N. 72 SENTENZA 12 - 28 marzo 2008

  Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
  Reati  e  pene  -  Prescrizione  -  Termini  -  Modifiche normative
  comportanti   un   regime  piu'  favorevole  al  reo  -  Disciplina
  transitoria  -  Inapplicabilita' ai processi gia' pendenti in grado
  di   appello   -   Denunciata  irragionevolezza  ed  ingiustificata
  disparita'  di  trattamento  fra  imputati  - Omessa indicazione di
  circostanze  essenziali  ai  fini della valutazione della rilevanza
  delle questioni - Manifesta inammissibilita' delle questioni.
  - Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3.
  - Costituzione, art. 3.
  Reati  e  pene  -  Prescrizione  -  Termini  -  Modifiche normative
  comportanti   un   regime  piu'  favorevole  al  reo  -  Disciplina
  transitoria  -  Inapplicabilita' ai processi gia' pendenti in grado
  di   appello   -   Denunciata  irragionevolezza  ed  ingiustificata
  disparita'  di  trattamento  fra  imputati  nonche'  violazione del
  principio  di  retroattivita'  della  norma penale piu' favorevole,
  riconosciuto dal diritto comunitario ed internazionale - Esclusione
  - Non fondatezza delle questioni.
  - Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3.
  - Costituzione, artt. 3, 10, comma secondo, e 11.
(GU n.15 del 2-4-2008 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta  dai  signori:  Presidente:  Franco  BILE; Giudici: Giovanni
Maria  FLICK,  Francesco  AMIRANTE,  Ugo  DE SIERVO, Paolo MADDALENA,
Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso  QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA,
Gaetano  SILVESTRI,  Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria
NAPOLITANO ; ha pronunciato la seguente
                              Sentenza
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'articolo 10, comma 3,
della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (Modifiche al codice penale e alla
legge  26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di
recidiva,  di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 24
marzo  2006 dalla Corte di appello di l'Aquila, del 20 dicembre 2006,
del  10 gennaio e del 19 febbraio 2007 dalla Corte di appello di Roma
e   del   22   gennaio   2007  dalla  Corte  di  appello  di  Palermo
rispettivamente  iscritte al n. 273 del registro ordinanze 2006 ed ai
nn.  105,  106,  107,  347,  383  e 642 del registro ordinanze 2007 e
pubblicate  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, 1ª serie
speciale,  dell'anno  2006  e nn. 12, 20, 21 e 37, 1ª serie speciale,
dell'anno 2007.
   Visti l'atto di costituzione di Medici Giacomo nonche' gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica  del  15  gennaio  2008  il  giudice
relatore Alfio Finocchiaro;
   Uditi  l'avvocato  Fabrizio  Lemme per Medici Giacomo e l'avvocato
dello  Stato  Massimo  Giannuzzi  per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
                          Ritenuto in fatto
   1.1.  - Con ordinanza del 24 marzo 2006 (r.o. n. 273 del 2006), la
Corte  d'appello  di L'Aquila ha sollevato, in riferimento all'art. 3
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al  codice  penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti  generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze  di  reato  per  i recidivi, di usura e di prescrizione),
nella  parte  in  cui esclude l'applicabilita' della nuova disciplina
della   prescrizione   nei   processi  pendenti  dinanzi  alla  Corte
d'appello.
   Afferma  il  rimettente  che,  secondo  la costante giurisprudenza
della Corte di cassazione, anche la durata della prescrizione rientra
nella  normativa  disciplinata  dal principio di retroattivita' della
norma  piu'  favorevole di cui all'art. 2 del codice penale, e che la
nuova disciplina della materia crea una disuguaglianza di trattamento
non  giustificabile, in quanto irragionevolmente rimessa a criteri di
selezione  assolutamente  distonici rispetto alla ratio dell'istituto
della prescrizione, quale permane anche dopo la novella del 2005.
   Rileva  il  giudice  a  quo  che,  qualora  si applicasse la nuova
normativa,  il  reato  per cui e' processo dovrebbe essere dichiarato
estinto per intervenuta prescrizione.
   1.2.   -  Nel  giudizio  innanzi  alla  Corte  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che la questione
venga dichiarata inammissibile o comunque infondata.
