N. 16 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 8 novembre 2007- 25 marzo 2008
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) depositato in cancelleria il 25 marzo 2008 (della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi) Radiotelevisione e servizi radioelettrici - Richiesta e votazione nell'Assemblea degli azionisti RAI da parte del Ministro dell'economia e delle finanze d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri della revoca di consigliere di amministrazione della RAI - Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nei confronti del Ministro dell'economia e delle finanze e del Presidente del Consiglio dei ministri - Denunciata violazione della disciplina costituzionale dell'informazione e della «parlamentarizzazione» della RAI - Violazione del principio di leale collaborazione - Richiesta alla Corte di dichiarare la non spettanza al Ministro dell'economia e delle finanze, anche d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri, di richiedere e votare, nell'Assemblea degli azionisti RAI-Radiotelevisione italiana, la revoca di un consigliere di amministrazione in assenza di conforme deliberazione adottata dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e di annullamento della proposta di revoca presentata dal Ministro in data 11 maggio 2007 e di tutti gli atti ad essa connessi e conseguenti. - Proposta di revoca del Ministro dell'economia e delle finanze dell'11 maggio 2007. - Costituzione, art. 21.(GU n.15 del 2-4-2008 )
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ai sensi dell'art. 134, comma 2, Cost., dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, e dell'art. 26 delle Norme integrative per i giudizi di fronte alla Corte costituzionale recate con delibera 16 marzo 1956, promosso dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, in persona del suo Presidente pro tempore on. Mario Landolfi autorizzato con deliberazione della Commissione approvata nella seduta del 26 settembre 2007, rappresentata e difesa, come da mandato a margine del presente atto, dal prof. avv. Beniamino Caravita di Toritto e presso il suo studio elettivamente domiciliata in Roma, via di Porta Pinciana, 6; Contro il Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore, nonche' contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore affinche' dichiari che non spetta al Ministro dell'economia e delle finanze, anche d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri, richiedere e votare nell'Assemblea degli azionisti della RAI - Radio Televisione Italiana S.p.A., societa' concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico, la revoca di un consigliere di amministrazione in assenza di conforme deliberazione adottata dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e, per l'effetto, annulli la proposta di revoca presentata dal Ministro in data 11 maggio 2007 e, per quanto occorrer possa, tutti gli atti ad essa connessi e conseguenti. F a t t o Il conflitto di poteri qui sollevato trae origine dalla violazione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. E' indiscusso che la Commissione sia titolare di rilevantissimi poteri di indirizzo e vigilanza sui servizi radiotelevisivi, dal momento che l'attivita' radiotelevisiva pubblica non puo' essere considerata appannaggio esclusivo delle scelte della maggioranza politica, ma deve essere svolta in modo conforme all'indirizzo politico costituzionale, che fa della libera circolazione delle idee e del pluralismo culturale uno degli assi portanti dell'ordinamento. Tali funzioni di indirizzo e vigilanza sono state attribuite all'organo parlamentare - organo che, proprio in virtu' del suo carattere, si pone come soggetto rappresentativo della comunita' nazionale - in considerazione dei caratteri di imparzialita', democraticita' e pluralismo che devono informare lo svolgimento dell'attivita' del servizio pubblico radiotelevisivo. La lesione delle attribuzioni della Commissione di vigilanza si e' verificata in occasione della revoca di un componente del Consiglio di amministrazione della RAI da parte dell'Assemblea degli azionisti della RAI, effettuata su richiesta del Ministro dell'economia e delle finanze nella sua qualita' di azionista di maggioranza, revoca avvenuta in mancanza della previa necessaria deliberazione della Commissione parlamentare di vigilanza, prevista dalla legge proprio in ragione delle prerogative parlamentari sul servizio pubblico radiotelevisivo. Che la Commissione di vigilanza debba essere parte attiva della procedura di revoca di un consigliere emerge con ogni evidenza sia dalla lettera della legge, sia in ossequio ad un assetto costituzionale che, cosi' come concretizzato e interpretato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ha sempre salvaguardato le attribuzioni dell'organo parlamentare nelle scelte strategiche riguardanti la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo. Cio' risulta chiaramente dall'art. 49, comma 8, del Testo unico della radiotelevisione, ove si prevede che «il rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze, nelle assemblee della societa' concessionaria convocate per l'assunzione di deliberazioni di revoca o che comportino la revoca o la promozione di azione di responsabilita' nei confronti degli amministratori, esprime il voto in conformita' alla deliberazione della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi comunicata al Ministero medesimo». Del resto, questa e' soltanto una delle molteplici testimonianze del fatto che il nostro ordinamento si ispiri, ormai da oltre un trentennio, alla ratio - sempre confermata dalla giurisprudenza costituzionale - di mantenere nell'ambito parlamentare le funzioni inerenti l'indirizzo generale e la vigilanza del servizio radiotelevisivo pubblico, escludendo nella gestione dello stesso un'ingerenza diretta ed esclusiva dell'Esecutivo. Sin dalla nascita del servizio pubblico radiotelevisivo si e' infatti sempre inteso scongiurare il rischio di una gestione «di parte» (quale sarebbe una gestione appannaggio esclusivo dell'Esecutivo) che desse spazio alle posizioni e agli interessi della sola «maggioranza», e non anche a tutte le altre posizioni rappresentate nel Parlamento democraticamente eletto. Le opposte argomentazioni presentate dal Ministro dell'economia e delle finanze, emerse gia' da documenti ufficiali del Ministero nonche' in occasione di diverse audizioni in Commissione di vigilanza, sono palesemente infondate, cosi' come i concreti atteggiamenti dello stesso Ministro appaiono irrispettosi del ruolo della Commissione parlamentare. E' allora anzitutto opportuno ripercorrere brevemente i principali momenti di emersione del conflitto. E invero, gia' con lettera del 18 gennaio 2007 (prot. n. 237, v. doc. n. 1), indirizzata al Ministro dell'economia e delle finanze, il Presidente della Commissione richiamava l'attenzione sull'esigenza istituzionale di porre in essere ogni iniziativa utile al piu' corretto esercizio del ruolo