanti a titolo di lavoro straordinario per i tempi di cui sopra, cosiddetti «tempi di percorrenza» e «tempi tuta». Si costituisce in giudizio l'Ilva S.p.A. contestando la fondatezza delle domande di cui chiede la reiezione. Tuttavia l'Ilva S.p.A. non contesta le circostanze di fatto esposte dalle controparti, vale a dire non contesta gli accennati «tempi tuta» e «tempi di percorrenza», salva la loro quantificazione che resta da accertare. La materia del contendere e' quindi sintetizzabile come segue: sono computabili nell'orario di lavoro i suddetti «tempi di percorrenza» e «tempi tuta»? Ritiene il giudicante che la risposta positiva discenda dal nostro ordinamento. Invero la disciplina dell'orario di lavoro, contenuta in origine nel r.d.l. n. 692/1923 e successivo regolamento, ha subito un duplice intervento correttivo, anche per adeguarsi sotto diversi profili ai parametri comunitari: il primo con la legge n. 196/1997, che tra le altre cose ha ridotto a 40 le ore di lavoro ordinario su base settimanale, e che si esprime in termini di orario normale di lavoro senza produrre effetti indiretti di revisione della nozione di lavoro effettivo di cui al regio decreto; il secondo con il d.lgs. n. 66/2003 che ha recepito in toto la definizione di orario di lavoro offerta dalla direttiva CEE 104/1993, che coincide con qualsiasi periodo in cui il lavoratore e' al lavoro, a disposizione del datore e nell'esercizio delle sue attivita' o funzioni. Appare opportuno rilevare che i fatti di causa sono interamente riferibili al periodo di vigenza della legge del '97 che non ha, si e' visto, spostato il problema sulla definizione di orario di lavoro rispetto alla disciplina previgente. Il regio decreto n. 692/1923 all'art. 3 nel computare la durata massima della giornata e della settimana lavorativa parla espressamente di «lavoro effettivo», ma usa tale espressione, come emerge dal chiaro tenore letterale della norma, in contrapposizione sia alla nozione di lavoro discontinuo, cioe' intramezzato da periodi di pausa, sia alla nozione di semplice attesa e custodia; pertanto e' compatibile con tale espressione far rientrare nella nozione della prestazione lavorativa, rilevante ai fini dell'orario di lavoro, attivita' strettamente propedeutiche alla lavorazione tipica. E tale esito interpretativo appare fondato perche' pone la norma interna in coerenza con il diritto comunitario e precisamente con i principi che ispirano la giurisprudenza della Corte di giustizia. La Corte ha infatti di recente (sentenza 9 settembre 2003, causa n. 151/2002) confermato l'orientamento gia' espresso in precedenti decisioni su casi analoghi (vedi Corte di giustizia 3 ottobre 2000, causa C-303/1998; 3 luglio 2001, causa C-241/1999). Secondo tale orientamento il periodo dedicato al servizio di guardia, svolto dai medici assicurando la presenza fisica nel centro sanitario, deve essere interamente considerato come orario di lavoro indipendentemente dalla effettivita' delle prestazioni lavorative. Ne' vale obiettare, come fa la difesa della convenuta, che il servizio di disponibilita' che i medici di guardia garantiscono con la loro presenza in sede sia situazione diversa dalla mera percorrenza dall'ingresso di fabbrica al posto di lavoro e viceversa. La obiezione non coglie nel segno perche', ad avviso del giudicante, e' estrapolabile dalla giurisprudenza comunitaria appena citata il seguente principio: il tempo di presenza sul luogo di lavoro, ed a disposizione del datore per prestare la propria attivita' subordinata, rientra nell'orario di lavoro; e cio' perche' tale presenza, ponendosi come funzionale rispetto alla prestazione tipica, resta comunque assoggettata al potere direttivo e gerarchico del datore. Nel caso in esame le attivita' svolte nell'ambito dello stabilimento, strettamente propedeutiche alla prestazione tipica (e' bene sottolineare che gli attori chiedono il riconoscimento dei tempi minimi di percorrenza e vestizione ed il discorso vale specularmente per le attivita' dalla timbratura del cartellino in uscita alla uscita effettiva dallo stabilimento) sono assoggettabili al potere direttivo del datore di lavoro. Non vale opporre che tali attivita' non siano in concreto soggette a specifiche direttive, poiche' in qualunque momento sulle stesse puo' esercitarsi il potere organizzativo e direttivo imprenditoriale (ad esempio disporre orari di ingresso, percorsi da osservare, mezzi da utilizzare). Fra l'altro una espressione del potere organizzativo del datore di lavoro, pacifica in causa, si ravvisa nel fatto che i lavoratori possono servirsi di pullman aziendali per effettuare il tragitto necessario per recarsi sulla postazione di lavoro: ecco una specifica espressione del potere organizzativo del datore di lavoro. In questo ordine di idee la previsione dell'art 5 del regio decreto n. 1955/1923 secondo cui resta espressamente escluso, fra l'altro, il tempo impiegato per recarsi al posto di lavoro e' da intendersi come riferito al percorso dalla abitazione del lavoratore all'ingresso dell'azienda, percorso sottratto ad ingerenze del datore di lavoro (con la opportuna precisazione che non e' cosi' per le ipotesi in cui il viaggio sia intrinsecamente connaturato alla prestazione di lavoro). Tale conclusione trova conferma anche nella parte in cui il cennato articolo aggiunge che nelle miniere o cave la durata del lavoro si computa dall'entrata all'uscita del pozzo: quella fase - tragitto dalla entrata nel pozzo al punto in cui iniziano le specifiche attivita' lavorative, e viceversa - rientra a pieno titolo nell'attivita' lavorativa perche' gia' inerente alla sfera organizzativo-imprenditoriale del datore di lavoro e, intesa in questo senso, la norma si pone quale specifica applicazione del principio rinvenibile nella giurisprudenza della Corte di giustizia. Osserva la difesa della convenuta che, alla luce dei principi generali dell'ordinamento, il debitore di una prestazione e' tenuto, in virtu' della buona fede esecutiva, a realizzare l'interesse del creditore non solo mediante la prestazione principale, ma altresi' svolgendo tutte le correlative attivita' di carattere accessorio (quali sarebbero nel caso in esame la percorrenza dai varchi di accesso allo stabilimento alle rispettive postazioni di lavoro, nonche' la vestizione della tuta, e le attivita' inverse al termine della giornata di lavoro). Tali attivita' integrando il contenuto stesso dell'obbligazione non comporterebbero retribuzioni aggiuntive. La osservazione e' corretta ma non pertinente al caso in esame in cui i ricorrenti chiedono che le specificate attivita' accessorie siano retribuite non perche' esulano dalla obbligazione dedotta nel contratto di lavoro, ma perche' rese oltre l'orario ordinario di lavoro. Orario ordinario, e' bene ribadire, calcolato, come e' pacifico in causa, sulla timbratura, in entrata ed uscita, del cartellino marcatempo. E' opportuno sottolineare, tra l'altro, che l'opinione sostenuta dalla resistente, volta ad escludere l'accezione lavorativa dei tempi di percorrenza o tempi tuta, rischierebbe di vanificare la tutela assicurata dalla normativa in materia di orario massimo di lavoro, laddove le prestazioni propedeutiche e funzionali all'attivita' lavorativa dovessero per consistenza ed onerosita' travalicare i limiti fissati dal Legislatore (si pensi all'ipotesi in cui la percorrenza dall'ingresso della fabbrica al posto di lavoro richieda un'ora per l'andata ed un'ora per il ritorno). Infatti tali tempi di percorrenza sono direttamente imputabili alla struttura ed organizzazione aziendale i cui costi, secondo un principio pacifico, non possono essere messi a carico del lavoratore. A questo punto va richiamata la contrattazione collettiva del settore. Il c.c.n.l. del 9 luglio 1994, prodotto in causa, all'art. 5, intestato «orario di lavoro» dispone al comma 9 :« agli effetti del presente articolo sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva prestazione...». Tale norma sembra escludere, come del resto sostiene la difesa dell'Ilva, che il tempo impiegato per percorrere il tragitto dai cancelli della fabbrica all'orologio di reparto sia da considerare tempo di lavoro; come confermato dal comma 6 del medesimo articolo che recita: «Le ore di lavoro sono contate con l'orologio di stabilimento o reparto.». E siffatta disciplina, ribadisce la difesa dell'Ilva, sembra puntualmente confermata dal successivo c.c.n.l., anch'esso prodotto, il quale