N. 525 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 gennaio 2007
Ordinanza emessa il 17 gennaio 2007 dalla Corte dei conti - Sezione giurisdizionale d'appello per la regione Siciliana, Palermo sull'appello proposto da Di Stefano Nunzio contro Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale per la regione Siciliana. Corte dei conti - Giudizio di responsabilita' - Soggetti condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge censurata - Fase di appello - Possibilita' di chiedere la definizione del giudizio mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado - Irrazionalita' - Violazione del diritto di difesa - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Interferenza sulla funzione giurisdizionale contabile, con specifico riguardo al principio di libero convincimento del giudice - Violazione del principio di separazione del potere legislativo dal potere giudiziario - Violazione dei principi del giusto processo. - Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 231. - Costituzione, artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111. Corte dei conti - Giudizio di responsabilita' - Soggetti condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge censurata - Fase di appello - Possibilita' della sezione di appello della Corte dei conti, in caso di accoglimento della richiesta di definizione del giudizio, di determinare la riduzione della somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado - Irrazionalita' - Violazione del diritto di difesa - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Interferenza sulla funzione giurisdizionale contabile, con specifico riguardo al principio di libero convincimento del giudice - Violazione dei principi del giusto processo. - Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 232. - Costituzione, artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111. Corte dei conti - Giudizio di responsabilita' - Soggetti condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge censurata - Fase di appello - Previsione che il giudizio si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello della somma dovuta dal condannato - Irrazionalita' - Violazione del diritto di difesa - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Interferenza sulla funzione giurisdizionale contabile, con specifico riguardo al principio di libero convincimento del giudice - Violazione dei principi del giusto processo. - Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 233. - Costituzione, artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111.(GU n.28 del 18-7-2007 )
LA CORTE DEI CONTI Ha emesso la seguente ordinanza n. 02/A/2007/ORD, nel giudizio in materia di responsabilita' amministrativa iscritto al n. 1928/A/RESP del registro di segreteria e promosso dal sig. Nunzio Di Stefano, col patrocinio dell'avv. Girolamo Rubino, avverso la sentenza n. 496/2006 della sezione giurisdizionale per la regione Siciliana. Visti gli atti e i documenti di causa; Uditi, nella Camera di consiglio del 30 novembre 2006, il relatore, consigliere Salvatore Cilia, l'avv. Rubino e il V.P.G. Salvatore Marcinno'. F a t t o Con atto di citazione, depositato in segreteria il 21 gennaio 2004, la Procura regionale ha convenuto in giudizio il sig. Nunzio Di Stefano per sentirlo condannare al pagamento, in favore del comune di Agrigento, della somma di Euro 148.390,00 per danno patrimoniale e dell'ulteriore somma di Euro 74.195,00 per danno all'immagine, nonche' i sig. ri Giacomo Montalbano, Pier Remigio Rosso e Michele Bella chiedendone la condanna - in regime sussidiario e con il beneficio della preventiva esclussione del Di Stefano - al pagamento della somma di Euro 24.731,70 ciascuno, e in favore dello stesso comune, per danno patrimoniale; inoltre, al pagamento di interessi legali e rivalutazione monetaria sulle predette somme, e alle spese di giudizio. La vicenda che ha indotto la procura regionale a formulare le richieste di condanna trae origine da una indagine disposta, in data 5 maggio 1994, dall'assessore comunale dei servizi demografici, a conclusione della quale emersero irregolarita' ed ammanchi di proventi nel settore di competenza del Servizio demografico, che, in particolare, misero in evidenza - per gli anni 1991, 1992 e 1993 - una differenza in negativo tra gli importi incassati per il rilascio dei