attribuito alla Commissione, non riducibile ad una generica funzione di vigilanza, ma necessariamente esteso all'indicazione del voto che l'azionista di maggioranza deve esprimere nel caso di assemblea sociale convocata per la revoca degli amministratori (secondo quanto previsto dall'art. 49, comma 8, del Testo unico della radiotelevisione). Nella medesima nota il Presidente dell'organo parlamentare rappresentava la convinzione che spettasse alla Commissione la valutazione e la comparazione di quegli interessi pubblici che entrano inevitabilmente in gioco quando si presenta la necessita' di revocare un consigliere, al fine di garantire il corretto adempimento delle finalita' e degli obblighi del servizio pubblico radiotelevisivo. A fronte di un'ulteriore comunicazione del Presidente dell'organo parlamentare, inviata al Ministero in data 6 febbraio (prot. n. 292, v. doc. n. 2), che ribadiva quanto precedentemente espresso e sollecitava una risposta, il Ministro dell'economia e delle finanze finalmente rompeva il silenzio e palesava la propria posizione, riconoscendo la partecipazione della Commissione parlamentare di vigilanza al solo procedimento di nomina, ma non anche a quello di revoca o di responsabilita' degli amministratori. Il presupposto addotto dal Ministro fa leva su un criterio di interpretazione letterale del comma 10 dell'art. 49 del Testo unico della radiotelevisione, che rinvierebbe espressamente l'entrata in vigore delle disposizioni dei precedenti commi 1-9 del medesimo articolo al «novantesimo giorno successivo alla data di chiusura della prima offerta pubblica di vendita». La disposizione prosegue precisando che «ove, anteriormente alla predetta data, sia necessario procedere alla nomina del Consiglio di amministrazione (...) a cio' si provvede secondo le procedure di cui ai commi 7 e 9». Secondo il Ministro, il rinvio alle procedure dei soli commi 7 e 9 impedirebbe di applicare le previsioni recate dal comma 8, che richiedono, per l'assunzione di deliberazioni di revoca, che il voto del rappresentante del Ministero sia espresso in conformita' alla deliberazioni adottata sul punto dalla Commissione parlamentare (v. doc. n. 3, prot. n. 311). Come vedremo ampiamente piu' avanti, si tratta di una interpretazione formalistica e certamente contraria alla ratio della disciplina recata dal Testo unico della radiotelevisione, palesemente ispirata allo scopo di garantire le prerogative dell'organo parlamentare ogniqualvolta si presentino occasioni che possano compromettere il pluralismo dell'informazione e l'utilizzo democratico dello strumento radiotelevisivo, come chiaramente riaffermato dal Presidente della Commissione nella nota del 9 febbraio indirizzata al Ministro (prot. n. 313, v. doc. n. 4). In verita', non si tratta della sola non applicazione del comma 8 in materia di revoca: e' chiaro, infatti, che se l'intera serie delle disposizioni oggetto del differimento di entrata in vigore (cioe' commi 1-9 dell'art. 49 del T.U.) dovesse ritenersi al momento del tutto inefficace, risulterebbero inapplicabili anche altre significative norme indispensabili per l'attivita' della societa' concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo (quale ad es. quella del comma 1, che legittima lo stesso rilascio della concessione). In ogni caso, l'11 maggio 2007 il Presidente del Consiglio, sollecitato da una lettera del Ministro dell'economia e delle finanze, comunicava al Presidente della Commissione la necessita' di sostituire il consigliere di amministrazione RAI di nomina ministeriale, prof. Angelo Maria Petroni, essendo ormai venuto meno il rapporto fiduciario posto alla base della sua designazione. A sostegno di tale iniziativa, si adduceva l'esistenza di «una condizione di grave e perdurante criticita' gestionale della Societa', riconducibile a difficolta' di funzionamento del Consiglio di amministrazione e alla costante divaricazione tra il Consiglio di amministrazione stesso e il direttore generale» (prot. n. 533, doc. n. 6). Il coinvolgimento del Presidente del Consiglio dei ministri appare, come si vedra', di particolare rilievo, anche sotto il profilo processuale. Il 16 maggio il Consiglio di amministrazione della RAI, su richiesta formulata dal Ministero dell'economia e delle finanze, convocava l'Assemblea degli azionisti per il 4 giugno in prima convocazione e per il 5 giugno in seconda, per deliberare in merito alla revoca del consigliere e provvedere alla sua sostituzione. Il 29 maggio il Presidente della Commissione comunicava al Ministro la propria intenzione di convocare quanto prima l'organo parlamentare, al fine di assumere la necessaria deliberazione per la revoca, a norma del comma 8 dell'art. 49 del T.U. (prot. n. 571, doc. n. 9). Tuttavia, l'iter della proposta di revoca iniziava e proseguiva con la convocazione dell'Assemblea degli azionisti della RAI da parte del Consiglio di amministrazione, senza che alla Commissione ne fosse data comunicazione formale. Il successivo 5 giugno l'Assemblea degli azionisti veniva aggiornata all'11 giugno per tener conto di quanto sarebbe stato deciso dal Tribunale amministrativo regionale Lazio in ordine all'istanza cautelare medio tempore presentata dal consigliere Petroni. In data 7 giugno 2007 il Tribunale amministrativo regionale Lazio sospendeva in via provvisoria e cautelare la convocazione. Tuttavia, in data 31 luglio 2007, il Consiglio di Stato annullava, in sede d'appello, la sospensione della procedura di revoca disposta dal T.a.r. Il successivo l° agosto il Presidente della Commissione interpellava per iscritto (prot. n. 679, doc. n. 12) il Ministro dell'economia e delle finanze per verificare la sua intenzione di tener ferma la proposta di revoca. In particolare il Presidente della Commissione comunicava che, in ragione del considerevole lasso di tempo intercorso dall'ultima audizione del Ministro dell'economia e delle finanze e degli eventi nel frattempo verificatisi, la Commissione riteneva utile una nuova audizione del Ministro e del Presidente della Rai, allo scopo di accertare la persistenza delle ragioni allora addotte per la revoca e al fine di consentire alla Commissione di assumere le necessarie deliberazioni previste dall'art. 49, comma 8 del Testo unico della radiotelevisione. A tal fine, in considerazione dell'imminente sospensione estiva dei lavori parlamentari, comunicava piena disponibilita' ad una convocazione della Commissione anche durante il detto periodo di sospensione estiva, tale lettera, pero', rimaneva senza risposta. Il 2 agosto il Ministro inviava una nuova richiesta al Consiglio di amministrazione per la convocazione di un'assemblea per la revoca del consigliere Petroni. Il Consiglio di amministrazione, convocato l'8 agosto, non riusciva tuttavia a deliberare la convocazione dell'assemblea per il mancato raggiungimento del quorum costitutivo. Anche nel successivo Consiglio di amministrazione; convocato per il 20 agosto, mancava il quorum costitutivo. Per risolvere la