all'art. 3 dispone: «L'entrata dei lavoratori nello stabilimento sara' regolata come segue: 1) il primo segnale verra' dato 20 minuti prima dell'orario fissato per l'inizio del lavoro; a questo segnale sara' aperto l'accesso allo stabilimento; 2) il secondo segnale sara' dato cinque minuti prima dell'ora fissata per l'inizio del lavoro; 3) il terzo segnale verra' dato all'ora precisa per l'inizio del lavoro; a questo segnale il lavoratore dovra' trovarsi al suo posto per iniziare il lavoro». In questo passo il contratto collettivo espressamente ribadisce che il dipendente inizia il lavoro non prima del momento in cui raggiunge la propria postazione. Le richiamate norme dettate dalla contrattazione collettiva del settore sull'orario di lavoro andrebbero quindi ritenute illegittime per contrasto con la disciplina legislativa sull'orario di lavoro, disciplina come sopra ricostruita ed indubbiamente inderogabile. Lo accertamento di siffatta illegittimita' costituisce questione pregiudiziale nell'iter logico che il giudicante deve percorrere per pervenire alla decisione della presente controversia. E, come emerge dalle pregresse considerazioni, si tratta di questione connotata da notevole complessita'. A questo punto entrano in gioco, piu' oltre si vedra' come, le seguenti norme: A) l'art. 2 del d.lgs. n. 40/2006 che, in parziale riforma dell'art. 360 c.p.c. (d'ora in poi quando si citera' l'art. 360 c.p.c. si fara' riferimento alla norma come recentemente modificata), ha, fra l'altro, disposto: «Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso in Cassazione: ............. 3) per violazione o falsa applicazione ...................dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro...»; B) l'art. 18 del d.lgs. n. 40/2006, che, inserito nel codice di procedura civile l'art. 420-bis, dispone «Quando per la definizione di una controversia di cui all'art. 409 e' necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente la efficacia, la validita' o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per la ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni...». In ordine alle norme sub A) e sub B) si prospetta, sotto diversi profili, una questione di illegittimita' costituzionale; questione non manifestamente infondata e rilevante nel presente giudizio. Non manifesta infondatezza delle questioni di illegittimita' costituzionale La norma sub A) e' suscettibile di due diverse interpretazioni. Puo' essere intesa nel senso che non abbia mutato la natura del contratto collettivo che, nel settore privato, resta un atto di autonomia negoziale. Ma puo' anche essere intesa, ed e' questo il secondo possibile esito interpretativo, come una radicale innovazione che abbia trasformato il contratto collettivo, (anche) nel settore privato, in una fonte di diritto oggettivo. La norma in esame, se interpretata nel primo senso (non modifica la natura del contratto collettivo che resta atto di autonomia negoziale), presenta una serie di profili di illegittimita' costituzionale che si vanno ad esporre. Violazione dell'art. 39 della Costituzione. E' opportuno ricordare che il primo comma dell'art. 39 della Costituzione: «La organizzazione sindacale e' libera» si pone come rottura del precedente sistema corporativo nel quale la organizzazione sindacale era determinata da norme eteronome che prestabilivano le categorie dei lavoratori, con la conseguenza che i sindacati nascevano gia' ingabbiati nelle suddette categorie. Secondo una non contestata opinione l'art. 39 della Costituzione, come si e' appena accennato, capovolge siffatto preesistente sistema. La solenne affermazione «L' organizzazione sindacale e' libera» attribuisce alla autonomia sindacale, la individuazione degli interessi che il sindacato intende curare e, conseguentemente, la creazione delle categorie di' lavoratori che va a «rappresentare». In altri termini le categorie dei lavoratori, che nel sistema corporativo erano un prius rispetto alla organizzazione sindacale, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione diventano un posterius. In definitiva l'art. 39 della costituzione assicura al sindacato la facolta' di darsi l'organizzazione che meglio crede, col solo limite del rispetto dei principi generali dell'ordinamento. Al di fuori di questo limite deve ritenersi incostituzionale ogni ingerenza dello Stato sull'organizzazione del sindacato. Ora la riforma del codice di procedura civile, nella parte che si sta esaminando, contempla quale motivo del ricorso in Cassazione la violazione delle clausole dei soli contratti o accordi collettivi nazionali. Ne discende, imprescindibile, la esigenza di una esaustiva nozione giuridica di contratto collettivo nazionale cui la riforma in esame ricollega peculiari e rilevanti effetti, sia pur limitati al campo processuale. E' istruttivo in proposito l'esame della disciplina della contrattazione nel settore dell'impiego presso le pubbliche amministrazioni. In tale settore costituisce motivo del ricorso in Cassazione la violazione delle norme di una sola tipologia di contratti che il legislatore ha provveduto a definire con riguardo alle organizzazioni stipulanti ed all'ambito di applicazione (i contratti collettivi nazionali sottoscritti dall' ARAN, vedi il combinato disposto degli articoli 40 e 64 del d.P.R. n. 165/2001). Si e' cosi' dettata una disciplina che per la sua eteronomia si pone in chiaro contrasto, per le ragioni appena esposte, con l'art. 39 della Costituzione. Tuttavia la cennata disciplina puo' superare il vaglio di legittimita' costituzionale perche' il contratto collettivo nel settore pubblico esula dalla previsione dell'art. 39 della Costituzione in quanto funzionalizzato, come si vedra' piu' oltre, ad un interesse pubblico, e precisamente all'interesse contemplato dall'art. 97 della Costituzione. Tornando al settore privato e' appena il caso di rilevare che la qualifica - agli effetti di cui all'art. 360 c.p.c. - di un contratto collettivo quale nazionale non puo' ritenersi demandata agli stipulanti; altrimenti le competenze attribuite al massimo organo giurisdizionale, cioe' alla suprema Corte, diverrebbero oggetto di autonomia negoziale, col sovvertimento dei principi fondamentali del vigente ordinamento giuridico. Pertanto il legislatore che ha posto mano alla riforma del codice di procedura civile ha inevitabilmente delegato alla giurisprudenza, non avendo provveduto direttamente, di stabilire nel settore privato la nozione di contratto collettivo nazionale e le caratteristiche delle organizzazioni sindacali legittimate a stipulare contratti di tale natura. Ma siffatta delega, attribuendo ad una norma eteronoma, anche se di creazione giurisprudenziale, la disciplina della organizzazione sindacale, si pone, per le ragioni esposte, in contrasto con l'art. 39 della Costituzione. Ed il contrasto non finisce qui. La riforma in esame avrebbe introdotto la immediata ricombilita' in Cassazione per assicurare la piu' sollecita definizione delle controversie c.d. seriali che caratterizzerebbero il contenzioso del lavoro. Tali controversie il cui nodo comune sia ravvisabile nel contrasto sulla portata di una o piu' norme di un contratto collettivo troverebbero immediata soluzione nella Cassazione che ne fornirebbe la interpretazione autentica. In altri termini il tempestivo intervento della S.C. in sede di nomofilachia bloccherebbe sul nascere il proliferare del contenzioso concernente una questione seriale. Tale ratio legis (assai discutibile e sulla quale si tornera' piu' oltre) necessariamente presuppone che i rapporti fra un contratto nazionale e contratti collettivi di livello inferiore siano disciplinati dal principio gerarchico. Si tratta di un presupposto implicito ma ineludibile. Invero l'effetto deflativo perseguito dal legislatore sarebbe sicuramente vanificato se ai contratti collettivi di livello inferiore fosse consentito di derogare o modificare contratti nazionali. Anche su questo punto e' illuminante il richiamo alla disciplina sulla contrattazione collettiva nel pubblico impiego c.d. privatizzato. Il d.lgs. n. 80/1998 e successive integrazioni aveva gia' introdotto, appunto in funzione deflativa, l'obbligo di decidere con sentenza, immediatamente ricombile in Cassazione, la questione pregiudiziale relativa alla interpretazione ed alla efficacia delle clausole dei contatti collettivi di comparto sottoscritti dall'ARAN. In questo quadro, ed in coerenza con il fine deflativo