N. 199 ORDINANZA 5 - 14 giugno 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo  penale  -  Giudizio  direttissimo  -  Reati  in  materia di
  discriminazione   razziale,  etnica  e  religiosa  -  Presentazione
  dell'imputato   in   udienza   nel   termine   di  quindici  giorni
  dall'arresto  o dall'iscrizione nel registro delle notizie di reato
  - Mancata previsione - Denunciata disparita' di trattamento nonche'
  lesione  del diritto di difesa e dei principi sul giusto processo -
  Questione prospettata in relazione a funzionamento patologico della
  disciplina  -  Richiesta  di  pronuncia  additiva implicante scelte
  discrezionali riservate al legislatore - Manifesta inammissibilita'
  della questione.
- D.L.  26 aprile  1993,  n. 122,  art. 6,  comma 5,  convertito, con
  modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
(GU n.24 del 20-6-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 5, del
decreto-legge  26 aprile  1993,  n. 122 (Misure urgenti in materia di
discriminazione   razziale,  etnica  e  religiosa),  convertito,  con
modificazioni,  nella  legge  25  giugno 1993,  n. 205,  promosso con
ordinanza   del   18 novembre   2004  dal  Tribunale  di  Verona  nel
procedimento  penale a carico di A. A. ed altri iscritta al n. 80 del
registro  ordinanze  2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 9, 1ª serie speciale, dell'anno 2005.
    Visto l'atto di costituzione di M.T;
    Udito nell'udienza pubblica del 20 marzo 2007 il giudice relatore
Giovanni Maria Flick;
    Udito l'avvocato Emanuele Fracasso jr. per M.T;
    Udito   nuovamente   nell'udienza  pubblica  del  5  giugno 2007,
rifissata  in  ragione  della intervenuta modifica della composizione
del collegio, il giudice relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto che, con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Verona
ha   sollevato,   in   riferimento  agli  artt. 3,  24  e  111  della
Costituzione,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 6,
comma 5,  del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in
materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito,
con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nella parte in
cui  -  stabilendo  che per i reati indicati all'art. 5, comma 1, del
medesimo  decreto-legge,  il  pubblico  ministero procede al giudizio
direttissimo  anche  fuori dei casi previsti dall'art. 449 del codice
di  procedura  penale, salvo che siano necessarie speciali indagini -
non   prevede,   «secondo   l'interpretazione   maggioritaria   della
giurisprudenza  di  legittimita',  [...]  che l'imputato debba essere
presentato  in  udienza nel termine di quindici giorni dall'arresto o
dall'iscrizione nel registro delle notizie di reato»;
        che  il  giudice  a quo premette che nel corso di un giudizio
direttissimo,  instaurato  in base alla norma censurata nei confronti
di  numerose  persone imputate di reati in materia di discriminazione
razziale,  etnica e religiosa, il Tribunale di Verona aveva disposto,
ai sensi dell'art. 452 cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al
pubblico ministero, affinche' procedesse nelle forme ordinarie;
        che   l'ordinanza   era   stata   adottata   in  accoglimento
dell'eccezione  proposta  dai difensori degli imputati, relativa alla
necessita'   di   rispettare,   anche   nelle   ipotesi  di  giudizio
direttissimo  cosiddetto  «atipico»  -  quale  quella  in  esame - il
termine  di  quindici  giorni,  stabilito dall'art. 449, commi 4 e 5,
cod.  proc. pen. per l'instaurazione del rito: nella specie, difatti,
il  pubblico  ministero aveva richiesto il giudizio direttissimo dopo
circa  sessanta  giorni  dall'arresto  in flagranza degli imputati, e
dunque ben oltre il predetto termine;
        che, tuttavia, a seguito del ricorso proposto dal Procuratore
della  Repubblica, la Corte di cassazione aveva annullato la predetta
ordinanza, disponendo la restituzione degli atti al Tribunale;
        che,  a  fronte  della nuova instaurazione del giudizio nelle