situazione di stallo, il collegio sindacale, agendo ai sensi dell'art. 2367 del Codice civile, convocava l'Assemblea degli azionisti il 10 settembre, in prima convocazione, e l'11 settembre in seconda. Dopo aver appreso, soltanto in via informale, che l'Assemblea degli azionisti della RAI era stata nuovamente convocata per i giorni 10 ed 11 settembre 2007, il Presidente della Commissione si adoperava per garantire l'esercizio delle funzioni dell'organo parlamentare. A tale scopo, convocava la Commissione per i giorni 4, 5 e 6 settembre, nel tentativo di richiamare l'attenzione del Governo sulla necessita' di rispettarne le attribuzioni costituzionalmente riconosciute. In particolare, la seduta del 5 settembre veniva convocata per l'audizione del Ministro, tuttavia non intervenuto. La successiva seduta del 6 settembre, invece, veniva convocata per la deliberazione sulla proposta di revoca, ma la Commissione non raggiungeva il numero legale. Circostanza comunque irrilevante, dal momento che il Governo non ha mai mostrato ripensamenti sulla propria posizione negativa, non ha mai informato la Commissione, non ha mai messo in atto comportamenti idonei a manifestare l'intenzione di rispettare le attribuzioni della Commissione di vigilanza nel procedimento di revoca. Tant'e' vero che, pur potendo attendere una nuova convocazione dell'organo parlamentare, il Ministro ha scelto di portare avanti l'iter procedurale, incurante della imprescindibile necessita' di garantire alla Commissione di vigilanza l'esercizio delle sue attribuzioni (specie in occasione di un evento potenzialmente idoneo a compromettere le garanzie di democraticita' ed imparzialita' dell'informazione radiotelevisiva, quale e' la revoca di un consigliere di amministrazione per unilaterale iniziativa dell'Esecutivo). Nella giornata di lunedi' 10 settembre, l'Assemblea degli azionisti della RAI procedeva cosi' alla revoca del consigliere prof. Angelo Maria Petroni ed alla sua sostituzione con il dott. Fabiano Fabiani. Il complessivo comportamento tenuto dal Ministro dell'economia e delle finanze e, per quanto rileva, sia sostanzialmente che processualmente, dal Presidente del Consiglio dei ministri - comportamento culminato nel provvedimento di revoca assunto senza attendere la deliberazione della Commissione di vigilanza - appare gravemente lesivo delle competenze costituzionalmente garantite della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi per le seguenti ragioni di D i r i t t o 1) Il parametro costituzionale del conflitto: la disciplina costituzionale dell'informazione e la «parlamentarizzazione» della RAI. Nel settore dell'informazione in generale, il fine costituzionalmente imposto deve individuarsi nell'obiettivita' da raggiungersi attraverso la garanzia del pluralismo delle fonti notiziali. Come tradizionalmente osservato in dottrina, il principio del pluralismo informativo e' quello che assume un'importanza preminente dal punto di vista logico e sistematico nell'interpretazione dell'art. 21 della Costituzione che, certamente, costituisce il primo fondamento costituzionale anche per l'attivita' radiotelevisiva (cfr. gia' A. Loiodice, Informazione (diritto alla), ad vocem, Enc. del Diritto, Milano 1971). E, d'altronde, e' stato sostenuto che nelle statuizioni sui mezzi di diffusione del pensiero, l'unico limite assoluto e' che non sia riservato l'uso di un mezzo in generale solo a manifestazioni di un determinato contenuto (cfr. C. Esposito, La liberta' di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano 1958). E' quindi il pluralismo la condizione indispensabile per raggiungere l'obiettivita' dell'informazione. Un siffatto principio, tradotto nell'ambito dell'attivita' radiotelevisiva pubblica comporta che essa non puo' essere considerata appannaggio esclusivo delle scelte di maggioranza (sia pure sotto il controllo parlamentare), ma richiede un adeguato contemperamento di tutti gli interessi in gioco alla luce dell'indirizzo politico costituzionale. E' ben noto come, a livello legislativo, l'affermazione della centralita' del Parlamento nel governo del sistema radiotelevisivo pubblico sia da attribuire alla legge n. 103 del 1975, mentre la giurisprudenza costituzionale, negli stessi anni, attribuiva un ruolo primario all'organo direttamente rappresentativo della collettivita' nazionale, a garanzia del pluralismo e dell'imparzialita' dell'informazione diffusa attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Sul punto, nella storica sentenza n. 224 del 1975 si legge che «la radiotelevisione adempie a fondamentali compiti di informazione, concorre alla formazione culturale del paese, diffonde programmi che in vario modo incidono sulla pubblica opinione e percio' e' necessario che essa non divenga strumento di parte». Sulla base di questa premessa, codesta ecc.ma Corte ha prescritto nei confronti del legislatore ordinario una serie di «comandamenti» volti a garantire un servizio radiotelevisivo pubblico, il cui «esercizio sia preordinato a due fondamentali obiettivi: a trasmissioni che rispondano alla esigenza di offrire al pubblico una gamma di servizi caratterizzata da obbiettivita' e completezza di in formazione, da ampia apertura a tutte le correnti culturali, da imparziale rappresentazione delle idee che si esprimono nella societa'; a favorire, a rendere effettivo ed a garantire il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici». Cio' comporta che «in mancanza di una disciplina legislativa che imponga queste due linee direttive e che predisponga gli strumenti all'uopo adeguati, il mezzo radiotelevisivo, posto nella libera disponibilita' di chi lo gestisce, rischia (...) di essere un poderoso strumento a servizio di parte, non certo a vantaggio della collettivita'. In altri termini, il monopolio pubblico, una volta libero da ogni regola che correttamente ed efficientemente ne disciplini l'esercizio, potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». Codesta ecc.ma Corte, lungi dal voler «esprimere alcun giudizio sul modo col quale i mezzi radiotelevisivi sono stati (...) gestiti», mossa invece dall'intenzione di «adempiere al suo dovere di accertare quali siano le condizioni minime necessarie perche' il monopolio statale possa essere considerato conforme ai principi costituzionali», ha individuato i cardini della nuova e necessaria disciplina legislativa di riordino del sistema radiotelevisivo nei seguenti principi informatori: a) «che gli organi direttivi dell'ente gestore (si tratti di ente pubblico o di concessionario privato purche' appartenente alla mano pubblica) non siano costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo e che la loro struttura sia tale da garantirne l'obiettivita»; b) «che vi siano direttive idonee a garantire che i programmi di informazione siano ispirati a criteri di imparzialita' e che i programmi culturali, nel rispetto dei valori fondamentali della Costituzione, rispecchino la ricchezza e la molteplicita' delle correnti di pensiero»; c) «che