N. 322 SENTENZA 11 - 24 luglio 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati  e  pene  - Liberta' sessuale (reati contro la) - Atti sessuali
  con  minore  infraquattordicenne  -  Impossibilita' per l'agente di
  invocare a propria scusa l'ignoranza dell'eta' della persona offesa
  -  Denunciato  contrasto  con  il  principio  di personalita' della
  responsabilita'   penale   -   Richiesta   di   caducazione   della
  disposizione  censurata  -  Incongruenza  logica  di  tale  petitum
  rispetto  alla (corretta) premessa argomentativa - Mancata verifica
  della  possibilita'  di  un'interpretazione secundum constitutionem
  (alla   stregua   del   principio   di   necessaria   colpevolezza,
  ragguagliato  quanto  meno  al minimum dell'ignoranza o dell'errore
  inevitabile)   -  Inadeguatezza  della  motivazione  in  ordine  al
  requisito della rilevanza - Inammissibilita' della questione.
- Cod.   pen.,  art. 609-sexies,  inserito  dall'art. 7  della  legge
  15 febbraio 1996, n. 66.
- Costituzione, art. 27, primo e terzo comma.
(GU n.30 del 1-8-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Franco GALLO, Luigi MAZZELLA,
Gaetano  SILVESTRI,  Sabino  CASSESE,  Maria  Rita  SAULLE,  Giuseppe
TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 609-sexies del
codice  penale,  introdotto dall'art. 7 della legge 15 febbraio 1996,
n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), promosso con ordinanza del
23 maggio  2005 dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di
Modena  nel procedimento penale a carico di P. T., iscritta al n. 471
del  registro  ordinanze  2005  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica, 1ª serie speciale, dell'anno 2005.
    Visto   l'atto  di  costituzione  di  P.  T.  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  del  19  giugno 2007  il  giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
    Udito  l'avvocato  Mario  Marchio'  per  P. T. e l'avvocato dello
Stato Giovanni Lancia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe - emessa nell'ambito di
un  processo  penale nei confronti di persona imputata del delitto di
cui   all'art. 609-quater   del  codice  penale  (atti  sessuali  con
minorenne)  -  il  giudice  dell'udienza preliminare del Tribunale di
Modena ha sollevato, in riferimento all'art. 27, primo e terzo comma,
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art. 609-sexies  del  codice  penale, inserito dall'art. 7 della
legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), in
forza  del  quale  «quando i delitti previsti negli articoli 609-bis,
609-ter,  609-quater  e  609-octies sono commessi in danno di persona
minore  degli  anni  quattordici, nonche' nel caso del delitto di cui
all'articolo 609-quinquies, il colpevole non puo' invocare, a propria
scusa, l'ignoranza dell'eta' della persona offesa».
    Il   giudice   a   quo   premette  che,  nel  corso  dell'udienza
preliminare,    il    difensore    dell'imputato    aveva    eccepito
l'illegittimita'  costituzionale  della  norma de qua, assumendo che,
nel  caso  di  specie,  l'imputato  era stato indotto in errore dalla
persona  offesa,  dichiaratasi,  contro  il vero, maggiore degli anni
quattordici  al  momento  del  fatto: circostanza, questa, confermata
dallo   stesso   minore   in   sede  di  assunzione  di  informazioni
testimoniali.
    Al   riguardo,   il   rimettente  osserva  come  la  disposizione
denunciata  -  riproducendo  «quasi  tralatiziamente»  il  previgente
art. 539  cod. pen. - introduca, a fini di piu' stringente protezione
dei  minori,  una  evidente deroga ai principi generali in materia di
dolo.  Essa  sancisce,  infatti, una sorta di presunzione iuris et de
iure   di   conoscenza   dell'eta'  della  persona  offesa  da  parte
dell'agente,  impedendo  conseguentemente  a  quest'ultimo di provare
l'incolpevole  ignoranza  di  detta eta' o l'erroneo convincimento di
una eta' superiore.
    Il  giudice  a quo ricorda, altresi', come questa Corte sia stata
chiamata   a   verificare   in   piu'   occasioni   la   legittimita'
costituzionale  del  citato  art. 539  cod.  pen.,  negando  tuttavia
fondamento  alle censure. In particolare, la sentenza n. 107 del 1957
- confermata dall'ordinanza n. 22 del 1962 e dalla sentenza n. 20 del
1973 (recte: n. 20 del 1971) - ha escluso che la disposizione ledesse
il  principio  di  personalita' della responsabilita' penale, sancito
dall'art. 27,  primo  comma, Cost.: e cio' in base al duplice rilievo
che  detto  principio  vieterebbe  unicamente  la responsabilita' per
fatto  altrui, nella specie non riscontrabile, essendo richiesto, per
la  punibilita'  dell'agente, un nesso di causalita' materiale tra la
sua  condotta e l'evento; e che, comunque, anche qualora si ritenesse
necessario   un   concorrente  nesso  psichico,  la  conclusione  non
muterebbe,  in  quanto  l'eta'  del  soggetto  passivo non atterrebbe
all'evento  del  reato  -  rappresentato  dal «congiungimento carnale
abusivo», che deve essere investito «dalla coscienza e dalla volonta'
intenzionale»  -  ma  costituirebbe  «un presupposto del reato e piu'
propriamente  una  condizione  (non  obiettiva) di punibilita' la cui
consapevolezza e' estranea al nesso tra azione ed evento».
    La  sentenza n. 209 del 1983 (l'ultima sul tema) - ricorda ancora
il  rimettente  -  oltre  a  ribadire  la  pregressa  interpretazione
dell'art. 27,    primo    comma,   Cost.,   ha   escluso   anche   la
configurabilita'  di una lesione del principio di eguaglianza, di cui
all'art. 3  Cost.  (ventilata  sotto  vari  profili), rimarcando come
l'art. 539  cod.  pen. mirasse a realizzare «un'accentuata tutela del
minore  degli  anni quattordici, ritenuto incapace di consenso valido
alla congiunzione carnale».