forme  del  rito  speciale,  il giudice a quo - recependo la relativa
eccezione   della   difesa   -   solleva  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 6,  comma 5,  del  decreto-legge n. 122 del
1993, ventilandone il contrasto con plurimi parametri costituzionali;
        che  il  rimettente  muove  dalla considerazione che, in base
alla   disciplina   del  codice  di  procedura  penale,  il  giudizio
direttissimo   -   rito  che,  implicando  la  diretta  presentazione
dell'imputato   al   giudice   dibattimentale,   mira   a  realizzare
«un'economia   di  tempo  e  di  attivita'  processuale»  -  ha  come
presupposto  una  particolare  situazione  di  evidenza  della prova,
correlata  all'avvenuto  arresto in flagranza o alla confessione resa
dall'indagato  nel  corso  dell'interrogatorio:  situazione  che deve
peraltro  coniugarsi al rispetto dello stringente termine di quindici
giorni  per l'instaurazione del rito, decorrente dall'arresto o dalla
notitia criminis (art. 449 cod. proc. pen.);
        che,  inoltre,  l'utilizzazione  del  rito  speciale,  pur in
presenza   dei   relativi   presupposti,   si   connota  sempre  come
discrezionale,  potendo  il  pubblico  ministero  comunque promuovere
l'azione penale nelle forme ordinarie;
        che,  peraltro,  a  fianco del giudizio direttissimo «tipico»
(quello   disciplinato,   per   l'appunto,   dal   codice  di  rito),
l'ordinamento  conosce  ipotesi  «atipiche» di giudizio direttissimo,
introdotte  da  leggi  speciali - tra cui quella regolata dalla norma
denunciata  -  nelle  quali il rito speciale, per un verso, prescinde
dall'arresto in flagranza o dalla confessione dell'indagato, e dunque
dal  presupposto  dell'evidenza  della  prova; e, per un altro verso,
viene  a  configurarsi  come  obbligatorio:  giustificandosi, in tali
ipotesi,  l'adozione  del  modulo  in  questione  «con le esigenze di
celerita', immediatezza ed esemplarita' del processo»;
        che,  non  potendo, tuttavia, «l'accelerazione del rito [...]
comunque comportare una attenuazione delle garanzie difensive», anche
nei  casi  di  giudizio  direttissimo  «atipico»  dovrebbe  ritenersi
richiesta  l'osservanza  del  termine  di  quindici giorni, di cui al
citato  art. 449  cod. proc. pen.: prospettiva nella quale il rito in
parola  dovrebbe considerarsi obbligatorio solo «in via tendenziale»,
vale  a  dire  nei  soli limiti in cui non siano necessarie «speciali
indagini»,  incompatibili  con  l'inderogabile  rispetto del predetto
termine;
        che  tale  soluzione  interpretativa  - condivisa da un ampio
settore  della  dottrina  -  risulterebbe,  tuttavia,  «assolutamente
minoritaria  nella  giurisprudenza  di  legittimita»,  come del resto
attesterebbe  la  sentenza  di  annullamento  emessa  dalla  Corte di
cassazione nel giudizio a quo;
        che   -   ove   interpretata   in  conformita'  all'indirizzo
giurisprudenziale dominante, assunto dal giudice a quo quale «diritto
vivente»  -  la  disposizione dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge
n. 122  del  1993  si  rivelerebbe  lesiva, sotto piu' aspetti, della
Carta costituzionale;
        che,  in particolare, l'esenzione dell'organo dell'accusa dal
rispetto  del  termine  di  quindici  giorni determinerebbe «un grave
sbilanciamento  tra  i  poteri  del  pubblico  ministero  e i diritti
dell'imputato  in  danno  di  quest'ultimo»: in tal modo, infatti, si
consentirebbe   al   pubblico  ministero  di  procedere  ad  indagini
preliminari   prolungate  nel  tempo  e  «approfondite  nel  merito»,
portandole  a  conoscenza  dell'imputato  solo  nel momento in cui lo
stesso venga presentato al giudice del dibattimento;
        che  «un  tale  esito»  si giustificherebbe nei casi previsti
dall'art. 449,  comma 5,  cod.  proc.  pen.,  nei  quali  proprio  la
brevita'  del  termine di quindici giorni impedisce lo svolgimento di
indagini  di  notevole  complessita'  ed  il sistema e' riequilibrato
dalla facolta' dell'imputato di ottenere un corrispondente termine di
dieci  giorni  per  approntare la sua difesa (art. 451, comma 6, cod.
