N. 761 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 giugno 2007
Ordinanza emessa l'11 giugno 2007 dalla Corte di appello di Salerno nel procedimento penale a carico di Alvino Giovanni ed altro Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di non luogo a procedere - Mancata previsione - Violazione del principio di ragionevolezza e del principio della parita' delle parti nel contraddittorio - Lesione del principio della obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale. - Codice di procedura penale, art. 428, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46. - Costituzione, artt. 3, 111, comma secondo, e 112. Processo penale - Appello - Modifiche normative - Applicazione della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della novella - Lesione del principio della ragionevole durata del processo. - Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10. - Costituzione, art. 111, comma secondo.(GU n.46 del 28-11-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento in epigrafe indicato a carico di: Alvino Giovanni, nato a Pontecagnano il 20 settembre 1972 ed ivi residente, piazza Risorgimento n. 15; Dante Mali nato a Ricigliano il 15 marzo 1950 e residente in Battipaglia, viale De Crescenzo n. 4; pendente a seguito di appello del Procuratore generale di Salerno avverso la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Salerno del 4 maggio 2004, con la quale fu dichiarato non doversi procedere nei confronti dei predetti imputati, ai sensi dell'art. 425 c.p.p., per i reati di truffa ed associazione per delinquere, perche' il fatto non sussiste; Ritenuto che si ravvisi non infondata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 428 c.p.p., come modificato dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 e dall'art. 10 della stessa legge per contrasto con gli articoli 3, 111, secondo comma e 112 della Costituzione; Visto il verbale di causa e le dichiarazioni delle parti. Tanto premesso, questa Corte, sotto il profilo della rilevanza della questione osserva che l'art. 10, secondo comma, della legge prevede l'immediata dichiarazione di inammissibilita', con ordinanza non impugnabile, dell'appello contro una sentenza di proscioglimento proposto dall'imputato o dal pubblico ministero, con una esplicita deroga al principio tempus regit actum, che normalmente regola la successione delle norme processuali. L'inesistenza di eccezioni alla dichiarazione di inammissibilita' e di qualsiasi valutazione da parte del giudice, diversa dalla mera constatazione che e' stato proposto un appello dal p.m.. avverso una sentenza di proscioglimento (per cui si prevede anche non impugnabilita' della relativa ordinanza) non consente di pervenire, con il mezzo della interpretazione, ad altra soluzione. Ne consegue che la questione di questione di legittimita' costituzionale del nuovo testo dell'art. 428 c.p.p. e dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 e' rilevante perche' solo la dichiarazione di incostituzionalita' delle citate norme consentirebbe a questa Corte di appello di esaminare i motivi di appello proposti dal p.m. appellante. Passando ora ad esaminare il profilo della non manifesta infondatezza si osserva che la proposta questione appare non manifestamente infondata in relazione agli articoli 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione per i motivi che di seguito, sinteticamente, si espongono. A) L'art. 111, comma secondo, della Costituzione prevede che: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Dunque: a) la parita' delle parti deve connotare l'intero processo quindi anche ogni sua singola fase (esclusa quella delle indagini preliminari); b) in ogni momento del processo deve essere garantito il contraddittorio delle parti. Attraverso questi due momenti si svolge il tentativo di giungere all'accertamento della verita', in cui si sostanzia il processo. Il quarto comma della stessa norma prevede poi che: «Il processo penale e' regolato dal contraddittorio nella formazione della prova». A meno di non voler interpretare quest'ultima disposizione come una inutile ripetizione del primo comma, se ne deve dedurre che questo afferma la necessita' che il processo, nella sua interezza si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parita' delle stesse ed il quarto regoli specificamente il principio del contraddittorio nella fase della formazione della prova, tanto piu' che, nel secondo comma dell'art. 111 vi