    Posteriormente  a tali decisioni - prosegue il giudice a quo - si
e'   tuttavia   affermata   e   consolidata,   nella   giurisprudenza
costituzionale,  una  diversa  lettura  del principio di personalita'
della  responsabilita'  penale.  Alla  stregua  della  «fondamentale»
sentenza  n. 364  del  1988, infatti, per «fatto proprio» - del quale
soltanto  si  e'  chiamati  a  rispondere  - «non si intende il fatto
collegato  al  soggetto,  all'azione  dell'autore,  dal mero nesso di
causalita'  materiale  [...]  ma  anche,  e  soprattutto, dal momento
subiettivo,  il quale deve investire - almeno nella forma della colpa
- gli elementi piu' significativi della fattispecie tipica».
    Ancora  piu'  esplicito  risulterebbe,  peraltro, il dictum della
successiva  sentenza  n. 1085  del  1988,  secondo  la quale «perche'
l'art. 27,   primo  comma,  Cost.  sia  pienamente  rispettato  e  la
responsabilita'    penale    sia    autenticamente    personale,   e'
indispensabile  che  tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a
contrassegnare  il  disvalore della fattispecie siano soggettivamente
collegati  all'agente  (siano cioe' investiti dal dolo o dalla colpa)
ed  e'  altresi'  indispensabile  che  tutti  e ciascuno dei predetti
elementi  siano  allo  stesso  agente  rimproverabili  e  cioe' anche
soggettivamente  disapprovati».  Alla «regola della rimproverabilita»
si  sottrarrebbero  «soltanto  gli elementi estranei alla materia del
divieto   (come   le   condizioni  estrinseche  di  punibilita'  che,
restringendo  l'area del divieto, condizionano, appunto, quest'ultimo
o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi)».
    In  sostanza,  alla  luce  di  tali  sentenze,  il  principio  di
personalita'   della   responsabilita'   penale   potrebbe  ritenersi
rispettato  solo  quando  il precetto penale sia formulato in termini
tali  da garantire il collegamento psichico tra l'agente e il «nucleo
significativo  o fondante della fattispecie», nel quale si risolve il
disvalore  del  fatto  incriminato,  giustificando  cosi' la funzione
rieducativa della pena, che ne consegue.
    In  tale  nuova  prospettiva,  sarebbe  peraltro  indubbio  - con
riguardo ai reati che offendono la liberta' sessuale dei minori; e in
particolare  a  quello  di  cui  all'art. 609-quater  cod.  pen., che
punisce  il  compimento  di  atti  sessuali  con un minore degli anni
quattordici  -  che  l'eta'  del  soggetto  passivo  non possa essere
imputata  in  via oggettiva all'autore del fatto, senza compromettere
il parametro costituzionale evocato.
    Al  riguardo,  non potrebbe essere infatti condivisa la soluzione
prospettata  nella remota sentenza n. 107 del 1957, stando alla quale
l'eta'  della  vittima  integrerebbe una «condizione non obiettiva di
punibilita»:   istituto,   questo,   ignoto   all'ordinamento  penale
italiano,  che  contempla solo le condizioni obiettive di punibilita'
(art. 44 cod. pen.), le quali - accedendo ad un fatto tipico completo
nei  suoi elementi costitutivi - delimitano l'area della punibilita',
rimanendo  soggette,  proprio  in  tale  ottica,  ad  una  regola  di
imputazione oggettiva.
    Nell'ipotesi prevista dall'art. 609-quater cod. pen., per contro,
il   dato  anagrafico  risulterebbe  decisivo  al  fine  di  attrarre
nell'area  di  rilevanza  penalistica  un  atto  -  quello sessuale -
altrimenti  lecito:  onde  il predetto dato andrebbe qualificato come
presupposto  della  condotta,  o  addirittura  -  conformemente  alle
indicazioni   contenute   nella   stessa   relazione   del   Ministro
guardasigilli  al  progetto  definitivo  del  codice  penale  -  come
elemento  costitutivo  del  reato,  che  incentra su di se' «la ratio
essendi  dell'incriminazione».  Con  l'ulteriore  conseguenza che, ai
fini  del  rispetto  dell'art. 27,  primo  comma,  Cost.,  l'eta' del
soggetto   passivo   dovrebbe  risultare  riferibile  soggettivamente
all'autore   del   fatto,   «quanto   meno  sotto  il  profilo  della
rappresentazione».
    E'  ben  vero,  d'altro  canto - soggiunge il rimettente - che la
norma sottoposta a scrutinio e' volta ad assicurare una piu' energica
protezione  di soggetti, quali i minori infraquattordicenni, non solo
considerati   incapaci   di  prestare  un  valido  consenso  all'atto
sessuale,  ma  altresi' esposti in modo crescente ad abusi: trovando,
quindi,   «un  solido  radicamento  in  interessi  costituzionalmente
protetti».  Il  bilanciamento degli interessi in potenziale conflitto
non  dovrebbe, tuttavia, necessariamente risolversi con il sacrificio
del  principio  di  colpevolezza.  L'esigenza  di rafforzamento della
tutela  del  minore  non varrebbe difatti a giustificare, di per se',
una  deroga a tale principio: giacche', al contrario, quanto maggiore
e'  il  disvalore  del fatto nella valutazione del legislatore e piu'
severo  il  relativo  trattamento sanzionatorio, tanto piu' effettivo
dovrebbe  risultare  il  giudizio  di «rimproverabilita» dell'agente;
giudizio  che  implica  la  prova della piena conoscenza di tutti gli
elementi della fattispecie.
    Lo  stesso  legislatore ordinario - ad avviso del giudice a quo -
avrebbe  fornito,  del  resto, una puntuale dimostrazione di come una
politica criminale ispirata alla rigorosa tutela dell'infanzia contro
ogni   forma   di   abuso   possa   percorrere   strade   «rispettose
dell'ortodossia  dei  principi in materia di imputazione soggettiva».
Nessuna  disposizione analoga a quella censurata e' infatti contenuta
nella legge 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della
prostituzione,  della  pornografia,  del turismo sessuale in danno di
minori,  quali nuove forme di riduzione in schiavitu): legge che pure
disciplina  una  materia  sotto piu' profili affine a quella regolata
dalla   legge  n. 66  del  1996,  introducendo  norme  incriminatrici
addirittura piu' severe di quella dell'art. 609-quater cod. pen.