per la concretizzazione di siffatte direttive e per il relativo controllo siano riconosciuti adeguati poteri al Parlamento, che istituzionalmente rappresenta l'intera collettivita' nazionale». E' dunque nella sentenza n. 225 del 1974 che codesta ecc.ma Corte ha previsto, in termini espliciti, l'attribuzione al Parlamento (o, se del caso, ad un suo organo interno) del compito di specificare le direttive, gia' contenute in linea generale dalla legge, volte a garantire la imparzialita' ed il pluralismo e di effettuare il relativo controllo. Ma cio' che rende tale pronuncia determinante per l'affermazione della essenzialita' del ruolo del Parlamento e' la circostanza che la Corte non si e' voluta fermare alla mera enunciazione di principio: ammonita dall'esperienza delle leggi allora in vigore, «palesemente insufficienti ad assicurare serie direttive in ordine ai programmi ed a consentire un efficiente controllo del Parlamento», ha richiesto il riconoscimento di «adeguati poteri» a favore dell'organo rappresentativo della collettivita' nazionale. Questa decisione, nell'enunciare la stretta connessione tra pluralismo dell'informazione ed indipendenza del servizio pubblico di radiotelevisione dall'Esecutivo, ha definitivamente aperto la strada verso la «parlamentarizzazione» del sistema radiotelevisivo pubblico, spostando il centro di determinazione delle scelte generali in tale settore a favore dell'organo rappresentativo della collettivita' nazionale. In tal modo, secondo autorevole dottrina, la sentenza n. 225 del 1974 (unitamente alla successiva n. 226) ha impresso un'accelerazione decisiva al dibattito parlamentare sulla riforma della disciplina del monopolio pubblico radiotelevisivo (cfr. P. Caretti, Diritto pubblico dell'informazione, Bologna 1994), concretizzatasi nell'approvazione della legge n. 103 del 1975. Tale provvedimento ha segnato, sul piano normativo, il primo e concreto tentativo di abbandonare la storica ingerenza dell'Esecutivo in materia radiotelevisiva, attraverso l'attribuzione di una serie di competenze gestionali e di controllo alla Commissione bicamerale gia' attiva in questo settore dal 1947 (D. lgs. C. P. S. 3 aprile 1947, n. 428), che con la legge n. 103 assunse la denominazione di Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. La suddetta Commissione veniva dunque investita di significativi poteri di influenza (come quelli di indirizzo generale, di determinazione del tetto pubblicitario, etc.) sull'unico polo radiotelevisivo allora riconosciuto dall'ordinamento (quello pubblico operante in regime di monopolio); venivano cosi' attratti in area parlamentare i poteri di nomina di una parte rilevante del Consiglio di amministrazione della Concessionaria pubblica. In definitiva, veniva acquisito il principio della centralita' del Parlamento nell'area di quella vasta serie di scelte, determinazioni, indirizzi, controlli, che concorrono a vario titolo al «governo» del sistema. Nella giurisprudenza costituzionale successiva torna spesso la definizione della radiodiffusione sonora e televisiva su scala nazionale come «servizio pubblico essenziale e di preminente interesse generale» (sent. n. 202 del 1976, v. anche sent. n. 7 del 1995). Ma ancor di piu' e' sottolineata la necessita' di un sistema imparziale e aperto al pluralismo. Nella sentenza n. 148 del 1981 codesta ecc.ma Corte ha affermato che «non si puo' minimamente dubitare che, nell'attuale contesto storico, la radiotelevisione soddisfi un bisogno essenziale della collettivita' e che, pertanto, essa debba qualificarsi un servizio pubblico essenziale, caratterizzato da quel preminente interesse generale che la norma costituzionale dell'art. 43 richiede perche' legittimamente possa esserne disposta la riserva allo Stato, senza per questo essere incompatibile con l'art. 21 Costituzione, dato che il monopolio pubblico deve essere inteso e configurato come necessario strumento di allargamento dell'area di effettiva manifestazione della pluralita' delle voci esistenti nella nostra societa». Richiamate ancora una volte le precedenti sentt. n. 225 e 226 del 1975, la Corte ha invero approfondito la propria analisi al riguardo esplicitamente affermando: «1) che la radiotelediffusione adempie a fondamentali compiti di informazione; 2) che concorre alla formazione culturale del paese; 3) che diffonde programmi che in vario modo incidono sulla pubblica opinione»; ed ha concluso essere percio' necessario «che essa non divenga strumento di parte». Il termine «parlamentarizzazione» compare espressamente nella successiva sentenza n. 194 del 1987, dove si legge che «non puo' negarsi che il servizio radiotelevisivo (definito dalla legge come servizio pubblico essenziale a carattere di preminente interesse generale in evidente riferimento alla problematica della legittimita' della riserva statale sotto il profilo di cui agli artt. 41 e 43 Cost.) e' un servizio sociale, in quanto diretto ad assicurare, agevolando la circolazione delle idee, l'effettivita' della libera manifestazione del pensiero e della libera informazione, considerate come due aspetti essenziali ed inscindibili di un unico valore costituzionalmente protetto in via primaria dall'art. 21 Cost. [...]». In questa circostanza la Corte ha inoltre affermato che il servizio radiotelevisivo, qualificato come servizio sociale, si connota per il suo elevato grado di democraticita' rappresentativa derivante «dalla sua strutturazione nell'orbita del Parlamento ("parlamentarizzazione")», e ha aggiunto che questo dato obiettivo non vale a «sottrarre il suo funzionamento ad ogni sindacato esterno senza danno o pericolo per quel valore che il servizio e' volto a promuovere in relazione a tutte le manifestazioni del pluralismo sociale e ideologico, ivi comprese, ed anzi particolarmente, quelle minoritarie o addirittura non aventi voce in Parlamento». Ecco, quindi, che la disciplina dei mass-media, ed in particolare della radiotelevisione, deve essere funzionalizzata non solo alla tutela della liberta' di espressione, ma anche alla garanzia della liberta' di informazione e al piu' ampio pluralismo. Si tratta di condizioni che non possono che essere garantite dal Parlamento, e dagli organi istituzionalmente chiamati ad esprimere la sua volonta', quale potere rappresentativo dei diversi e numerosi interessi presenti nella societa' e incarnazione del principio democratico. Il Parlamento, in quanto espressione e sintesi della partecipazione popolare alla politica, costituisce la sede istituzionale naturale nella quale il principio pluralista, che deve informare l'intero settore radiotelevisivo pubblico trova la piu' efficace garanzia, sia con riferimento all'accesso delle formazioni sociali all'uso dei mezzi radiotelevisivi, sia con riguardo a meccanismi che garantiscano la presenza di una pluralita' di fonti di informazione. Proprio tale organo, e per esso la Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, viene al contrario svalutato ed emarginato dall'azione