perseguito, il legislatore ha espressamente sancito il criterio gerarchico per la soluzione delle eventuali anomalie fra contratto di comparto e contratti collettivi di livello inferiore (vedi il terzo comma dell'art. 40 del d.P.R. n. 165/2001). Ora, secondo la dottrina dominante che si e' occupata specificamente della materia, con l'espressione «l'organizzazione sindacale e' libera», l'art. 39 della Costituzione, sempre in radicale rottura col precedente regime corporativo, ha inteso proclamare non solo la liberta' di organizzazione sindacale, ma anche la liberta' in ordine alla contrattazione collettiva intesa come attivita'. Si porrebbe quindi in contrasto con l'art. 39 della Costituzione un intervento legislativo specificamente volto a limitare tale liberta'. E proprio un siffatto intervento sarebbe realizzato dalla posizione di un criterio esterno di raccordo fra i diversi livelli della contrattazione collettiva, nel caso in esame il criterio gerarchico. L'art. 360 c.p.c. si presenta quindi gravemente sospetto di illegittimita' per contrasto con l'art. 39 della Costituzione. Violazione dell'art. 111 della Costituzione. L'esame della recente riforma del citato art. 360 mette in luce un ulteriore vizio di illegittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 111 della Costituzione. I contratti collettivi, quali contratti di diritto comune, vanno interpretati a norma degli articoli 1362 e seguenti c.c.; su questo punto l'opinione e' pressoche' unanime sia in dottrina che in giurisprudenza. L' interpretazione si concreta nell'accertare un fatto storico quale e' la volonta' manifestata dalle parti nella stipula di quel determinato negozio. A tale risultato si perviene, sempre ai sensi degli articoli 1362 ss c.c., anche mediante l'accertamento di una serie di fatti secondari (i comportamenti precedenti e posteriori delle parti contraenti, la esistenza ed il contenuto di clausole diverse da quelle direttamente applicabili, la esistenza ed il contenuto di altri accordi collettivi fra le stesse parti, i termini reali e concreti - cioe' fattuali - del problema e degli interessi che le parti hanno inteso regolare, quali possono risultare, tra l'altro, dalle osservazioni delle associazioni sindacali ecc). Tutti questi sono elementi e strumenti dei quali l'ordinamento prevede la utilizzazione al fine di accertare la comune intenzione delle parti collettive contraenti, anche se tale indagine deve essere condotta con criteri meno soggettivistici di quelli adottati per l'interpretazione dei contratti individuali. Ebbene la utilizzazione di questi elementi e strumenti presuppone la loro acquisizione al processo mediante apposita attivita' istruttoria che viene quindi demandata alla Corte di cassazione per l'accertamento di un fatto storico (una concreta manifestazione di volonta' negoziale). Quanto meno di siffatta attivita' istruttoria la S.C. dovra' farsi carico, come se ne deve far carico il giudice di appello investito anche dell'accertamento del fatto, qualora manchi o sia incompleta quella svolta dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Si pone quindi il grave problema di' valutare se sia in contrasto con l'art. 111 della Costituzione la attribuzione alla Corte di cassazione della competenza a conoscere anche del fatto. E' evidente che un eventuale aggravio di attivita' istruttoria a carico della S.C., almeno superati certi limiti, finisce col pregiudicarne la funzione di nomofilachia che l'art. 111 della Costituzione ha inteso salvaguardare. Un siffatto aggravio, superati certi limiti, renderebbe quanto meno insostenibile la posizione della S.C. quale organo accentrato in sede nazionale. E' un esempio in cui la quantita' influisce sulla qualita'. In questo ordine di idee si e' posta la Corte costituzionale che ha ritenuto non contrastante con l'art. 111 della Costituzione la attribuzione alla S.C. di conoscere il fatto, con relativi poteri istruttori anche vasti e penetranti purche' si tratti di ipotesi «.....marginali e secondarie rispetto a quanto ne costituisce la competenza propria e qualificante» (in tal senso Corte costituzionale sentenza n. 184 del 1974). Ora la questione sulla portata di una o piu' norme di contratti collettivi e' ricorrente nelle controversie di lavoro che, come e' noto, sono assai numerose; i pratici del diritto valutano tale ricorrenza in percentuale nettamente superiore al 50%. In questo quadro e' ragionevole ritenere che la competenza a conoscere il fatto sia stata demandata alla Corte di cassazione in una ipotesi tutt'altro che marginale e secondaria. Ne' vale obiettare che siffatto inconveniente non sussisterebbe in quanto andrebbero rimesse alla Corte di cassazione solo questioni valutate di notevole complessita'; e sarebbe cosi' ravvisabile un filtro idoneo ad evitare l'intasamento della S.C. Tale obiezione, da alcuni formulata e ripresa nel corso della odierna discussione, non e' fondata. Innanzitutto e' chiaramente smentita dalla lettera della legge che demanda alla cognizione della S.C. le questioni (senza operare alcuna distinzione fra le stesse) relative alla interpretazione, alla validita' ed alla efficacia delle clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Va poi rilevato, sotto il profilo sistematico, che, in ordine alla ricorribilita' in cassazione, e' del tutto estraneo al vigente ordinamento un meccanismo di filtri modulato sulla complessita' delle questioni dedotto in sede di impugnazione. Si prospetta quindi tutt'altro che manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 360 c.p.c., nella parte che si sta esaminando, per contrasto con l'art. 111 della Costituzione. Ulteriore profilo di contrasto con l'art. 39 della Costituzione. Giova ricordare che sinora si e' proceduto ad un vaglio di costituzionalita' dell'art. 360, n. 3, inteso nel senso che non abbia modificato, nel settore privato, la natura del contratto collettivo che continua a configurarsi contratto di diritto comune. Tale interpretazione va ritenuta conforma al c.d. «diritto vivente» poiche' e' opinione comune che il contratto collettivo, almeno nel settore privato, si inquadri fra gli atti di autonomia negoziale. Tuttavia, come e' noto, la Consulta, in ordine alle questioni di illegittimita' costituzionale di una norma, sollecita la ricerca di possibili alternative ermeneutiche che rendano la norma stessa conforme alla Carta costituzionale. In questo ordine di idee si esplora un altro possibile esito interpretativo (cui si e' gia' accennato) secondo cui la riforma in esame avrebbe radicalmente modificato la natura del contratto collettivo nel settore privato, configurandolo fonte di diritto oggettivo. Questa seconda prospettiva ermeneutica e', forse, piu' convincente della prima per diversi ordini di considerazioni. Innanzitutto emerge dalla chiara lettera della legge. L'art. 360 c.p.c., come modificato dall'art. 2 del d.lgs. n. 40/2006, prevede, al numero 3, la impugnazione con ricorso in Cassazione per «.....violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.....», cosi' espressamente equiparando le clausole dei contratti di lavoro alle norme di diritto. Siffatta equiparazione viene puntualmente confermata dall'art. 366-bis c.p.c. (inserito nel codice di procedura civile dall'art. 6 del d.lgs. n. 40/2006) il quale dispone che nei casi previsti dall'art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4)» (quindi anche nella ipotesi di impugnazione per violazione di contratti o accordi collettivi di lavoro) «.....la illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto». Se il contratto collettivo avesse conservato, pur dopo la riforma in esame, la natura di atto di autonomia negoziale, lo accertamento della sua esistenza e della sua portata si risolverebbe nello accertamento di un fatto storico, vale a dire nello accertamento di una concreta e puntuale manifestazione di volonta' negoziale. Ora sarebbe privo di senso logico e giuridico, ed intrinsecamente contraddittorio, ipotizzare un quesito di diritto in ordine allo accertamento di un fatto storico. Tale illogicita' viene meno proprio se si configura il contratto collettivo di lavoro quale fonte di diritto oggettivo. Invero alle norme di diritto oggettivo, quale ne sia la fonte, e' sottesa una esigenza di coerenza col complesso dell'ordinamento, sicche' la loro interpretazione indubbiamente comporta una questione di diritto idonea a sollecitare un corrispondente quesito. Questa prospettiva