e' un espresso riferimento al fatto che la parti si muovono, in parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale e queste sua qualita' hanno modo di oggettivarsi non solo nel momento della acquisizione della prova, ma anche in quello della decisione del processo. Gia' dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 421 del 2001, peraltro, si evince che il giudice delle leggi non ha condiviso la tesi di chi sostiene che il principio della parita' delle parti sarebbe limitato alla fase del contraddittorio, perche', in realta', il principio introdotto dal secondo comma dell'art. 111 Cost. non e' altro che la veste autonoma data ad un principio desumibile dal sistema dei valori costituzionali (art. 3 Cost. in particolare). La parita' delle parti deve dunque caratterizzare ogni momento del processo in ragione di quegli che sono gli interessi di cui ogni parte e' portatrice:, il p.m. esercita la pretesa punitiva dello Stato, per vedere affermata la responsabilita' di chi ha violato la legge penale, ed in questo tende a realizzare gli interessi generali della giustizia; l'imputato esercita la pretesa, costituzionalmente garantita (art. 24 Cost.) di vedersi riconosciuto innocente. La parita' delle parti deve, per quanto si e' detto, avere per oggetto anche la fase dell'appello e sin dal suo inizio, ossia dalla determinazione dei casi in cui e' consentito proporlo. B) L'art. 428 c.p.p., come novellato dalla legge 46 del 2006, ha previsto che il p.m. e l'imputato possano proporre ricorso per cassazione avverso le sentenze di non luogo a procedere pronunziate dal g.i.p. al termine della udienza preliminare. Il principio di parita' di cui all'art. 111 Cost. sembrerebbe rispettato, ma cosi' non e' trattandosi di una parita' solo formale e irragionevole in quanto e' assolutamente ovvio che nessun interesse ha l'imputato ad appellare la sentenza di non luogo a procedere, che nessun pregiudizio, puo' produrgli sotto il profilo civile, perche' non e' pronunziata a seguito di dibattimento (art. 652 c.p.p.), mentre fa stato (e dunque costituisce un vantaggio per l'imputato) nel giudizio disciplinare (art. 653 c.p.p.). La nuova norma quindi limita il potere di impugnare all'unica parte che ha reale interesse ad impugnare una sentenza di non luogo a procedere, vale a dire il p.m. Si abolisce quindi del tutto il potere del p.m. di poter impugnare le decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua pretesa punitiva, e, dunque, gli si impedisce di ricercare, attraverso l'impugnazione, di pervenire all'attuazione dell'accertamento della verita' materiale cui il processo penale deve tendere (Corte cost. sen. n. 254 e 255/1992). C) Gia' all'indomani della soppressione del requisito dell'evidenza nel corpo del primo comma dell'art. 425 c.p.p., (art. 1, legge 8 aprile 1993, n. 105) la giurisprudenza affermo' il principio della necessita' di pronunziare sentenza di non luogo a procedere sia nel caso di prova positiva della innocenza, sia nel caso di mancanza, insufficienza o contraddittorieta' della prova di colpevolezza, sempre che essa non apparisse integrabile nella successiva fase del dibattimento (Cass. 5 febbraio 1999 n. 1490), ossia in tutti i casi in cui fosse accertata la «inidoneita» delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio, nella dialettica del contraddittorio dibattimentale" (Cass., 3 novembre 1998, Annunziata; 30 gennaio 1995, Valle; 18 novembre 1998, Gabriele); o, in altri termini, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 71 del 1996, nei casi in cui «si appalesi la superfluita' del giudizio» e cioe' solo qualora sia «fondato prevedere che l'eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti per superare il quadro di insufficienza o contraddittorieta' probatoria». In ordine ai poteri del g.u.p. dopo la riforma operata con la legge 479 del 1999, la Corte di cassazione ha rilevato che la sentenza di non luogo procedere emessa all'esito della udienza preliminare, a norma dell'art. 425 cod. proc. pen., anche dopo le modifiche citate, mantiene la sua natura «processuale», destinata esclusivamente a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero (Cass. 1° agosto 2000, n. 1662). Il g.u.p. deve operare le sue valutazioni anche di merito in funzione della idoneita' o meno degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio, non senza aver verificato, prima della decisione, la possibilita' di completare le risultanze investigative