N. 349 SENTENZA 22 - 24 ottobre 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Costituzione  ed  intervento nel giudizio incidentale - Intervento di
  soggetti che non rivestono la qualita' parte nei giudizi a quibus -
  Insussistenza  di un interesse qualificato - Inammissibilita' degli
  interventi.
Costituzione  ed  intervento  nel giudizio incidentale - Costituzione
  delle   parti   del   giudizio  a  quo  effettuata  tardivamente  -
  Inammissibilita'.
- Legge  11 marzo  1953,  n. 87,  art. 25;  norme  integrative  per i
  giudizi davanti alla Corte costituzionale, artt. 3 e 4.
Questione  incidentale  di  legittimita'  costituzionale  - Oggetto -
  Norma  abrogata - Motivazione non implausibile sulla applicabilita'
  nel giudizio a quo - Ammissibilita' della questione.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge  8 agosto  1992, n. 359), art. 5-bis, comma 7-bis, introdotto
  dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662; d.P.R.
  8 giugno 2001, n. 327, art. 58.
Questione  incidentale  di  legittimita'  costituzionale  - Oggetto -
  Interpretazione risultante dal principio di diritto enunciato dalla
  Corte di cassazione - Ammissibilita' della questione.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge  8 agosto  1992, n. 359), art. 5-bis, comma 7-bis, introdotto
  dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
Questione   incidentale   di   legittimita'  costituzionale  -  Thema
  decidendum  -  Identificazione  in  base  alla  sola  ordinanza  di
  rimessione  -  Impossibilita'  di  prendere  in  considerazione  le
  censure svolte dalle parti del giudizio principale.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge  8 agosto  1992, n. 359), art. 5-bis, comma 7-bis, introdotto
  dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
Trattati  e  convenzioni  internazionali - Convenzione europea per la
  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali
  (CEDU) - Riconducibilita' all'ambito di operativita' degli artt. 10
  e 11 Cost. - Esclusione.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848; Costituzione, artt. 10,
  primo e secondo comma e 11.
Trattati  e  convenzioni  internazionali - Convenzione europea per la
  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali
  (CEDU)   -  Qualificazione  dei  diritti  fondamentali  oggetto  di
  disposizioni  della  CEDU  come  principi generali dell'ordinamento
  comunitario  -  Rilevanza  ai  fini della diretta applicabilita' di
  dette   disposizioni   nell'ordinamento   interno  -  Esclusione  -
  Fondamento.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848; Costituzione, art. 11.
Costituzione  e  leggi costituzionali - Potesta' legislativa - Limite
  del  rispetto  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
  dagli  obblighi  internazionali  (art. 117,  primo  comma, Cost.) -
  Obblighi   derivanti   dalla  Convenzione  europea  per  i  diritti
  dell'uomo  (CEDU)  -  Eventuale  contrasto  di norma interna con la
  norma internazionale - Disapplicazione della norma interna da parte
  del giudice comune - Esclusione - Impossibilita' di interpretare la
  norma  interna  in modo conforme alla disposizione internazionale -
  Proposizione   di   questione  di  legittimita'  costituzionale  in
  riferimento all'art. 117, primo comma Cost. - Necessita'.
- Costituzione, art. 117, primo comma.
Costituzione  e  leggi costituzionali - Potesta' legislativa - Limite
  del  rispetto  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
  dagli  obblighi  internazionali  (art. 117,  primo  comma, Cost.) -
  Obblighi  internazionali  derivanti  dalla  Convenzione europea dei
  diritti  dell'uomo (CEDU) - Obbligo di adeguamento dell'ordinamento
  interno  alle norme della Convenzione nella interpretazione ad essa
  data  dalla  Corte  europea per i diritti dell'uomo - Sussistenza -
  Limite  dell'accertamento  della  conformita'  a Costituzione delle
  norme   pattizie   integrative   del   parametro  costituzionale  -
  Fondamento.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata  con  legge 4 agosto 1955, n. 848, art. 32, paragrafo 1;
  Costituzione, art. 117, primo comma.
Espropriazione  per  pubblica  utilita'  -  Occupazioni appropriative
  intervenute   anteriormente  al  30 settembre  1996  -  Criteri  di
  liquidazione  del danno in misura ridotta rispetto al valore venale
  degli   immobili  -  Applicabilita'  ai  procedimenti  in  corso  -
  Intervenuta  pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo di
  accertamento della violazione dell'art. 1 del primo protocollo CEDU
  -  Violazione  degli  obblighi internazionali derivanti dalla CEDU,
  non incompatibili con l'ordinamento costituzionale - Necessita' che
  il  danno  in  caso  di  occupazione  appropriativa coincida con il
  valore  di  mercato  del  bene  occupato  -  Criterio  vigente  non
  rispondente  a  tale  necessita'  - Illegittimita' costituzionale -
  Assorbimento di ulteriori censure.
- D.L.  11 luglio  1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla
  legge  8 agosto  1992, n. 359), art. 5-bis, comma 7-bis, introdotto
  dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
- Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'   fondamentali,   firmata   a  Roma  il  4 novembre  1950,
  ratificata  con  legge  4 agosto  1955,  n. 848;  Primo  Protocollo
  addizionale  alla  Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
  1952, art. 1; Costituzione, artt. 117, primo comma (e 111).
(GU n.42 del 31-10-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei   giudizi   di   legittimita'   costituzionale   dell'art. 5-bis,
comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti
per   il   risanamento   della  finanza  pubblica),  convertito,  con
modificazioni,   dalla   legge   8 agosto  1992,  n. 359,  introdotto
dall'art. 3,  comma 65,  della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure
di  razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanza
del  20 maggio 2006 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili
riuniti  vertenti  tra  il  comune  di  Avellino ed altri ed E. P. in
proprio  e  n. q.  di  procuratore di G. P. e di D. P. ed altri e con
ordinanza  del  29  giugno 2006 dalla Corte di appello di Palermo nel
procedimento  civile  vertente  tra  A.  G.  ed  altre e il comune di
Leonforte  ed altro, iscritte ai nn. 401 e 557 del registro ordinanze
2006  e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e
49, 1ª serie speciale, dell'anno 2006.
    Visti gli atti di costituzione di G. C. n. q. di erede di E. P. e
di  G.  P. ed altri n. q. di eredi di D. P., di A. G. ed altre, fuori
termine,  nonche' gli atti di intervento di A. C. fu G. s.r.l., della
Consulta per la giustizia europea dei diritti dell'uomo CO.G.E.D.U. e
del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica del 3 luglio 2007 e nella camera di
consiglio del 4 luglio 2007 il giudice relatore Giuseppe Tesauro;
    Uditi gli avvocati Maurizio de Stefano e Anton Giulio Lana per la
Consulta  per la giustizia europea dei diritti dell'uomo CO.G.E.D.U.,
Antonio  Barra per G. C. n. q. di erede di E. P. e per G. P. ed altri
n. q.  di  eredi di D. P. e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri
per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1. - La Corte di cassazione e la Corte di appello di Palermo, con
ordinanze  del  20 maggio  e  del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in
riferimento  all'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione,
ed  in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta' fondamentali firmata a Roma il
4 novembre  1950  (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con
la   legge  4 agosto  1955,  n. 848  (Ratifica  ed  esecuzione  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta'  fondamentali  firmata  a  Roma  il  4 novembre  1950  e del
Protocollo  addizionale  alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il
20 marzo    1952),   nonche'   all'art. 117,   primo   comma,   della
Costituzione, ed in relazione all'art. 6 della CEDU ed all'art. 1 del
Protocollo  addizionale  alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il
20 marzo   1952   (infra,   Protocollo),  questione  di  legittimita'
costituzionale   dell'art. 5-bis,   comma 7-bis,   del  decreto-legge
11 luglio  1992,  n. 333  (Misure  urgenti  per  il risanamento della
finanza  pubblica)  -  convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge
8 agosto  1992,  n. 359 - comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della
legge  23 dicembre  1996,  n. 662  (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica).
    2.  -  La Corte di cassazione premette che il giudizio principale
ha  ad  oggetto  una domanda proposta da alcuni privati nei confronti
del  comune di Avellino e dell'Istituto autonomo case popolari (IACP)
della stessa citta', al fine di ottenerne la condanna al risarcimento
del  danno  subito  a  causa  della occupazione acquisitiva di alcuni
terreni  di  loro proprieta', sui quali sono stati realizzati alloggi
popolari   ed   opere  di  edilizia  sociale,  nonche'  al  pagamento
dell'indennita' per l'occupazione temporanea degli stessi immobili.
    La  stessa  Corte,  con  sentenza  del  14 gennaio  1998, n. 457,
accogliendo  il  ricorso  proposto dagli enti pubblici, aveva cassato
con  rinvio  la  pronuncia  d'appello, ritenendo applicabile la norma
censurata,  la  quale  ha  introdotto  un  criterio  riduttivo per il
computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.
    Riassunto   il  giudizio,  il  giudice  del  rinvio  ha,  quindi,
liquidato  l'indennita'  in  base  alla  disposizione  censurata;  la
pronuncia  e'  stata impugnata dalle parti private, che, tra l'altro,
hanno eccepito l'illegittimita' costituzionale del citato art. 5-bis,
comma 7-bis.
    2.1.  -  La  rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che
inducono  ad  escludere l'abrogazione della norma denunciata ad opera
dell'art. 111  Cost.  -  come  modificato  dalla legge costituzionale
23 novembre  1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo
nell'articolo 111  della  Costituzione) - ovvero dalla legge 24 marzo
2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del
termine  ragionevole  del  processo  e modifica dell'articolo 375 del
codice  di  procedura civile), sintetizza le pronunce di questa Corte
che  hanno  gia'  scrutinato  la norma censurata, in riferimento agli
artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost.
