N. 163 ORDINANZA 18 aprile - 8 maggio 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati  e  pene  -  Sequestro  di persona a scopo di estorsione - Pena
  minima  di venticinque anni di reclusione in difetto di circostanza
  attenuante  speciale  per  i  fatti di minore gravita' - Denunciata
  irragionevolezza   ed   ingiustificata  disparita'  di  trattamento
  rispetto a fattispecie analoghe, nonche' violazione dei principi di
  personalita'  della  responsabilita'  e della finalita' rieducativa
  della  pena  -  Petitum  formulato  in  modo  ambiguo,  ancipite ed
  indeterminato - Manifesta inammissibilita' della questione.
- Cod. pen., art. 630.
- Costituzione, artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma.
(GU n.19 del 16-5-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Romano   VACCARELLA,  Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
QUARANTA,  Franco  GALLO,  Luigi  MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino
CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 630 del codice
penale  promosso  con  ordinanza  del 19 maggio 2006 dal Tribunale di
Padova nel procedimento penale a carico di D.S. ed altri, iscritta al
n. 428  del  registro  ordinanze  2006  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 43, 1ª serie speciale, dell'anno 2006;
    Visto l'atto di costituzione di D.G. nonche' l'atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  del  17 aprile  2007  il  giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
    Ritenuto  che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale
di  Padova  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e
27,   primo   e   terzo   comma,  della  Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 630  del codice penale, nella
parte  in  cui  stabilisce,  per il delitto di sequestro di persona a
scopo   di  estorsione,  la  pena  minima  di  «anni  venticinque  di
reclusione  in difetto di circostanza attenuante speciale per i fatti
di minore entita' o gravita»;
        che  il  giudice  a  quo  premette  di  essere  investito del
processo penale nei confronti di tre cittadini albanesi, imputati del
reato  previsto  dalla  norma  denunciata,  per  aver  privato  della
liberta'  personale  altro  cittadino  extracomunitario allo scopo di
ottenere,  come  prezzo  della  sua  liberazione,  il  pagamento  del
corrispettivo    di    una   cessione   di   sostanza   stupefacente,
precedentemente effettuata a favore del sequestrato;
        che il rimettente riferisce, in particolare, che quest'ultimo
era  stato  condotto  a  forza da quattro persone, armate di coltello
(successivamente  identificate  nei tre imputati ed in un minorenne),
presso un casolare abbandonato, ove era stato costretto a contattare,
tramite  telefono  cellulare, propri connazionali al fine di reperire
la  somma  di  cui era debitore, richiesta come condizione per la sua
liberazione  e  con  minaccia  di  morte  ove il versamento non fosse
avvenuto;
        che  il sequestrato era rimasto quindi segregato nel casolare
-  legato  ed imbavagliato - fino alla mattina del giorno successivo,
allorche',   a  seguito  della  «segnalazione  di  un  cittadino»,  i
Carabinieri avevano provveduto alla sua liberazione;
        che,  ad  avviso  del  giudice a quo, nel fatto ascritto agli
imputati  sarebbe  ravvisabile  il contestato delitto di sequestro di
persona  a  scopo  di estorsione - punito, nella «forma base», con la
reclusione  da venticinque a trenta anni - e non gia' il concorso fra
i reati di cui agli artt. 605 e 629 cod. pen;
        che,    al   riguardo,   si   dovrebbe   ritenere,   infatti,
«sostanzialmente     vincolante»,     e    comunque    condivisibile,
l'interpretazione   accolta   dalle  Sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione, in forza della quale - ai fini della configurabilita' del
delitto   in   questione  -  l'ingiustizia  del  profitto  perseguito
dall'agente  va  apprezzata non in base alla personale valutazione di
costui, ma con riferimento a canoni legali: con la conseguenza che il
reato  di  sequestro  di  persona  a  scopo  di estorsione resterebbe
integrato  anche  quando l'agente miri ad ottenere il pagamento di un
debito  derivante  da un rapporto illecito precedentemente intercorso
con  la  vittima  (quale,  nella  specie,  la  cessione  di  sostanza
stupefacente), trattandosi di pretesa priva di tutela legale;
        che,  cio'  premesso,  il  rimettente dubita, tuttavia, della
legittimita'  costituzionale  dell'art. 630 cod. pen., avuto riguardo
alla rigidita' della risposta sanzionatoria da esso prefigurata;
        che  -  rimarcato  come  la  discrezionalita' del legislatore
nella  determinazione  della  pena  per  i  singoli reati incontri il
limite  della  ragionevolezza  - il giudice a quo assume segnatamente
che il minimo edittale di venticinque anni di reclusione, «per la sua
estrema  severita'  e  soprattutto  per  l'assenza di una fattispecie
attenuata  speciale  per  i  casi  di  minore  entita»,  violerebbe i
principi   di  personalita'  della  responsabilita'  penale  e  della
finalita' rieducativa della pena, sanciti dall'art. 27, primo e terzo
comma, Cost;
        che  l'irragionevolezza  di  detto minimo emergerebbe in modo
evidente ove si consideri che per il delitto di omicidio volontario -
il quale comporta il sacrificio irreparabile del «bene giuridico piu'
protetto  ed  elevato»,  ossia  la  vita umana - e' prevista una pena
minima  inferiore,  pari ad anni ventuno di reclusione (art. 575 cod.
