N. 714 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 maggio 2007

Ordinanza  emessa il 15 maggio 2007 dalla Corte di appello di Brescia
nel procedimento penale a carico di Ebadan Rita

Processo  penale  -  Appello - Modifiche normative - Inappellabilita'
  delle  sentenze  di  non  luogo  a  procedere da parte del pubblico
  ministero - Lesione del diritto di difesa - Violazione dei principi
  di   ragionevolezza,   del  contraddittorio  e  di  obbligatorieta'
  dell'esercizio dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 428, come sostituito dall'art. 4
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 24, 111 e 112.
(GU n.41 del 24-10-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Sulla  eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 428
c.p.p.,  come  modificato  dall'art.  1,  legge  n. 46/2006, proposta
all'odierna udienza dal procuratore generale;
                    O s s e r v a  i n  f a t t o
    Con  sentenza  del  giudice  per  l'udienza preliminare presso il
Tribunale  di Brescia in data 22 marzo 2001 si dichiarava non luogo a
procedere  nei  confronti  di  Ebadan  Rita,  essendo  la  stessa non
imputabile  per infermita' di mente, in ordine ai contestati reati di
sfruttamento  della  prostituzione  di Chima Esther Nnenna, aggravata
dal  ricorso  a percosse per costringere la stessa a prostituirsi, di
estorsione in danno della stessa, costretta con percosse e minacce di
morte a consegnare all'imputata dapprima la somma di L. 25.000.000 in
due  soluzioni  e  poi  la  somma  di L. 200.000, e di resistenza nei
confronti  di  Longo  Giacomo,  Denti Mauro e Bagattini Renato, della
Squadra  Mobile della Questura di Brescia, consistita nel colpire gli
stessi  con spintoni e calci per opporsi all'arresto in flagranza per
l'ultimo  episodio  di  estorsione,  fatti  commessi  in  Desenzano e
Brescia dal febbraio 1995 al 12 aprile 2000.
    Avverso  la  sentenza  presentava  appello il pubblico ministero.
All'odierna   udienza  il  procuratore  generale,  preso  atto  della
esclusione   della   facolta'   di  appello  del  pubblico  ministero
introdotta  dalla  sopravvenuta  modifica  dell'art.  428  c.p.p. per
effetto  della  previsione  di  cui  all'art.  4, legge n. 46/2006, e
ritenuta  detta esclusione operante per l'impugnazione in discussione
nel  presente  procedimento,  eccepiva  illegittimita' costituzionale
della norma da ultima citata con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 11
e 112 Cost.
                  O s s e r v a  i n  d i r i t t o
    Con   la   norma,   della   cui  legittimita'  costituzionale  il
procuratore  generale  dubita, la disciplina dei casi di impugnazione
della   sentenza  di  proscioglimento  emessa  all'esito  di  udienza
preliminare,  prevista  dall'art.  428 c.p.p., e' stata profondamente
modificata   con   particolare   riguardo   all'appellabilita'  della
sentenza;  consentita  dalla  previgente normativa ed ora esclusa per
effetto  della  recentissima modifica, che limita in particolare, per
quanto  qui  interessa,  la  facolta'  di  impugnazione  del pubblico
ministero alla proponibilita' del ricorso per cassazione.
    L'art.  9, legge n. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi
applicazione  per  i  procedimenti in corso; disponendo che l'atto di
appello  proposto  avverso  una  sentenza  di  proscioglimento  prima
dell'entrata   in   vigore   della  nuova  normativa  sia  dichiarato
inammissibile  con  ordinanza non impugnabile, e che entro il termine
di  quarantacinque  giorni  dalla notificazione di quest'ultima possa
essere  presentato  ricorso  per  cassazione  avverso la decisione di
primo grado.
    Tanto  premesso,  e  richiamando  quanto  precedentemente esposto
sulla  vicenda  processuale,  e'  evidente  la rilevanza nel presente
giudizio  della  questione  proposta  dal  procuratore  generale.  Al
procedimento  in  esame,  per effetto della citata norma transitoria,
deve  senz'altro  applicarsi, invero, la nuova disciplina; essendo di
conseguenza  l'appello  in  discussione  soggetto  a  declaratoria di
inammissibilita',  con  la  conseguente possibilita', per il pubblico
ministero  appellante,  di  esperire il ben diverso e piu' delimitato
rimedio del ricorso per cassazione 1).