    L'ordinanza  esamina,  quindi, l'orientamento della Corte europea
dei  diritti  dell'uomo in ordine all'interpretazione dell'art. 1 del
Protocollo,  evolutosi nel senso di garantire una piu' intensa tutela
del  diritto di proprieta'. In particolare, ricorda che la previsione
di   un'indennita'  «equitable»  e'  stata  limitata  al  caso  della
espropriazione legittima e che il carattere illecito dell'occupazione
e'   stato   ritenuto   rilevante   al   fine  della  quantificazione
dell'indennita',  sicche',  qualora non sia possibile la restituzione
in   natura   del   bene,   all'espropriato   e'   dovuta  una  somma
corrispondente al valore venale.
    Secondo  il  rimettente,  la  Corte  europea, in alcune sentenze,
puntualmente  indicate,  ha ritenuto che l'occupazione acquisitiva si
pone  in  contrasto  con  le citate norme convenzionali, tra l'altro,
nella  parte  in  cui  non garantisce il diritto degli espropriati al
risarcimento  del danno in misura corrispondente al valore venale del
bene,   affermando   analogo  criterio  di  computo  per  il  calcolo
dell'indennita'  nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta
indennita' puo' non essere commisurata al «valore pieno ed intero dei
beni»  nei soli casi di espropriazioni dirette a conseguire legittimi
obiettivi  di pubblica utilita' e, tuttavia, questi ultimi sono stati
individuati  in quelli coincidenti con misure di riforme economiche o
di  giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare cambiamenti del
sistema costituzionale.
    In   seguito,   la  medesima  Corte,  con  le  sentenze  indicate
nell'ordinanza  di  rimessione, ha applicato questi principi anche in
riferimento   al  criterio  stabilito  dal  censurato  art. 5-bis  e,
ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una
complessa  manovra  finanziaria,  ha  condannato lo Stato italiano al
risarcimento  commisurato  alla differenza tra l'indennita' percepita
ed  il  valore  venale del bene, reputando che l'espropriato, a causa
del  tempo  trascorso,  aveva visto leso il proprio affidamento ad un
indennizzo  calcolato  in  base  a  quest'ultimo parametro. In virtu'
delle  sentenze  di  questa Corte n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983, il
criterio  di liquidazione per l'espropriazione delle aree edificabili
avrebbe  infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera
contrattazione  di compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865,
n. 2359,  recante  «Espropriazioni  per causa di utilita' pubblica»);
quindi,  l'applicabilita' del sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il
diritto  della  persona al rispetto dei propri beni, anche perche' la
disciplina  fiscale  incide  ulteriormente  sulla somma concretamente
percepita.
    Pertanto,   secondo  la  Corte  di  Strasburgo,  l'espropriazione
indiretta o occupazione acquisitiva - riconosciuta dalla legislazione
(art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per  pubblica  utilita»)  e  dalla  giurisprudenza italiane - sarebbe
incompatibile  con  l'art.  l  del  Protocollo  e  la norma censurata
violerebbe  la  regola  della  riparazione integrale del pregiudizio,
realizzando   una   lesione   aggravata  dalla  retroattivita'  della
disposizione e dalla sua applicabilita' ai giudizi in corso.
    In definitiva, la norma censurata e' stata giudicata in contrasto
con l'art. 1 del Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo,
poiche'  al  solo  scopo  di sopperire ad esigenze di bilancio, al di
fuori di un contesto di riforme economiche o sociali, viola la regola
della  corresponsione di un valore pari al valore venale del bene; in
secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio riduttivo, fondato su
di  un  parametro  irragionevole  anche  nel  caso  di espropriazione
legittima;  in  terzo  luogo,  poiche'  dispone  l'applicabilita' del
criterio  ai  giudizi in corso, in violazione dell'art. 6 della CEDU;
in  quarto  luogo,  poiche'  viola  il  principio  di legalita' ed il
diritto  ad  un  processo  equo,  dato  che la disposizione ha inciso
sull'esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni
pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su
presupposti  diversi  rispetto  a  quelli  sui  quali  la parte aveva
legittimamente  fatto  affidamento  all'atto dell'instaurazione della
lite.
    2.2.  -  Secondo la rimettente, benche' la disposizione censurata
si  ponga  in  contrasto  con  le  citate  norme  convenzionali, come
interpretate dalla Corte europea, non sarebbe tuttavia ammissibile la
sua  «non  applicazione»,  mentre  la  Corte  di cassazione talora ha
affermato  che  il  giudice  nazionale  e'  tenuto ad interpretare ed
applicare  il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme
alla CEDU ed all'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo,
talaltra  ha  attenuato  l'efficacia  vincolante delle sentenze della
Corte europea.
    A  suo  avviso,  nella specie non sarebbe configurabile il potere
del  giudice  comune  di  «non applicare» la norma interna, in quanto
sussistente  soltanto  nel  caso di contrasto con norme comunitarie e
fondato sull'art. 11 Cost. Il paragrafo 2 dell'art. 6 del Trattato di
Maastricht    neppure   permetterebbe   di   ritenere   la   avvenuta
«comunitarizzazione»    della    CEDU,   con   la   conseguenza   che
l'interpretazione   della   Convenzione  non  spetta  alla  Corte  di
giustizia   delle  comunita'  europee,  dichiaratasi  incompetente  a
fornire  elementi  interpretativi  per  la  valutazione  da parte del
giudice nazionale della conformita' delle norme di diritto interno ai
diritti   fondamentali  di  cui  essa  garantisce  l'osservanza  (nel
contesto  comunitario),  quali  risultano  dalla  CEDU,  quando «tale
normativa  riguarda  una  situazione  che  non  rientra  nel campo di
applicazione del diritto comunitario» (sentenza 29 maggio 1997, causa
C-299/1995).
    Peraltro, la teoria dei «controlimiti» potrebbe far ipotizzare un
contrasto  tra la regola che commisura l'indennita' di espropriazione
al  valore  venale  del bene ed il principio costituzionale in virtu'
del  quale  il  diritto  di  proprieta'  sarebbe  recessivo  rispetto
all'interesse  primario dell'utilita' sociale. In ogni caso, siffatta
regola   non   e'  suscettibile  di  diretta  applicazione  ai  sensi
dell'art. 10  Cost.,  sia  in  quanto  tale  norma costituzionale non
concerne  il  diritto pattizio, sia in quanto essa neppure esprime un
valore  generalmente  riconosciuto dagli Stati e, comunque, in quanto
il   giudice   nazionale,   se  pure  potesse  direttamente  recepire
l'interpretazione  della  Corte  europea,  non  avrebbe  il potere di
stabilire  una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista
dalla norma denunciata.
    In  conclusione,  secondo la rimettente, il contrasto della norma
interna con le norme convenzionali non puo' essere evitato attraverso
un'interpretazione  secundum  constitutionem  della  prima e, d'altro
canto,  il  giudice  nazionale  non  potrebbe  disapplicare  la norma
interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti
e  ad  affermare  la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte
interna.
    2.3.  -  L'ordinanza  di  rimessione  osserva  che  questa Corte,
benche'  abbia  ritenuto  non  irragionevole  la retroattivita' della
norma  censurata  (sentenza  n. 148 del 1999), non ha scrutinato tale
norma in riferimento all'art. 111 Cost.
    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  il  contenuto  precettivo  del
parametro  costituzionale  evocato  non  sarebbe  stato compiutamente
approfondito    e,    sebbene    l'intento    del   legislatore,   di
costituzionalizzare   la   disposizione   convenzionale,   sia  stato
accantonato nel corso dei lavori preparatori, cio' non esclude che la
giurisprudenza   della  Corte  europea  possa  contribuire  alla  sua
corretta  interpretazione,  anche tenendo conto della circostanza che
la  collocazione  della CEDU nella gerarchia delle fonti non e' stata
ancora  chiarita.  Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la
Corte  di  Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con
l'art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parita' delle parti
davanti   al  giudice  vieta  al  legislatore  di  intervenire  nella
risoluzione  di  una singola causa, o di una determinata categoria di
controversie.  Le  fattispecie  decise  dal giudice europeo sarebbero
omologhe  a  quella  oggetto  del  giudizio principale, nella quale i
proprietari,  espropriati  nell'anno 1985  in forza della occupazione
acquisitiva,  hanno  agito  in  giudizio per ottenere l'indennizzo di
natura  risarcitoria  loro spettante in virtu' dei principi enunciati
dalla  Corte  regolatrice  - fondati sull'art. 39 della legge n. 2359
del  1865 e sull'art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso
dello  Stato  nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi
maggiori  oneri  delle  indennita'  di esproprio) - corrispondente al
valore  venale  dei  beni;  il  giudice  di  merito  aveva accolto la
domanda,  applicando  detto  criterio; nel corso del giudizio innanzi
alla  Corte  di  cassazione e' sopravvenuta la norma impugnata che ha
diversamente  commisurato  l'indennizzo,  disponendo l'applicabilita'
del  nuovo  criterio  ai  giudizi  in corso non definiti con sentenza
passata  in  giudicato,  con  il  risultato  di  ridurre,  a giudizio
iniziato, l'indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello
in vista del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio.
    2.4.  -  Secondo  la  Corte di cassazione, la norma denunciata si
porrebbe,  inoltre,  in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost.,
che,  nel  testo novellato a seguito della riforma del titolo V della
Costituzione,  mira  ad  eliminare una lacuna del nostro ordinamento,
determinata  dal  contenuto dell'art. 10 Cost., stabilendo una regola
vincolante anche per il legislatore statale.