proc.  pen.);  mentre  altrettanto  non  potrebbe  dirsi allorche' il
pubblico  ministero venga abilitato a compiere atti di indagine senza
limitazioni  temporali,  diverse  da  quelle  previste dall'art. 405,
comma 2, cod. proc. pen;
        che  tale  rilievo sarebbe sufficiente a far ritenere violati
sia  l'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparita' di trattamento
tra  coloro  che  vengono sottoposti a giudizio direttissimo nei casi
indicati  dall'art. 449  cod. proc. pen. e coloro che sono sottoposti
al medesimo giudizio nelle ipotesi di cui al decreto-legge n. 122 del
1993;  sia l'art. 24 Cost., sotto il profilo della compressione delle
garanzie  difensive;  sia, infine, l'art. 111 Cost., sotto il profilo
della  alterazione  della  condizione  di parita' delle parti e della
lesione del diritto dell'imputato ad essere informato, nel piu' breve
tempo  possibile, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo
carico  e,  conseguentemente,  del  diritto  a  disporre  di un tempo
adeguato per preparare la propria difesa;
        che nel giudizio di costituzionalita' si e' costituito M. T.,
imputato  nel  giudizio  a  quo, concludendo per l'accoglimento della
questione.
    Considerato  che il Tribunale di Verona dubita della legittimita'
costituzionale  dell'art. 6,  comma 5,  del  decreto-legge  26 aprile
1993,   n. 122,   convertito,   con  modificazioni,  nella  legge  25
giugno 1993,  n. 205, nella parte in cui - stabilendo che per i reati
previsti  dall'art. 5, comma 1, del medesimo decreto-legge si procede
con giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall'art. 449
del  codice  di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali
indagini  -  non  prevede,  «secondo  l'interpretazione maggioritaria
della   giurisprudenza  di  legittimita»  -  interpretazione  cui  il
rimettente  e'  tenuto  ad  uniformarsi,  a  fronte  del principio di
diritto   enunciato   dalla  Corte  di  cassazione  con  sentenza  di
annullamento - «che l'imputato debba essere presentato in udienza nel
termine   di  quindici  giorni  dall'arresto  o  dall'iscrizione  nel
registro delle notizie di reato»;
        che  il  rimettente  censura,  in specie, lo squilibrio che -
alla  luce  di detta interpretazione - verrebbe a determinarsi fra la
posizione del pubblico ministero, il quale sarebbe libero di svolgere
attivita'  investigativa  senza  altro  limite  temporale  che quello
generale  di  durata  delle  indagini  preliminari;  e  la  posizione
dell'imputato,  che  -  posto  a  conoscenza  dei  risultati di detta
attivita'  investigativa  unicamente in occasione della presentazione
al  giudice del dibattimento - disporrebbe, invece, per approntare la
propria   difesa,   solo   del  ristretto  termine  di  dieci  giorni
contemplato dall'art. 451, comma 6, cod. proc. pen;
        che - ad avviso del giudice a quo - la compressione dei tempi
per  la  predisposizione  della difesa rispetto a quelli previsti nel
rito   ordinario,  che  caratterizza  il  giudizio  direttissimo,  si
giustificherebbe  solo  quando  l'attivita'  di indagine del pubblico
ministero  non  abbia  carattere  complesso:  condizione, questa, che
verrebbe  assicurata - nell'ambito del giudizio direttissimo «tipico»
-  proprio  dalla  brevita'  dello  spatium  temporis di cui l'organo
dell'accusa dispone per l'instaurazione del rito speciale; ma che, in
assenza di omologo sbarramento temporale, potrebbe rimanere viceversa
elusa  nell'ipotesi  di  giudizio  direttissimo  «atipico» oggetto di
scrutinio;
        che da tali considerazioni il rimettente fa quindi discendere
la violazione tanto dell'art. 3 della Costituzione, per la disparita'
di trattamento tra coloro che sono sottoposti a giudizio direttissimo
nei  casi  previsti  dall'art. 449  cod. proc. pen. e coloro che sono
assoggettati a tale rito ai sensi della norma censurata; quanto degli
artt. 24  e 111 Cost., in ragione della compromissione del diritto di
difesa,   della   parita'  delle  parti  nel  processo,  del  diritto
dell'imputato  ad  essere  informato  nel  piu' breve tempo possibile
dell'accusa  a  suo  carico  e  a  disporre  di un tempo adeguato per
preparare la difesa;
        che,  tuttavia,  e'  lo stesso giudice a quo a sottolineare -
quale premessa alle proprie argomentazioni - la differenza esistente,
sul  piano  dei  presupposti,  fra il giudizio direttissimo «tipico»,
disciplinato  dal  codice di rito, e la figura «atipica» del medesimo
rito   regolata  dalla  norma  denunciata:  il  Tribunale  rimettente
rimarca,  infatti,  come  il  primo  postuli  una  «particolare [...]