del Ministro dell'economia e delle finanze. La «parlamentarizzazione» del servizio radiotelevisivo - caratteristica in forza dalla quale, come ha affermato codesta ecc.ma Corte, tale servizio e' messo in condizione di connotarsi in senso pienamente democratico e rappresentativo del piu' ampio pluralismo - implica la doverosa vigilanza da parte dell'organo parlamentare su tutte le vicende relative alla RAI da cui potrebbero derivare conseguenze negative per la libera manifestazione del pensiero e per la libera informazione. Vigilanza che non si limita ad un generico controllo sulle modalita' di accesso e di espressione dell'informazione resa al pubblico, ma che si estende necessariamente a qualunque attivita' suscettibile di interferire con i meccanismi di funzionamento dell'ente incaricato di prestare il servizio radiotelevisivo. E' inutile negare che l'avvento delle televisioni private ha modificato la situazione: oggi il pluralismo da garantire e da difendere non e' piu' solo quello «interno», ma anche quello «esterno». E' innegabile che le regole dettate dalla Corte sulla parlamentarizzazione della televisione pubblica rispondono ad una insopprimibile esigenza di tutela del pluralismo interno, che appare, oggi come ieri e anche in un assetto futuro, costituzionalmente necessaria. Occorre ora soffermarsi sulla legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e, a seguire, sulla legittimazione passiva del Ministro dell'economia e delle finanze e del Presidente del Consiglio dei ministri. 2) Legittimazione al conflitto della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. In base all'art. 37 della legge n. 87 del 1953 il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato puo' insorgere tra «organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali». In realta', non e' possibile indicare un elenco finito dei poteri dello Stato, che non costituiscono un numerus clausus, non solo per la costante evoluzione della giurisprudenza costituzionale, ma anche in ragione dell'ampia possibilita' di «frammentazione» delle attribuzioni costituzionali, utili ad individuare un potere se combinate con le specifiche competenze e consuetudini pratiche che concretamente caratterizzano le attivita' dei singoli organi. Il concetto di «potere dello Stato» ha formato oggetto di un'interpretazione estensiva, al punto che un'ormai consolidata giurisprudenza costituzionale fa rientrare tra i soggetti legittimati al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sia i cc.dd. poteri-organo, cioe' i poteri che si risolvono strutturalmente in un solo organo e che non sono riconducibili alla tradizionale tripartizione, sia i cc.dd. organi-poteri, ovvero gli organi che detengono un potere diffuso ovvero che, pur facendo parte di piu' vasti complessi organizzatori, si configurano come poteri a se' stanti a causa di una loro posizione sostanzialmente autonoma nel sistema costituzionale. Infatti, codesta ecc.ma Corte ha precisato che «la cerchia degli organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta' del potere» a cui appartengono e' piu' ampia di quella degli organi comunemente indicate come «supremi» (cosi' nelle ordd. nn. 228 e 229 del 1975); inoltre nella sentenza n. 231 del 1975, codesto ecc.mo Giudice delle leggi ha rilevato come «l'art. 37 della legge n. 87 del 1953, nel definire i conflitti tra poteri la cui risoluzione spetta alla Corte costituzionale, non muove dal criterio della definitivita' degli atti che ne possono essere all'origine, che' anzi in tali conflitti (...) un atto puo' addirittura mancare, essendo sufficiente a determinarli un mero comportamento, anche omissivo; ma designa gli organi legittimati a sollevarli e a resistervi alla stregua della loro capacita' di impegnare l'intero potere» ed ha precisato che la norma, in tale ordine di idee, non fa riferimento «agli organi che in concreto abbiano dichiarato definitivamente la volonta' del potere, quanto invece agli organi a cio' "competenti", vale a dire che ne abbiano l'astratta possibilita». Con particolare riferimento al potere legislativo, codesta ecc.ma Corte ha riconosciuto la legittimazione al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ai singoli organi parlamentari, sempreche' godano di autonomia nell'esercizio delle proprie funzioni. Di conseguenza le Commissioni parlamentari che siano titolari di specifiche attribuzioni, autonomamente esercitate sono organi legittimati al conflitto, in quanto organi-potere che, pur facendo parte del piu' vasto complesso organizzatorio del Parlamento, occupano tuttavia una posizione peculiare e distinta nel sistema costituzionale e sono in grado di dichiarare la volonta' dell'organo di cui sono promanazione. D'altra parte, in settori differenti, ma pur sempre nell'ambito parlamentare, la legittimazione al conflitto e' stata riconosciuta, per esempio, alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, atteso che «alle Commissioni d'inchiesta deve riconoscersi, (ed e' positivamente riconosciuta) un'amplissima autonomia, tanto piu' quando (...) siano istituite con legge e senza prefissione di termini, quindi destinate a durare oltre le singole legislature» (sent. n. 231 del 1975). E' ben vero che la legittimazione per le commissioni di inchiesta trova copertura nei poteri previsti esplicitamente dall'art. 82 della Costituzione; tuttavia sin dalla sua nascita, avvenuta come ricordato con d.lgs. C. P. S. 3 aprile 1947, n. 428, alla Commissione di vigilanza sono stati attribuiti incisivi poteri sul sistema radiotelevisivo pubblico ed essa ha costituito lo strumento istituzionale attraverso cui il Parlamento ha esercitato le proprie prerogative di indirizzo generale e di controllo nel settore della radiotelevisione. In particolare, per la Commissione di vigilanza i poteri sono definiti dall'art. 50 del T.U. della radiotelevisione. Per quanto qui interessa, codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto occasione di precisare che la Commissione di vigilanza e' «organo competente a dichiarare definitivamente la volonta' della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in una materia che, come nella specie, attiene direttamente all'informazione» (ord. n. 171 del 1997; v. anche la successiva ord. n. 137 del 2000). Del resto, gli atti di indirizzo della Commissione parlamentare nei confronti del servizio pubblico radiotelevisivo «sono intesi ad assicurare, in tale servizio, la realizzazione del principio del pluralismo e sono pertanto espressione di una attribuzione costituzionale» (sent. n. 49 del 1998). Tali argomentazioni consentono, dunque, di ritenere che nel caso di specie la legittimazione ad essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato debba essere riconosciuta alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Sono proprio i poteri di indirizzo, di controllo, di vigilanza e le altre competenze direttamente connesse al valore costituzionale del pluralismo a giustificare il compiuto riconoscimento delle attribuzioni di rilevanza costituzionale dell'organo bicamerale. Se a cio' si aggiunge, da un lato, l'ampio margine di discrezionalita' di cui la Commissione gode nell'esercizio delle sue attribuzioni e, sotto altro profilo, il carattere compiutamente parlamentare dell'organo - che gli attribuisce sicura competenza ad esprimere la volonta' dell'organo supremo da cui promana - la legittimazione della Commissione stessa quale parte del conflitto tra poteri, nella prospettiva gia' accolta da codesta ecc.ma Corte, appare con tutta evidenza. 