    La  disposizione  censurata  violerebbe  il  principio del giusto
processo  ed  il diritto di proprieta', quali risultano dagli artt. 6
della  CEDU  ed  1  del  Protocollo,  come  interpretati  dalla Corte
europea,  e,  conseguentemente,  il  citato  art. 5-bis, comma 7-bis,
sarebbe  costituzionalmente  illegittimo,  in quanto in contrasto con
l'art. 117, primo comma, Cost.
    3.  - La Corte di appello di Palermo espone di essere stata adita
in   sede  di  giudizio  di  rinvio  avente  ad  oggetto  le  domande
restitutorie e risarcitorie proposte da alcuni privati, i quali hanno
dedotto  che  un  suolo  edificabile di loro proprieta' ha costituito
oggetto  di  un  procedimento di espropriazione per la costruzione di
alloggi   di   edilizia   popolare   ed  e'  stato  irreversibilmente
trasformato,  in  difetto della adozione di regolare provvedimento di
espropriazione;  gli  enti  pubblici  si sono costituiti nel giudizio
contestando  la  fondatezza  della  domanda  e  chiedendo  che  siano
applicate  le  norme  recate  dal  d.P.R.  n. 327  del 2001; e' stata
inoltre accertata l'irreversibile trasformazione del fondo.
    Secondo il giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella
sentenza   di  rinvio  comporta  che  il  decreto  di  espropriazione
dell'immobile, in quanto adottato dopo la scadenza dei termini di cui
all'art. 13  della  legge  n. 2359  del  1865,  e' illegittimo e deve
essere   disapplicato.   La   fattispecie  oggetto  del  giudizio  va
qualificata  come  occupazione acquisitiva, poiche' la trasformazione
del  bene e' stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione
di  pubblica  utilita',  quindi, alla data di scadenza dei termini di
cui  all'art. 13  della  legge  n. 2359  del  1865,  il bene e' stato
acquistato  dagli  enti  pubblici,  a titolo originario, e gli attori
sono  titolari  del  diritto  ad  ottenere il risarcimento del danno.
Nella  specie  sarebbe applicabile il citato art. 5-bis, comma 7-bis,
mentre,  ad  avviso  del  rimettente,  alla data di instaurazione del
giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti private, in virtu'
dei principi enunciati dalla sentenza delle sezioni unite della Corte
di  cassazione  n. 1464  del  1983  e di quanto previsto dall'art. 39
della  legge  n. 2359  del  1865,  potevano  fare  affidamento  sulla
spettanza  di  un  risarcimento  del  danno pari al valore venale del
fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato.
    La Corte di appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame
in  riferimento  agli  stessi parametri costituzionali indicati dalla
Corte  di cassazione e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti
con  quelle  svolte  nella  relativa  ordinanza  di rimessione, sopra
sintetizzate.
    4.   -  Nel  giudizio  promosso  dalla  Corte  di  cassazione  e'
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura generale dello Stato che, anche nella memoria
depositata  in  prossimita'  dell'udienza pubblica, ha chiesto che la
questione sia dichiarata infondata.
    Secondo la difesa erariale, l'ordinanza di rimessione richiede di
accertare:  a)  se, nel caso di contrasto di una norma interna con la
giurisprudenza  della  Corte  europea,  prevalga  la  seconda;  b) se
l'eventuale  prevalenza  della giurisprudenza di detta Corte concerna
anche le norme costituzionali.
    A   suo  avviso,  deve  anzitutto  escludersi  che  la  Corte  di
Strasburgo,  in  via  interpretativa,  possa  ridurre  o estendere il
contenuto  delle  norme convenzionali; l'art. 32 del Protocollo n. 11
alla  Convenzione,  fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994, ratificato e
reso  esecutivo  con  la  legge  28 agosto  1997, n. 296 (Ratifica ed
esecuzione  del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei
diritti    dell'uomo   e   delle   liberta'   fondamentali,   recante
ristrutturazione   del   meccanismo   di  controllo  stabilito  dalla
convenzione,  fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994), stabilisce che la
competenza  di  detta  Corte  concerne tutte le questioni concernenti
l'interpretazione  e  l'applicazione  della  Convenzione  e  dei suoi
protocolli,  senza  affatto  prevedere  un  potere  creativo di norme
convenzionali  vincolanti,  inesistente nel sistema della Convenzione
di  Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica
ed  esecuzione  della  convenzione  sul  diritto  dei  trattati,  con
annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), «che vuole testuale ed
oggettiva l'interpretazione di qualunque trattato».
    Pertanto,  se  la  Corte europea non ha titolo per dubitare della
legittimita',  nel  diritto  nazionale, della norma retroattiva e del
sistema  italiano  di  calcolo  dell'indennizzo,  non potrebbe essere
censurata una disposizione conforme agli artt. 25 e 42 Cost; inoltre,
l'art. 111 Cost., contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non
concerne  la  disciplina sostanziale e, comunque, l'art. 6 della CEDU
non  stabilisce  il  divieto di retroattivita' della legge in materia
diversa da quella penale.
    Secondo  la  difesa  erariale, l'art. 117, primo comma, Cost., fa
riferimento  ai  «vincoli  derivanti  dall'ordinamento  comunitario e
dagli  obblighi  internazionali»  che,  come chiarisce l'art. 1 della
legge   5   giugno 2003,   n. 131   (Disposizioni  per  l'adeguamento
dell'ordinamento   della   Repubblica   alla   legge   costituzionale
18 ottobre   2001,  n. 3),  sono  quelli  derivanti  da  «accordi  di
reciproca  limitazione  della  sovranita'  di  cui  all'art. 11 della
Costituzione,    dall'ordinamento    comunitario   e   dai   trattati
internazionali»  e  «nulla di tutto cio' e' nella Convenzione europea
dei   diritti  dell'uomo  a  proposito  delle  leggi  retroattive  di
immediata  applicazione  ai  processi  in  corso, per le quali opera,
tutta  e  sola,  la  disciplina delle fonti di produzione nazionale».
Analogamente,  l'art. 1  del  Protocollo non disporrebbe, come invece
ritiene  la  Corte  EDU,  che l'indennizzo per l'espropriazione debba
coincidere con il valore venale del bene.
    Infine,  la  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo sarebbe
inesatta   anche   perche'   il   valore  venale  del  bene  e'  dato
dall'utilizzabilita'  dell'area  per  edificare, ma nessuno strumento
urbanistico  lascia la dimensione del terreno al lordo delle esigenze
derivanti dalla pianificazione. Secondo l'interveniente, l'esperienza
insegna  «che su un terreno di X mq l'area edificabile al netto degli
spazi  che servono per le opere di urbanizzazione e per l'assetto del
territorio,  e'  pari  ad X/2» e, quindi, non e' irragionevole che la
legge  disponga  in  detti casi una drastica riduzione del valore per
metro quadro.
    4.1.  - Nel giudizio di costituzionalita' si sono costituiti, con
separati   atti,   le   parti   del  giudizio  principale,  chiedendo
l'accoglimento  della questione, anche sulla scorta di argomentazioni
in  larga  misura  coincidenti  con  quelle  svolte nell'ordinanza di
rimessione.
    Dopo  avere esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto
del principio secondo il quale il diritto non puo' porsi in contrasto
con  il  senso comune del giusto, le parti sostengono che non solo la
norma  censurata,  ma anche l'art. 3 della legge n. 458 del 1988 e le
sentenze  di  questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonche'
alcune  sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto
di  quanti  hanno  subito un'occupazione acquisitiva di conservare la
proprieta'  del  bene  e  di  ottenere un risarcimento pari al valore
venale  del  bene,  si  porrebbero  in  contrasto  con  l'art. 1  del
Protocollo.
    La  retroattivita'  della  norma  denunciata  e'  censurata anche
attraverso   richiami  alla  Costituzione  francese  del  1791,  alla
Costituzione  degli  Stati  Uniti  d'America  e  ad un ampio excursus
storico,  svolti  per  evidenziare  il  contrasto  di detta norma con
l'art. 1   del   Protocollo,   violato  altresi'  dal  riconoscimento
dell'istituto  dell'accessione  invertita  e  dalla legittimazione di
un'attivita'   illecita  quale  fonte  di  acquisto  del  diritto  di
proprieta' da parte della pubblica amministrazione.
    Pertanto,  secondo  le  parti, la norma in esame, configurando un
fatto illecito come fonte di estinzione del diritto di proprieta' del
privato,  violerebbe  l'art. 10,  primo  comma,  Cost.,  in relazione
all'art. 1, secondo comma, del Protocollo, nonche' l'art. 53 Cost..
    Infine,  la  disposizione si porrebbe in contrasto con l'art. 10,
primo  comma,  e  con  l'art. 111,  secondo  comma,  Cost.,  anche in
relazione  all'art. 6,  n. 1,  della  legge  n. 848  del  1955, fermo
restando l'obbligo di risarcire il danno conseguente dalla violazione
del  termine  di  durata ragionevole del processo (art. 2 della legge
24 marzo 2001, n. 89).
    4.2. - Nel giudizio e' intervenuta una societa' a r.l., chiedendo
l'accoglimento  della  questione e deducendo di essere titolare di un
interesse  che  ne legittimerebbe l'intervento, in quanto parte di un
altro  processo avente anch'esso ad oggetto il risarcimento del danno
da  occupazione  acquisitiva,  sospeso  sino  all'esito  del presente
giudizio.
    4.3.  -  Infine,  ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta
per  la  Giustizia  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  (CO.GE.DU.), in
persona  del  legale  rappresentante,  la  quale, anche nella memoria
depositata  in  prossimita'  dell'udienza pubblica, espone che non e'
parte  del  processo  principale  «e non sarebbe direttamente toccata
dalla  legislazione oggetto del giudizio presupposto», poiche' non ha
alcun interesse particolare che possa riguardare l'espropriazione per
pubblica  utilita'.  Tuttavia,  la  legittimazione  all'intervento si
fonderebbe sulla circostanza che l'esito del giudizio inciderebbe sul
conseguimento  dei  suoi  scopi  statutari e sul suo interesse ad una
pronuncia che riconosca alle norme della CEDU rango costituzionale.