    Cio'  comporta che rispetto ai delitti di cui agli artt. 600-bis,
primo  comma,  e  600-ter,  primo  comma,  cod.  pen. (aggiunti dagli
artt. 2  e  3 della citata legge n. 269 del 1998) - i quali puniscono
con   la   reclusione   da  sei  a  dodici  anni  (oltre  la  multa),
rispettivamente, l'induzione o il favoreggiamento della prostituzione
di  minori degli anni diciotto e l'utilizzazione di questi ultimi per
realizzare   esibizioni   pornografiche   o  per  produrre  materiale
pornografico  -  la minore eta' della vittima, secondo il rimettente,
deve   necessariamente   rientrare  «nello  spettro  del  dolo»:  con
conseguente  non punibilita' dell'autore del fatto, il quale dimostri
l'ignoranza  o  l'errore  su  tale  elemento,  ancorche' colposo (non
essendo  dette  fattispecie  punibili  a  titolo  di colpa). L'errore
incolpevole sull'eta' potrebbe rilevare, d'altro canto - alla stregua
della  regola  generale  in  tema  di  imputazione  soggettiva  delle
circostanze,  dettata  dall'art. 59, secondo comma, cod. pen. - anche
nell'ipotesi  circostanziata  di  cui  all'art. 600-sexies  cod. pen.
(inserito  dall'art. 6  della  medesima  legge),  il quale prevede un
aumento  di  pena  da un terzo alla meta' qualora i fatti di cui agli
artt. 600-bis,  primo  comma,  600-ter,  primo comma, e 600-quinquies
cod. pen. siano commessi in danno di minori degli anni quattordici.
    La  questione  risulterebbe  infine rilevante nel giudizio a quo,
giacche'  -  una  volta  rimossa  la  presunzione iuris et de iure di
conoscenza  dell'eta'  della  vittima  -  l'imputato «potrebbe essere
ammesso  a  provare  l'ignoranza  della  stessa,  argomentando  dalle
dichiarazioni  rese dalla stessa parte offesa, che ha ammesso di aver
riferito al proprio partner di essere ultraquattordicenne».
    2.   -  Nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o infondata.
    Rimarcato  come analoga questione di legittimita' costituzionale,
relativa  al previgente art. 539 cod. pen., sia stata dichiarata piu'
volte  infondata,  o  manifestamente infondata, tanto da questa Corte
che  dalla Corte di cassazione; e sottolineato, altresi', come - alla
stregua  delle  indicazioni  di  questa  Corte  - l'art. 27 Cost. non
contenga   «un   tassativo   divieto  di  responsabilita'  oggettiva»
(sentenza   n. 364   del   1988),   la  difesa  erariale  assume  che
l'art. 609-sexies cod. pen. contemplerebbe un caso di responsabilita'
oggettiva costituzionalmente legittimo.
    Al  riguardo,  basterebbe  infatti  osservare come, ai fini della
configurabilita'  del  reato di cui all'art. 609-quater cod. pen., il
nucleo  centrale  della  condotta  tipica  -  ossia  l'atto di natura
sessuale  -  debba  essere  realizzato  volontariamente: circostanza,
questa,  che  -  secondo quanto rilevato dalla stessa sentenza n. 364
del 1988 - varrebbe a rendere l'atto «proprio» dell'agente.
    L'irrilevanza dell'ignoranza o dell'errore sull'eta' del soggetto
passivo,  d'altro  canto, risponderebbe all'esigenza - radicata nella
cultura  giuridica  italiana  - di rendere piu' energica la tutela di
persone  che  si trovano in determinate condizioni di immaturita' dai
pericoli  derivanti  da rapporti sessuali abusivi: impedendo, in pari
tempo,  che trovino ingresso nel processo penale temi di indagine che
possono  risultare  lesivi  della dignita' del minore o ulteriormente
traumatizzanti  per  quest'ultimo (quale, ad esempio, quello relativo
ad un suo contegno sessualmente troppo spregiudicato).
    Non si potrebbe trascurare, inoltre, la considerazione che l'eta'
inferiore  agli anni quattordici e', il piu' delle volte, agevolmente
valutabile  - o quantomeno percepibile in via dubitativa - dai terzi;
e  che,  in  ogni  caso,  potrebbe  rimproverarsi  all'agente di aver
proceduto  all'atto sessuale senza l'assoluta certezza del compimento
del quattordicesimo anno di eta' da parte dell'altro soggetto.
    La  maggiore severita', rispetto all'ordinario, della valutazione
della  volonta'  colpevole si giustificherebbe peraltro agevolmente -
ad  avviso  dell'Avvocatura  -  con la particolare rilevanza del bene
tutelato  dalla  norma,  ricollegabile  alla previsione di protezione
dell'infanzia  e  della  gioventu'  da parte della Repubblica, di cui
all'art. 22  (recte:  31,  secondo  comma)  Cost.  Ne' avrebbe pregio
l'assunto  del  giudice  a  quo,  secondo cui l'esigenza di tutela in
parola  potrebbe essere soddisfatta senza sacrificare il principio di
colpevolezza:  giacche',  per  un verso, il principio di colpevolezza
non verrebbe nella specie sacrificato, ma, semmai, solo attenuato; e,
per  un  altro  verso,  il  legislatore  ben  potrebbe, in ogni caso,
sacrificare   -   «per  fondate  ragioni»  -  un  determinato  valore
costituzionale a vantaggio di altro valore di pari rango: prospettiva
nella quale la notazione del giudice a quo si risolverebbe non in una
censura    di    costituzionalita',    ma   in   una   mera   critica
all'apprezzamento discrezionale del legislatore.