pen.);  mentre  per  la  riduzione  in  schiavitu'  -  che implica la
privazione  globale  degli  attributi  della personalita', con totale
asservimento  e  mercificazione  della  persona  -  la  pena e' della
reclusione da otto a venti anni (art. 600 cod. pen.);
        che   con   riguardo,   poi,   a  fattispecie  criminose  che
presenterebbero   elementi   tipici   piu'   prossimi   ed  in  parte
sovrapponibili  a  quelli del delitto di cui all'art. 630 cod. pen. -
trattandosi,  in  tutti  i casi, di delitti contro il patrimonio - il
rimettente   evidenzia  come  la  rapina  aggravata  dalla  violenza,
consistita  nel  porre  taluno  in  stato di incapacita' di agire (la
quale  potrebbe,  di  fatto,  equivalere  alla transitoria privazione
della  liberta'  personale)  risulti  punita  con  la  pena minima di
quattro  anni e sei mesi di reclusione (art. 628, terzo comma, numero
2,   cod.   pen.);  mentre  per  l'estorsione  aggravata  da  analoga
circostanza  e'  comminata  la  pena  detentiva  minima  di  sei anni
(art. 629, secondo comma, cod. pen.);
        che  l'eccezionale inasprimento del trattamento sanzionatorio
del   delitto   in  questione,  attuato,  da  ultimo,  con  la  legge
30 dicembre  1980,  n. 894  (Modifiche  all'articolo 630  del  codice
penale)  -  prosegue  il giudice a quo - risponderebbe, in effetti, a
fini   di   prevenzione  generale,  in  rapporto  allo  straordinario
incremento,  verificatosi  negli  anni 1970-1980,  dei  sequestri  di
persona  a  scopo  di  estorsione  posti  in essere da organizzazioni
criminali:  sequestri  protrattisi,  in  taluni  casi,  per anni, con
episodi  di  efferata  crudelta'  ed  in  vista  del conseguimento di
profitti ingentissimi;
        che  a fronte di tale ratio storica, correlata ad un fenomeno
transeunte,  la  norma  incriminatrice verrebbe peraltro a punire con
pena  di  inusitata severita' e fortemente compressa «verso l'alto» -
essendo il minimo di venticinque anni di reclusione assai prossimo al
massimo   di   trenta   -   comportamenti   che   possono   risultare
significativamente differenziati per durata della condotta, modalita'
della  stessa  ed  entita'  della sofferenza arrecata alla vittima: e
cio'  tenuto  conto  anche  del  fatto  che  -  secondo  la  costante
giurisprudenza di legittimita' - il delitto in questione si configura
anche  se  la  privazione della liberta' personale del sequestrato si
protrae per un tempo assai limitato (persino poche ore);
        che,   in  tal  modo,  verrebbero  quindi  frustrate  sia  la
finalita'   rieducativa   della   pena,   «finalita'   che  una  pena
sproporzionata  in  re  ipsa  non raggiunge»; sia la natura personale
della responsabilita' penale, la quale presupporrebbe «equita', e non
esacerbata  reazione punitiva», tramite l'adeguamento del trattamento
sanzionatorio alle peculiarita' del caso concreto;
        che   la   sproporzione   per  eccesso  del  minimo  edittale
risulterebbe  puntualmente  dimostrata  dalla fattispecie oggetto del
giudizio  a  quo,  la quale si connoterebbe come di «minore gravita»,
per  le  caratteristiche  del fatto e soprattutto per la circoscritta
durata  della  privazione della liberta' del sequestrato (protrattasi
per circa sedici ore);
        che  la  norma  censurata  si  porrebbe,  per altro verso, in
contrasto  con  l'art. 3,  primo comma, Cost., sotto il profilo della
irragionevole   disparita'   di   trattamento  rispetto  alla  figura
criminosa  -  da  ritenere  «del tutto affine» - prevista dall'art. 3
della  legge  26 novembre  1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della
convenzione  internazionale  contro  la cattura degli ostaggi, aperta
alla   firma   a   New   York  il  18 dicembre  1979):  disposizione,