    5.  -  Nel giudizio promosso dalla Corte di appello di Palermo e'
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura generale dello Stato, svolgendo, nell'atto di
intervento  e nella memoria depositata in prossimita' della camera di
consiglio,  deduzioni  identiche  a  quelle  contenute  nell'atto  di
intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di cassazione
e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.
    5.1. - Nel giudizio promosso dalla Corte di appello di Palermo si
sono altresi' costituite, con atto depositato fuori termine, le parti
private del processo principale.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Le  questioni  sollevate dalla Corte di cassazione e dalla
Corte  di appello di Palermo investono l'art. 5-bis, comma 7-bis, del
decreto-legge   11 luglio   1992,   n. 333  (Misure  urgenti  per  il
risanamento  della finanza pubblica) - convertito, con modificazioni,
dalla  legge  8 agosto  1992,  n. 359  -, comma aggiunto dall'art. 3,
comma 65,   della   legge   23 dicembre   1996,   n. 662  (Misure  di
razionalizzazione  della  finanza pubblica), il quale stabilisce: «In
caso  di  occupazioni  illegittime  di  suoli  per  causa di pubblica
utilita',   intervenute   anteriormente   al  30 settembre  1996,  si
applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione
dell'indennita' di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del
40  per  cento.  In  tal  caso l'importo del risarcimento e' altresi'
aumentato  del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma
si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza
passata in giudicato».
    Secondo  le  ordinanze  di  rimessione,  la  norma si porrebbe in
contrasto   con  l'art. 117,  primo  comma,  della  Costituzione,  in
relazione  all'art. 6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta' fondamentali firmata a Roma il
4 novembre  1950  (infra,  CEDU),  ratificata e resa esecutiva con la
legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione
per   la   salvaguardia   dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali  firmata  a  Roma  il  4 novembre  1950 e del Protocollo
addizionale  alla  Convenzione  stessa,  firmato a Parigi il 20 marzo
1952),   ed   all'art. 1   del  Protocollo  addizionale,  in  quanto,
disponendo  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso della disciplina
dalla   stessa  stabilita  in  tema  di  risarcimento  del  danno  da
occupazione  illegittima  e  quantificando  in  misura  incongrua  il
relativo  indennizzo,  violerebbe il principio del giusto processo ed
il  diritto di proprieta' di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed
1,  come  interpretati  dalla  Corte europea dei diritti dell'uomo di
Strasburgo,    quindi    violerebbe    i    corrispondenti   obblighi
internazionali assunti dallo Stato.
    Inoltre,  detta  disposizione  si porrebbe in contrasto anche con
l'art. 111,  primo  e  secondo  comma, Cost., in relazione all'art. 6
della CEDU, poiche' la previsione della sua applicabilita' ai giudizi
in  corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare
sotto  il  profilo della parita' delle parti, da ritenersi leso da un
intervento   del  legislatore  diretto  ad  imporre  una  determinata
soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.
    2.  -  I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in
riferimento  agli  stessi parametri costituzionali, per profili e con
argomentazioni  sostanzialmente  coincidenti, devono essere riuniti e
decisi con un'unica sentenza.
    3.  -  Preliminarmente,  deve  essere ribadita l'inammissibilita'
degli  interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti
dell'Uomo  (CO.GE.DU.)  e  di  A.  C.  fu  G.  s.r.l., dichiarata con
ordinanza della quale e' stata data lettura in udienza, allegata alla
presente sentenza.
    Inoltre,  va  dichiarata  l'inammissibilita'  della  costituzione
delle  parti  del  giudizio pendente dinanzi alla Corte di appello di
Palermo,  poiche'  avvenuta  oltre  il termine stabilito dall'art. 25
della  legge  11 marzo  1953,  n. 87  (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento  della  Corte costituzionale), computato secondo quanto
previsto  dagli  artt. 3  e  4  delle norme integrative per i giudizi
davanti  alla  Corte  costituzionale,  da  ritenersi  perentorio (per
tutte, sentenza n. 190 del 2006).
    4.   -   Le  due  ordinanze  di  rimessione  hanno  motivato  non
implausibilmente  in  ordine  alle  ragioni  dell'applicabilita',  in
entrambi  i  giudizi,  della  norma  censurata, anche a seguito della
emanazione  del  d.P.R.  8  giugno 2001,  n. 327  (Testo  unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilita), nonche' sulla circostanza che gli stessi hanno
ad  oggetto  una fattispecie di occupazione acquisitiva, disciplinata
appunto da detta norma.
    Inoltre,  in  virtu'  di  un  principio  che  va  confermato,  la
questione  di legittimita' costituzionale puo' avere ad oggetto anche
l'interpretazione  risultante  dal  «principio  di diritto» enunciato
dalla  Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel giudizio di
impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in quanto
il  regime  delle  preclusioni  proprio  del  giudizio  di rinvio non
impedisce  di censurare la norma dalla quale detto principio e' stato
tratto  (sentenze  n. 78  del  2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994,
n. 138 del 1993; ordinanza n. 501 del 2000)
    Le questioni sono, quindi, ammissibili.
    5.  -  Le  questioni  vanno  esaminate  entro  i limiti del thema
decidendum  individuato  dalle  ordinanze  di  rimessione,  dato che,
secondo  la  consolidata  giurisprudenza di questa Corte, non possono
essere  prese  in  considerazione  le  censure svolte dalle parti del
giudizio  principale, con riferimento a parametri costituzionali ed a
profili non evocati dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 310 e
n. 234 del 2006).
    6.  -  La  questione sollevata in riferimento all'art. 117, primo
comma, Cost., e' fondata.
    6.1. - In considerazione del parametro costituzionale evocato dai
giudici  a  quibus  e  delle  argomentazioni  svolte  in  entrambe le
ordinanze  di  rimessione,  il  preliminare  profilo da affrontare e'
quello  delle  conseguenze  del  prospettato  contrasto  della  norma
interna con «i vincoli derivanti [...] dagli obblighi internazionali»
e,   in   particolare,   con   gli  obblighi  imposti  dalle  evocate
disposizioni della CEDU e del Protocollo addizionale.
    In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell'interpretare
le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad
obblighi  internazionali  - per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10
ed  11 Cost. - ha costantemente affermato che l'art. 10, primo comma,
Cost.,  il  quale  sancisce l'adeguamento automatico dell'ordinamento
interno   alle   norme   di   diritto   internazionale   generalmente
riconosciute,  concerne esclusivamente i principi generali e le norme
di  carattere  consuetudinario  (per  tutte, sentenze n. 73 del 2001,
n. 15  del  1996,  n. 168  del  1994),  mentre non comprende le norme
contenute  in  accordi  internazionali che non riproducano principi o
norme  consuetudinarie  del  diritto  internazionale.  Per  converso,
l'art. 10,  secondo  comma,  e l'art. 7 Cost. fanno riferimento a ben
identificati   accordi,  concernenti  rispettivamente  la  condizione
giuridica  dello  straniero  e  i  rapporti  tra lo Stato e la Chiesa
cattolica   e   pertanto   non   possono   essere  riferiti  a  norme
convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate.
    L'art. 11  Cost.,  il quale stabilisce, tra l'altro, che l'Italia
«consente,  in  condizioni  di  parita'  con  gli  altri  Stati, alle
limitazioni  di  sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri
la pace e la giustizia fra le Nazioni», e' invece la disposizione che
ha   permesso   di   riconoscere  alle  norme  comunitarie  efficacia
obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170
del 1984).
    Con  riguardo  alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha piu'
volte   affermato  che,  in  mancanza  di  una  specifica  previsione
costituzionale,  le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno
con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano
a   livello   costituzionale   (tra  le  molte,  per  la  continuita'
dell'orientamento,  sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188
del  1980;  ordinanza  n. 464  del  2005).  Ed  ha  altresi' ribadito
l'esclusione  delle  norme  meramente  convenzionali  dall'ambito  di
operativita'  dell'art. 10,  primo  comma, Cost. (oltre alle pronunce
sopra  richiamate,  si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del
1997, n. 168 del 1994).
    L'inconferenza,  in relazione alle norme della CEDU, e per quanto
qui  interessa,  del parametro dell'art. 10, secondo comma, Cost., e'
resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Ne' depongono
in  senso  diverso  i  precedenti  di questa Corte in cui si e' fatto
riferimento  anche  a  quel  parametro,  dato  che  cio'  e' accaduto
essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni
della  CEDU  con le fonti convenzionali relative al trattamento dello
straniero:  ed  e'  appunto  questa  la  circostanza  della  quale le
pronunce  in  questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125
del 1977, n. 120 del 1967).
    In  riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che
l'art. 11  Cost.  «neppure  puo' venire in considerazione non essendo
individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in
esame,  alcuna  limitazione  della  sovranita'  nazionale»  (sentenza
n. 188 del 1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire.
Va inoltre  sottolineato  che  i  diritti  fondamentali  non  possono
considerarsi  una  «materia»  in  relazione alla quale sia allo stato
ipotizzabile,   oltre  che  un'attribuzione  di  competenza  limitata
all'interpretazione   della   Convenzione,   anche  una  cessione  di
sovranita'.
    Ne'  la rilevanza del parametro dell'art. 11 puo' farsi valere in
maniera  indiretta,  per effetto della qualificazione, da parte della
Corte  di giustizia della comunita' europea, dei diritti fondamentali
oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto
comunitario.