    Neppure, da ultimo, coglierebbe nel segno l'argomentazione con la
quale  il  rimettente  tenta  di  corroborare  il proprio assunto: e,
cioe',  che  la  legge  n. 269 del 1998, contro lo sfruttamento della
prostituzione,  della pornografia e del turismo sessuale in danno dei
minori, non reca alcuna norma omologa a quella denunciata. I reati in
materia  di  pedofilia,  introdotti  da  tale legge, realizzerebbero,
infatti,  una  tutela  anticipata della liberta' sessuale dei minori,
punendo  comportamenti  diversi  e  «prodromici»  rispetto  a  quelli
incriminati  dagli  artt. 609-bis,  609-ter,  609-quater e 609-octies
cod.  pen.:  onde sarebbe comprensibile che, rispetto a lesioni «meno
immediate»  del  suddetto  valore,  i  profili attinenti all'elemento
psicologico  del  reato vengano regolati dal legislatore in modo meno
severo  (ancorche', poi, i fatti - per il particolare allarme sociale
e  la  riprovazione  che  destano  -  siano puniti, a volte, con pena
edittale piu' elevata).
    3.  -  Si e' costituito, altresi', T. P., imputato nel giudizio a
quo, il quale - riportandosi integralmente alla memoria difensiva con
la   quale   era   stata   sollevata   l'eccezione   di  legittimita'
costituzionale  recepita  dal  giudice  rimettente  - ha concluso per
l'accoglimento della questione.
    Nella  predetta memoria, riprodotta nell'atto di costituzione, la
difesa  della  parte  privata  aveva  preliminarmente evidenziato, in
punto  di rilevanza, gli elementi di fatto - in assunto univoci - dai
quali si desumerebbe che l'imputato, a seguito di induzione in errore
ad opera della stessa persona offesa, aveva ritenuto di compiere atti
sessuali   con   soggetto   ultraquattordicenne  consenziente,  nella
certezza che il fatto fosse penalmente irrilevante.
    Su   tale   premessa,  la  difesa  aveva  quindi  prospettato  la
possibilita'   di  interpretare  la  previsione  di  inescusabilita',
contenuta   nell'art. 609-sexies   cod.   pen.,   come   riferita   -
conformemente  al  suo  tenore  testuale  -  esclusivamente alla mera
ignoranza  dell'eta'  dell'offeso,  e  non  pure all'errore (il quale
rimarrebbe  pertanto  regolato dalla norma generale dell'art. 47 cod.
pen.):    soluzione    che    rifletterebbe    l'asserita    maggiore
«riprovevolezza» dell'ignoranza rispetto all'errore, in quanto indice
-  diversamente  da questo - «di assoluta indifferenza verso i valori
tutelati dall'ordinamento».
    Nel  caso  di  mancata  adesione  a  tale  tesi,  la difesa aveva
rilevato  come  le decisioni di questa Corte, che avevano respinto le
questioni  di  costituzionalita' relative al previgente art. 539 cod.
pen.,  dovessero  considerarsi  superate  alla  luce  del  successivo
mutamento   della   giurisprudenza  costituzionale,  avutosi  con  la
sentenza  n. 364  del  1988.  Quest'ultima  ha  infatti affermato che
l'art. 27,  primo  comma,  Cost.  non  si limita a sancire il divieto
della  responsabilita'  per  fatto  altrui,  ma  attribuisce dignita'
costituzionale    al   principio   di   colpevolezza,   intesa   come
«rimproverabilita»  dell'autore  del  fatto:  «rimproverabilita»  che
presuppone  che  tutti  gli  elementi significativi della fattispecie
tipica siano coperti quantomeno dalla colpa. Tale condizione dovrebbe
ritenersi,  quindi,  senz'altro  richiesta in rapporto all'eta' della
vittima  del  reato  di  atti  sessuali con minorenne, trattandosi di
elemento  che  -  lungi  dal  restare estraneo all'offesa - concentra
«l'intera  dimensione  lesiva del fatto», determinando la punibilita'
di  una  condotta  altrimenti  lecita.  Ne',  d'altro  canto, sarebbe
consentito  al  legislatore privilegiare - rispetto a «dogmi di rango
costituzionale»,   quale  appunto  il  principio  di  colpevolezza  -
«impulsi  di  politica  criminale»,  collegati  alla  pur  accentuata
riprovazione sociale del fenomeno della pedofilia.

                       Considerato in diritto

    1.  - Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Modena
dubita,  in  riferimento  all'art. 27,  primo  e  terzo  comma, della
Costituzione,  della legittimita' costituzionale dell'art. 609-sexies
del  codice  penale  -  inserito  dall'art. 7 della legge 15 febbraio
1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale) - il quale stabilisce
che  «quando  i  delitti  previsti  negli  articoli 609-bis, 609-ter,
609-quater  e  609-octies  sono  commessi  in danno di persona minore
degli   anni  quattordici,  nonche'  nel  caso  del  delitto  di  cui
all'articolo 609-quinquies, il colpevole non puo' invocare, a propria
scusa, l'ignoranza dell'eta' della persona offesa».
    Il  rimettente  rileva  come  la  norma denunciata introduca - in
deroga  ai  principi  generali  in  materia  di  dolo  - una sorta di
presunzione  iuris  et  de iure di conoscenza dell'eta' della persona
offesa   da   parte   dell'agente,   impedendo   conseguentemente   a
quest'ultimo  di  provare  l'incolpevole  ignoranza  di  detta eta' o
l'erroneo convincimento di una eta' superiore.
    Tale  presunzione  si  porrebbe in irrimediabile contrasto con il
principio  di  personalita'  della  responsabilita'  penale,  sancito
dall'art. 27,  primo  comma,  Cost.  Quest'ultimo  -  secondo  quanto
chiarito  dalle  sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 di questa Corte -
non  si  limita  a  vietare  la  responsabilita' per fatto altrui, ma
esige,  altresi', un collegamento psichico - almeno nella forma della
colpa  -  tra  l'agente  e  il «nucleo significativo o fondante della
fattispecie»,   nel   quale   si   risolve  il  disvalore  del  fatto
incriminato,  giustificando  cosi' la funzione rieducativa della pena
che ne consegue.