3) In relazione alla legittimazione all'interno di un conflitto tra poteri dello Stato da parte del potere esecutivo, e' noto che codesta ecc.ma Corte ha tradizionalmente assunto un atteggiamento alquanto rigoroso. Di fronte, infatti, alla posizione complessiva del Governo e alla vasta gamma di poteri e funzioni da esso esercitate nelle varie situazioni, la Corte ha spesso considerato tutte le attivita' svolte dal Governo, anche singolarmente dai diversi organi che lo compongono, come riconducibili al Governo nella sua interezza. Pertanto, muovendo dalla considerazione secondo la quale quello esecutivo non costituirebbe un «potere diffuso» (v. ex plurimis, ord. n. 123 del 1979), ha riconosciuto a favore del solo Presidente del Consiglio dei ministri, in qualita' di rappresentante dell'organo nella sua unita', la capacita' di essere parte del conflitto costituzionale. Ma e' altrettanto vero che rispetto a questo principio, attorno al quale si e' sviluppato un solido orientamento giurisprudenziale, e' stata proprio codesta ecc.ma Corte a riconoscere alcune deroghe, attribuendo la legittimazione passiva al singolo Ministro. E lo ha fatto, da un lato, nei confronti di quelle fattispecie all'interno delle quali si discuteva di competenze direttamente ed esclusivamente conferite al Ministro della giustizia dagli artt. 107, secondo comma, e 110 della Costituzione (cfr. sent. n. 420 del 1995; ordd. nn. 38 del 1986, 216 del 1995); dall'altro, rispetto ad un caso unico ed isolato sorto a seguito di un voto di sfiducia individuale espresso dal Parlamento nei confronti di un singolo Ministro (ord; n. 470 del 1995 e sent. n. 7 del 1996). Ora, a ben vedere, al di la' delle indubbie differenze che connotano le due ipotesi derogatorie, non puo' certo sfuggire a codesta ecc.ma Corte come esse risultino al tempo stesso accomunate dalla peculiarita' e dalla irripetibilita' della posizione nella quale si evenuto a trovare il Ministro. In un caso, tale specificita' e' determinata direttamente dalla Costituzione che attribuisce al Ministro della giustizia un particolare «ruolo istituzionale» (cfr. ord. n. 354 del 2005) in ragione del fatto che egli e' l'unico titolare delle competenze determinate dall'art. 110 della Costituzione «afferenti all'organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia» (cosi' sent. n. 380 del 2003). L'essere titolare di siffatte competenze rende il Ministro della giustizia in un certo senso autonomo e indipendente rispetto all'organo Governo nel suo complesso in modo tale da risultare idoneo ad esprimere in maniera definitiva la volonta' di un potere dello Stato e quindi ad essere parte di un conflitto. Nell'altro caso, essa si e' realizzata a seguito di una fattispecie peculiare nella quale si e' venuto a trovare un singolo Ministro sfiduciato individualmente dal Senato della Repubblica e rimosso dal Presidente del Consiglio dei ministri. In questa occasione, infatti, codesta ecc.ma Corte ha si' premesso che «il contrasto che eventualmente insorga fra un potere dello Stato ed il singolo Ministro si profila come conflitto che interessa e coinvolge l'intero Governo». Ma poi ha differenziato: «diverso discorso va, invece, fatto quando la posizione del singolo Ministro sia messa in discussione da una mozione di sfiducia individuale che, investendone l'operato, lo distingua e lo isoli dalla responsabilita' correlata all'azione politica del Governo nella sua collegialita', dando luogo non solo ad una sua specifica legittimazione sul piano del conflitto con le Camere, ma comportando anche peculiari implicazioni sul piano della responsabilita' individuale» (sent. n. 7 del 1996). I casi menzionati sono la dimostrazione di come la Corte abbia comunque interpretato l'art. 37 della legge n. 87 del 1953 in modo rigoroso ma non tassativo, aprendo la legittimazione passiva anche ai singoli Ministri (per un'apertura in tal senso, si veda anche l'ord. n. 131 del 1997 in riferimento al Ministero dell'interno, posto che la pronuncia di inammissibilita' ha riguardato solo i profili oggettivi) nei casi in cui questi abbiano assunto, per attribuzioni conferite direttamente dalla Costituzione o per situazioni dovute a particolari rapporti intervenuti tra organi costituzionali, una posizione di assoluto rilievo costituzionale tale per cui essi potessero esprimere il potere indipendentemente dall'organo esecutivo nel suo complesso. Quindi, codesta ecc.ma Corte ha gia' mostrato di voler intendere la competenza ad impegnare definitivamente il potere in senso potenziale, non occorrendo il carattere superiore dell'organo rispetto ad altro dello stesso complesso organizzativo, bensi' la capacita' dello stesso organo, il rilievo giuridico per poter impegnare il potere: il requisito indispensabile per la legittimazione sembra dunque essere quello dell'esercizio indipendente di attribuzioni di natura costituzionale. Nel caso del potere esecutivo, se e' vero come piu' volte ricordato da codesta ecc.ma Corte, che non si tratta di un potere diffuso, e' altrettanto vero che certamente si e' in presenza di un potere di natura complessa, caratterizzato da alcuni organi ciascuno dei quali gode di autonome attribuzioni costituzionalmente protette e come tali, costituenti a loro volta poteri dello Stato ancorche' operanti all'interno della piu' generale ed ampia funzione esecutiva. In definitiva, sussistono valide argomentazioni per sostenere l'estensione della legittimazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato. E tale estensione investe necessariamente il Ministero dell'economia e delle finanze che, quale azionista di maggioranza della RAI S.p.a., ricopre una funzione rappresentativa del Governo ma comunque autonoma rispetto allo stesso organo inteso nella sua interezza. Per i poteri del Ministro, dell'economia e delle finanze, si vedano ancora i commi 7 e 8 dell'art. 49 del T.U. della radiotelevisione. In ogni caso, qualora presso codesta ecc. ma Corte non dovesse trovare accoglienza la suddetta tesi estensiva, volta a riconoscere la legittimazione passiva al conflitto del Ministro dell'economia e delle finanze, i caratteri del conflitto qui portato a giudizio innanzi a codesta ecc.ma Corte ben consentono di ritenere che tale legittimazione passiva spetti comunque al Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e quale organo legittimato ad esprimere la volonta' dell'intero organo Governo. Si tratta di un esito conforme alla struttura desumibile