    E'  vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte
di  giustizia,  anche  a  seguito  di  prese di posizione delle Corti
costituzionali  di  alcuni  Paesi  membri, ha fin dagli anni settanta
affermato  che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano
dalla  CEDU, fanno parte dei principi generali di cui essa garantisce
l'osservanza. E' anche vero che tale giurisprudenza e' stata recepita
nell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea e, estensivamente, nella
Carta  dei  diritti  fondamentali  proclamata  a  Nizza  da altre tre
istituzioni  comunitarie,  atto  formalmente  ancora  privo di valore
giuridico  ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393
del  2006).  In  primo  luogo,  tuttavia,  il Consiglio d'Europa, cui
afferiscono  il  sistema di tutela dei diritti dell'uomo disciplinato
dalla  CEDU  e  l'attivita'  interpretativa  di quest'ultima da parte
della  Corte  dei  diritti  dell'uomo  di  Strasburgo, e' una realta'
giuridica,  funzionale  e  istituzionale,  distinta  dalla  comunita'
europea  creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall'Unione europea
oggetto del Trattato di Maastricht del 1992.
    In  secondo  luogo,  la  giurisprudenza  e'  si'  nel senso che i
diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del
diritto  comunitario  di  cui  il  giudice  comunitario  assicura  il
rispetto,  ispirandosi  alle  tradizioni  costituzionali comuni degli
Stati  membri  ed in particolare alla Convenzione di Roma (da ultimo,
su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26
giugno 2007,  causa  C-305/2005,  Ordini avvocati c. Consiglio, punto
29).  Tuttavia,  tali  principi  rilevano  esclusivamente  rispetto a
fattispecie  alle  quali  tale diritto sia applicabile: in primis gli
atti  comunitari,  poi  gli atti nazionali di attuazione di normative
comunitarie,   infine   le  deroghe  nazionali  a  norme  comunitarie
asseritamente  giustificate  dal  rispetto  dei  diritti fondamentali
(sentenza  18 giugno 1991, C-260/1989, ERT). La Corte di giustizia ha
infatti  precisato  che  non  ha  tale  competenza  nei  confronti di
normative  che  non  entrano  nel  campo  di applicazione del diritto
comunitario  (sentenza  4 ottobre  1991,  C-159/1990, Society for the
Protection  of  Unborn  Children  Ireland;  sentenza  29 maggio 1998,
C-299/1995,  Kremzow):  ipotesi che si verifica precisamente nel caso
di specie.
    In  terzo  luogo,  anche  a  prescindere dalla circostanza che al
momento  l'Unione  europea non e' parte della CEDU, resta comunque il
dato dell'appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell'Unione
al   Consiglio   d'Europa   ed  al  sistema  di  tutela  dei  diritti
fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra
la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi
in   questa  materia  una  competenza  comune  attribuita  alle  (ne'
esercitata  dalle) istituzioni comunitarie, e' un rapporto variamente
ma  saldamente  disciplinato  da  ciascun ordinamento nazionale. Ne',
infine,  le  conclusioni  della  Presidenza  del Consiglio europeo di
Bruxelles  del  21  e  22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi
prefigurate  e  demandate  alla conferenza intergovernativa sono allo
stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato.
    Altrettanto  inesatto  e' sostenere che la incompatibilita' della
norma  interna  con  la  norma della CEDU possa trovare rimedio nella
semplice  non  applicazione  da parte del giudice comune. Escluso che
cio'  possa  derivare dalla generale «comunitarizzazione» delle norme
della  CEDU, per le ragioni gia' precisate, resta da chiedersi se sia
possibile  attribuire  a tali norme, ed in particolare all'art. 1 del
Protocollo  addizionale,  l'effetto  diretto,  nel  senso  e  con  le
implicazioni  proprie  delle  norme  comunitarie  provviste  di  tale
effetto,  in  particolare la possibilita' per il giudice nazionale di
applicarle  direttamente  in  luogo  delle  norme  interne  con  esse
confliggenti.  E  la  risposta  e'  che,  allo stato, nessun elemento
relativo  alla  struttura  e  agli  obiettivi  della  CEDU  ovvero ai
caratteri  di determinate norme consente di ritenere che la posizione
giuridica  dei  singoli  possa  esserne direttamente e immediatamente
tributaria,  indipendentemente  dal  tradizionale diaframma normativo
dei  rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al
giudice  la  non  applicazione  della  norma interna confliggente. Le
stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando e' il singolo
ad  attivare  il  controllo giurisdizionale nei confronti del proprio
Stato  di  appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e
da questo pretendono un determinato comportamento. Cio' e' tanto piu'
evidente  quando,  come  nella  specie,  si  tratti  di  un contrasto
«strutturale»  tra  la conferente normativa nazionale e le norme CEDU
cosi'  come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo
Stato membro di trarne le necessarie conseguenze.
    6.1.1.  - Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili
pronunce  le  quali  hanno  ribadito  che  le norme della CEDU non si
collocano  come  tali  a  livello  costituzionale, non potendosi loro
attribuire  un  rango diverso da quello dell'atto - legge ordinaria -
che  ne  ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro
ordinamento.  Le  stesse pronunce, d'altra parte, hanno anche escluso
che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle
norme  convenzionali  (sentenze  n. 288  del 1997 e n. 315 del 1990),
sottolineando  la  «sostanziale  coincidenza»  tra  i  principi dalle
stesse  stabiliti  ed  i principi costituzionali (sentenze n. 388 del
1999,  n. 120  del  1967, n. 7 del 1967), cio' che rendeva «superfluo
prendere  in  esame  il  problema [...] del rango» delle disposizioni
convenzionali  (sentenza  n. 123  del  1970).  In  altri  casi, detta
questione    non    e'    stata    espressamente    affrontata,   ma,
emblematicamente,  e'  stata  rimarcata  la «significativa assonanza»
della  disciplina  esaminata  con  quella  stabilita dall'ordinamento
internazionale (sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze
n. 445  del 2002 e n. 376 del 2000). E' stato talora osservato che le
norme  interne  assicuravano  «garanzie  ancora piu' ampie» di quelle
previste  dalla  CEDU  (sentenza  n. 1  del 1961), poiche' «i diritti
umani,   garantiti   anche  da  convenzioni  universali  o  regionali
sottoscritte  dall'Italia,  trovano  espressione,  e non meno intensa
garanzia,  nella  Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del
1998).  Cosi'  il  diritto del singolo alla tutela giurisdizionale e'
stato  ricondotto  nel  novero  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo,
garantiti  dall'art. 2  della Costituzione, argomentando «anche dalla
considerazione  che  se  ne  e'  fatta  nell'art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo» (sentenza n. 98 del 1965).
    In   linea   generale,   e'   stato   anche  riconosciuto  valore
interpretativo   alla   CEDU,   in   relazione   sia   ai   parametri
costituzionali  che  alle  norme censurate (sentenza n. 505 del 1995;
ordinanza   n. 305   del   2001),  richiamando,  per  avvalorare  una
determinata  esegesi,  le  «indicazioni  normative,  anche  di natura
sovranazionale»  (sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi,
questa  Corte,  nel  fare  riferimento  a norme della CEDU, ha svolto
argomentazioni   espressive   di   un'interpretazione  conforme  alla
Convenzione  (sentenze  n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha
richiamato  dette  norme,  e  la  ratio  ad  esse sottesa, a conforto
dell'esegesi  accolta  (sentenze  n. 299  del 2005 e n. 29 del 2003),
avvalorandola  anche  in  considerazione  della sua conformita' con i
«valori   espressi»  dalla  Convenzione,  «secondo  l'interpretazione
datane  dalla  Corte di Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299
del  1998),  nonche' sottolineando come un diritto garantito da norme
costituzionali  sia «protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti [...] come applicato dalla giurisprudenza
della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del 2004).
    E'  rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme
in  esame  deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza
atipica»  e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di
modificazione  da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza
n. 10 del 1993).
    6.1.2.  - Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte
e'  dunque  possibile  desumere  un riconoscimento di principio della
peculiare  rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione
del  contenuto  della medesima, tradottasi nell'intento di garantire,
soprattutto  mediante  lo  strumento  interpretativo,  la tendenziale
coincidenza  ed  integrazione  delle  garanzie stabilite dalla CEDU e
dalla   Costituzione,  che  il  legislatore  ordinario  e'  tenuto  a
rispettare e realizzare.
    La  peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con
l'adesione  alla  Convenzione  in  esame  e'  stata  ben  presente al
legislatore  ordinario.  Infatti,  dopo  il  recepimento  della nuova
disciplina della Corte europea dei diritti dell'uomo, dichiaratamente
diretta  a  «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla
Convenzione  per  mantenere e rafforzare l'efficacia della protezione
dei  diritti  dell'uomo  e delle liberta' fondamentali prevista dalla
Convenzione»  (Preambolo  al  Protocollo  n. 11,  ratificato  e  reso
esecutivo  con  la  legge 28 agosto 1997, n. 296), si e' provveduto a
migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l'adempimento delle
pronunce  della  Corte  europea  (art. 1  della legge 9 gennaio 2006,
n. 12),  anche mediante norme volte a garantire che l'intero apparato
pubblico   cooperi   nell'evitare   violazioni   che  possono  essere
sanzionate   (art. 1,   comma 1217,  della  legge  27 dicembre  2006,
n. 296).  Infine,  anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo e'
stata   disciplinata   l'attivita'  attribuita  alla  Presidenza  del
Consiglio  dei  ministri,  stabilendo che gli adempimenti conseguenti
alle   pronunce   della   Corte  di  Strasburgo  sono  curati  da  un
Dipartimento  di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 - Misure
per   l'esecuzione   della   legge  9 gennaio  2006,  n. 12,  recante
disposizioni  in  materia di pronunce della Corte europea dei diritti
dell'uomo).