    Il   requisito   della   rilevanza   dell'eccezione   e'   dunque
sussistente.
    Altrettanto  deve  concludersi, peraltro, in ordine all'ulteriore
presupposto della non manifesta infondatezza della questione.
    E'  opportuno  premettere  che, per quanto la novella legislativa
abbia  ad  oggetto l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento
da  parte  sia  dell'imputato  che  del  pubblico  ministero,  e' nei
confronti  di quest'ultimo che la limitazione dell'accesso al gravame
in  discussione  assume  portata  preponderante  e,  sostanzialmente,
rilievo   centrale.   All'imputato  era  invero  gia'  inibita  dalla
precedente   normativa  la  possibilita'  di  appellare  sentenze  di
proscioglimento  con  formula  piena. Ma, a prescindere da questa pur
pregnante   circostanza,   non  occorre  spendere  molte  parole  per
evidenziare  come in generale, a fronte di una pronuncia assolutoria,
l'interesse  ad  impugnare  si  concentri  in  concreto  sul pubblico
ministero piu' che sull'imputato.
    L'incidenza   di   una   siffatta   limitazione   sui  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  non  richiede,  a  sua volta,
particolare  commento.  E'  sufficiente osservare come per effetto di
essa  l'ufficio  della  pubblica accusa si veda privato del potere di
appellare  una  sentenza  di  proscioglimento  in  primo  grado.  Una
deprivazione  di  facolta'  processuali  di  tale  portata  impone un
controllo sulla ragionevolezza della relativa previsione normativa; e
cio'  soprattutto  nel momento in cui le predette facolta', in quanto
riferite   alla  figura  istituzionale  del  pubblico  ministero,  si
ricollegano a valori di fondamentale rilevanza costituzionale.
    Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio
dell'obbligatorieta'  dell'esercizio dell'azione penale, da parte del
pubblico ministero, di cui all'art. 112 Cost.
    La  centralita'  del  principio in parola nel sistema complessivo
della  giurisdizione penale e' data, vale la pena qui ricordarlo, non
solo dal suo contenuto specifico; ma altresi' dalla sua funzionalita'
alla  concreta  attuazione  di  valori a loro volta caratterizzati da
valenza costituzionale.
       E'   dato  acquisito  da  tempo  nella  stessa  giurisprudenza
costituzionale,  formatasi sulle norme del codice di procedura penale
ora  vigente  a  partire dalla sua entrata in vigore, che l'esercizio
dell'azione  penale  da  parte  del pubblico ministero, ufficio non a
caso  interno ed integrante dell'ordine giudiziario nella visione del
legislatore   costituente,   sia   manifestazione   del  fondamentale
principio  di  legalita',  di  cui all'art. 25 Cost., nel suo aspetto
sostanziale;  in  quanto  esso esprime, cioe', la necessita' che alla
commissione  di  reati,  lesivi  di  interessi e valori spesso a loro
volta  di  rango  costituzionale  o  comunque  di  elevata  rilevanza
sociale, segua l'inflizione di una pena 2).
    Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del
diritto  di  difesa  garantito  dall'art.  24  Cost. anche alle parti
offese  dei  reati.  L'esercizio  dell'azione  penale  da  parte  del
pubblico  ministero  vale  infatti  ad offrire alle vittime dei reati
l'essenziale   tutela   del  loro  legittimo  interesse  ad  ottenere
giustizia,  a  prescindere  dalle  possibilita'  che dette vittime in
concreto  abbiano  di  accedere  al  processo nelle forme dell'azione
civile ivi direttamente intrapresa.
    Detto  questo,  e'  ben  vero  che  la giurisprudenza della Corte
costituzionale  ha  affermato  come il potere di appello del pubblico
ministero  non  possa  essere  ricondotto  all'obbligo  di esercitare
l'azione  penale  3).  Ma  e' vero altresi' che il principio e' stato
dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la
facolta' di impugnazione non costituisca «estrinsecazione necessaria»
dell'esercizio  dell'azione  penale  4).  Detta  facolta' rappresenta
dunque  non  piu' che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario
prolungamento   dell'azione   penale;   ma,  in  questa  prospettiva,
limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non
possono  che  riverberarsi  sulla  completezza  delle possibilita' di
esercizio dell'azione. E qui ci troviamo di fronte, come si e' visto,
ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da
ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
    Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti
di  cui  le  opportunita'  di  esercizio dell'azione penale sono, per
quanto   esposto,   espressione,   diviene   assolutamente   doveroso
interrogarsi  sulla  possibilita',  per  il legislatore ordinario, di
apporre  a  detto  esercizio  limitazioni di tale entita' nell'ambito
della  normale  discrezionalita'  legislativa; e sulla necessita', di
contro,  che  una  scelta  di  questo  genere  debba  essere ancorata
rigorosamente ad un canone di ragionevolezza.