   Secondo l'Avvocatura generale, la questione sarebbe inammissibile,
perche'  dalla  lettura  dell'ordinanza  di  rimessione  non  sarebbe
possibile  ricostruire  l'iter  logico  seguito dal giudice a quo per
sostenere  l'incompatibilita',  con  la ratio della prescrizione, dei
criteri   adottati   dal   legislatore  per  delimitare  l'ambito  di
operativita'  della  nuova  disciplina della prescrizione, introdotta
dalla legge n. 251 del 2005.
   Nel  merito,  la  questione  sarebbe  infondata  in  quanto, ferma
restando  la  necessita' di rispettare il principio di retroattivita'
della  legge piu' favorevole al reo, il legislatore puo' graduare nel
tempo  e  differenziare  l'applicazione  di  nuovi  e piu' favorevoli
termini  di  prescrizione  dei  reati in relazione ai diversi stati e
gradi dei procedimenti pendenti.
   2.1.  -  Con tre distinte, ma sostanzialmente identiche, ordinanze
del  20  dicembre  2006  (r.o.  n. 105, n. 106 e n. 107 del 2007), la
Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della
Costituzione,  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10,
comma  3,  della  legge  n. 251  del 2005, nella parte in cui esclude
l'applicazione  dei  termini  di  prescrizione piu' brevi ai processi
gia'  pendenti  in  grado  di  appello alla data di entrata in vigore
della medesima legge.
   Con la prima di tali ordinanze, la rimettente fa presente di dover
giudicare   dell'appello   di  un  imputato  condannato  dal  giudice
dell'udienza  preliminare  presso  il  Tribunale di Roma con sentenza
dell'8  febbraio  2001  per il reato di cui agli artt. 453 e 455 cod.
pen., commesso il 7 febbraio 2005.
   Con  la  seconda,  il  giudice  a  quo  espone  di dover giudicare
dell'appello  di  un  imputato  condannato  dal  giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale di Roma con sentenza 18 aprile 2000 (per il
reato  di  cui  all'art. 368 cod. pen., commesso il 9 aprile 1998), a
seguito  della  sentenza della Corte di cassazione 30 settembre 2002,
che ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d'appello di Roma
25  ottobre  2001,  con  la quale e' stata confermata la sentenza del
giudice dell'udienza preliminare.
   Con la terza, infine, la rimettente fa presente di dover giudicare
dell'appello  di  un  imputato condannato dal Tribunale di Chieti con
sentenza  17  dicembre  1997  (per i reati di cui agli artt. 110, 61,
numero 2, 423 cod. pen. e agli artt. 110, 56, 640, 61, numero 7, cod.
pen.,  commessi  il 29 novembre 1993), a seguito della sentenza della
Corte  di  cassazione 28 gennaio 2005, che ha annullato con rinvio la
sentenza  della  Corte  d'appello di L'Aquila 2 febbraio 2001, con la
quale e' stata confermata la sentenza del Tribunale di Chieti.
   A  sostegno  della  rilevanza  della  questione,  il giudice a quo
osserva,  con identica motivazione nelle tre ordinanze, che, ai sensi
del  combinato  disposto  degli  artt. 157 e 161, secondo comma, cod.
pen.,  come  sostituiti  dall'art. 6, commi 1 e 5, della legge n. 251
del  2005,  il  reato  risulterebbe  prescritto  de plano, mentre, in
virtu'  dell'art.  10,  comma  3,  della stessa legge, applicabile ai
procedimenti  de  quibus,  in quanto pendenti in appello alla data di
entrata  in  vigore  della legge medesima, il termine di prescrizione
non   si   e'  ancora  compiuto,  dovendosi  applicare  la  pregressa
normativa, giusto il richiamo ad essa fatto dal comma censurato.
   Ritiene,  pertanto, la rimettente che la questione e' rilevante ai
fini  della decisione in quanto, nel caso di applicazione della nuova
disciplina  ai  processi  de  quibus,  deriverebbe  la  pronuncia  di
sentenza di non doversi procedere per prescrizione, pronuncia di cui,
invece,  alla  stregua  della  disciplina  originaria, l'imputato non
potrebbe usufruire.
   La  questione,  inoltre,  ad  avviso  del  giudice  a  quo, non e'
manifestamente   infondata,   poiche'   la   scelta  di  non  rendere
applicabile la disciplina della legge n. 251 del 2005 ai procedimenti
pendenti  in appello non appare sorretta da giustificazioni di ordine
logico  e  giuridico ne' ispirata a finalita' tali da giustificare il
diverso trattamento riservato a diverse categorie di cittadini.