certificati e gli importi effettivamente versati nella cassa comunale (in totale, per l'appunto, Euro 148.390,00); per tale vicenda ha avuto luogo un giudizio penale (per il reato di peculato) nei riguardi dei dipendenti comunale Nunzio Di Stefano, Giacomo Montalbano, Giuseppe Pagano, Giovanni Caltagirone e Diego Sciascia, a conclusione del quale il solo Di Stefano venne condannato per tale reato, mentre gli altri imputati vennero assolti con la formula «non avere commesso i fatti». (In sede penale, il Di Stefano ha ammesso di essersi appropriato di parte della predetta somma di Euro 148.390,00, motivando la sua azione illecita con la necessita' di coprire le spese affrontate per cure mediche apprestate, alla madre, alla figlia e alla moglie, le quali versavano tutte in cattive condizioni di salute). Il p.m. ha individuato nella fattispecie tutti gli elementi costitutivi della responsabilita' contabile. Gli altri tre convenuti sono stati convenuti in giudizio per «responsabilita' di tipo sussidiario» (a livello di colpa grave) in quanto, nella specifica qualita' di capo ripartizione dei servizi demografici (il Montalbano, per il periodo 1° gennaio 1990/3 novembre 1992, e il Rosso, dal 4 novembre 1992 al 6 gennaio 1994) e di capo sezione dell'ufficio anagrafe (il Bella, dal 6 novembre 1990 al 12 marzo 1993), «avevano l'obbligo di esercitare i poteri di organizzazione e di controllo per verificare il regolare funzionamento dell'ufficio cui erano preposti e la corretta gestione del pubblico denaro incassato per il rilascio dei certificati anagrafici». Con la sentenza n. 496/2006 (successivamente ad una precedente sentenza parziale - n. 1467/2004 - con cui era stata dichiarata l'avvenuta prescrizione del diritto fatto valere dal p.m. nei confronti dei sig. ri Rosso e Bella), la sezione giurisdizionale - affermando che non risulta dimostrata una parte del danno patrimoniale contestato e la sussistenza del danno all'immagine - condanna il Di Stefano (comportamento doloso) alla somma complessiva di Euro 40.283,64 (l'intero danno patrimoniale «accertato»), e il Montalbano (in regime sussidiario e con il beneficio della preventiva esclussione del Di Stefano) alla somma di Euro 10.000,00 in applicazione del criterio equitativo sancito dall'art. 1226 cod. civ.; oltre interessi legali, rivalutazione monetaria e spese legali. La predetta sentenza e' stata appellata sia dai due convenuti, che dalla Procura regionale. In particolare, nell'atto di appello che interessa il sig. Di Stefano, l'avv. Girolamo Rubino - dopo avere sostanzialmente lamentato il criterio adottato dal giudice di primo grado nella ripartizione del danno erariale, considerato che il suo assistito rivestiva, all'interno dell'Ufficio servizi demografici del comune di Agrigento, la qualifica di mero assistente amministrativo, per cui appaiono illogiche e incongrue alcune affermazioni (e le conclusioni) enucleabili dall'atto di citazione e dalla sentenza appellata (il Di Stefano sarebbe stato «l'unico dipendente in grado di potere attivare il sistema informatico e l'unico a posserdere le chiavi di accesso a detto sistema»; i capi Sezione e i capi Ripartizione sono stati convenuti solo a titolo sussidiario, e uno solo di loro risulta condannato - e per una somma minima - a tale titolo) - chiede la definizione del giudizio ai sensi e per gli effetti dei commi 231 e 232 della legge n. 266/2005, applicando i benefici ivi previsiti. In data 5 settembre 2006, la Procura generale ha depositato in segreteria un atto conclusionale col quale chiede il rigetto dell'appello presentato dal sig. Di Stefano in quanto le argomentazioni ivi contenute appaiono del tutto infondate, e il parere ex art. 1, commi 231 e 232, della legge n. 266/2005, col quale chiede che l'istanza formulata venga rigettata, sia perche' tali norme prevedono la facolta' del condannato, in alternativa, di scegliere tra rito ordinario (che puo' portare alla condanna, ma anche all'assoluzione) e rito speciale (che, comunque, comporta una condanna), mentre nella specie il convenuto ha chiesto che «il giudizio venga definito con l'applicazione dell'art. 1 della legge n. 266/2005 dopo la richista di accogliere l'appello», senza, cioe', fare la necessaria (ma unica) opzione; sia perche' - ma in linea assolutamente subordinata - il comportamento dell'interessato «e' stato