    Vi  e'  pero'  anche un altro profilo di rilevanza costituzionale
che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; profilo che
attiene  al principio del contraddittorio processuale posto dall'art.
111 Cost.
    E'  appena  il  caso  di  precisare  che  qui non si intende fare
riferimento  al  principio del contraddittorio nella formazione della
prova,  di  cui  al  quarto  comma  della norma costituzionale appena
citata.  Oggetto  di  attenzione  deve essere invece il piu' generale
richiamo  del  secondo  comma  dell'articolo  alla  necessita' che il
processo  si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni
di parita' delle stesse.
    Il  contraddittorio,  invero, assurge qui a valore che pervade il
processo  nella  sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la
fase dell'appello, che del processo costituisce passaggio essenziale.
Ed  e',  soprattutto,  valore  in  se' considerato, a prescindere dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla fase dell'appello; e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti; impedendo al pubblico ministero l'appello in caso di esito
assolutorio   del  giudizio  di  primo  grado,  laddove  nell'opposto
risultato della pronuncia di responsabilita' e' concessa all'imputato
piena facolta' di impugnazione.
    Questa   Corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  5)  ha  ritenuto  che  il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle parti. Ma, anche in questo caso, cio' che e' stato
escluso e' un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due
elementi.  Rimane  tutto  da  valutare,  quindi,  se  in  concreto la
disparita'  fra  determinati  poteri, a cagione della loro rilevanza,
non  alteri  in misura intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma
costituzionale;  e,  soprattutto,  se  di  tale  disparita'  non vada
pretesa una giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
pocanzi,  ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Anche  per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente
esaminato,  occorre  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la  modifica  dell'art.  428  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano a quello che, a
questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la
compatibilita'   della   norma   esaminata   con   il   principio  di
ragionevolezza,   desumibile,   come   e'  noto,  dall'art.  3  Cost.
Ragionevolezza che deve pero' essere valutata nella prospettiva della
tollerabilita'  del  sacrificio che la norma impone agli altri valori
costituzionali   fin   qui   menzionati;  segnatamente  il  principio
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale, nel suo profilo di stretta
funzionalita'  ai valori del principio di legalita' sostanziale e del
diritto  di  difesa  delle  vittime  dei  reati,  ed il principio del
contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da' forma al giusto
processo.
    Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa  direzione  non puo' che
condurre  ad  un  giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi
ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato
da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  da  escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie
di  ragioni  corrispondenti  o  similari  a  quelle  che  ispirano la
previsione  di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del
pubblico ministero; giudicate coerenti con il dettato costituzionale,
sotto  il  profilo  del  principio  del  contraddittorio,  dalle gia'
segnalate  decisioni  della  Corte costituzionale. Quali l'esclusione
della  possibilita' per il pubblico ministero di presentare l'atto di
impugnazione  nella  cancelleria  del tribunale, diversa dal luogo di
emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui
all'art.  582  cpv.  c.p.p.  6),  evidentemente sorretta da motivi di
celerita'   processuale   e   comunque  posta  a  fondamento  di  una
limitazione  di  ben  minore  consistenza  delle facolta' dell'organo
dell'accusa;  o l'inappellabilita', anche in prospettiva incidentale,
da  parte  del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di
giudizio  abbreviato, di cui all'art. 443, comma terzo c.p.p., ove ad
analoghe  ragioni  di  speditezza si aggiunge l'intento di favore per
l'adozione  di  riti  deflattivi  7).  Nel  caso  di  specie,  non e'
ravvisabile  alcun  risultato  di accelerazione dell'iter processuale
che  giustifichi la scelta legislativa la sostanziale soppressione di
un mezzo di impugnazione disponibile al pubblico ministero.