   Afferma  ancora lo stesso giudice che la Corte costituzionale, con
la   sentenza   n. 393   del  2006,  ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  10,  comma 3, della legge n. 251 del 2006,
limitatamente  alle parole «dei processi gia' pendenti in primo grado
ove vi sia stata dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche»,
ritenendo  non ragionevole la scelta del legislatore di non applicare
la  disciplina ai processi di primo grado gia' in corso, alla data di
entrata in vigore della legge medesima. La Corte costituzionale, dopo
aver  rilevato  che  anche  le norme sulla prescrizione costituiscono
legge   piu'   favorevole,   ha   statuito   che   «lo  scrutinio  di
costituzionalita'  ex  art.  3  Cost.,  sulla scelta di derogare alla
retroattivita'  di  una  norma  penale  piu'  favorevole  al reo deve
superare un vaglio positivo di ragionevolezza», in quanto, sebbene il
principio   della   retroattivita'   della   lex   mitior   non   sia
costituzionalmente garantito, tuttavia lo stesso e' sancito sia dalla
normativa  interna (art. 2 cod. pen.), per la quale la retroattivita'
della  legge  piu'  favorevole e' la regola (salvo il giudicato), sia
dalle  norme internazionali (articolo 15 del Patto internazionale sui
diritti  civili  e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966,
ratificato  e  reso  esecutivo  con la legge 25 ottobre 1977, n. 881,
recante  Ratifica  ed esecuzione del Patto internazionale relativo ai
diritti   economici,   sociali   e   culturali,   nonche'  del  patto
internazionale  relativo  ai  diritti  civili  e politici) ed europee
(Trattato  sull'Unione  europea  nel  testo  risultante  dal Trattato
sottoscritto  ad  Amsterdam  il  2  ottobre  1997,  ratificato e reso
esecutivo  con  la  legge 16 giugno 1998, n. 209, recante Ratifica ed
esecuzione  del  trattato  di  Amsterdam  che  modifica  il  Trattato
sull'Unione   europea;  decisioni  della  Corte  di  giustizia  delle
Comunita'   europee,   Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).
   Conclude,  infine,  la  rimettente,  affermando  che  non  risulta
ragionevole  non  applicare la nuova disciplina della prescrizione ai
processi  gia'  pendenti in appello, non essendo indicata la pendenza
in  appello tra gli atti interruttivi della prescrizione e dipendendo
la  pendenza  stessa dalla data in cui il processo perviene presso il
giudice  ad  quem,  data che dipende a sua volta da una pluralita' di
fattori  esterni  (gli  incombenti di cancelleria per la trasmissione
del  fascicolo)  e non da attivita' puramente giurisdizionale, e che,
inoltre,  il  fatto  da giudicare nel processo d'appello, proprio per
l'ulteriore  decorso  del  termine  rispetto a quello di primo grado,
sarebbe  connotato da minore allarme sociale e al contempo renderebbe
piu' difficile l'esercizio del diritto di difesa.
   2.2.   -  Nei  giudizi  introdotti  con  le  citate  ordinanze  di
rimessione,  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato  e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con tre
distinti   ma   identici  atti,  chiedendo  che  la  questione  venga
dichiarata infondata.
   Secondo  l'Avvocatura,  da  un attento esame della sentenza n. 393
del   2006  della  Corte  costituzionale,  e'  possibile  argomentare
l'infondatezza    della    presente    questione    di   legittimita'
costituzionale.  Nella  citata  sentenza,  la rilevanza attribuita al
decorso del tempo non assumerebbe valore decisivo; dirimente sarebbe,
invece  -  al  fine  di  escludere  la  scelta  legislativa che aveva
individuato  nell'apertura del dibattimento di primo grado il momento
a  partire  dal quale non fosse applicabile la nuova disciplina della
prescrizione   ove   piu'   favorevole  all'imputato  -,  il  rilievo
dell'incongruita'  del  riferimento  al  principio di non dispersione
della  prova,  richiamato  nella  relazione illustrativa della legge,
posto  che,  prima  dell'apertura  del  dibattimento,  non sono state
compiute  attivita'  istruttorie  suscettibili  di essere vanificate.