caratterizzata da dolo». Chiamando i tre giudizi all'udienza del 25 ottobre 2006, la sezione ha rinviato a nuovo ruolo quelli recanti i numeri 1951/A/RESP (appello Montalbano) e 1963/A/RESP (appello Procura), mentre ha fissato per l'altro la camera di consiglio del 30 novembre 2006, nel corso della quale sia l'avv. Rubinio che il V.P.G. hanno confermato le richieste con i rispettivi atti scritti. D i r i t t o In via pregiudiziale, la sezione deve affrontare le eccezioni di inammissibilita', prospettata dalla Procura generale nei termini risultanti dall'ultima parte della narrativa, con riferimento alla richiesta di «definizione agevolata» del giudizio ex art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 2006; entrambe le eccezioni sono infondate. La prima (rapporto fra atto di appello e richiesta di definizione agevolata), in quanto, tenendo conto (come risultera' dal prosieguo della motivazione) del fatto che tale richiesta puo' essere formulata esclusivamente in sede di proposizione dell'appello, non pare ragionevole ipotizzare che l'atto di appello, se finalizzato alla richiesta della definizione agevolata, avrebbe dovuto limitarsi ai «motivi» del gravame, pretermettendo qualsiasi richiesta conclusiva nel merito (probabilmente, nel maggiore dei casi, di assoluzione), mentre e' da ritenere che, nell'ottica complessiva della legge, la richiesta di definizione agevolata, apparentemente (ma fisiologicamente) o subordinata», acquisisce poi - nell'ambito dell'esame della sezione di appello - tutte le caratteristiche della domanda «principale»; la seconda (natura dolosa del comportamento che ha prodotto il danno erariale), in quanto tale limite non si rinviene nella legge (in base alla interpretazione che la sezione ha dato alla normativa de qua, come e' possibile evincere dalle considerazioni che saranno svolte in seguito). A questo punto il Collegio deve rilevare che l'art. 1 della citata legge n. 266/2005, pone - ai commi 231, 232 e 233 - i seguenti (nuovi) meccanismi sostanziali e processuali applicabili nei giudizi di responsabilita' dinanzi alla Corte dei conti per i fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge stessa: 1) «i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza»; 2) «La sezione di appello, con decreto in Camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non inferiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento»; 3) «il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello». Tali disposizioni, in sostanza, introducono, nella fase di appello, un procedimento camerale diretto alla definizione «agevolata» del giudizio di responsabilita' innanzi alla Corte di conti; ma la sezione dubita della legittimita' costituzionale del complesso di tali disposizioni, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111 della Costituzione. Il raggiungimento della sezione prende le mosse da quella giurisprudenza costituzionale (fra le altre, sentenze n. 68/1971, n. 63/1973 e n. 1032/1988) in base alla quale la concreta garanzia dei principi costituzionali di eguaglianza, di andamento e del controllo contabile sia sostanzialmente affidata alla legge ordinaria, nel senso che sono riservate al discrezionale apprezzamento del legislatore non solo la determinazione e la graduazione dei tipi e dei limiti di responsabilita' che - in relazione alle varie categorie di dipendenti pubblici o alle particolari situazioni regolate - appaiono come le forme piu' idonee a garantire l'attuazione dei predetti principi costituzionali (sentenza n. 411/1988 e ordinanza n. 549/1988, nonche' - con riferimento all'art. 28 della Costituzione - le sentenze n. 2/1968, n. 123/1972, n. 164/1982 e n. 26/1987), ma anche la possibilita' di stabilire un limite patrimoniale della responsabilita' amministrativa (sentenza n. 340/2001). Cio' sta a significare, in definitiva, da una parte, che, per quanto non sia possibile trarre da taluni parametri costituzionali (in particolare, artt. 97 e 103, secondo comma, della Costituzione) un principio di inderogabilita' delle comuni regole della responsabilita', si puo' tuttavia ricavare dagli stessi parametri la regola secondo la quale la discrezionalita' del legislatore, per essere considerata corretta nel suo esercizio, deve determinare e graduare, caso per caso, i tipi e i limiti della responsabilita' in riferimento alle diverse