ermeneutica, sulla radicale modifica della natura del contratto collettivo nel settore privato, si impone anche sotto un profilo sistematico poiche' realizza una piena omogeneizzazione del contratto collettivo nel settore privato a quello che disciplina il rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione (esclusi quelli contemplati sia dall'art. 3 del d.P.R. n. 165/2001 che dall'art. 1 della legge n. 252/2004). Si tratta di una omogeneizzazione coerente col principio di fondo che ispira la riforma del pubblico impiego (introdotta dalla legge delega n. 421/1992 e dai relativi decreti legislativi di attuazione, i d.lgs. n. 29/1993; n. 470/1993; n. 546/1993, successivamente oggetto di ulteriori rimaneggiamenti ed integrazioni, particolarmente rilevanti quelle introdotte dalla legge delega n. 59/1997 e dai relativi d.lgs. n. 80/1998 e 387/1998, per arrivare poi al T.U. n. 165/2001, cui sono seguite ulteriori modifiche), volta ad assimilare la disciplina del rapporto di lavoro nel settore privato ed in quello pubblico, come espressamente proclamato sin dalla prima legge delega del 1992. Nel settore del pubblico impiego c.d. privatizzato il contratto collettivo ha acquisito la natura di fonte di diritto oggettivo di cui presenta tutti i caratteri. Le sue clausole, al pari delle norme di diritto oggettivo, sono generali ed astratte, e si applicano al caso concreto che rientri nella fattispecie da esse delineata; come le norme di diritto oggettivo sono efficaci erga omnes, e tale efficacia e' accentuata dalla inderogabilita' sia in senso migliorativo che peggiorativo per il dipendente, inderogabilita' che comporta la loro automatica sostituzione alle eventuali clausole difformi del contratto individuale. Tutto cio' e', fra l'altro, ribadito dall'art. 45 del d.P.R. n. 165/2001 che espressamente stabilisce il principio di parita' contrattuale. La Corte costituzionale (sentenza n. 309/1997) ha affermato che la suddetta efficacia erga omnes non troverebbe fondamento nella forza vincolante del contratto collettivo, bensi' nella autonomia negoziale individuale; vale a dire che il contratto collettivo del settore sarebbe applicabile ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni solo perche' richiamato dal contratto individuale che fa sorgere il rapporto di lavoro. Ma tale argomentazione si risolve in un sofisma perche' dimentica che detto richiamo al contratto collettivo del settore e' imposto per legge (vedi ora il d.P.R. n. 165/2001, in particolare il combinato disposto dell'art. 2, comma 3 e dell'art. 45, comma 2), non e' quindi espressione di autonomia negoziale individuale. Nessuno dubita che, proprio perche' imposto dalla legge, il contratto collettivo del settore si applicherebbe al rapporto dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche se non contemplato dal relativo contratto individuale, ed anche se quest'ultimo ne escludesse la applicazione. Sarebbe del resto microscopicamente contraddittorio che il contratto individuale non possa derogare a singole clausole del contratto collettivo del settore, ma nel contempo possa derogare al suddetto contratto collettivo, nel suo complesso, non richiamandolo, o addirittura espressamente escludendone la applicazione. Inoltre la violazione delle clausole del contratto collettivo costituisce motivo del ricorso in Cassazione, al pari della violazione di una norma di legge (vedi art. 64, comma 3 del d.P.R. n. 165/2001). Va poi richiamato il precedente rilievo (vedi sopra) su eventuali contrasti fra contratti collettivi di diverso livello, contrasti che, sempre nel settore pubblico, sono espressamente risolti sulla base del principio gerarchico, il tipico criterio di risoluzione delle antinomie fra norme di diritto oggettivo (vedi il terzo comma dell'art. 40 del d.lgs. n. 165/2001) Inoltre i contratti collettivi nel settore pubblico sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale (almeno quelli sottoscritti dall'ARAN ) come espressamente dispone l'ottavo comma dell'art. 47 del d.lgs. n. 165/2001; vale quindi per essi, come per le fonti di diritto oggettivo, il principio iura novit curia. E non basta. I contratti collettivi nel settore pubblico, in quanto volti a disciplinare il rapporto di impiego, sono funzionalizzati all'interesse pubblico contemplato dall'art. 97 della Costituzione. E, si osserva per inciso, proprio per questo esulano dalla previsione di cui all'art. 39, e rimangono immuni da vizi di illegittimita' costituzionale per contrasto con detto articolo. Esiste infatti un legame assai stretto tra la disciplina dell'impiego pubblico e l'interesse pubblico al corretto operare degli uffici della pubblica amministrazione la cui funzione rimane nell'ambito del diritto pubblico. Un legame assai stretto che rende tale disciplina funzionalizzata al suddetto interesse pubblico, come ribadito da una consolidata giurisprudenza, soprattutto della Corte costituzionale (in proposito C. cost. 9 dicembre 1968, n.124 in Giur. cost. 1968, 2161 sa; C. cost. 7 aprile 1981, n. 52, ivi 1981, 321 ss; C. cost. 13 ottobre 1988, n. 964 ivi, 1989, 4543 ss; C. cost. 18 gennaio 1989, n. 1, ivi, 1989, 3 ss; C. cost. 24 gennaio 1989, n. 19, ivi 1989, 111 ss. L'orientamento della Corte costituzionale viene espresso con estrema chiarezza in C. cost. 5 maggio 1980, n. 68; ivi, 1968, 647 ss, ove dopo avere riconosciuto possibile, sotto certi profili, una omogeneizzazione fra lavoro dipendente privato e pubblico, aggiunge subito dopo: «E' ..... da chiedersi fino a che punto ed in quale ambito soggettivo produca invece diversita' l'inserimento del lavoro in una amministrazione retta dal principio costituzionalmente prescritto del buon andamento. Tale principio, enunciato dall'art. 97 Cost., non riguarda esclusivamente la organizzazione interna dei pubblici uffici, ma si estende alla disciplina del pubblico impiego in quanto possa influire sull'andamento dell'amministrazione..... In altre parole e' innegabile che la disciplina del lavoro e' pur sempre strumentale, mediamente o immediatamente, rispetto alle finalita' istituzionali assegnate agli uffici in cui si articola la pubblica amministrazione.». Tale orientamento della Corte costituzionale e' stato ribadito in pronunce successive alla legge delega 23 ottobre 1992, n. 421. Cosi' in Corte cost. 3 giugno 1999, n. 206 in Gazzetta Ufficiale - serie speciale - n.23, la Corte costituzionale decide della questione di illegittimita' costituzionale della legge 19 marzo 1990, n. 55, art. 15, comma 4-septies come modificato dall'art. 1, legge 18 gennaio 1992, n. 16, che prevede l'automatica sospensione dalla funzione o dall'ufficio nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche condannati, anche con sentenza non definitiva, per determinati delitti di criminalita' organizzata. li giudice remittente ritiene in contrasto, fra l'altro, con l'art. 97 Cost. la automaticita' della sospensione; la Corte costituzionale esclude il contrasto cosi' motivando: «l'esigenza cautelare che sta a fondamento della sospensione obbligatoria e che il legislatore con la norma in esame ha non irragionevolmente considerato sussistente, si collega, come si e' gia' chiarito, non gia' alla commissione del fatto, alla piu' o meno probabile colpevolezza dell'imputato, bensi' alla pendenza dell'accusa, in quanto tale suscettibile di gettare sull'amministrazione un'ombra di inquinamento da parte della criminalita' organizzata.... il rinvio a giudizio presuppone che siano stati raccolti elementi tali da precludere una pronuncia di insussistenza del fatto ovvero della colpevolezza o della punibilita' dell'imputato.... non puo' dunque dirsi che sussista sproporzione tra questo livello di consistenza dell'accusa ed una misura sospensiva che mira appunto a tutelare il pubblico interesse dal pregiudizio che la stessa esistenza dell'accusa, in quanto tale, produrrebbe se l'accusato permanesse nell'ufficio.». Non si potrebbe, piu' chiaramente di cosi', esprimere la funzionalizzazione della disciplina del pubblico impiego (nel caso in esame la disciplina attinente alle cause di sospensione del rapporto) ai principi di buon andamento della p.a. proclamati dall'art. 97 della Costituzione. Vedi nello stesso senso Corte costituzionale sent. 4 gennaio 1999, n. 1 - in Gazzetta Ufficiale n. 13 gennaio 1999, 1ª serie speciale n. 2 - che ha dichiarato illegittimo, per violazione dell'art. 97 della Costituzione, l'art. 3, commi 205, 206 e 207 della legge n. 