Sarebbe  evidente,  sempre secondo l'Avvocatura, che tale rilievo non
varrebbe  nel  caso  di  pendenza del processo in grado di appello al
momento di entrata in vigore della predetta legge, trattandosi di una
fase  processuale  successiva all'istruttoria dibattimentale svoltasi
in  primo  grado,  i  cui  risultati  probatori  sarebbero vanificati
dall'applicazione della piu' favorevole disciplina della prescrizione
sopravvenuta alla conclusione del primo grado di giudizio.
   Con  riferimento  a tale fattispecie, la deroga al principio della
retroattivita'  della  lex mitior apparirebbe dunque giustificata dal
principio  di  non  dispersione della prova, reiteratamente affermato
dalla  Corte  costituzionale  (sentenze  nn.  254  e  255  del 1992),
principio  strettamente connesso al fine della ricerca della verita',
indicato  dalla stessa Corte costituzionale quale principio immanente
al processo penale (sentenze n. 363 del 1991, n. 432 del 1992, n. 280
del 1995).
   3.1.  -  Con ordinanza del 10 gennaio 2007 (r.o. n. 347 del 2007),
la  Corte  d'appello  di Roma ha sollevato, in riferimento all'art. 3
Cost.,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma
3,  della  stessa  legge  n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude
l'applicazione  dei  termini  di  prescrizione piu' brevi ai processi
gia'  pendenti  in  appello  alla  data  di  entrata  in vigore della
medesima legge.
   Sottolinea  il  rimettente  di  dover  decidere  l'appello  di  un
soggetto  condannato  dal Tribunale di Roma con sentenza 18 settembre
2001,  concesse  le attenuanti generiche e ritenuta la continuazione,
per  il delitto di cui all'art. 648 cod. pen., per avere acquistato o
ricevuto  da  ignoti  mobili  e dipinti antichi compendio di un furto
commesso  il  13  settembre  1994,  in  Roma,  in  data antecedente e
prossima  al  5 ottobre 1994; per il delitto di cui all'art. 640 cod.
pen.,   per   avere,  con  artifici  e  raggiri,  indotto  in  errore
l'acquirente dei mobili di cui sopra, conseguendo l'ingiusto profitto
di  settantacinque  milioni di lire versatigli a titolo di prezzo, in
Roma, il 5 ottobre 1994.
   Il  giudice  a quo ritiene che la questione e' rilevante in quanto
l'appello  e'  stato ritualmente proposto (notificato al contumace il
31  ottobre  2001  e depositato il 30 novembre 2001); che il reato di
truffa  si  e' prescritto in data 6 aprile 2002; che la ricettazione,
per   cui   e'  intervenuta  l'affermazione  di  responsabilita',  si
prescrivera'  in  tempo  antecedente  e  prossimo  al 6 ottobre 2009,
successivo  al  14  settembre  2009, in applicazione della disciplina
anteriore  al  15 dicembre 2005, n. 251; che il processo e', infatti,
pendente  in  appello dal 25 novembre 2002, cioe' da data anteriore a
quella di entrata in vigore della predetta legge n. 251 del 2005, con
la  conseguente  esclusione  dei  termini  di prescrizione piu' brevi
risultanti  dalle  nuove disposizioni ed ai sensi dell'art. 10, comma
3,  della  stessa  legge;  che  il  processo non puo' essere definito
indipendentemente  dalla  decisione  della  questione di legittimita'
costituzionale  della  disciplina transitoria censurata, poiche', per
il  principio  generale  dettato dall'art. 2, terzo comma, cod. pen.,
viene  in considerazione, in alternativa a quella sopra calcolata per
la ricettazione, la prescrizione maturatasi nell'anno 2004 (anni otto
piu'  un quarto) dopo la sentenza di primo grado, in applicazione dei
termini  piu'  favorevoli  di  cui agli art. 157, primo comma, e 161,
secondo  comma,  cod. pen., come sostituiti dall'art. 6, commi 1 e 5,
della legge n. 251 del 2005.