categorie di dipendenti pubblici e alle diverse situazioni concrete, fissando,per ciascuna di esse, le forme piu' idonee a garantire i principi del buon andamento e del controllo contabile (sentenza n. 371/1998); e, dall'altra, che, in sede di giudizio di legittimita' costituzionale, le leggi disciplinanti la responsabilita' dei pubblici dipendenti sono sindacabili, in riferimento ai parametri invocati, solo sotto il profilo della ragionevolezza della disciplina adottata e delle diversita' introdotte (cioe', in relazione all'art. 3 della Costituzione). Conseguentemente, pur non potendosi negare, in linea di principio, la possibilita' di un intervento legislativo del tipo di quello esaminato in questa sede, e' tuttavia pur sempre necessario che l'intervento stesso sia strettamente (e ragionevolmente) collegato alle specifiche pecularieta' del caso in modo tale da escludere qualsiasi ipotesi di arbitrio nella fase di sostituzione della disciplina generale con una (successiva) eccezione (Corte costituzionale, sentenza n. 14/1999), e altre precedenti ivi citate) sotto il profilo tanto del rispetto del principio di eguaglianza, quanto della tutela del buon andamento e della salvaguardia della funzione giurisprudenziale da indebite interferenze da parte del potere legislativo. Senonche', rispetto alle norme di cui si sta trattando, appare alquanto problematica l'individuazione della ratio che le sorregge, che non sia quella - puramente e semplicemente - della limitazione del risarcimento patrimoniale del soggetto condannato in primo grado, circostanza che, proprio per questo, caratterizza l'innovazione normativa per la sua irrazionalita' e - conseguentemente - per la sua arbitrarieta'. In merito, potrebbe essere utile richiamare due esempi, tratti dalla normativa, che - pur eventualmente «criticabili» sul piano lato sensu «politico» - presentano una ratio che consente di superare, sul piano giuridico, i dubbi di irrazionalita' e arbitrarieta': uno concerne il c.d. «condono fiscale» che, pur attivabile «dinanzi alle commissioni tributarie od al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio (da ultimo, art. 16, legge 27 dicembre 2002, n. 289), e' chiaramente finalizzato all'incremento - e in termini brevi - delle entrate fiscali, oltre a deflazionare, in qualche misura, il contenzioso tributario; un altro, concernente la «applicazione della pena su richiesta delle parti» (ai sensi degli artt. 444 e segg. cod. proc. pen.), che, potendo essere richiesta, nel giudizio ordinario, fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli artt. 421, comma 3, e 442, comma 3 (e, in caso di giudizio direttissimo, fino alla dichiarazione di apertura di dibattimento di primo grado), e' chiaramente finalizzata a deflazionare il carico di lavoro del giudice penale per i reati meno rilenvanti e, al contempo, a limitare drasticamente le pene detentive e quindi limitare agli accessi alle carceri, notoriamente superaffollate. Conseguentemente, raffrontando le citate situazioni con il caso che interessa in questa sede, a giudizio della sezione appaiono violati gli artt. 97 (principio di buon andamento dell'amministrazione pubblica) e 103, secondo comma, della Costituzione (controllo contabile) stante che le norme sottoposte a scrutinio costituzionale, da una parte, non incidono minimamente (in senso riduttivo) sull'entita' del contenzioso contabile (considerato che le norme stesse operano esclusivamente in sede di appello, nel cui ambito il sostituire una pubblica udienza con una Camera di consiglio e una sentenza con decreto e' sicuramente di piccolo momento), e, dall'altra, che producono (quasi sicuramente, facendo astrazione ovviamente dall'ipotesi di condanna in sede di appello ordinario) una minore entrata (fra il 90 per cento e il 70 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado), per cui rimane soltanto l'irrazionale e incongruo «effetto premiale» (nei confronti del convenuto condannato, che, in quanto tale, si appalesa del tutto ingiustificato. D'altra parte, la sezione ritiene che tali parametri costituzionali siano violati anche sotto un altro profilo. Infatti - premesso che nel sistema vigente l'attenuazione della responsabilita' amministrativo-contabile e' rimessa, nei singoli casi, al potere riduttivo del giudice, che, a tal fine, puo' tenere conto (fondamentalmente) del