    6.2. - E' dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita
dalla  Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa
Corte,  che  deve  essere  preso in considerazione e sistematicamente
interpretato  l'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  in quanto parametro
rispetto  al  quale  valutare la compatibilita' della norma censurata
con  l'art. 1  del  Protocollo  addizionale  alla  CEDU,  cosi'  come
interpretato dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo.
    Il  dato  subito  emergente  e'  la  lacuna esistente prima della
sostituzione   di  detta  norma  da  parte  dell'art. 2  della  legge
costituzionale  18 ottobre  2001,  n. 3  (Modifiche al titolo V della
parte  seconda  della  Costituzione), per il fatto che la conformita'
delle   leggi   ordinarie   alle   norme  di  diritto  internazionale
convenzionale  era suscettibile di controllo da parte di questa Corte
soltanto  entro  i  limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La
conseguenza   era   che  la  violazione  di  obblighi  internazionali
derivanti   da   norme   di   natura  convenzionale  non  contemplate
dall'art. 10   e   dall'art. 11  Cost.  da  parte  di  leggi  interne
comportava  l'incostituzionalita' delle medesime solo con riferimento
alla  violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del
1996).  E  cio'  si  verificava  a  dispetto  di  uno  degli elementi
caratterizzanti     dell'ordinamento    giuridico    fondato    sulla
Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto
internazionale  e  piu' in generale delle fonti esterne, ivi comprese
quelle  richiamate  dalle  norme di diritto internazionale privato; e
nonostante   l'espressa   rilevanza   della  violazione  delle  norme
internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali.
Inoltre,  tale  violazione di obblighi internazionali non riusciva ad
essere  scongiurata  adeguatamente dal solo strumento interpretativo,
mentre,  come  sopra  precisato,  per  le norme della CEDU neppure e'
ammissibile  il  ricorso  alla «non applicazione» utilizzabile per il
diritto comunitario.
    Non v'e' dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle
norme  costituzionali  e  degli  orientamenti di questa Corte, che il
nuovo  testo dell'art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna
e  che,  in  armonia  con  le Costituzioni di altri Paesi europei, si
collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta
costituzionale,   al  quadro  dei  principi  che  espressamente  gia'
garantivano  a  livello primario l'osservanza di determinati obblighi
internazionali assunti dallo Stato.
    Cio'  non  significa, beninteso, che con l'art. 117, primo comma,
Cost.,  si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute
in   accordi  internazionali,  oggetto  di  una  legge  ordinaria  di
adattamento,  com'e'  il  caso  delle  norme della CEDU. Il parametro
costituzionale  in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore
ordinario  di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma
nazionale  incompatibile  con  la  norma  della CEDU e dunque con gli
«obblighi internazionali» di cui all'art. 117, primo comma, viola per
cio'  stesso  tale  parametro  costituzionale.  Con l'art. 117, primo
comma,  si  e' realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma
convenzionale  di  volta  in  volta  conferente,  la quale da' vita e
contenuto  a  quegli obblighi internazionali genericamente evocati e,
con  essi,  al  parametro,  tanto  da  essere comunemente qualificata
«norma  interposta»;  e che e' soggetta a sua volta, come si dira' in
seguito,  ad  una  verifica  di  compatibilita'  con  le  norme della
Costituzione.
    Ne  consegue  che  al giudice comune spetta interpretare la norma
interna  in  modo  conforme alla disposizione internazionale, entro i
limiti  nei  quali  cio'  sia permesso dai testi delle norme. Qualora
cio'  non  sia  possibile,  ovvero  dubiti della compatibilita' della
norma  interna  con  la disposizione convenzionale `interposta', egli
deve  investire questa Corte della relativa questione di legittimita'
costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come
correttamente e' stato fatto dai rimettenti in questa occasione.
    In  relazione  alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua
peculiarita'  rispetto alla generalita' degli accordi internazionali,
peculiarita'  che consiste nel superamento del quadro di una semplice
somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi
ultimi  hanno  istituito  un  sistema  di tutela uniforme dei diritti
fondamentali. L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme
e'  attribuito  beninteso  in  prima  battuta  ai giudici degli Stati
membri,  cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La
definitiva   uniformita'   di   applicazione   e'   invece  garantita
dall'interpretazione  centralizzata  della CEDU attribuita alla Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo  di Strasburgo, cui spetta la parola
ultima  e  la  cui  competenza  «si  estende  a  tutte  le  questioni
concernenti  l'interpretazione  e  l'applicazione della Convenzione e
dei  suoi  protocolli  che  siano sottoposte ad essa nelle condizioni
previste»  dalla  medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi
Stati   membri,   peraltro,  hanno  significativamente  mantenuto  la
possibilita'  di  esercitare  il  diritto  di riserva relativamente a
questa  o quella disposizione in occasione della ratifica, cosi' come
il  diritto  di  denuncia  successiva, si' che, in difetto dell'una e
dell'altra,  risulta  palese la totale e consapevole accettazione del
sistema  e  delle  sue  implicazioni.  In  considerazione  di  questi
caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest'ultima, cosi' come
interpretata  dal  «suo»,  rispetto  al diritto interno e' certamente
diversa   rispetto   a   quella   della   generalita'  degli  accordi
internazionali,  la  cui  interpretazione  rimane  in capo alle Parti
contraenti,  salvo,  in  caso  di  controversia,  la composizione del
contrasto  mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di
conciliazione di tipo negoziale.
    Questa  Corte  e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli
diversi,  sia  pure  tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio
possibile  i  diritti fondamentali dell'uomo. L'interpretazione della
Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo,
cio'  che  solo  garantisce  l'applicazione  del  livello uniforme di
tutela  all'interno  dell'insieme  dei  Paesi membri. A questa Corte,
qualora sia sollevata una questione di legittimita' costituzionale di
una  norma  nazionale  rispetto  all'art. 117, primo comma, Cost. per
contrasto  -  insanabile in via interpretativa - con una o piu' norme
della   CEDU,  spetta  invece  accertare  il  contrasto  e,  in  caso
affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione
data  dalla  Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti
fondamentali   almeno   equivalente   al   livello   garantito  dalla
Costituzione   italiana.   Non   si   tratta,  invero,  di  sindacare
l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo,
come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie,
ma    di    verificare    la   compatibilita'   della   norma   CEDU,
nell'interpretazione   del   giudice   cui   tale  compito  e'  stato
espressamente  attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme
della  Costituzione.  In  tal  modo,  risulta  realizzato un corretto
bilanciamento  tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che cio'
possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa.
    7.  - Premessa la lettura sistematica dell'art. 117, primo comma,
Cost.,   invocato  dai  rimettenti,  e'  opportuna  una  ricognizione
dell'evoluzione   normativa   e   giurisprudenziale  dell'occupazione
acquisitiva, oggetto della norma denunciata.
    In    origine    (legge    25   giugno 1865,   n. 2359,   recante
«Espropriazioni   per  causa  di  utilita'  pubblica»),  fu  prevista
l'occupazione  temporanea  (artt. 64 e 70), senza alcun trasferimento
di   proprieta';   e   l'occupazione   d'urgenza   (artt. 71  e  73),
inizialmente  collegata ai casi contingenti di calamita' naturali, fu
poi generalizzata ai casi di occupazione per l'espletamento di lavori
dichiarati urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella
prassi,  tuttavia,  l'istituto dell'occupazione d'urgenza e' divenuto
un passaggio normale della procedura espropriativa, fino al punto che
sovente  l'opera pubblica era realizzata sul fondo occupato in via di
urgenza, sulla base di una previa dichiarazione di pubblica utilita',
senza che poi seguisse alcun valido provvedimento espropriativo.
    A    tali    casi    si    riferisce   l'istituto,   di   origine
giurisprudenziale,  della  c.d. «accessione invertita» o «occupazione
appropriativa»,  consacrato  dalla sentenza delle sezioni unite della
Corte  di  cassazione  n. 1464  del 1983, piu' volte confermata negli
anni  successivi.  Le  sezioni  unite, in particolare, sulla premessa
della  illegittimita'  dell'occupazione  al  di  fuori di un compiuto
procedimento   espropriativo,  della  realizzazione  di  un'opera  di
interesse  pubblico  e  della  impossibilita'  di  far coesistere una
proprieta'  del bene realizzato con una diversa proprieta' del fondo,
affermarono  l'acquisto  a  titolo originario da parte della pubblica
amministrazione   a   seguito  e  per  effetto  della  trasformazione
irreversibile   del   bene.   A   tale  conclusione,  il  giudice  di
legittimita'  pervenne utilizzando quell'esigenza di bilanciamento di
interessi  che  pure  e'  presente  nella  disciplina dell'accessione
(art. 934  e seguenti del codice civile) e che nell'ipotesi di specie
faceva  ritenere prevalenti le ragioni dell'amministrazione in quanto
a  soddisfazione di interessi pubblici. La ricaduta di tale pronuncia
in   termini   patrimoniali,   peraltro,  e'  stata  il  diritto  del
proprietario non all'indennita' di espropriazione, ma al risarcimento
del  danno  da illecito, equivalente almeno al valore reale del bene,
con   prescrizione  quinquennale  dal  momento  della  trasformazione
irreversibile del bene.
    L'orientamento  successivo  della  Cassazione,  pur  con  qualche
oscillazione   di   minor   rilievo   (ad   esempio  sul  termine  di
prescrizione), sostanzialmente ha confermato i punti principali della
sentenza    del    1983:    trasferimento   in   capo alla   pubblica
amministrazione  della  proprieta'  del bene e risarcimento del danno
corrispondente   al   suo  valore  di  mercato.  La  logica  di  tale
orientamento  era  focalizzata  soprattutto sull'aspetto civilistico,
relativo al mutamento di titolarita' del bene per ragioni di certezza
delle  situazioni  giuridiche,  mentre rimaneva pacifico il principio
della  responsabilita'  aquiliana  e  per cio' stesso la negazione di
un'alternativa  al  ristoro del danno, corrispondente al valore reale
del bene e con le somme accessorie di rito.