549/1995, come modificato dall'art. 6, comma 6-bis del d.l. 31 dicembre 1996, n. 699 convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30). In questo quadro appare incomprensibile la affermazione, cui pure continua ad indulgere parte della dottrina, secondo cui i contratti collettivi nel settore pubblico non sarebbero stati funzionalizzati all'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione proclamato dall'art. 97 della Costituzione. Non si comprende infatti come sia possibile che, in tema di rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione, una disciplina dettata da una norma generale ed astratta, contenuta in un provvedimento legislativo, si ponga in contrasto con l'art. 97 della Costituzione perche' pregiudica l'interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione, mentre la identica disciplina non comporti piu' tale pregiudizio per il solo fatto di essere dettata da una norma contenuta in un contratto collettivo, sebbene con la stessa struttura e la stessa efficacia erga omnes di una norma di legge. Riepilogando i contratti collettivi nel settore pubblico presentano, attesa la disciplina che li concerne, tutte le caratteristiche delle fonti di diritto oggettivo: hanno la struttura di norma generale ed astratta; sono efficaci erga omnes; sono inderogabili sia in meglio che in peggio per il lavoratore; si sostituiscono automaticamente alle contrastanti clausole del contratto individuale; le antinomie fra contratti collettivi di diverso livello si risolvono sulla base del criterio gerarchico; la loro violazione costituisce motivo del ricorso per Cassazione; sono pubblicati (almeno i contratti sottoscritti dall'ARAN) nella Gazzetta Ufficiale e vale quindi per essi il principio iura novit curia; sono funzionalizzati all'interesse al buon andamento della pubblica amministrazione proclamato dall'art. 97 della Costituzione. Pertanto intendere la recente riforma dell'art. 360 c.p.c. nel senso che abbia radicalmente innovato la natura dei contratti collettivi nel settore privato configurandoli norme di diritto obiettivo, costituisce esito ermeneutico fondato, richiamate tutte le considerazioni sopra svolte, sia sulla chiara lettera della legge (e' ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di una norma del contratto collettivo, e tale ricorso deve, a pena di inammissibilita', concludersi con un quesito di diritto), sia su di un argomento sistematico cioe' la assimilazione ai contratti collettivi nel settore pubblico. Cosi' interpretato lo art. 360 c.p.c., nella parte che si e' ampiamente esaminata, andrebbe esente dal sospetto di illegittimita' costituzionale, sopra prospettato, per contrasto con l'art. 111 della Costituzione, poiche' la Corte di cassazione rimarrebbe giudice del diritto, e procederebbe alla interpretazione del contratto collettivo secondo i criteri dettati dagli articoli 12 e seguenti c.c. Tuttavia, in questa diversa prospettiva ermeneutica, sarebbe ancora piu' radicale il contrasto fra l'art. 360 c.p.c. e l'art. 39 della Costituzione nella parte in cui proclama che la organizzazione sindacale e' libera. Tale norma costituzionale necessariamente presuppone che il contratto collettivo sia manifestazione di autonomia privata. Infatti il principio che caratterizza la autonomia privata e' proprio il principio di liberta'; liberta' di scelta sia degli interessi da perseguire (cioe' dei fini), sia degli strumenti e delle modalita' (cioe' dei mezzi) con cui perseguire tali interessi. La autonomia privata, quale espressione di liberta', trova un limite di diritto solo nei principi generali dell'ordinamento, ed un limite di fatto costituito dall'equilibrio degli interessi contrapposti raggiunto dalle forze contrattuali antagoniste. E' agevole sottolineare la rilevante portata di un intervento legislativo diretto a mutare radicalmente la natura giuridica del contratto collettivo, da contratto di diritto comune a fonte di diritto oggettivo. Il contratto collettivo si trasformerebbe da atto di autonomia negoziale ad attivita' funzionalizzata ad un interesse pubblico. Infatti ad una fonte di diritto oggettivo e' demandato di dare attuazione a norme di rango superiore, e di provvedervi in coerenza con l'ordinamento giuridico di cui entra a far parte. Era proprio la funzione svolta dal contratto collettivo nel regime corporativo. Ed e' la funzione recentemente demandata, lo si e' visto, al contratto collettivo nel settore dell'impiego pubblico c.d. privatizzato. Certamente funzionalizzati ad un interesse pubblico, e come tali efficaci erga omnes, sono i contratti collettivi in tema di limiti al diritto di sciopero. E' illuminante che la Corte costituzionale abbia salvato dalla censura di illegittimita', per contrasto 39 della Costituzione, la legge che li contempla (vedi Corte costituzionale sentenza n. 344/1996), e sia pervenuta a tale risultato proprio sottolineando la anomalia (cioe' la funzionalizzazione ad un interesse pubblico) che, caratterizzando i suddetti contratti, li pone al di fuori della previsione del citato art. 39. Ora una attivita' funzionalizzata ad interessi pubblici e' attivita' non libera, ma discrezionale. vale adire vincolata nei fini e nei mezzi. A questo punto appare evidente che l'art. 360 c.p.c., anche se interpretato nel senso che abbia modificato la natura del contratto collettivo nel settore privato, si porrebbe in contrasto con l'art. 39 della Costituzione. Anzi in questa seconda prospettiva ermeneutica (a differenza di quanto avviene nella prima - vedi sopra-) il contrasto non si limiterebbe a taluni profili, ma sarebbe radicale perche' colpirebbe al cuore l'art. 39 della Costituzione sovvertendone il principio ispiratore, vale a dire la liberta' della organizzazione e della attivita' sindacale, principio che, come si e' detto, conferisce a tale norma la essenziale portata di radicale rottura col preesistente regime corporativo. Il sovvertimento di tale principio di fondo comporterebbe una serie di corollari incompatibili con la disciplina che discende dal citato art. 39. Sul punto puo' essere istruttiva la disciplina del contratto collettivo nel pubblico impiego di cui si sono gia' accennati i contrasti con la norma costituzionale in questione. Un primo corollario, in contrasto con l'art. 39 della Costituzione, sarebbe la inevitabile esigenza dell'efficacia erga omnes dei contratti collettivi. Infatti non potrebbe non avere efficacia erga omnes una fonte di diritto obiettivo volta a dare attuazione a norme di legge. Potrebbero agevolmente individuarsi ulteriori profili di contrasto con l'art. 39 della Costituzione, ma sarebbe un inutile appesantimento del discorso. Va infatti ribadito che il contrasto fra la norma di legge ordinaria e la Costituzione, sempre nella prospettiva ermeneutica che si sta esaminando, sarebbe radicale, a tutto campo, poiche' il legislatore ordinario avrebbe sovvertito il principio ispiratore della norma costituzionale. Attese le considerazioni svolte appare tutt'altro che manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 360 c.p.c. nella parte in cui inserisce, fra i motivi del ricorso per Cassazione, la violazione delle norme dei contratti collettivi nazionali di lavoro. I gravi sospetti di illegittimita' costituzionale inficiano la suddetta normativa intesa in entrambe le prospettive ermeneutiche sopra illustrate. Nella prima prospettiva (il contratto collettivo conserva la sua originaria natura di atto di autonomia negoziale) la norma si porrebbe in contrasto con gli articoli 39 e 111 della Costituzione. Nella seconda prospettiva (il contratto collettivo si trasforma in fonte di diritto oggettivo) la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 39 della Costituzione. Non si ravvisano altre possibili interpretazioni dell'art. 360 c.p.c. nella parte qui esaminata. Profili di illegittimita' costituzionale dell'art. 420-bis c.p.c. A) Violazione dell'art. 3 della Costituzione. Lo accoglimento della suddetta questione di illegittimita' costituzionale comporterebbe la soppressione non solo dell'art. 360 c.p.c., nella parte sopra specificata, ma anche dell' art. 420-bis c.p.c. la cui portata si risolve nel determinare le modalita' di attuazione della prima norma. Comunque il citato art. 420-bis, anche di per se' considerato, presenta diversi profili di illegittimita' costituzionale che si vanno ad esporre. Violazione dell'art. 3 della Costituzione. Un primo profilo riguarda il contrasto con