    Con  riguardo  ai  reati  che  offendono la liberta' sessuale dei
minori  -  e  segnatamente  a  quello di cui all'art. 609-quater cod.
pen.,  oggetto  del giudizio a quo, che punisce il compimento di atti
sessuali   con   un  minore  degli  anni  quattordici  -  sarebbe  di
conseguenza   indubbio  che,  ai  fini  del  rispetto  del  parametro
costituzionale  evocato,  l'eta' della persona offesa debba risultare
riferibile  soggettivamente  all'autore del fatto, «quanto meno sotto
il  profilo  della  rappresentazione»:  trattandosi  di  elemento che
incentra  il disvalore dell'incriminazione, segnando il confine tra i
fatti   delittuosi   e   i  rapporti  sessuali  leciti  tra  soggetti
consenzienti.
    Ne',  d'altra  parte, le accentuate esigenze di tutela dei minori
di anni quattordici da ogni forma di abuso, cui intende rispondere la
norma   denunciata   -   esigenze  pure  ricollegabili  ad  interessi
costituzionalmente  protetti  -  potrebbero  giustificare  deroghe al
principio    di    colpevolezza:    giacche',    al   contrario,   la
«rimproverabilita»   dell'agente   dovrebbe   risultare   tanto  piu'
effettiva,    quanto    maggiore    e'   il   disvalore   del   fatto
nell'apprezzamento  del legislatore. Il «sacrificio» del principio di
colpevolezza,   peraltro,   non   sarebbe   affatto  coessenziale  al
conseguimento  del  predetto  obiettivo  di tutela, come attesterebbe
puntualmente  la  circostanza  che  la  legge 3 agosto 1998, n. 269 -
concernente  una  materia strettamente affine a quella regolata dalla
legge  n. 66  del  1966  (ossia la lotta contro lo sfruttamento della
prostituzione,  la  pornografia  e  il  turismo  sessuale in danno di
minori)  e  recante previsioni punitive addirittura piu' energiche di
quella  dell'art. 609-quater  cod.  pen.  - non contenga alcuna norma
corrispondente a quella censurata.
    2. - La questione e' inammissibile.
    2.1.   -   Il  giudice  rimettente  muove  dall'assunto  che  gli
argomenti, sulla cui base questa Corte ritenne il previgente art. 539
cod.   pen.   rispettoso   del   principio   di   personalita'  della
responsabilita'  penale  (sentenze  n. 209 del 1983, n. 20 del 1971 e
n. 107  del 1957; ordinanze n. 70 del 1973 e n. 22 del 1962), debbano
essere  necessariamente  riconsiderati  alla  luce  della  successiva
evoluzione  della giurisprudenza costituzionale riguardo alla valenza
del parametro evocato.
    Si  tratta  di  premessa  in  se'  corretta.  Le citate decisioni
sull'art. 539   cod.   pen.   -  costituente  l'immediato  precedente
legislativo   della  disposizione  oggi  denunciata  -  si  basavano,
difatti,  su  un duplice rilievo: e cioe' che, da un lato, l'art. 27,
primo  comma,  Cost. si sarebbe limitato a vietare la responsabilita'
penale  per  fatto  altrui,  richiedendo,  pertanto, solo un nesso di
causalita'  materiale tra la condotta del soggetto e l'evento; e che,
dall'altro  lato  -  ove  pure  fosse stato necessario un concorrente
nesso  psichico - la conclusione non sarebbe mutata, in quanto l'eta'
dell'offeso  non  atteneva  all'evento  del  reato  (nella specie, la
congiunzione   carnale,   che  doveva  essere  comunque  voluta),  ma
costituiva  un  presupposto  del  fatto  e,  piu'  propriamente, «una
condizione  (non obiettiva) di punibilita» (cosi', in particolare, la
sentenza n. 107 del 1957).
    Con  la sentenza n. 364 del 1988 - posteriore a tutte le pronunce
dianzi ricordate - questa Corte, innovando l'indirizzo interpretativo
sino  ad allora seguito, ha tuttavia riconosciuto che il principio di
personalita'  della  responsabilita'  penale,  sancito  dall'art. 27,
primo   comma,  Cost.,  non  si  esaurisce  nel  mero  divieto  della
responsabilita'  per  fatto  altrui,  ma  va  inteso,  amplius,  come
principio   della   responsabilita'   per  fatto  proprio  colpevole:
postulando,  quindi, un «coefficiente di partecipazione psichica» del
soggetto   al  fatto,  rappresentato  quanto  meno  dalla  colpa  «in
relazione agli elementi piu' significativi della fattispecie tipica».
    Tale   enunciato   e'  stato  ulteriormente  puntualizzato  dalla
sentenza  n. 1085  del 1988. Secondo quest'ultima pronuncia - ai fini
del  rispetto  dell'art. 27,  primo comma, Cost. - «e' indispensabile
che  tutti  e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare
il   disvalore  della  fattispecie  siano  soggettivamente  collegati
all'agente  (siano,  cioe',  investiti  dal dolo o dalla colpa) ed e'
altresi'  indispensabile  che  tutti e ciascuno dei predetti elementi
siano allo stesso agente rimproverabili e cioe' anche soggettivamente
disapprovati».  E cio' a prescindere dalla circostanza che l'elemento
in  discussione  si  identifichi  o  meno  con  l'evento  del  reato:
rimanendo sottratti alla esigenza della «rimproverabilita» unicamente
«gli  elementi  estranei alla materia del divieto (come le condizioni
estrinseche  di  punibilita'  che,  restringendo  l'area del divieto,
condizionano,  appunto,  quest'ultimo  o la sanzione alla presenza di
determinati elementi oggettivi)».
    2.2.   -   Egualmente   corretto  appare  il  successivo  rilievo
dell'ordinanza  di rimessione, per cui nel reato di atti sessuali con
minorenne  (art. 609-quater cod. pen.) - oggetto del giudizio a quo -
l'eta'  infraquattordicenne dell'offeso rappresenta l'elemento su cui
gravita  l'intero  disvalore della fattispecie tipica. In effetti, e'
proprio  e  soltanto  il  dato  anagrafico  che - facendo scattare la
presunzione  iuris et de iure di incapacita' della vittima a prestare
un valido consenso agli atti sessuali - segna il confine tra il fatto
delittuoso  ed un rapporto sessuale lecito tra soggetti consenzienti.