    7.1. - Negli anni successivi, il legislatore ordinario non sempre
ha   mantenuto   ferma   la  sopra  precisata  ricaduta  patrimoniale
dell'occupazione  acquisitiva.  E  sono  al riguardo da ricordare, ai
fini che qui interessano, gli interventi di questa Corte.
    Inizialmente, la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all'art. 3, aveva
dato   espressa   base   normativa   all'istituto   giurisprudenziale
dell'occupazione   acquisitiva,  sia  pure  con  riferimento  ad  una
specifica tipologia di opere pubbliche; e confermato il principio del
risarcimento  integrale  del  danno  subito  dal  titolare  del bene,
limitandosi   a   disciplinare   l'ipotesi   che   il   provvedimento
espropriativo  fosse  dichiarato  illegittimo con sentenza passata in
giudicato.  Investita  della questione di legittimita' costituzionale
di  tale  norma  in  riferimento  all'art. 42, secondo e terzo comma,
Cost.,   questa   Corte   l'ha   dichiarata   infondata,  osservando,
significativamente,  che con essa il legislatore, «in una completa ed
adeguata  valutazione  degli interessi in gioco, non si e' limitato a
corrispondere «l'indennizzo», ma ha previsto l'integrale risarcimento
del  danno  subito»,  con  la conseguenza che «al mancato adempimento
della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico
interesse,  si  sostituisce  la  tutela  risarcitoria (art. 2043 cod.
civ.),   integralmente  garantita»  (sentenza  n. 384  del  1990;  le
argomentazioni  sono  state ribadite dall'ordinanza n. 542 del 1990).
La  Corte  ha  poi  dichiarato illegittima la stessa normativa appena
evocata, nella parte in cui non si estendeva anche all'ipotesi in cui
mancasse  del  tutto  un  provvedimento espropriativo, confermando il
principio  del  risarcimento  integrale  del  danno (sentenza 486 del
1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come questa disciplina
fosse  appunto  «coerente  alla connotazione illecita della vicenda»,
produttiva del «diritto al risarcimento e non all'indennita».
    Successivamente  il  legislatore,  con la legge 28 dicembre 1995,
n. 549,  art. 5-bis,  ha  stabilito  la parificazione tra ristoro del
danno per occupazione acquisitiva ed indennizzo espropriativo. Questa
Corte,   con   la   sentenza  n. 369  del  1996,  ha  censurato  tale
parificazione  in  riferimento  all'art. 3  Cost., sottolineando che,
«mentre  la  misura  dell'indennizzo  - obbligazione ex lege per atto
legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico
alla   realizzazione   dell'opera   e   interesse  del  privato  alla
conservazione  del bene, la misura del risarcimento - obbligazione ex
delicto  -  deve  realizzare  il  diverso  equilibrio tra l'interesse
pubblico  al  mantenimento  dell'opera  gia' realizzata e la reazione
dell'ordinamento  a  tutela della legalita' violata per effetto della
manipolazione-distruzione  illecita  del  bene  privato».  Dunque, ha
rimarcato  la  pronuncia,  «sotto  il  profilo  della  ragionevolezza
intrinseca   (ex  art. 3  Costituzione),  poiche'  nella  occupazione
appropriativa l'interesse pubblico e' gia' essenzialmente soddisfatto
dalla  non  restituibilita' del bene e dalla conservazione dell'opera
pubblica,  la  parificazione  del  quantum  risarcitorio  alla misura
dell'indennita'   si   prospetta   come  un  di  piu'  che  sbilancia
eccessivamente  il  contemperamento  tra  i  contrapposti  interessi,
pubblico  e  privato, in eccessivo favore del primo. Con le ulteriori
negative   incidenze,   ben  poste  in  luce  dalle  varie  autorita'
rimettenti,  che  un  tale «privilegio» a favore dell'amministrazione
pubblica  puo'  comportare,  anche  sul  piano  del  buon andamento e
legalita'   dell'attivita'   amministrativa   e   sul   principio  di
responsabilita'  dei  pubblici  dipendenti  per  i  danni arrecati al
privato».  Infine,  secondo  detta pronuncia, la «perdita di garanzia
che al diritto di proprieta' deriva da una cosi' affievolita risposta
dell'ordinamento  all'atto  illecito  compiuto  in  sua  violazione»,
vulnerava anche l'art. 42, secondo comma, della Costituzione.
    Il  principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte e',
pertanto,  che  l'accessione  invertita «realizza un modo di acquisto
della proprieta' [...] giustificato da un bilanciamento fra interesse
pubblico (correlato alla conservazione dell'opera in tesi pubblica) e
l'interesse   privato  (relativo  alla  riparazione  del  pregiudizio
sofferto  dal  proprietario)  la  cui correttezza «costituzionale» e'
ulteriormente»    confortata    «dal    suo   porsi   come   concreta
manifestazione,   in   definitiva,   della   funzione  sociale  della
proprieta» (sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384
del   1990).   E,   tuttavia,   essendo   l'interesse  pubblico  gia'
essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene e dalla
conservazione  dell'opera  pubblica, la misura della liquidazione del
danno   non   puo'   prescindere   dalla   adeguatezza  della  tutela
risarcitoria   che,  nel  quadro  della  conformazione  datane  dalla
giurisprudenza  di legittimita', comportava la liquidazione del danno
derivante  dalla  perdita  del  diritto  di  proprieta',  mediante il
pagamento  di  una  somma  pari  al  valore  venale  del bene, con la
rivalutazione  per  l'eventuale  diminuzione  del  potere di acquisto
della moneta fino al giorno della liquidazione.
    Successivamente,  l'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996
ha  introdotto  nell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, il
comma 7-bis,  secondo cui in caso di occupazione illegittima di suoli
per   causa   di  pubblica  utilita',  intervenute  anteriormente  al
30 settembre  1996,  si  applicano,  per la liquidazione del danno, i
criteri di determinazione dell'indennita' di cui al comma 1» (quella,
cioe', prevista per l'espropriazione dei suoli edificatori: semisomma
tra  valore  di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del
40 per cento), con esclusione di tale riduzione e con la precisazione
che «in tal caso l'importo del risarcimento e' altresi' aumentato del
10 per cento».
    Il  profilo  della  misura  della  liquidazione  del  danno,  con
specifico riferimento alla norma appena ricordata, e' stato esaminato
dalla  sentenza  n. 148  del 1999, che va valutata al giusto. Essa ha
dichiarato  l'infondatezza  delle  censure  riferite - per quanto qui
interessa - agli artt. 3 e 42 Cost., essenzialmente in considerazione
della   mancanza  di  copertura  costituzionale  della  regola  della
integralita'  della  riparazione  del danno e della equivalenza della
medesima  al  pregiudizio cagionato, della «eccezionalita' del caso»,
giustificata   «soprattutto  dal  carattere  temporaneo  della  norma
denunziata», nonche' della esigenza di salvaguardare una ineludibile,
e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica.
    La   legittimita'   rispetto  all'art. 42  Cost.  di  un  ristoro
inferiore  (e  di  molto) al valore reale del bene, in definitiva, e'
stata  ancorata  dalla pronuncia del 1999 anzitutto in riferimento ad
un  parametro  diverso  da  quello evocato in questa sede. Inoltre, a
tale   conclusione   questa  Corte  e'  pervenuta  essenzialmente  in
considerazione  della  temporaneita'  della  disciplina,  nonche'  di
esigenze  congiunturali  di  carattere  finanziario.  E  ancora sulla
temporaneita' pone l'accento la sentenza n. 24 del 2000.
    8.  - Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si
colloca  la  normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con
la  quale  si  prospetta, per la prima volta, che la norma denunciata
violerebbe  l'art. 117,  primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in
contrasto con le norme internazionali convenzionali e, anzitutto, con
l'art. 1  del Protocollo addizionale della CEDU, nell'interpretazione
offertane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
    Al  riguardo,  occorre  premettere  che  entrambe le ordinanze di
rimessione   non   sollevano   il   problema   della   compatibilita'
dell'istituto  dell'occupazione  acquisitiva  in  quanto  tale con il
citato  art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella
parte  in  cui  ne  disciplina  la  ricaduta  patrimoniale. Pertanto,
oggetto    del    thema   decidendum   posto   dalla   questione   di
costituzionalita'  e'  solo  il  profilo della compatibilita' di tale
ricaduta  patrimoniale  disciplinata  dalla  norma  censurata  con la
disposizione  convenzionale, cio' che impone di fare riferimento alle
conferenti sentenze del giudice europeo di Strasburgo.
    L'art. 1  del  Protocollo  addizionale  stabilisce: «Ogni persona
fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno puo'
essere  privato  della  sua  proprieta'  se non per causa di utilita'
pubblica  e  nelle  condizioni  previste  dalla  legge e dai principi
generali del diritto internazionale».
    La Corte europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze,
puntualmente  e  diffusamente richiamate nell'ordinanza di rimessione
della  Corte  di  cassazione,  dando  vita  ad  un orientamento ormai
consolidato,  confermato dalla Grande Chambre della Corte (per tutte,
Grande  Chambre,  sentenza  29 marzo  2006,  Scordino, dove anche una
completa  ricostruzione  dell'indirizzo  confermato dalla pronuncia),
formatosi  anche  in  processi  concernenti  la  disciplina ordinaria
dell'indennita'  di  espropriazione  stabilita  dal citato art. 5-bis
(per piu' ampi svolgimenti v. sentenza n. 348 in pari data).