attraverso un supplemento di indagini (art. 421-bis c.p.p.). Il giudice dell'udienza preliminare puo' prosciogliere nel merito l'imputato - in forza di quanto disposto dall'art. 425, comma 3, cod. proc. pen. - anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti e contraddittori e simile esito e' imposto, come previsto dall'ultima parte del comma 3 dell'art. 425 citato, allorche' detti elementi siano comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio (Cass. 19 dicembre 2001, n. 45275, sul c.d. lodo Mondadori). Dunque, la insufficienza o contraddittorieta' degli elementi a carico dell'imputato deve essere parametrata alla prognosi della inutilita' del dibattimento; sicche' esattamente deve escludersi un esito liberatorio in tutti i casi in cui detti elementi si prestino a soluzioni alternative e «aperte» (Cass., 9 ottobre 1995, n. 3467; Cass., 21 aprile 1997, n. 2875; Cass. 5 febbraio 1998, n. 687 e Cass. 19 dicembre 2001, n. 45275). Se questa e' la funzione che il giudice della udienza preliminare deve svolgere, non si puo' negare che al p.m. si debba riconoscere il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento per far valere l'erronea valutazione operata dal g.i.p. della prognosi della inutilita' del dibattimento .che incide sull'esercizio dell'azione penale. L'art. 428 c.p.p. nel testo ante riforma prevedeva una impugnazione nel merito della sentenza di non luogo a procedere del g.u.p., con una «rivalutazione» nel merito da parte del giudice di appello relativa proprio alla fondatezza della richiesta di rinvio a giudizio e quindi la valutazione della sufficienza o meno degli elementi addotti dal p.m. ai fini della celebrazione del giudizio, il ch'e e' come a dire sui presupposti stessi dell'esercizio dell'azione penale. Con la nuova normativa in maniera del tutto irragionevole, viene eliminata tale rivalutazione cosi' creando sostanzialmente l'impossibilita' di rivedere nel merito la valutazione del giudice dell'udienza preliminare, che pertanto rimane sottratta a qualsiasi impugnazione: invero l'appello non e' piu' ammissibile e d'altra parte il ricorso per Cassazione e' dichiarato ammissibile dall'art. 606 c.p.p. solo per specifici motivi, tra i quali non e' sicuramente compreso la semplice valutazione della «sufficienza o meno» degli elementi per il giudizio. Tale ingiustificata anomalia si concretizza in tutti i casi in cui non vi e' ne' mancanza, ne' contraddittorieta', ne' manifesta illogicita' della motivazione, ma solo appunto una possibile alternativa valutazione degli elementi addotti. L'anomalia e' ancora piu' grave e irragionevole laddove si consideri che, in ragione della esigenza di completezza delle indagini preliminari (Corte cost., sentenza n. 88 del 1991), il pubblico ministero, gia' prima della udienza preliminare, deve aver gia' esercitato il potere e assolto al dovere di svolgere tutte le attivita' necessarie in vista delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, tenendo anche conto del fatto che sulla base degli elementi raccolti l'imputato potra' chiedere ed ottenere di essere giudicato con il rito abbreviato, per cui non puo' esimersi dal predisporre un esaustivo quadro probatorio in vista dell'esercizio dell'azione penale (Corte cost. sent. n. 115/2001). Se dunque le indagini preliminari devono essere complete e tener conto anche del diritto dell'imputato di chiedere il rito abbreviato davanti al g.u.p., si converra' che l'inappellabile giudizio di questi sulla inutilita' del dibattimento incide indiscutibilmente sull'esercizio della azione penale, negando addirittura l'esistenza dei suoi presupposti in fatto, con un evidente violazione dell'art. 112 della Costituzione, essendo possibile il nuovo esercizio dell'azione penale solo sulla scorta di nuove prove decisive e non per la pretermissione di quelle gia' esistenti. In altri termini, e' proprio l'esercizio dell'azione penale a subire una limitazione tanto drastica da incrinarne irreparabilmente il carattere obbligatorio da un lato e da sottrarne la titolarita' al p.m. dall'altro: di fatto ai scelta tra il perseguimento della pretesa punitiva ed il suo definitivo abbandono e' rimessa non gia' all'apprezzamento dell'organo dell'accusa, ma al giudizio inappellabile del g.u.p., il quale diviene in tal modo arbitro di impedire - attraverso una pronunzia, che per come rilevato, il diritto vivente considera meramente processuale - una cognizione del fatti piena e