l'art. 3 della Costituzione per irrazionalita'. L'art. 34 del codice di procedura civile delinea una ben precisa nozione di questione pregiudiziale; si tratta di una questione concernente un tema idoneo a formare oggetto di un separato giudizio di merito. Invece l'art. 420-bis c.p.c., col termine «accertamento pregiudiziale», allude ad una ben diversa nozione; e' chiaro infatti che non e' suscettibile di autonomo giudizio la mera interpretazione della clausola di un contratto collettivo. E' ben nota una consolidata giurisprudenza che ravvisa, fra i presupposti di ammissibilita' dell'azione di mero accertamento, una situazione giuridica soggettiva. In questo ordine di idee la giurisprudenza ha escluso che siano deducibili avanti al giudice questioni soltanto teoriche, ai fini di una pronuncia dal contenuto astratto e congetturale, quale sarebbe appunto la mera interpretazione della norma di un contratto collettivo (in tal senso Cass. 25 maggio 1982, n. 3198, in Giust. civ., rep. 1982 v. lavoro - rapporto di, 1161); ha altresi' escluso che possano costituire oggetto delle azioni di accertamento i soli fatti sia pure giuridicamente rilevanti (Cass. 2 febbraio 1982, n. 624, Giust. Civ., rep. 1982 v. procedimento civile 11). Ora l'art. 420-bis c.p.c. allude in definitiva ad uno dei momenti del complesso procedimento logico seguito dal giudice per pervenire alla decisione della controversia demandata alla sua cognizione. La norma isola questo momento, che attiene alla interpretazione od alla valutazione di efficacia o di validita' di una o piu' norme di un contratto collettivo da applicare al caso dedotto in giudizio, e lo distingue dagli altri momenti che attengono allo accertamento del fatto concreto cui applicare il contratto stesso, nonche' allo accertamento della situazione giuridica dedotta in giudizio. Secondo il farraginoso meccanismo delineato dal suddetto articolo il primo momento si svolgerebbe interamente per conto suo, mediante un suo autonomo iter processuale. Solo dopo che tale iter processuale sia stato definitivamente portato a compimento. eventualmente dalla Cassazione in sede di secondo grado, il giudice procederebbe al secondo accertamento. Tale netta distinzione, che puo' essere utile sotto un profilo espositivo o didattico, se presa alla lettera, come fa il citato art. 420-bis, si risolve in una ingenua astrazione che travisa la realta'. I due procedimenti sopra accennati, ben lungi dal costituire due compartimenti stagni, interferiscono l'uno con l'altro, in un moto circolare, interferenza variamente condizionata dalle concrete vicende dedotte nella materia del contendere. Tutto cio' chiaramente emerge dalla esperienza processuale. Si pensi ad una controversia di lavoro concernente una domanda di rivendica, in via principale, di una qualifica di due livelli superiore a quella riconosciuta dal datore, ed in via subordinata di un solo livello. Il giudice nell'esame della domanda principale decide in ordine alla portata della norma del contratto collettivo che delinea la qualifica rivendicata in via principale; decide con sentenza impugnabile in Cassazione mediante ricorso che sospende il processo in primo grado. Nella ipotesi di reiezione della domanda principale, passando alla subordinata, sara' operante il medesimo meccanismo in ordine alla norma del contratto collettivo che delinea la qualifica rivendicata appunto in subordine. Quindi altra sentenza, altro eventuale ricorso in Cassazione con conseguente sospensione del processo di primo grado. Un secondo esempio. In ordine alla pretesa del lavoratore ad un superiore inquadramento si deve accertare se una mansione, che il ricorrente assume di avere di fatto svolto, connoti, secondo il contratto collettivo applicabile, il superiore inquadramento rivendicato. Tale questione interpretativa mette in moto il meccanismo ex art. 420-bis con la eventuale sospensione del processo di primo grado. Si accerta, finalmente, che quella mansione caratterizza la superiore qualifica rivendicata. Si riprende il processo sospeso ed, a seguito di istruttoria, emerge dalle risultanze processuali che quella mansione e' stata svolta di fatto, ma non in modo prevalente sotto il profilo quantitativo. Sulla base di un noto orientamento giurisprudenziale si deve a questo punto accertare se la mansione di cui trattasi sia, sotto il profilo qualitativo, di tale rilevanza, nel sistema dell'inquadramento delineato dal contratto collettivo del settore, da giustificare lo accoglimento della domanda attrice. Ecco un' altra questione interpretativa in ordine alla disciplina contrattuale; quindi altra sentenza, altro eventuale ricorso in Cassazione con sospensione del processo di primo grado. Dagli esempi appena prospettati (e tanti altri si potrebbero addurre) appare evidente la irrazionalita' dell'art. 420-bis c.p.c. che, come si e' argomentato, assume quale suo presupposto un travisamento della realta' processuale. Tale irrazionalita' pone la norma in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Numerose sentenze della Corte costituzionale hanno ravvisato nel principio di ragionevolezza, proclamato dall'art. 3 della Costituzione, un limite alla discrezionalita' del legislatore (vedi Corte costituzionale sentenze n. 72 ed 87 del 1962, n. 7 del 1965; n. 94 del 1966, n. 103 del 1969, n. 190 del 1971; n. 9 del 1975, vedi infine la recente sentenza n. 58 del 2006). B) Violazione dell'art. 111 della Costituzione. Dalla irrazionalita' appena denunciata discende una macchinosita' che vizia la disciplina del processo. Come si e' ampiamente detto si tratta di una disciplina che artificiosamente spezzetta il corso del processo, con intermezzi di ricorsi per Cassazione e sospensione del processo di primo grado, in contrasto col fondamentale principio di' concentrazione del processo e di economia del giudizio. Tale inutile macchinosita' allunga i tempi di trattazione della causa, in contrasto con l'art. 111 della Costituzione che sancisce, quale principio di civilta' giuridica, la ragionevole durata del processo. Per escludere tale contrasto si e' prospettata la ratio legis, di cui si e' fatto cenno (vedi sopra), che, attuando una piu' rapida trattazione delle controversie c.d. seriali, e compensando cosi' ampiamente lo inconveniente di cui si e' detto, consentirebbe alla norma in esame di superare il vaglio di costituzionalita' sotto il profilo appena delineato. Ma siffatta ratio legis e' viziata da un travisamento della realta' processuale degli ultimi anni. Come e' stato esattamente e prontamente rilevato dai primi commentatori della riforma in esame cause seriali, in materia di lavoro, non si vedono da tempo nel settore privato, quanto meno in ambito non locale (le ultime, sull'incidenza retributiva del valore della mensa, e che risalgono a piu' di dieci anni fa, sono state risolte con legge apposita che ne ha escluso l'incidenza). Questioni particolarmente rilevanti di interpretazione di norme contrattuali non risultano in corso. Altre questioni urgenti che meritino di essere risolte in sede «nomofilattica» non e' dato conoscere. Pertanto si conferma il sospetto del vizio di incostituzionalita' della norma in esame per contrasto con l'art. 111 della Costituzione. C) Violazione dell'art. 76 della Costituzione. Ma un ulteriore e forse ancor piu' grave sospetto di illegittimita' costituzionale inficia l'art. 420-bis c.p.c. Va ricordato che tale norma e' stata inserita nel codice di procedura civile dall'art. 18 del decreto legislativo n. 40/2006, attuativo della legge delega n. 80/2005. La innovazione (che configura, come si e' ampiamente detto, una nozione del tutto anomala di questione pregiudiziale da decidere con sentenza avverso la quale dispone, quale unico strumento di impugnazione, la immediata ricombilita' in Cassazione) e' stata introdotta non solo in difetto di delega, ma addirittura in contrasto con i principi ed i criteri direttivi enunciati dalla legge delega. Invero l'art. 1, comma 3 della legge delega n. 80/2005 dispone: «Nell'attuazione della delega di cui al comma 2, il Governo si atterra' ai seguenti principi e criteri direttivi: a)disciplinare il processo di Cassazione in funzione nomofilattica.....prevedendo.... la non ricorribilita' immediata delle sentenze che decidono questioni insorte senza definire il giudizio e la ricorribilita' immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito, con conseguente esclusione della riserva discorso avverso le