    In  sintesi,  relativamente  alla  misura  dell'indennizzo, nella
giurisprudenza  della  Corte europea e' ormai costante l'affermazione
secondo  la  quale,  in virtu' della norma convenzionale, «una misura
che  costituisce  interferenza  nel diritto al rispetto dei beni deve
trovare   il  «giusto  equilibrio»  tra  le  esigenze  dell'interesse
generale della comunita' e le esigenze imperative di salvaguardia dei
diritti  fondamentali  dell'individuo».  Pertanto,  detta  norma  non
garantisce   in   tutti   i   casi  il  diritto  dell'espropriato  al
risarcimento  integrale,  in  quanto «obiettivi legittimi di pubblica
utilita',  come quelli perseguiti dalle misure di riforma economica o
di  giustizia  sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al
valore  commerciale  effettivo». Per converso, proprio in riferimento
alla  disciplina  stabilita dal richiamato art. 5-bis della legge qui
in  discussione,  la Corte europea ha affermato che, quando si tratta
di  «esproprio  isolato  che  non  si situa in un contesto di riforma
economica,  sociale  o  politica  e  non  e'  legato  ad  alcun altra
circostanza  particolare», non sussiste «alcun obiettivo legittimo di
«pubblica  utilita»  che  possa giustificare un rimborso inferiore al
valore commerciale», osservando altresi' che, al fine di escludere la
violazione  della  norma  convenzionale,  occorre  dunque «sopprimere
qualsiasi  ostacolo  per  l'ottenimento  di  un  indennizzo avente un
rapporto  ragionevole  con  il valore del bene espropriato» (sentenza
29 marzo 2006, Scordino).
    La  Corte  europea,  inoltre,  nel  considerare specificamente la
disciplina  dell'occupazione  acquisitiva,  ha  anzitutto  premesso e
ribadito  che l'ingerenza dello Stato nel caso di espropriazione deve
sempre  avvenire  rispettando  il «giusto equilibrio» tra le esigenze
dell'interesse  generale  e  gli  imperativi  della  salvaguardia dei
diritti  fondamentali  dell'individuo  (Sporrong e Lönnroth c. Svezia
del  23 settembre  1982,  punto  69).  Inoltre,  con riferimento allo
specifico profilo della congruita' della disciplina qui censurata, la
Corte   europea  ha  ritenuto  che  la  liquidazione  del  danno  per
l'occupazione  acquisitiva  stabilita  in  misura  superiore a quella
stabilita  per  l'indennita' di espropriazione, ma in una percentuale
non  apprezzabilmente  significativa,  non  permette  di escludere la
violazione  del  diritto di proprieta', cosi' come e' garantito dalla
norma  convenzionale  (tra  le molte, I Sezione, sentenza 23 febbraio
2006,  Immobiliare  Cerro s.a.s; IV sezione, sentenza 17 maggio 2005,
Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e cio' dopo
aver  da  tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno
deve  essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far
tempo dal provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani).
    Il  bilanciamento  svolto  in  passato  con  riferimento ad altri
parametri  costituzionali  deve essere ora operato, pertanto, tenendo
conto  della  sopra  indicata rilevanza degli obblighi internazionali
assunti dallo Stato, e cioe' della regola stabilita dal citato art. 1
del Protocollo addizionale, cosi' come attualmente interpretato dalla
Corte  europea.  E sul punto va ancora sottolineato che, diversamente
da  quanto  e'  accaduto  per  altre  disposizioni  della  CEDU o dei
Protocolli  (ad  esempio,  in occasione della ratifica del Protocollo
n. 4), non vi e' stata alcuna riserva o denuncia da parte dell'Italia
relativamente  alla disposizione in questione e alla competenza della
Corte di Strasburgo.
    In   definitiva,   essendosi   consolidata  l'affermazione  della
illegittimita' nella fattispecie in esame di un ristoro economico che
non  corrisponda  al  valore  reale  del  bene,  la  disciplina della
liquidazione  del  danno stabilita dalla norma nazionale censurata si
pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l'art. 1 del
Protocollo   addizionale,  nell'interpretazione  datane  dalla  Corte
europea;  e  per  cio'  stesso  viola  l'art. 117, primo comma, della
Costituzione.
    D'altra  parte,  la norma internazionale convenzionale cosi' come
interpretata  dalla  Corte  europea,  non  e'  in  contrasto  con  le
conferenti norme della nostra Costituzione.
    La  temporaneita'  del  criterio di computo stabilito dalla norma
censurata,  le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e
l'astratta  ammissibilita' di una regola risarcitoria non ispirata al
principio   della   integralita'  della  riparazione  del  danno  non
costituiscono elementi sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei
principi   costituzionali,  la  disposizione  censurata  realizzi  un
ragionevole   componimento  degli  interessi  a  confronto,  tale  da
contrastare  utilmente  la  rilevanza della normativa CEDU. Questa e'
coerente   con  l'esigenza  di  garantire  la  legalita'  dell'azione
amministrativa  ed  il  principio  di  responsabilita'  dei  pubblici
dipendenti  per  i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce
delle  conferenti  norme costituzionali, principalmente dell'art. 42,
non  si  puo'  fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra
interesse   pubblico   ed   interesse   privato  non  puo'  ritenersi
soddisfatto   da   una   disciplina   che   permette   alla  pubblica
amministrazione  di  acquisire  un  bene  in difformita' dallo schema
legale  e di conservare l'opera pubblica realizzata, senza che almeno
il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia
integralmente risarcito.
    In  conclusione,  l'art. 5-bis,  comma 7-bis,  del  decreto-legge
n. 333  del  1992,  convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359
del  1992,  introdotto  dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del
1996,  non  prevedendo  un  ristoro  integrale  del  danno subito per
effetto   dell'occupazione   acquisitiva   da  parte  della  pubblica
amministrazione,   corrispondente  al  valore  di  mercato  del  bene
occupato,  e'  in  contrasto  con gli obblighi internazionali sanciti
dall'art. 1  del  Protocollo  addizionale alla CEDU e per cio' stesso
viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.
    9.  -  Restano  assorbite  le  censure incentrate sugli ulteriori
profili e parametri costituzionali invocati dai rimettenti.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Riuniti i giudizi,
    Dichiara    l'illegittimita'    costituzionale   dell'art. 5-bis,
comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti
per   il   risanamento   della  finanza  pubblica),  convertito,  con
modificazioni,   dalla   legge   8 agosto  1992,  n. 359,  introdotto
dall'art. 3,  comma 65,  della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure
di razionalizzazione della finanza pubblica).
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.
                         Il Presidente: Bile
                        Il redattore: Tesauro
                       Il cancelliere: Melatti
    Depositata in cancelleria il 24 ottobre 2007.
                       Il cancelliere: Melatti
                                                             Allegato
            Ordinanza letta all'udienza del 3 luglio 2007
                              Ordinanza
    Rilevato che nel presente giudizio di legittimita' costituzionale
sono  intervenute  la  Consulta  per la Giustizia Europea dei Diritti
dell'Uomo  (CO.GE.DU),  in  persona  del  legale rappresentante, e la
s.r.l.  Cappelletto  Andreina  fu  Giuseppe,  in  persona  del legale
rappresentante, che non sono parti del giudizio principale.
    Considerato  che,  secondo  la  giurisprudenza  di  questa Corte,
possono partecipare al giudizio di legittimita' costituzionale (oltre
al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e,  nel  caso di legge
regionale,  al  Presidente  della Giunta regionale) solo le parti del
giudizio  principale  e che la deroga e' consentita solo «a favore di
soggetti   titolari   di  un  interesse  qualificato,  immediatamente
inerente  al  rapporto  sostanziale  dedotto in giudizio» (per tutte,
ordinanza letta all'udienza del 6 giugno 2006, allegata alla sentenza
n. 279 del 2006; ordinanza n. 251 del 2002);
        che,   pertanto,   l'incidenza   sulla  posizione  soggettiva
dell'interveniente  non  deve  derivare,  come  per  tutte  le  altre
situazioni   sostanziali   governate  dalla  legge  censurata,  dalla
pronuncia  della  Corte sulla legittimita' costituzionale della legge
stessa,  ma  dall'immediato  effetto  che  la  pronuncia  della Corte
produce   sul   rapporto  sostanziale  oggetto  del  giudizio  a  quo
(ordinanza   letta  all'udienza  del  6  giugno 2006,  allegata  alla
sentenza   n. 279  del  2006;  ordinanza  letta  all'udienza  del  21
giugno 2005, allegata alla sentenza n. 345 del 2005);
        che,  nella  specie, la CO.GE.DU., per sua stessa ammissione,
non  e' «direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio
presupposto»,  ma,  in considerazione dello scopo statutario, intende
ottenere  che questa Corte «qualifichi in via generale ed astratta la
categoria   delle   norme»  della  Convenzione  Europea  dei  diritti
dell'uomo,  sicche'  non  e'  titolare di un interesse giuridicamente
qualificato  suscettibile  di  essere  pregiudicato immediatamente ed
irrimediabilmente dalla eventuale pronuncia di accoglimento di questa
Corte;
        che  e'  altresi'  inammissibile  l'intervento  della  s.r.l.
Cappelletto Andreina fu Giuseppe, non rilevando, in contrario, che la
stessa  abbia in corso un giudizio nel quale debba farsi applicazione
della  norma censurata, in attesa della pronuncia di questa Corte, in
quanto  la  contraria  soluzione  si  risolverebbe  nella sostanziale
soppressione  del  carattere incidentale del giudizio di legittimita'
costituzionale  (tra  le  molte,  sentenza n. 190 del 2006, ordinanza
n. 179 del 2003).
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  inammissibili  gli  interventi  della  Consulta  per la
Giustizia   Europea   dei   Diritti  dell'Uomo  (CO.GE.DU.)  e  della
Cappelletto Andreina fu Giuseppe s.r.l.
                         Il Presidente: Bile
07C1245