dal 1 comma dell'art. 95 della Costituzione, in forza del quale il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne e' responsabile, mantenendo altresi' l'unita' di indirizzo politico ed amministrativo e coordinando l'attivita' dei ministri (in particolare, l'art. 11 del T.U. della radiotelevisione conferma che rimangono ferme le competenze attribuite alla Presidenza del Consiglio dei ministri). Infatti il responsabile dell'Esecutivo, nella riunione del Consiglio dei ministri del giorno 11 maggio 2007 informava i componenti del Governo di una lettera pervenuta dal Ministro dell'economia che dava notizia della situazione gestionale e di perdurante crisi della Rai e anticipava l'intenzione di trasmettere tale comunicazione alla Commissione di vigilanza. Dando seguito a quanto preannunciato, con lettera dello stesso 11 maggio indirizzata al Presidente della Commissione di vigilanza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha esplicitamente affermato di convenire «pienamente con la valutazione del Ministro dell'economia e delle finanze» ed ha espresso pieno accordo in ordine alla asserita inderogabile necessita' di porre in essere «la sola iniziativa che il Ministro dell'economia e delle finanze puo' efficacemente assumere» individuando la stessa «nella sostituzione del consigliere di amministrazione Rai» e mostrando cosi' di non tenere in alcuna considerazione le prerogative che la legge attribuisce alla Commissione parlamentare nel procedimento di revoca. Il Presidente del Consiglio dichiarava infine che avrebbe fatto «immediatamente seguito da parte dello stesso Ministero la richiesta di convocazione dell'Assemblea della RAI S.p.a. con all'ordine del giorno la revoca del consigliere di amministrazione nominato su indicazione del socio di maggioranza», non mostrando la benche' minima considerazione per le prerogative della Commissione di vigilanza nel procedimento di revoca. In tal modo il Presidente del Consiglio dei ministri ha pienamente condiviso l'operato del Ministro e ha cosi' dato pieno avallo governativo all'illegittimo comportamento qui contestato. 4) Una volta che e' stata enunciata la vicenda da cui trae origine il qui presente conflitto, una volta individuato il parametro costituzionale espresso dal principio della parlamentarizzazione della RAI, e una volta che e' stata dimostrata la legittimazione (sia sotto il profilo attivo che sotto quello passivo), emerge in tutta la sua nitidezza l'oggetto del conflitto stesso: il comportamento tenuto dal Ministro dell'economia si e' generato, sviluppato, protratto e infine concretizzato (con l'atto di revoca) in totale ed assoluto spregio delle attribuzioni costituzionali riconosciute alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. E' noto a codesta ecc.ma Corte come l'oggetto di un conflitto tra poteri dello Stato non debba consistere necessariamente nella rivendicazione, da parte di un organo, di un potere da altro usurpato (c.d. vindicatio potestatis), ma ben possa concretizzarsi nella contestazione, non della titolarita' di un potere altrui, quanto della concreta modalita' di esercizio dello stesso quando siffatta modalita' impedisce, di fatto, all'altro organo il pieno svolgimento di competenze costituzionalmente assegnate (si tratta dell'ipotesi del conflitto da menomazione: cfr. ex plurimis Corte cost., sent. n. 204 del 1991 e la ivi richiamata sent. n. 110 del 1970). E nella fattispecie qui in questione, e' di tutta evidenza come il Ministro dell'economia e delle finanze abbia agito come se fosse l'unico soggetto titolare di poteri nella determinazione della revoca di un consigliere di amministrazione della RAI S.p.a., ignorando le attribuzioni di natura costituzionale spettanti alla ricorrente Commissione di vigilanza. Rispetto ad un inconfutabile quadro costituzionale, ad una uniforme interpretazione fornita ripetutamente da codesta ecc.ma Corte, ad una prassi consolidata negli anni e persino rispetto ad una disposizione di legge inequivocabile (art. 49, comma 8 del T.U. della radiotelevisione), che insieme hanno costruito il principio secondo cui anche le scelte attinenti i profili gestionali della RAI, proprio in ragione della stretta connessione con la funzione del servizio, devono comunque essere riconducibili all'ambito parlamentare, il Ministro dell'economia ha ritenuto di poter avviare e concludere il procedimento di revoca nei confronti di un consigliere di amministrazione della RAI senza la preventiva volonta' conforme della commissione di vigilanza. Una volonta' che, al contrario, e' costituzionalmente necessaria ed imprescindibile alla luce della posizione ricoperta dalla commissione quale organo parlamentare capace di manifestare nella sua pienezza la volonta' del Parlamento nel settore radiotelevisivo. In tal modo, il Ministro ha illegittimamente ricollocato la stessa RAI sotto il controllo esclusivo dell'Esecutivo. Ma vi e' di piu'. Il comportamento del Ministro e' ancor piu' grave, e quindi lesivo delle attribuzioni della Commissione di vigilanza, in quanto ha eluso in maniera evidente il rispetto di quel principio di «ideale collaborazione» che proprio codesta ecc.ma Corte, mutuandolo dai rapporti tra Stato e regioni, ha espressamente prescritto anche nei rapporti tra organi dello Stato quando le reciproche competenze vengono ad intrecciarsi tra loro. Ed infatti, nella sentenza n. 379 del 1992, codesta ecc.ma Corte estata chiamata a pronunciarsi su un conflitto sollevato dal Consiglio superiore della magistratura nei confronti del Ministro di grazia e giustizia avente ad oggetto la procedura di conferimento degli uffici direttivi che, secondo quanto disposto dall'art. 11, comma 3, della legge n. 195 del 1958, prevede la delibera del Consiglio superiore su proposta della competente commissione formulata di concerto con il Ministro. Ebbene rispetto a tale procedura che coinvolge piu' soggetti istituzionali, appartenenti a poteri dello Stato diversi, codesta ecc.ma Corte, dopo aver precisato che per concerto debba intendersi «non gia' con un atto sostanziale di assenso o divieto, ma (...) un attivita' di concertazione finalizzata alla formulazione di una proposta comune», ha affermato che «sulla base di un'interpretazione dell'art. 11, terzo comma, adeguata ai principi costituzionali la commissione del Consiglio superiore competente a formulare le proposte di conferimento degli incarichi direttivi non puo' inoltrare le proprie designazioni al plenum del Consiglio medesimo se non dopo aver svolto una seria e approfondita opera di concertazione diretta al fine sopra indicato. E, poiche' tale attivita' inerisce a un procedimento comportante il concorso di organi o soggetti distinti nell'esercizio di una funzione pubblica di rilievo costituzionale - i quali pertanto, come questa Corte ha gia' precisato (v. sent. n. 80 del 1989), sono tenuti a comportarsi secondo i principi della correttezza nei loro rapporti reciproci e nel rispetto sostanziale dell'altrui autonomo ruolo (...) - il