prime e la previsione della riserva del ricorso avverso le seconde......». E' assai chiaro il principio enunciato dalla legge delega nel passo appena trascritto; e' il principio della concentrazione del processo, con conseguente divieto di moltiplicare i ricorsi in Cassazione nell'ambito del medesimo processo; vale a dire che il ricorso in Cassazione e' ammesso solo avverso la decisione che definisce l'intero giudizio. L'unica ragionevole deroga a tale principio riguarda la immediata ricorribilita' «delle sentenze che decidono parzialmente il merito», cioe' delle sentenze che definiscono solo alcune delle domande, mentre il processo prosegue per la trattazione delle residue domande. Ed e' significativo che anche in ordine alle suddette sentenze il legislatore faccia salva la facolta' di riserva del ricorso in Cassazione per non pregiudicare il principio di concentrazione processuale. A questo punto e' agevole rilevare che le sentenze, avverso le quali l'art. 420-bis c.p.c. ammette, anzi impone, la ricorribilita' immediata in Cassazione, non sarebbero ricorribili immediatamente in Cassazione ai sensi del chiaro disposto della legge delega contenuto nel passo sopra trascritto. E' vero infatti che le sentenze le quali decidono sull'efficacia di un contratto collettivo, o sulla interpretazione di una sua clausola, certamente non definiscono l'intero giudizio; lo stesso art. 420-bis dispone in ordine alla ulteriore trattazione del processo. Ma e' anche vero che dette sentenze non decidono parzialmente il merito, vale a dire non decidono su una, o alcune delle domande dedotte in causa; sul punto non resta che richiamare le considerazioni sopra svolte per concludere che la questione dell'efficacia di un contratto collettivo, o della interpretazione di una sua norma non puo' costituire oggetto di una autonoma domanda giudiziale. Atteso quanto sopra deve ritenersi tutt'altro che manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 420-bis c.p.c. anche per contrasto con l'art. 76 della Costituzione. Sulla rilevanza delle questioni I profili di illegittimita' costituzionale come sopra delineati sono rilevanti nella presente causa in cui, come si e' gia' detto, si e' posta la questione di interpretazione e di validita' delle clausole di un contratto collettivo che per la sua diffusione (riguarda l'intero settore metalmeccanico) va ragionevolmente ritenuto «nazionale». Pertanto la questione stessa, ai sensi dell'art. 420-bis c.p.c., andrebbe decisa con sentenza suscettibile di immediato ricorso in Cassazione. Contestualmente alla pronuncia della suddetta sentenza dovrebbe disporsi un rinvio della trattazione non inferiore a novanta giorni. Ed alla udienza successiva dovrebbe disporsi la sospensione del giudizio di primo grado se proposto nel frattempo ricorso alla suprema Corte. Invece, cancellato il suddetto art. 420-bis, il presente processo proseguirebbe il suo corso sino alla sentenza definitiva. Si deve aggiungere che la cancellazione dell'art. 360 c.p.c., nella parte in cui prevede quale motivo del ricorso alla suprema Corte, la violazione di contratti collettivi nazionali, comporterebbe automaticamente la cancellazione dell'art. 420-bis c.p.c. la cui portata si esaurisce nel determinare la modalita' di attuazione della prima norma. E' opportuno osservare, sempre in ordine alla rilevanza delle questioni di illegittimita' costituzionale sopra prospettate, che la riforma del codice di procedura civile, introdotta dal d.lgs. n. 40/2006, emesso in attuazione dell'art. 1, commi 2 e 3 legge delega n. 80/2005, e', in forza del noto principio tempus regit actum, applicabile ai processi in corso alla data della sua entrata in vigore. Ne' puo' indurre in contrario avviso l'art. 27 del suddetto decreto che, dettando una disciplina transitoria, dispone ai primo comma: «Gli articoli 1 e 19, comma 1, lettera f) si applicano ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto». Tale norma ad una prima affrettata lettura potrebbe indurre a ritenere che, a contrario, le altre norme del decreto stesso non si applichino ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore. Ma, a ben guardare, non e' cosi'. L'art. 1 del decreto in questione detta una particolare disciplina sulla appellabilita' delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equita'; e la seconda parte del primo comma del citato art. 27 dispone: «Tuttavia ai provvedimenti dei giudice di pace pubblicati entro la data di entrata in vigore del presente decreto si applica la disciplina previgente». Quest'ultima norma ha senso proprio in quanto presuppone la applicabilita' della riforma in questione ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore. Ed un discorso del tutto analogo vale per il secondo comma del suddetto art. 27 che, dettando una analoga disposizione in ordine al ricorso per Cassazione, recita: «Le restanti disposizioni del capo I si applicano ai ricorsi per Cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto.». Per completezza di indagine e' opportuno aggiungere che e' ininfluente, ai fini del problema che si sta esaminando (cioe' la applicabilita' della riforma in questione ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore, ai sensi del principio tempus regit actum) il richiamo, che si legge sempre nel summenzionato art. 27, all'art. 19 comma I, lettera f). Invero quest'ultima norma disciplina la riunione dei processi, concerne quindi materia di natura amministrativa estranea all'attivita' giurisdizionale, anche se con essa interferente. E' stato sostenuto, in sede di discussione orale, che l'art. 420-bis sotto ulteriori profili sarebbe inapplicabile alla presente controversia per ragioni temporali. Piu' precisamente si e' obiettato che il suddetto articolo, contenente la soluzione di questioni preliminari, sarebbe applicabile ai processi in corso che, al momento della sua entrata in vigore, si trovino, a differenza della presente controversia, ancora nella fase della prima udienza contemplata dall'art. 420 c.p.c., e nella quale vanno decise le questioni preliminari. La obiezione non coglie nel segno. Non e' vero, o almeno non e' sempre vero, che le questioni relative alla interpretazione od all'efficacia di un contratto collettivo siano sempre e necessariamente risolte alla prima udienza ex art. 420 c.p.c., in taluni casi vanno affrontate dopo lo svolgimento di una attivita' istruttoria dal cui esito dipende la rilevanza o meno delle questioni stesse. Si consideri, per esemplificare, una controversia in cui si discuta sulla interpretazione delle clausole di un contratto collettivo che disciplinano il calcolo dello straordinario, ma il datore di lavoro assuma, in via principale che lo straordinario dedotto in giudizio in realta' non e' stato espletato. In questa ipotesi, e in tante altre analoghe che si potrebbero configurare, e' evidente che si dovra' procedere alla previa assunzione delle prove circa lo asserito espletamento del lavoro straordinario; solo l'esito positivo delle stesse rendera' rilevante la questione di interpretazione del contratto che andra' quindi discussa e risolta ben oltre la prima udienza ex art. 420 c.p.c. In sede di discussione e' stato adombrato un ulteriore profilo circa la asserita inapplicabilita' al caso in esame del sopravvenuto art. 420-bis c.p.c. Secondo questo ulteriore profilo la questione pregiudiziale, circa la efficacia o la interpretazione di un contratto collettivo, rilevante nella controversia in corso, e' stata decisa nella specie prima del 2006, secondo la normativa all'epoca vigente, non potrebbe quindi essere oggetto della disciplina dettata dal suddetto art. 420-bis, successivamente entrato in vigore. In altri termini, proprio in base al principio tempus regit actum, la nuova normativa che disciplina le modalita' di risoluzione di una questione pregiudiziale, non sarebbe applicabile ad una questione gia' risolta con apposita ordinanza, risolta in modo esplicito od implicito, ma formalmente corretto in base alla disciplina all'epoca vigente. Anche questa argomentazione non coglie nel segno. La questione pregiudiziale di cui trattasi e' stata decisa, secondo la normativa preesistente al 2006, con ordinanza suscettibile di essere modificata o revocata nel corso del processo; e comunque destinata ad essere confermata o revocata con la successiva sentenza di merito che decide definitivamente, in primo grado, la suddetta questione. Ebbene proprio questo meccanismo e' stato