Con la necessaria conseguenza che, ai fini del rispetto dell'art. 27,
primo  comma, Cost., l'elemento dell'eta' - quale che ne sia il ruolo
nella  struttura della fattispecie (elemento costitutivo, presupposto
del  fatto,  «condizione  non  obiettiva di punibilita») - deve poter
essere  collegato  all'agente  anche  dal  punto di vista soggettivo,
cosi'  da  rendere  la  sua  condotta, alla stregua delle indicazioni
proposte   dalla   sentenza   n. 364   del  1988,  espressiva  di  un
«rimproverabile»  contrasto o indifferenza rispetto ai valori sanciti
dalla norma incriminatrice.
    2.3.   -   Appare   condivisibile,   infine,   anche  l'ulteriore
considerazione  del  giudice  a  quo,  secondo cui - contrariamente a
quanto   sostiene   l'Avvocatura   dello  Stato  -  il  principio  di
colpevolezza  non puo' essere «sacrificato» dal legislatore ordinario
in nome di una piu' efficace tutela penale di altri valori, ancorche'
essi pure di rango costituzionale.
    I  principi  fondamentali di garanzia in materia penale, difatti,
in  tanto  si  connotano  come  tali,  in  quanto «resistono» ad ogni
sollecitazione  di  segno inverso (si veda, con riguardo al principio
di  irretroattivita'  della  norma  penale  sfavorevole,  la sentenza
n. 394  del 2006). Il principio di colpevolezza partecipa, in specie,
di  una  finalita' comune a quelli di legalita' e di irretroattivita'
della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.): esso mira, cioe',
a garantire ai consociati libere scelte d'azione (sentenza n. 364 del
1988),  sulla  base  di  una valutazione anticipata («calcolabilita»)
delle    conseguenze   giuridico-penali   della   propria   condotta;
«calcolabilita»  che  verrebbe  meno ove all'agente fossero addossati
accadimenti  estranei  alla sua sfera di consapevole dominio, perche'
non  solo  non  voluti  ne'  concretamente  rappresentati, ma neppure
prevedibili ed evitabili. In pari tempo, il principio di colpevolezza
svolge  un  ruolo «fondante» rispetto alla funzione rieducativa della
pena  (art. 27,  terzo  comma,  Cost.):  non  avrebbe senso, infatti,
«rieducare»  chi  non  ha bisogno di essere «rieducato», non versando
almeno  in  colpa  rispetto  al  fatto  commesso (sentenza n. 364 del
1988).  D'altronde,  la  finalita'  rieducativa  non  potrebbe essere
obliterata  dal  legislatore  a vantaggio di altre e diverse funzioni
della  pena, che siano astrattamente perseguibili, almeno in parte, a
prescindere   dalla   «rimproverabilita»  dell'autore  (al  riguardo,
sentenze  n. 78  del  2007, n. 257 del 2006, n. 306 del 1993 e n. 313
del 1990). Punire in difetto di colpevolezza, al fine di «dissuadere»
i  consociati  dal  porre  in essere le condotte vietate (prevenzione
generale   «negativa»)  o  di  «neutralizzare»  il  reo  (prevenzione
speciale «negativa»), implicherebbe, infatti, una strumentalizzazione
dell'essere  umano  per  contingenti  obiettivi di politica criminale
(sentenza   n. 364   del   1988),   contrastante   con  il  principio
personalistico affermato dall'art. 2 Cost.
    In  tale  ottica,  dunque,  il legislatore ben puo' - nell'ambito
delle  diverse  forme  di  colpevolezza  - «graduare» il coefficiente
psicologico  di partecipazione dell'autore al fatto, in rapporto alla
natura  della  fattispecie  e  degli  interessi  che  debbono  essere
preservati:   pretendendo   dall'agente   un   particolare  «impegno»
nell'evitare  la  lesione dei valori esposti a rischio da determinate
attivita'.  Ma  in  nessun caso gli e' consentito prescindere in toto
dal  predetto  coefficiente;  altrimenti,  stabilire quando ricorrano
esigenze  repressive  atte a giustificare una «rinuncia» al requisito
della  colpevolezza  -  in  vista  della tutela di altri interessi di
rango  costituzionale, come, di norma, quelli protetti in sede penale
-  diverrebbe  un  apprezzamento  rimesso  alla mera discrezionalita'
legislativa:  con  conseguente  svuotamento delle accennate funzioni,
«garantistica» e «fondante», del principio di colpevolezza.
    3. - Se le premesse argomentative svolte dal rimettente risultano
dunque  corrette,  il petitum che egli formula si presenta, tuttavia,
privo della necessaria conseguenzialita' logico-giuridica rispetto ad
esse.
    3.1.  - Il giudice a quo, infatti, denuncia l'incostituzionalita'
dell'art. 609-sexies  cod.  pen.  nella  sua  globalita', chiedendone
quindi  l'eliminazione.  Una  simile  pronuncia  -  relativamente  al
delitto   di  atti  sessuali  con  minorenne  (nonche'  a  quello  di
corruzione  di  minorenne, di cui all'art. 609-quinquies cod. pen.) -
avrebbe l'effetto di rendere applicabili all'eta' infraquattordicenne
dell'offeso  le disposizioni generali in tema di imputazione dolosa e
di  errore,  di  cui agli artt. 43 e 47 cod. pen.; con la conseguenza
che  l'eta'  infraquattordicenne  dovrebbe rientrare nella componente
rappresentativa del dolo, mentre l'errore su di essa scuserebbe anche
se  colposo,  non  essendo  prevista,  per  i delitti sessuali dianzi
indicati, la punibilita' a titolo di colpa.
    Tale  richiesta  contrasta, peraltro, sul piano logico-giuridico,
sia  con  l'affermazione generale - contenuta nelle sentenze n. 364 e
n. 1085  del  1988,  evocate dallo stesso rimettente - in forza della
quale,  ai fini del rispetto dell'art. 27, primo comma, Cost., non e'
indispensabile  il  dolo,  ma  e'  sufficiente  la  colpa; sia con lo
specifico  decisum  di  dette sentenze e delle successive pronunce di
questa Corte sul medesimo tema.