pienamente attuativa del principio del contraddittorio; la qualcosa e' tanto piu' irragionevole in quanto, per taluni reati, anche di rilevante gravita' (art. 550 c.p.p.) la pretesa viene esercitata senza alcun filtro ed in forma diretta. D) La Corte costituzionale ha affermato il principio che il potere di appello del pubblico ministero non puo' essere ricondotto all'obbligo di esercitare l'azione penale. (Corte cost. sentenze n. 280 del 1995, n. 206 del 1997, ord. 426/1998), per cui la configurazione dei relativi poteri rimane affidata alla legge ordinaria, censurabile per irragionevolezza se i poteri stessi nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei compiti previsti dall'art. 112 della Costituzione (Corte cost. sen. 98 del 1994). Tale indirizzo, tuttavia, si e' formato ed e' stato affermato con riferimento alla impugnazione di provvedimenti emessi «a cognizione piena"», cioe' nei casi in cui, a seguito di regolare giudizio, vi e' stata decisione nel merito della imputazione, ossia sulla responsabilita' o meno dell'imputato, da parte del giudice e non solo sulla idoneita' o meno delle prove raccolte a sostenere l'accusa in giudizio, ossia sulla concreta esperibilita' dell'azione penale in un giudizio a cognizione piena. Non si puo' dire dunque che il sistema creato con la riforma sia idoneo a garantire al p.m. l'assolvimento dei compiti previsti dall'art. 112 della Costituzione che, dunque, ne risulta violato. E) Parte della dottrina ha sostenuto, a giustificazione della riforma con la eliminazione del potere di appello del p.m. avverso le sentenze di proscioglimento pronunziate in primo grado, che esso sarebbe giustificato dalla necessita' di evitare di esporre l'imputato al pericolo di un ribaltamento della decisione del primo giudice, davanti al quale si sono formate, nel contraddittorio delle parti, le prove, da parte di un giudice (di appello) che solo eccezionalmente procede alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale (essendo l'attuale appello solo una revisione del primo giudizio e non un giudizio nuovo). E' del tutto evidente che questa obiezione non puo' riguardare il caso della sentenza del g.u.p. ex art. 428 c.p.p. in cui ancora non vi e' stata alcuna formazione della prova, nella sua pienezza, davanti al giudice del dibattimento, ma solo una valutazione della sua idoneita' a sostenere l'ipotesi dell'accusa. Sotto questo profilo il sistema precedente alla riforma era perfettamente coerente perche' all'esito del giudizio di appello questo giudice si limitava ad emettere il decreto di citazione davanti al giudice di primo grado che, nel contraddittorio delle parti, avrebbe poi proceduto al giudizio per la verifica della responsabilita' o meno dell'imputato. E' giocoforza allora concludere che nella riforma non si intravede nessun scopo diverso da quello di privare, puramente e semplicemente, il pubblico ministero del potere di appellare le sentenze di non luogo a procedere, che costituiscono la negazione addirittura della idoneita' della sua pretesa punitiva a avere un possibile esito positivo nel giudizio di primo grado, operando una diminuzione dei poteri processuali di quella parte senza rispettare alcun canone di ragionevolezza, non essendo la pronunzia del g.u.p. pronunziata a seguito di contraddittorio pieno sulle prove. G) Nel momento in cui si incide sul potere processuale di una delle parti del processo, deve esistere un altro interesse che giustifichi quella privazione, come si ricava dalle pronunzie della Corte Costituzionale sulla questione della legittimita' degli artt. 443 comma 3 e 595 c.p.p. nella parte in cui non consentono al p.m. di proporre appello, sia in via principale, che in via incidentale avverso le sentenze di condanna, emesse a seguito di giudizio abbreviato. E' noto che in proposito il giudice delle leggi ha ritenuto ragionevole che il potere di impugnazione del p.m. possa cedere rispetto all'obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito abbreviato in base, cioe', ad una decisione: richiesta dall'imputato che ha rinunziato all'istruzione dibattimentale; fondata, di conseguenza, sul materiale probatorio raccolto dal p.m. nel corso delle indagini preliminari e, dunque, dalla parte che subisce la successiva limitazione in termini di appello; decisione che, comunque, ha visto realizzare la pretesa punitiva fatta valere (sen. 98 del 1994; ord. 421/2001, sent. 115/2001; ord. 46/ 2004). Proprio la mancata, parziale