modificato dal sopravvenuto art. 18 che ha voluto escludere, dall'ambito della sentenza di merito, la questione di cui trattasi. La sentenza di merito, proprio in base al principio tempus regit actum, va emanata secondo l'art. 420-bis nel frattempo entrato in vigore, e tale norma presuppone che sia gia' decisa, con apposita sentenza, ed in modo definitivo nel primo grado, la questione pregiudiziale sulla interpretazione o sulla efficacia del contratto collettivo dedotto in giudizio. Sempre in sede di discussione orale e' stata prospettata una ulteriore tesi per escludere la applicazione della riforma del 2006 al presente giudizio. La ordinanza relativa alla interpretazione del contratto collettivo del settore ed alla sua validita' rivestirebbe natura non di ordinanza modificabile o revocabile, bensi' di sentenza non definitiva, come tale impugnabile secondo la normativa preesistente al 2006, sicche', anche sotto questo profilo, il combinato disposto degli articoli 360 e 420-bis c.p.c., non sarebbe applicabile alla presente controversia. Siffatta ulteriore tesi troverebbe fondamento in una sentenza della S.C. (Casa., sez. lavoro, sentenza n. 17780 del 2003) che esclude la possibilita' di decidere con ordinanza, revocabile o modificabile nel giudizio di primo grado, una questione preliminare di merito che invece andrebbe decisa, sempre e soltanto con sentenza non definitiva. Tale indirizzo, pur autorevole, non e' condivisibile per le gravi contraddizioni in cui si avvolge. Si legge nella summenzionata sentenza: «...... in caso di questione preliminare di merito non idonea a definire il giudizio, il giudice e' facoltizzato a seguire due diverse strade: o si astiene dal decidere immediatamente la questione, rimettendone la soluzione unitamente alla decisione sul merito, ma in tal caso nessun giudizio dovra' esprimere in relazione alla fondatezza o l'infondatezza della preliminare, e si dovra' limitare ad emettere i provvedimenti istruttori necessari per il prosieguo, ossia per addivenire poi alla decisione di merito. Ove invece scelga di pronunciarsi immediatamente sulla questione preliminare (senza decidere la causa, perche' il giudizio sulla relativa questione non ha carattere risolutivo), la relativa statuizione non puo' che avere contenuto decisorio, non piu' passibile di revoca ne' di modifica ad opera dello stesso giudice con la sentenza definitiva, e passabile invece di passaggio in giudicato, ove non impugnato immediatamente o con la riserva di impugnazione differita......». E' agevole rilevare che non sussiste la secca alternativa prospettata, o il giudice decide subito con sentenza una questione preliminare, o rimanda ogni decisione alla definizione del processo avanti a lui. Si consideri una eccezione di prescrizione idonea, se fondata, a travolgere lo intero credito dedotto in causa, e tale quindi da rendere a priori inutile una attivita' istruttoria. In tal caso (ed in altri analoghi) la emanazione, con forma di ordinanza, di provvedimenti istruttori necessariamente presuppone che la questione preliminare sia stata decisa, quanto meno implicitamente; ma la relativa decisione, ai sensi dell'art. 177 c.p.c., ben puo' essere adottata in via provvisoria, vale a dire con provvedimento modificabile o revocabile nel corso del giudizio. La sentenza della S.C. che si sta esaminando cosi' prosegue: «Pertanto, una volta che il giudice si sia pronunciato sulla preliminare, non ci si deve piu' interrogare se si tratti di ordinanza o di sentenza: non puo' che trattarsi di' sentenza, perche' sarebbe incongruo attribuire valore meramente ordinatorio tipico dell'ordinanza, ovvero efficacia provvisoria come si sostiene in controricorso, ad un provvedimento che invece pregiudica e non temporaneamente ma definitivamente, la sorte del processo non potendo, con la sentenza definitiva, tornare ad esaminare (ne' confermandola, ne' modificandola) la questione preliminare gia' risolta in precedenza, che si deve ormai dare per presupposta.». Siffatta perentoria affermazione (sorprendente in presenza dell'art. 177 c.p.c. che espressamente sancisce proprio il principio opposto, vale a dire la modificabilita' e revocabilita', salve talune eccezioni tassativamente previste, delle ordinanze che si identificano come tali proprio in base alla forma) viene, nel prosieguo della motivazione, cosi' argomentata: «Ed infatti e' costante la giurisprudenza che afferma che, per definire la natura di un provvedimento giurisdizionale, si deve guardare al contenuto ed alla sostanza di esso secondo le norme di legge, e gia' non alla forma esteriore o alla qualificazione data dal giudice......». E' a questo punto evidente la petizione di principio che vizia i due passi appena trascritti; un provvedimento in forma di ordinanza e con contenuto decisorio riveste, guardando alla sostanza di esso, natura di sentenza perche' non e' revocabile o modificabile; e non e' revocabile o modificabile perche'..... riveste natura di sentenza. E' opportuno, per sgombrare il campo da ogni equivoco, sottolineare che riveste natura di sentenza, qualunque diversa ne sia la forma esteriore, il provvedimento con cui il giudice si spoglia del processo (ad esempio un provvedimento declinatorio della competenza). Siffatto provvedimento riveste natura di sentenza perche' ne produce comunque gli effetti non essendo piu' possibile, almeno in quel grado di giudizio, la sua revoca o la sua modifica. Il cennato orientamento della S.C. non e' quindi condivisibile sia perche' in contrasto con la chiara lettera della legge (art. 177 c.p.c.), sia per le incongruenze che lo viziano e che si sono sopra illustrate. Ed e' opportuno altresi' rilevare che la disciplina del processo civile, come ricostruita dal suddetto orientamento, si presenterebbe affetta da gravi inconvenienti. Il processo verrebbe ad articolarsi in una serie di sentenze non definitive, e relative impugnazioni, quante sono le questioni che di volta in volta si presentano, e sulle quali, come si e' detto, il giudicante dovrebbe inevitabilmente prendere posizione, quanto meno per decidere in ordine alla ulteriore trattazione della controversia. Sarebbe travolto il principio della concentrazione del processo con conseguente inutile allungamento della sua trattazione, in contrasto con l'art. 111 della Costituzione, principio cui ha dato una specifica attuazione la legge delega n. 80/2005, come si e' gia' sottolineato (vedi sopra). Si deve quindi concludere che un provvedimento in forma di ordinanza (come quello emesso nel presente processo sulla interpretazione e la efficacia del contratto collettivo dedotto in causa) sia sempre, salvo le eccezioni tassativamente stabilite dalla legge, revocabile o modificabile nei corso del processo. Pertanto anche il richiamo all'accennato orientamento della S.C., non vale ad escludere la applicabilita', al presente processo dell'art. 420-bis c.p.c. Alla stregua di tutte le considerazioni svolte le questioni di illegittimita' costituzionale, come sopra prospettate, sono tutt'altro che manifestamente infondate, e rilevanti nel presente giudizio.
P. Q. M. Dichiara non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 360 c.p.c., cosi' come modificato dall'art. 2 del d.lgs. n. 40/2006 - nella parte in cui prevede quale motivo del ricorso in Cassazione la violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro per contrasto con gli articoli 39 e 111 della Costituzione; Dichiara tale questione rilevante perche' il suo accoglimento comporterebbe, quale conseguenza automatica, la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 420-bis inserito nel codice di procedura civile dall'art. 18 del d.lgs. n. 40/2006 e la cui portata si esaurisce nella attuazione del citato art. 360 nella parte appena richiamata; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 420-bis c.p.c., inserito nel codice di procedura civile dall'art. 18 del d.lgs. n. 40/2006, per contrasto con gli articoli 3, 76 e 111 della Costituzione; Dispone che gli atti del presente processo siano inviati, a cura della cancelleria, alla Corte costituzionale; Dispone che il presente provvedimento, di cui e' stata data lettura in udienza, sia notificato al Presidente del Consiglio dei ministri, e sia comunicato ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato; Sospende il presente processo sino all'esito del giudizio avanti alla Corte costituzionale. Genova, addi' 12 settembre 2006 Il giudice: Gelonesi 07C0416