comportamento e del livello di responsabilita', ma anche delle capacita' economiche del soggetto responsabile - appare assolutamente irragionevole (e, in questo senso, viene implicato anche l'art. 3 della Costituzione) una riduzione predeterminata e pressoche' automatica della responsabilita' e della misura del risarcimento, lasciando al giudice una valutazione minima in ordine al comportamento complessivo dell'agente (Corte costituzionale, sentenza n. 340/2001); con la ulteriore conseguenza che il complesso normativo esaminato potrebbe incidere (limitandolo) sul principio del «libero convincimento del giudice», violando cosi' l'art. 101 della Costituzione, limitandolo anche nel senso che l'inciso «in caso di accoglimento» della richiesta del soggetto condannato (comma 232), non contenendo alcun criterio di orientamento per il giudice, comporta - in conclusione e in sostanza - l'assenza di qualsiasi «discrezionalita» nell'an (per cui il procedimento, in certo qual modo, diventa «obbligatorio». A sua volta, il principio di eguaglianza appare ulteriormente violato nella considerazione che la normativa e' applicabile soltanto ai «soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna», con la conseguenza che la situazione concreta potrebbe rilevarsi negativa nei confronti dei soggetti che risultino assolti in primo grado nel senso che la relativa sentenza potrebbe essere appellata dal pubblico ministero e che la sentenza di appello potrebbe essere di condanna, senza che il convenuto possa fruire dei vantaggi della norma «di condono». E' ben vero che, nella specie, si e' in presenza di soggetti condannati in primo grado, con la conseguenza che la prospettazione che precede potrebbe apparire non rilevante, ma, nell'economia complessiva della normativa, appare comunque irrazionale una previsione legislativa che esclude dai benefici quei soggetti la cui posizione - dopo la sentenza di primo grado - appare chiaramente meno «pesante» di quella dei convenuti condannati; mentre difficilmente potrebbe pervenirsi ad una interpretazione «adeguatrice», sono solo perche', in tale caso, dovrebbe superarsi la «lettera» della «condanna» in primo grado, ma anche perche' si dovrebbe «creare» il criterio al quale correlare le percentuali del 10, del 20 o del 30 previste dalla legge. Appare violato anche l'art. 24 della Costituzione (in particolare, il secondo comma: «La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» nella parte in cui il pubblico ministero presso la Corte dei conti viene evocato nel solo comma 232 e solo per «essere sentito» in Camera di consiglio quando la sezione di appello deve deliberare «in merito alla richiesta»; infatti, per tale funzione, limitata e marginale (che si sostanzia nell'espressione di un «parere», del pubblico ministero, il procedimento regolato dai commi 231 - 233 dell'art. 1 della legge n. 266/2005 non assume, sostanzialmente, carattere bilaterale, per cui la funzione di «parte» del pubblico ministero contabile (nell'ottica - anche del «giusto processo» - dell'art. 111 della Costituzione) viene, nella specie, quasi pretermessa (con la conseguenza - fra l'altro - che, in tal modo, vengono pesantemente compressi i diritti e gli interessi della pubblica amministrazione, dei quali il pubblico ministero e' chiaramente portatore, in uno all'interesse generale dell'Ordinamento). Le questioni di legittimita' costituzionale che precedono, non superabili in via interpretativa, sono non manifestamente infondate per i motivi che precedono e rilevanti in quanto le norme denunciate, ove venissero dichiarate incostituzionali, non potrebbero essere applicabili nel presente giudizio, che proseguirebbe secondo il rito ordinario.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 231, 232 e 233 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, in relazione agli artt. 3, 24, 97, 103 e 111 della Costituzione. Ordina l'immediata trasmissione degli atti, a cura della segreteria, alla Corte costituzionale, sospendendo conseguentemente il processo fino all'esito del giudizio incidentale di costituzionalita'. Dispone che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e alle parti, e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' provveduto in Palermo, nella Camera di consiglio del 30 novembre 2006. Il Presidente: Sancetta L'estensore: Cilia 07C0935