    Nello  scrutinare  il  disposto dell'art. 5 cod. pen., che negava
efficacia  scusante  all'ignoranza  della  legge  penale, la sentenza
n. 364  del  1988  non ha, infatti, rimosso la norma denunciata nella
sua  globalita';  ma  -  riconoscendone  per  il  resto il fondamento
razionale  -  l'ha dichiarata costituzionalmente illegittima soltanto
nella  parte in cui «esclude(va) dall'inescusabilita' ... l'ignoranza
inevitabile». E cio' sul presupposto che, riguardo alle componenti di
tipo   rappresentativo   (quale,  nella  specie,  la  conoscenza  del
divieto),  la  soglia  minima  di compatibilita' con l'art. 27, primo
comma,  Cost.  -  cui  debbono  essere  allineate  le norme ordinarie
contrastanti  con  il principio da esso affermato - e' rappresentata,
per l'appunto, dall'attribuzione di valenza scusante all'ignoranza (o
all'errore)  che  presenti caratteri di inevitabilita': giacche' deve
poter  essere  mosso  all'agente  almeno  il  rimprovero  di non aver
evitato,  pur  potendolo,  di trovarsi nella situazione soggettiva di
manchevole  o  difettosa  conoscenza  del  dato rilevante. Soluzione,
questa,  che  e'  stata quindi estesa dalla sentenza n. 61 del 1995 -
dichiarativa  della  parziale  incostituzionalita'  dell'art. 39  del
codice   penale   militare   di  pace,  in  tema  di  inescusabilita'
dell'ignoranza  dei  doveri inerenti allo stato militare - anche alle
ipotesi in cui l'ignoranza verta sull'eventuale presupposto normativo
della  fattispecie  incriminatrice (nella specie, norma regolamentare
che  faceva  obbligo alle reclute di presentarsi nei giorni stabiliti
dal manifesto di chiamata).
    Analogamente  -  rispetto  alle componenti di tipo volitivo della
fattispecie   -   la   sentenza   n. 1085   del  1988  ha  dichiarato
costituzionalmente illegittima la norma incriminatrice del cosiddetto
furto d'uso (art. 626, primo comma, numero 1, cod. pen.), nella parte
in cui poneva a carico dell'agente la mancata restituzione della cosa
sottratta,  quando la stessa fosse dipesa da caso fortuito o da forza
maggiore:  mentre  si  e'  escluso - con riguardo alla omologa figura
criminosa prevista dal codice penale militare (art. 233, primo comma,
numero 1) - che il principio di colpevolezza imponesse di riconoscere
rilievo,  a  vantaggio  del reo, anche alla diversa ipotesi in cui la
mancata   restituzione   fosse  dovuta  a  colpa,  anziche'  a  dolo,
dell'agente stesso (sentenza n. 179 del 1991).
    3.2.  -  La  disposizione  dell'art. 609-sexies  cod.  pen., oggi
impugnata,  e'  in  effetti  espressiva  di  una  precisa  scelta del
legislatore:    quella,    cioe',   di   accordare   una   protezione
particolarmente energica - in deroga alla disciplina generale in tema
di  imputazione  soggettiva - ad un bene di indubbia pregnanza, anche
nel  quadro  delle  garanzie  costituzionali (art. 31, secondo comma,
Cost.)  e  di  quelle  previste  da  atti internazionali (tra cui, in
particolare,  la  Dichiarazione  dei  diritti del fanciullo, adottata
dall'Assemblea  generale  delle  Nazioni  Unite  con  risoluzione del
20 novembre  1959;  la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a
New  York  il  20 novembre 1989; e, con specifico riguardo alla lotta
contro  lo sfruttamento sessuale dei bambini, da ultimo, la Decisione
quadro  2004/68/GAI del Consiglio dell'Unione europea del 22 dicembre
2003). Tale e', in specie, la «intangibilita' sessuale» di soggetti -
quali  i  minori  infraquattordicenni  -  che,  in ragione della loro
immaturita'  fisio-psichica,  per un verso, sono considerati incapaci
di  una  consapevole  autodeterminazione agli atti di natura sessuale
(sulla   legittimita'   costituzionale  della  relativa  presunzione,
sentenza   n. 151  del  1973);  e,  per  un  altro  verso,  risultano
particolarmente  esposti  ad  abusi  (con  riferimento  al previgente
art. 539 cod. pen., sentenze n. 209 del 1983 e n. 107 del 1957).
    La  scelta  derogatoria  tiene conto segnatamente della facilita'
con    la    quale   -   non   essendo,   in   molti   casi,   l'eta'
infraquattrordicenne  dell'offeso  riflessa  in  modo  certo  nel suo
aspetto  esteriore  -  potrebbero  essere  allegate,  dall'autore del
fatto,  vere  o  supposte  situazioni di ignoranza o di errore, anche
colposo,  sull'eta'  del  minore:  donde il timore che l'applicazione
delle  regole  comuni  possa  determinare aree di impunita', ritenute
pregiudizievoli  per  una  efficace  salvaguardia  dell'interesse  in
questione.   Siffatta   ratio  legis  vale,  per  incidens,  anche  a
dimostrare   l'impraticabilita'   dell'interpretazione   «correttiva»
ventilata  dalla  parte  privata  nelle  sue difese - interpretazione
peraltro  contraria  al costante orientamento della giurisprudenza di
legittimita'   circa   l'originario   art. 539   cod.   pen.  e  gia'
sostanzialmente disattesa da questa Corte, con riguardo alla medesima
norma  (sentenza n. 209 del 1983) - stando alla quale la disposizione
censurata dovrebbe ritenersi riferita soltanto all'ignoranza in senso
stretto  (difetto  di conoscenza), e non anche all'errore (conoscenza
inesatta).