situazione di evidenza della prova», connessa all'avvenuto arresto in
flagranza    o    alla    confessione    dell'indagato    nel   corso
dell'interrogatorio; mentre la seconda si leghi alla semplice assenza
della  necessita'  di  «speciali  indagini»: essendo il rito speciale
giustificato,  in  tale seconda ipotesi, da esigenze di «immediatezza
ed  esemplarita'  del  processo»  relativo a particolari categorie di
illeciti;
        che  e'  palese,  per altro verso, come il concetto di «prova
evidente»  (il  quale  evoca  una prognosi di accertamento fortemente
semplificato  della responsabilita' dell'imputato) si ponga, rispetto
al  paradigma  della  «non  necessita'  di  speciali  indagini»  (che
richiama,  in  negativo,  la  sola  non  complessita'  dell'attivita'
investigativa),  in  un  rapporto  di  species ad genus: se, infatti,
l'esistenza di una «prova evidente» implica sempre la «non necessita'
di speciali indagini», non e' vero l'inverso;
        che,  in  simile  prospettiva,  l'allineamento,  invocato dal
rimettente,  delle due ipotesi poste a confronto quanto ai termini di
instaurazione   del   rito   -   allineamento  che  una  parte  della
giurisprudenza  di  legittimita' ritiene peraltro praticabile gia' in
via  interpretativa, come lo stesso rimettente ricorda - non potrebbe
essere     comunque     considerato     come    l'unica    soluzione,
costituzionalmente  obbligata,  onde  eliminare i possibili squilibri
che la disposizione denunciata, nella diversa interpretazione oggetto
di censura, risulterebbe in assunto idonea a produrre;
        che,  difatti,  il  rimettente  denuncia  l'inadeguatezza dei
termini  di  difesa non in assoluto, ma solo in un'ottica comparativa
rispetto  alla  «consistenza»  delle  indagini  svolte  dal  pubblico
ministero  e  avendo  di  mira, in sostanza, una ipotesi «patologica»
rispetto  al  sistema:  quella, cioe', del mancato rispetto, da parte
del  pubblico ministero, della condizione legale di instaurazione del
giudizio  direttissimo  «atipico»  de  quo,  rappresentata dalla «non
necessita' di speciali indagini»;
        che,  in  tale  ottica,  l'esigenza  di  evitare che l'organo
dell'accusa  concretamente  promuova  il  suddetto giudizio dopo aver
esperito  investigazioni complesse, potrebbe essere soddisfatta anche
con  strumenti  diversi dalla previsione di uno sbarramento temporale
«preventivo»  (e, a fortiori, di uno sbarramento temporale identico a
quello stabilito per il giudizio direttissimo «tipico», che poggia su
un  presupposto  non  omologo):  essendo ipotizzabili anche controlli
successivi,  ovvero  sanzioni processuali, collegate all'accertamento
di  una  concreta  lesione  del  diritto di difesa, quale conseguenza
dell'elusione del presupposto legale di instaurazione del rito;
        che   l'individuazione   di  siffatti  rimedi  implicherebbe,
peraltro,  scelte  discrezionali,  che  esulano  dai poteri di questa
Corte, restando necessariamente rimesse al legislatore;
        che, pertanto - a prescindere da ogni possibile rilievo circa
il  carattere  meramente  astratto  della  violazione  del diritto di
difesa ventilata dal rimettente, il quale non precisa quali strumenti
defensionali  sarebbero  stati  concretamente sacrificati nel caso di
specie,   in  dipendenza  del  modello  processuale  censurato  -  la
richiesta  di  pronuncia  additiva  rivolta dal rimettente medesimo a
questa Corte si palesa manifestamente inammissibile.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   la   manifesta  inammissibilita'  della  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge
26 aprile  1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione
razziale,  etnica  e religiosa), convertito, con modificazioni, nella
legge 25 giugno 1993, n. 205, sollevata, in riferimento agli artt. 3,
24  e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Verona con l'ordinanza
indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria il 14 giugno 2007.
                      Il cancelliere: Fruscella
07C0791