quest'ultima,  che  punisce  «chiunque, fuori dei casi indicati dagli
articoli 289-bis  e 630 del codice penale, sequestra una persona o la
tiene  in  suo  potere  minacciando  di  ucciderla,  di  ferirla o di
continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia
questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra piu' governi,
una  persona  fisica  o  giuridica  od  una  collettivita' di persone
fisiche,  a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando
la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione»;
        che  la  figura  criminosa  in parola - introdotta in sede di
ratifica  della  Convenzione  internazionale  contro la cattura degli
ostaggi,  aperta  alla  firma  a  New  York  il  18 dicembre  1979  -
presenterebbe  connotati  peculiari  tali  da  renderla piu' grave di
quella  contemplata  dall'art. 630  cod.  pen.: e cio' sia per quanto
attiene  ai beni protetti; sia in ragione della previsione, ancorche'
in forma alternativa, della minaccia di uccidere il sequestrato; sia,
infine,  a  fronte  della mancata predeterminazione della prestazione
richiesta come prezzo della liberazione, la quale potrebbe consistere
nel  compimento  di  «atti  politici  o  governativi anche molto piu'
significativi [...] rispetto al pagamento di un riscatto»;
        che,  cio' nondimeno, il citato art. 3 della legge n. 718 del
1985  non  solo prevede la medesima pena edittale comminata dal primo
comma dell'art. 630 cod. pen; ma contempla, altresi', al terzo comma,
una  circostanza  attenuante ad effetto speciale per i casi di «lieve
entita»,   la  quale  comporta  l'applicazione  della  pena  prevista
dall'art. 605  cod. pen., aumentata dalla meta' a due terzi (ossia la
pena della reclusione da nove mesi a tredici anni e quattro mesi);
        che  tale attenuante non potrebbe essere estesa, peraltro, al
caso  oggetto  del giudizio a quo, stante il carattere «residuale», e
non  speciale,  del reato previsto dall'art. 3 della legge n. 718 del
1985  rispetto  al  delitto  di cui all'art. 630 cod. pen. (carattere
desumibile  dall'espressa clausola di salvezza di tale ultimo delitto
che  figura  nella  formula  descrittiva del primo): risultandone, di
conseguenza,  un  vulnus  al principio di eguaglianza, per il diverso
trattamento riservato a situazioni pienamente comparabili;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata;
        che,  ad  avviso  della difesa erariale, la questione sarebbe
manifestamente   inammissibile   per  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza,  avendo  il  giudice  a quo qualificato apoditticamente il
fatto  concreto sottoposto al suo esame come di minore entita', senza
una   adeguata  analisi  di  tutte  le  sue  componenti  oggettive  e
soggettive:  analisi da ritenere tanto piu' necessaria a fronte della
descrizione  dell'episodio criminoso contenuta nella stessa ordinanza
di rimessione, la quale militerebbe, primo visu, in senso contrario a
quello indicato dal rimettente;
        che,  per  altro  verso,  il  giudice a quo avrebbe censurato
l'eccessiva  rigidita'  del  sistema  sanzionatorio, senza verificare
preventivamente  se  le  attenuanti  comuni applicabili al delitto di
sequestro  di  persona  a  scopo  di  estorsione - e, in particolare,
quelle  previste  dagli  artt. 62,  numeri 4), 5) e 6), 62-bis e 114,
primo  comma,  cod. pen. - non consentano gia' di tener conto in modo
adeguato,  nella  determinazione  della pena, della «lieve» o «minore
entita» del fatto;
        che,  nel  merito,  dovrebbe  comunque  escludersi l'asserita
compromissione  dei principi enunciati dall'art. 27 Cost., rientrando
nella  discrezionalita'  del legislatore adottare schemi sanzionatori
piu'  o  meno  rigidi  sulla  base  di un bilanciamento delle diverse