    Cio'  posto - essendo l'indicata scelta di politica criminale, in
se',  pienamente  razionale  -  la norma censurata potrebbe ritenersi
lesiva  del principio di colpevolezza non certo per il mero fatto che
essa  deroga agli ordinari criteri in tema di imputazione dolosa; ma,
semmai,  unicamente  nella parte in cui neghi rilievo all'ignoranza o
all'errore inevitabile sull'eta'.
    4.  -  Il  salto  logico  tra  premesse  e  petitum  che  inficia
l'ordinanza  di  rimessione,  nel senso dianzi indicato, si riverbera
negativamente  sul  tessuto  argomentativo  di essa, sotto un duplice
profilo.
    4.1. - Per un verso, il giudice rimettente non si pone neppure il
problema  di  verificare  la  praticabilita'  di  una interpretazione
secundum constitutionem della disposizione denunciata: acclarando, in
specie, se sia o meno possibile ritenere che l'ipotesi dell'ignoranza
inevitabile  resti  estranea alla regola dell'inescusabilita' sancita
dalla   disposizione   stessa.   E   cio'  perche'  il  principio  di
colpevolezza  -  quale  delineato dalle sentenze n. 364 e n. 1085 del
1988  di  questa  Corte  -  si pone non soltanto quale vincolo per il
legislatore,  nella  conformazione degli istituti penalistici e delle
singole  norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il
giudice,   nella   lettura  e  nell'applicazione  delle  disposizioni
vigenti.  Aspetto, quest'ultimo, che viene in particolare rilievo nel
caso di specie, in quanto si tratta di norma reiterata, nel passaggio
dall'art. 539  cod. pen. all'art. 609-sexies cod. pen., dopo che gia'
questa  Corte  aveva,  con  le  richiamate  pronunce, affermato - con
riferimento   al  principio  di  personalita'  della  responsabilita'
penale,  di  cui  all'art. 27, primo comma, Cost. - l'esistenza nella
tavola  dei  valori  costituzionali  di  un  principio  di necessaria
colpevolezza,  ragguagliato  quanto  meno al minimum dell'ignoranza o
dell'errore  inevitabile:  incida  esso  sulla norma o sugli elementi
normativi  del  fatto,  come nei casi esaminati dalle sentenze n. 364
del  1988  e  n. 61 del 1995; ovvero sugli elementi del fatto stesso,
come nell'ipotesi di specie.
    4.2.   -  Per  un  altro  verso,  e  comunque,  la  non  corretta
formulazione   del   petitum   inficia   anche   l'adeguatezza  della
motivazione circa la rilevanza della questione nel giudizio a quo.
    A  tal  riguardo, infatti, il rimettente - dopo aver riferito che
l'imputato  si era difeso asserendo di essere stato indotto in errore
dalla  vittima, dichiaratasi ultraquattordicenne al momento del fatto
(circostanza,  questa,  confermata  anche dal minore) - assume che la
questione   sarebbe   rilevante   in   quanto,   una   volta  rimosso
l'art. 609-sexies  cod.  pen.,  l'imputato «potrebbe essere ammesso a
provare l'ignoranza (dell'eta), argomentando dalle dichiarazioni rese
dalla stessa parte offesa».
    Tale  motivazione appare chiaramente articolata sulla prospettiva
di  una  pronuncia in toto ablatoria della norma denunciata, cosi' da
attribuire  efficacia  scusante  anche  all'errore  colposo. Essa e',
peraltro, certamente inidonea - nei termini in cui e' stata formulata
-  a  pervenire ad un'affermazione di inevitabilita' dell'ignoranza o
dell'errore  sull'eta':  unica ipotesi nella quale, per quanto dianzi
rilevato, questi ultimi potrebbero avere efficacia scusante.
    L'ignoranza  e l'errore inevitabile - per come sono stati evocati
dalla   sentenza   n. 364   del   1988,   quale  coefficiente  minimo
indispensabile  e  limite  estremo  di rimproverabilita', e quindi di
compatibilita' con il principio di personalita' della responsabilita'
penale, di cui all'art. 27, primo comma, Cost. - non possono fondarsi
soltanto,  od  essenzialmente,  sulla  dichiarazione della vittima di
avere un'eta' superiore a quella effettiva.
    Il giudizio di inevitabilita' postula, infatti, in chi si accinga
al  compimento di atti sessuali con un soggetto che appare di giovane
eta',  un  «impegno»  conoscitivo  proporzionale  alla  pregnanza dei
valori  in  giuoco,  il  quale  non  puo'  certo  esaurirsi  nel mero
affidamento   nelle  dichiarazioni  del  minore:  dichiarazioni  che,
secondo  la comune esperienza, possono bene risultare mendaci, specie
nel   particolare   contesto  considerato.  E  cio'  fermo  restando,
ovviamente,  che qualora gli strumenti conoscitivi e di apprezzamento
di  cui  il soggetto attivo dispone lascino residuare il dubbio circa
l'effettiva  eta'  -  maggiore  o  minore  dei quattordici anni - del
partner,  detto soggetto, al fine di non incorrere in responsabilita'
penali,   deve   necessariamente  astenersi  dal  rapporto  sessuale:
giacche'   operare   in   situazione  di  dubbio  circa  un  elemento
costitutivo  dell'illecito  (o  un  presupposto  del  fatto)  - lungi
dall'integrare  una ipotesi di ignoranza inevitabile - equivale ad un
atteggiamento   psicologico   di   colpa,  se  non,  addirittura,  di
cosiddetto dolo eventuale.
    5.  -  Le  incongruenze  e  le  manchevolezze  dell'ordinanza  di
rimessione   dianzi   evidenziate   impongono,   conclusivamente,  la
declaratoria di inammissibilita' della questione.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara    inammissibile    la    questione    di   legittimita'
costituzionale   dell'art. 609-sexies  del  codice  penale,  inserito
dall'art. 7  della  legge  15 febbraio  1996,  n. 66 (Norme contro la
violenza  sessuale),  sollevata,  in riferimento all'art. 27, primo e
terzo comma, della Costituzione, dal giudice dell'udienza preliminare
del Tribunale di Modena con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2007.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Di Paola
    Depositata in cancelleria il 24 luglio 2007.
              Il direttore della cancelleria: Di paola
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