    Neppure  puo'  attribuirsi  rilievo  alla  particolare  posizione
istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento
giudiziario; posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove
favorevoli  all'imputato  in  sede  di  indagine  e  da  un'obiettiva
considerazione  degli elementi a carico dell'imputato stesso, che non
vincola  l'ufficio  dell'accusa a richieste che siano necessariamente
intese  a  sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi
rilievi  sono  infatti  superati nel momento in cui ci si trova nella
fase   processuale  a  cui  attiene  la  norma  in  discussione;  che
presuppone  la  conseguita  determinazione  del pubblico ministero di
impugnare   la  pronuncia  di  proscioglimento  in  sede  di  udienza
preliminare  per ottenere un rinvio a giudizio e conseguentemente una
sentenza  di  condanna, e quindi una valutazione culminata, pur nella
particolare  prospettiva che connota l'operato dell'ufficio d'accusa,
nel  giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
Il  che  da  un  lato  pone il pubblico ministero nella condizione di
proseguire  in  secondo  grado  nell'esercizio  dell'azione penale in
attuazione  dei  valori  di  legalita'  e difesa sociale di cui si e'
ampiamente  detto;  e  dall'altro  esige  che il processo mantenga un
equilibrato  contraddittorio  fra  tali ragioni e quelle della difesa
dell'imputato,  perche' nessuna opportunita' di ricerca della verita'
venga ad essere sottratta al giudizio.
    Non puo' infine essere invocata, come correttamente osservato dal
procuratore  generale,  la previsione del primo comma dell'art. 2 del
protocollo  n. 11  della  Convenzione  europea sulla salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificato con legge
n. 296/1997.  Se  e'  vero infatti che la citata disposizione prevede
che  chiunque venga dichiarato colpevole di un reato da un giudice di
primo  grado  ha  il  diritto  di  sottoporre  ad  un  ufficio  della
giurisdizione   superiore  la  dichiarazione  di  condanna,  e'  vero
altresi'   che  il  secondo  comma  dello  stesso  articolo  consente
eccezione  al  principio  nel  caso in cui la persona interessata sia
stata  giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione
piu'  elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito
di   un   ricorso   avverso   il  suo  proscioglimento;  indicazione,
quest'ultima, puntualmente corrispondente alla normativa preesistente
all'intervento legislativo oggetto della questione.
    Queste  considerazioni  inducono  a  ritenere  non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' della norma in oggetto con i
richiamati artt. 24, 111 e 112 della Costituzione; e quindi esistenti
i  presupposti di legge perche' gli atti vengano trasmessi alla Corte
costituzionale  per  la  decisione  in  merito,  con  la  conseguente
sospensione del procedimento.
          1)  Pur avuto riguardo all'ampliamento dei casi del ricorso
          per  cassazione  operato  dall'art.  8  della  stessa legge
          n. 46/2006  con  l'inserimento,  nel  testo  dell'art.  606
          c.p.p.,  della  mancata  assunzione  di  una prova decisiva
          anche   laddove   richiesta   nel   corso   dell'istruzione
          dibattimentale  e  della  contraddittorieta'  o illogicita'
          della   motivazione   risultante   da   atti  del  processo
          specificamente indicati dal ricorrente.
          2) Il relativo percorso culminava nella sentenza n. 111 del
          26   marzo   1993,  con  la  quale  si  riteneva  infondata
          l'eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 507
          c.p.p.   sul   presupposto  che  detta  norma  subordinasse
          l'assunzione  di  prove  non  indicate  dalle parti ai solo
          requisito  dell'assoluta necessita' ai fini del giudizio, a
          prescindere  dall'eventuale inerzia o intempestivita' delle
          parti.
          3) V. sent. n. 206 del 27 giugno 1997.
          4)  V. sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003.
          5)  Sentt.  n. 110  del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          6)Sent. n. 110 del 1° aprile 2003.
          7)  Sent.  n. 165  del  9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio
          2004.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge n. 87 del 1953;
    Dichiara  rilevante  ai fini della definizione del giudizio e non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
relativa al contrasto dell'art. 428 c.p.p., come modificato dall'art.
1, legge. n. 46/2006, con gli artt. 3, 24, 111, 112 Cost.
    Dispone  la  trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, e
manda  alla  Cancelleria per la notifica dell'ordinanza al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  ed  ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento, nonche' alle parti processuali, all'atto del deposito del
provvedimento.
    Sospende il giudizio in corso.
        Brescia, addi' 9 maggio 2007
                      Il Presidente: Del Gaudio
Il consigliere relatore: Zaza
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