esigenze  di politica criminale, tra le quali rientra anche la difesa
sociale;  ne', d'altra parte, sarebbe significativo il paragone con i
minimi  edittali previsti per reati quali l'omicidio, la riduzione in
schiavitu' o la rapina aggravata, trattandosi di figure criminose del
tutto eterogenee per oggettivita' giuridica e allarme sociale;
        che  parimenti  infondata risulterebbe, infine, la censura di
violazione  del  principio  di  eguaglianza, formulata in rapporto al
regime sanzionatorio del delitto di cui all'art. 3 della legge n. 718
del  1985:  tale  norma  incriminatrice  descriverebbe,  infatti, una
ipotesi  «atipica»  di  sequestro  di  persona,  idonea a qualificare
penalmente  anche  sequestri  effettuati a scopo «dimostrativo» o per
finalita'  etico-politiche  di  segno  addirittura  positivo;  il che
giustificherebbe  il  diverso  trattamento  ad essa riservato, quanto
alla  previsione  di  una  attenuante  speciale per i fatti di «lieve
entita»;
        che  si e' costituito, altresi', G. D., imputato nel giudizio
a  quo, il quale ha chiesto, in via preliminare, che la questione sia
dichiarata  manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, in
quanto  il  rimettente - nel ritenere che il fatto per cui si procede
sia  riconducibile  al  paradigma  punitivo  di cui all'art. 630 cod.
pen.,  anziche' a quello del concorso dei reati di cui agli artt. 605
e 629 cod. pen. - avrebbe offerto una lettura non condivisibile della
norma    incriminatrice   censurata,   anche   nell'ottica   di   una
interpretazione «costituzionalmente orientata»;
        che,  in  via  subordinata,  la  parte privata ha chiesto che
l'art. 630  cod. pen. venga dichiarato costituzionalmente illegittimo
«nei   sensi   di   cui   all'ordinanza   di  rimessione»,  svolgendo
argomentazioni  a  sostegno  della  incompatibilita'  del trattamento
sanzionatorio  del  sequestro  di persona a scopo di estorsione con i
parametri costituzionali evocati.
    Considerato  che il Tribunale di Padova dubita della legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo
e  terzo  comma, della Costituzione, dell'art. 630 del codice penale,
nella  parte in cui prevede, per il delitto di sequestro di persona a
scopo   di  estorsione,  la  pena  minima  di  «anni  venticinque  di
reclusione  in difetto di circostanza attenuante speciale per i fatti
di minore entita' o gravita»;
        che,   nel   censurare   l'eccessiva  rigidita'  dell'assetto
sanzionatorio  della  fattispecie  criminosa,  il  giudice  a quo non
formula,  peraltro,  un  petitum connotato dai necessari caratteri di
univocita' e chiarezza;
        che dal tenore del dispositivo dell'ordinanza di rimessione -
dianzi  riprodotto,  in  parte  qua - non e' dato infatti comprendere
quale  tipo  di  intervento  venga  concretamente  richiesto a questa
Corte:  se,  cioe',  un  intervento «manipolativo», consistente nella
riduzione della pena edittale minima (giudicata dal rimettente troppo
elevata);   o   un   intervento   «additivo»,   rappresentato   dalla
introduzione  di  una circostanza attenuante speciale per i fatti «di
minore  entita'  o  gravita»  (cosi'  da rendere, per altra via, piu'
«elastica»  la  risposta  sanzionatoria); ovvero, ancora, tanto l'uno
che l'altro intervento, in via alternativa fra loro: nel quale ultimo
caso,  peraltro  -  non  essendo  rilevabile  alcuna  subordinazione,
espressa   o   logica,   tra   le  due  richieste  -  il  quesito  di
costituzionalita' risulterebbe prospettato in forma ancipite;
        che,  inoltre,  entrambi  gli  interventi  ipotizzati restano
indeterminati  nei  contenuti:  giacche' il giudice a quo non precisa
ne' il diverso minimo edittale che dovrebbe, a suo avviso, sostituire