modulo procedimentale del concerto, previsto dal citato art. 11, comporta che la relativa attivita' debba essere svolta nel pieno rispetto del principio costituzionale di leale cooperazione». E nell'ambito di tale leale cooperazione, la Corte piu' che stabilire cio' che gli organi devono fare, ha chiaramente precisato cio' che non devono fare: «non possono dar luogo ad atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati, di modo che il confronto possa avvenire su basi di correttezza e di apertura alle altrui posizioni». In definitiva codesta ecc.ma Corte, nella fattispecie relativa alla preposizione agli incarichi direttivi degli uffici giudiziari, ha ravvisato l'interesse pubblico e l'esigenza costituzionale a che l'esercizio delle relative competenze da parte dei diversi organi coinvolti avvenga nel rispetto del «dovere di reciproca collaborazione» che deve essere volta, per quanto possibile, a una «convergenza fra le parti». E tanto e' fondamentale tale convergenza che l'eventuale «"rifiuto del concerto" da part.e del Ministro dev'essere motivato, non gia' da semplici divergenze, ma da gravi e insuperabili contrasti sulla proposta da formulare». E' ancora opportuno evidenziare come la Corte «al fine di verificare se si sia effettivamente svolta ovvero sia mancata un'adeguata attivita' di concertazione, ispirata al principio della leale cooperazione», ha reputato necessario «procedere all'esame dei comportamenti in concreto tenuti dalle parti in sede di concerto». Questo importante precedente giurisprudenziale di codesta ecc.ma Corte offre due rilevanti indicazioni: in primo luogo, l'indefettibile necessita' che rispetto a situazioni di interesse pubblico e che rispondono ad esigenze costituzionali, gli eventuali organi chiamati a regolarle, anche quando appartenenti a poteri dello Stato diversi, esercitino le proprie competenze in conformita' al principio di leale collaborazione; in secondo luogo, che la verifica della rispondenza a tale principio puo' essere svolta dalla Corte costituzionale in modo diretto sui singoli e specifici comportamenti degli organi stessi. Ebbene, nel complesso dei comportamenti tenuti dal Ministro dell'economia, non solo e' impossibile rintracciare la benche' minima apertura verso una «leale collaborazione», ma vi e' addirittura un totale disconoscimento del ruolo e delle competenze della Commissione di vigilanza. Il che e' ancora piu' grave se si considera come la legge (art. 49, comma 8 del T.U.) non richiede al Ministro di limitarsi ad agire di concerto con la Commissione di vigilanza, ma prescrive che il voto del suo rappresentante sia espresso in conformita' alla deliberazione della Commissione parlamentare (ad. 49, comma 8 del T.U.). Ne' vale a legittimare l'azione del Ministro l'argomentazione dallo stesso fornita in merito alla inapplicabilita' delle disposizioni previste dall'art. 49, comma 8 del T.U. se non trascorsi novanta giorni dalla data di chiusura della prima offerta pubblica di vendita (ex comma 10 dell'art. 49). Si tratta, infatti, di una conclusione che e' frutto di una mera e semplicistica interpretazione letterale del testo normativo e che, per di piu', condurrebbe a esiti incongruenti nonche' paradossali: solo per fare un esempio, anche il comma 1, dell'art. 49, infatti, e cioe' quello che stabilisce la durata e l'affidamento della concessione del servizio pubblico generale radiotelevisivo, dovrebbe rimanere inapplicato, in attesa del verificarsi delle condizioni previste ex comma 9. Ma,e' ben noto che cio' non corrisponde alla realta'. La realta', infatti, e' che il sistema si e' gia' orientato seguendo le indicazioni fornite proprio dall'art. 49 del T.U. e che trovano nelle disposizioni del comma 8, sul ruolo della Commissione di vigilanza nei procedimenti di revoca di un consigliere, il pieno riconoscimento del valore centrale del Parlamento nei procedimenti de quibus. Ed allora, il Ministro dell'economia ha voluto incidere in modo unilaterale sul delicato rapporto tra Esecutivo e Parlamento nella gestione della RAI. rapporto che proprio codesta ecc.ma Corte ha lentamente costruito nel tempo, con l'evidente intento di garanzia delle liberta' fondamentali del popolo sovrano. Il comportamento tenuto dal Ministro si e' connotato con una serie di azioni ed omissioni tutte espressione di un'intenzione inequivocabile e cioe' quella di svuotare la rilevanza costituzionale delle attribuzioni della Commissione parlamentare nel procedimento di revoca di un consigliere. Ma svuotare la rilevanza costituzionale dei poteri della Commissione significa esautorare il Parlamento rispetto ad una funzione che il sistema costituzionale gli ha limpidamente riconosciuto. Una funzione che risponde ad esigenze fondamentali nel settore radiotelevisivo pubblico. L'insieme dei poteri della Commissione parlamentare di vigilanza e indirizzo sono espressione di un'attivita' tipica parlamentare, consistente nel controllo ispettivo e nell'indirizzo di carattere generale sul piano editoriale e sulla conduzione dell'azienda, sulla base dei parametri indefettibili del pluralismo, dell'obiettivita', della completezza ed imparzialita' dell'informazione, dell'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali e culturali nel rispetto quindi delle liberta' e dei diritti garantiti direttamente dalla Costituzione. Se questi sono gli indispensabili requisiti che devono qualificare l'attivita' del servizio pubblico radiotelevisivo, l'unico organo in grado di garantire la loro sussistenza e la loro effettivita' e' l'organo parlamentare. L'operato del Ministro dell'economia rispecchia, al contrario, la nitida volonta' di riassegnare il ruolo centrale nella gestione' della Concessionaria del servizio pubblico all'organo esecutivo, e cioe' ad un organo che per sua natura, non puo' che essere di parte. Esso, pertanto, viola palesemente le competenze costituzionalmente riconosciute alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
P. Q. M. La Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, come sopra rappresentata e difesa, chiede che codesta ecc.ma Corte, previa ammissibilita' del ricorso e contraries rejectis, voglia dichiarare che non spetta al Ministro dell'economia e delle finanze, anche d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri, richiedere e votare nell'Assemblea degli azionisti della RAI - Radio Televisione Italiana S.p.a., societa' concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico, la revoca di un consigliere di amministrazione in assenza di conforme deliberazione adottata dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e, per l'effetto, annulli la proposta di revoca presentata dal Ministero in data 11 maggio 2007 e, per quanto occorrer possa, tutti gli atti ad essa connessi e conseguenti. Roma, addi' 8 novembre 2007 Prof. Avv.: Caravita di Toritto Avvertenza L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 61/2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 1ª s.s., n. 13 del 19 marzo 2008.