realizzazione della pretesa punitiva ha consentito, al contrario, di ritenere costituzionalmente legittimo il potere del p.m. di impugnare una sentenza di condanna nel processo conclusosi con il rito abbreviato se l'impugnazione riguarda il titolo del reato. In questo caso, come in quella sentenza emessa a seguito di patteggiamento, anch'essa inappellabile, il ricorso alla prova contratta, l'attuazione del principio di economia processuale e, soprattutto, la realizzazione della pretesa punitiva di cui il p.m. e' portatore nell'interesse della collettivita', giustificano la contrazione del potere di iniziativa della parte pubblica, cosi' come, nel caso delle sentenze del giudice di pace, e' la minore offensivita' dei reati che ne sono oggetto a giustificare la scelta legislativa. Non si individua, invece, alcuna ragione che possa giustificare la privazione del potere del p.m. di impugnare una sentenza che gli impedisce di accedere alla fase del giudizio senza che questa sua privazione sia conseguenza del raggiungimento di altri piu' importanti obiettivi processuali. H) Anche la normativa transitoria dettata con l'art. 10, applicabile anche alle sentenze ex art. 425 c.p.p., presenta un evidente profilo di incostituzionalita' ex art. 111, secondo comma Cost. essendo innegabile che per i procedimenti in corso nei quali sia stata gia' proposto l'appello ex art. 428 c.p.p., non appare giustificata, anche in termini di ragionevole durata del processo, una dilazione dei termini cosi' come stabiliti dalla norma: dichiarazione di inammissibilita', proposizione ricorso per cassazione entro il termine di giorni 45 (ove ne sussistano i presupposti), celebrazione del giudizio di Cassazione, eventuale accoglimento con giudizio di rinvio al giudice dell'udienza preliminare, fissazione della nuova udienza innanzi al g.u.p., decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio. Se tale innegabile ritardo - peraltro in presenza di disposizioni legislative che hanno ridotto il termine per l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione - e' comunque evidente per la nuova disciplina a regime pieno (sentenza g.u.p. ex art. 425 c.p.p., ricorso in Cassazione, eventuale annullamento con rinvio al g.u.p., nuova udienza preliminare e nuova decisione) assume i caratteri propri della irragionevolezza e comunque della incostituzionalita', sotto il profilo evidenziato, quantomeno in relazione a quei processi, come quello in esame, nei quali il giudice, nella specie la Corte di appello, avrebbe dovuto solo esprimere nell'immediatezza la sua decisione circa l'eventuale rinvio a giudizio dell'imputato con fissazione dell'udienza innanzi al tribunale. I) Una ulteriore irrazionalita', che specificamente interessa il caso di specie, si coglie nel fatto il sistema da un lato accorda al privato che intenda ottenere il risarcimento del danno subito dal delitto una tutela rafforzata dal doppio grado di merito, anche nella fase transitoria e, dall'altro, sottrae questa stessa tutela al pubblico ministero, che pure e' titolare dell'azione a maggior valenza difensiva dell'interesse fondamentale leso dal comportamento delittuoso. Sotto questo profilo emerge altresi' la palese irrazionalita' della disciplina transitoria (art. 10) che, non annoverando l'appello della parte civile tra quelli di cui occorre dichiarare l'inammissibilita', a differenza di quello proposto dal p.m., costringe il giudice di appello a decidere solo l'appello della parte civile (che, ovviamente, presuppone un giudizio sulla sussistenza del fatto di reato da cui consegue anche la responsabilita' civile), mentre altro giudice, in altro successivo momento processuale, potrebbe giungere, giudicando l'appello del p.m., a conclusioni diverse, confermando l'assoluzione, con buona pace dei principi di efficienza e di razionalita' del sistema, nonche' di quello di ragionevole durata del processo.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 428 c.p.p., come modificato dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006 n. 46 e dell'art. 10 della stessa legge per contrasto con gli articoli 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale Manda alla cancelleria perche' la presente ordinanza sia notificata al sig. Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai sig. ri Presidenti dei due rami del Parlamento; Sospende sino all'esito il giudizio in corso. Salerno, addi' 11 giugno 2007 Il Presidente: D'Elicio 07C1315