quello   attuale;  ne'  la  concreta  configurazione  dell'attenuante
auspicata, quanto a presupposti ed effetti;
        che  l'ambiguita'  del  dispositivo  riflette, d'altra parte,
quella della motivazione dell'ordinanza di rimessione, nella quale il
Tribunale   rimettente  formula  due  distinte  censure  -  riferite,
rispettivamente,   all'art. 27,   primo   e   terzo  comma,  Cost.  e
all'art. 3, primo comma, Cost. - che investono altrettanti differenti
profili  del  regime  sanzionatorio  della figura criminosa: la prima
mira  infatti a dimostrare, tramite confronto con varie altre ipotesi
delittuose,  la  sproporzione per eccesso del minimo edittale; mentre
la  seconda  denuncia  come  lesiva  del  principio di eguaglianza la
mancata previsione di una attenuante per i fatti meno gravi, evocando
come  tertium  comparationis il delitto di cui all'art. 3 della legge
26 novembre   1985,  n. 718;  d'altronde  non  e'  neppure  possibile
ritenere   -  valorizzando  il  passaggio  finale  della  motivazione
dell'ordinanza,  nel  quale  il  rimettente  si  duole  di  non poter
applicare  al  caso  sottoposto al suo vaglio l'attenuante ad effetto
speciale  prevista  dal  terzo  comma  del  citato art. 3 della legge
n. 718  del  1985  -  che l'unico, specifico obiettivo perseguito dal
rimettente  sia,  in  realta',  quello  di veder estesa al delitto di
sequestro di persona a scopo di estorsione la predetta attenuante;
        che una simile voluntas non emerge, difatti, in modo univoco,
posto che il dispositivo dell'ordinanza - che segue immediatamente il
ricordato  passaggio  motivazionale  -  non  soltanto non richiama in
termini  espressi,  a mezzo di riferimento normativo, l'attenuante ad
effetto  speciale  in questione; ma fa uso, altresi' - per descrivere
l'attenuante  auspicata  dal rimettente - di una formula («attenuante
speciale per i fatti di minore entita' o gravita») che diverge, anche
sul  piano  lessicale,  da quella impiegata nell'art. 3, terzo comma,
della legge n. 718 del 1985 («fatto [...] di lieve entita») ed evoca,
primo visu, un ventaglio di possibili alternative;
        che,  pertanto  -  a  prescindere  dagli ulteriori profili di
inammissibilita'  eccepiti  dall'Avvocatura dello Stato e dalla parte
privata;  e  a  prescindere,  altresi',  da ogni rilievo in ordine al
merito  delle singole censure (la prima delle quali si risolve in una
mera   critica   a   scelte  legislative  discrezionali  di  politica
criminale,   stante   anche   la   palese  eterogeneita'  dei  tertia
comparationis  evocati;  mentre la seconda si fonda su un presupposto
inesatto,   quale   l'asserita   maggiore  gravita'  obiettiva  della
fattispecie  di cui all'art. 3 della legge n. 718 del 1985, viceversa
piu'  ampia  e  generica rispetto al delitto di cui all'art. 630 cod.
pen.,  come  rimarcato  anche  dalla  difesa  erariale)  il carattere
oscuro,  ancipite  e  indeterminato  del  petitum  rende la questione
manifestamente    inammissibile,   in   conformita'   alla   costante
giurisprudenza  di  questa  Corte  (ex plurimis, ordinanze n. 187 del
2004  e  n. 210  del 2002; con riguardo alle questioni prospettate in
forma ancipite, ordinanze n. 363 del 2005 e n. 382 del 2004).
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   la   manifesta  inammissibilita'  della  questione  di
legittimita'   costituzionale   dell'art. 630   del   codice  penale,
sollevata,  in  riferimento  agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e
terzo   comma,  della  Costituzione,  dal  Tribunale  di  Padova  con
l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2007.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria l'8 maggio 2007.
                      Il cancelliere: Fruscella
07C0633