   Afferma  il rimettente che in forza dell'art. 10, comma 3, di tale
legge,   i  termini  di  prescrizione  piu'  brevi  si  applicano  ai
procedimenti  pendenti alla data di entrata in vigore della legge - 8
dicembre  2005 - ad esclusione dei processi gia' pendenti in grado di
appello  alla  medesima  data.  La  pendenza del processo va definita
quale  disponibilita'  degli  atti  da  parte del giudice, ricavabile
dalla loro ricezione attestata dalla cancelleria penale, nella specie
risultante  dal timbro del 25 novembre 2002 apposto sul fascicolo per
il  dibattimento  di  primo  grado.  Ogni altra data anteriore non e'
riconducibile  alla  pendenza. Quindi la ricezione degli atti, datata
dalla  cancelleria  del  giudice  del  gravame,  si risolve in regola
d'applicazione o no dei termini piu' brevi di prescrizione, a seconda
che  gli  atti stessi siano pervenuti successivamente o anteriormente
all'8 dicembre 2005.
   Tuttavia,  secondo  il  giudice a quo, questo discrimine temporale
limita  il  principio  di  retroattivita'  della  legge  penale  piu'
favorevole in modo irragionevole, poiche' determina una disparita' di
trattamento.  Il  tempo  degli  adempimenti  non  giurisdizionali  e'
infatti  variabile  e non identico in tutti i casi (art. 582, secondo
comma,  del  codice  di  procedura  penale),  mentre la rinuncia alla
potesta'  punitiva  non  sembra  potersi commisurare alle ragioni che
costituiscono  il  fondamento  della  prescrizione:  da  un  lato  la
diminuzione  dell'allarme  sociale  per  il  lungo  periodo  di tempo
trascorso  dalla  commissione del reato e, dall'altro, la difficolta'
dell'esercizio   della  difesa.  Sotto  entrambi  i  profili  non  e'
sostenibile,  infatti,  che  il breve tempo per la trasmissione degli
atti  processuali,  d'ordinario  occorrente  alla  cancelleria  ed al
personale  ausiliario,  all'interno  del  quale  cada, eventualmente,
l'entrata in vigore della legge in esame con la pendenza susseguente,
abbia  un'influenza esclusiva o principale sulla prescrizione. Vale a
dire,  per  converso,  che  di  per se' il criterio della pendenza in
appello,   successiva   all'entrata   in   vigore  della  legge,  non
giustificherebbe    logicamente   la   mancata   operativita'   della
prescrizione preesistente meno favorevole, atteso che l'art. 25 della
Costituzione  vieta  la  retroattivita'  della  legge  penale, ma non
concerne   l'ultrattivita'  della  medesima  (vengono  richiamate  le
sentenze  della Corte costituzionale n. 6 del 1978, ed altre); ovvero
che  il regime giuridico della legge piu' favorevole - e segnatamente
la sua retroattivita' - non e' assistito dalla tutela privilegiata di
questa norma (viene richiamata la sentenza n. 393 del 2006).
   Di conseguenza, il rimettente dubita che, tanto per l'applicazione
della norma penale di favore, quanto per la sua deroga, alla pendenza
o  ricezione degli atti possa attribuirsi il requisito equivalente ad
una  previsione  generale  ed  astratta  connessa al fluire del tempo
(vengono  citate le sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 1991
e   n. 138  del  1979),  secondo  una  diversificazione  di  fenomeni
realmente  influente  sull'allarme  sociale  o  regolante  situazioni
affatto diverse a parita' di reati, tale da richiedere un trattamento
differente  della  causa estintiva o meglio la temporanea coesistenza
di due misure del tempo di prescrizione, come concepita dall'art. 10,
comma   3,  in  esame:  prima  e  dopo  la  pendenza  in  appello  e,
rispettivamente,  esclusione  e  riconoscimento  della lex mitior. Se
l'opzione  di  efficacia  dei  termini  piu' favorevoli riguardo allo
stato  del  processo  e  non  solo  al tempo del commesso reato, puo'
intanto  venire  in  discussione per il contrasto con l'art. 2, terzo
comma, cod. pen. - poste la sua portata di principio fondamentale del
codice  penale,  sancito  altresi'  dalle disposizioni sulla legge in
generale  (art.  11), e la natura sostanziale, non processuale, delle
norme   sulla   prescrizione  (e'  citata  la  sentenza  della  Corte
costituzionale  n. 393  del  2006;  sono richiamate le sentenze della
Corte di cassazione 5 gennaio 1993, n. 67; 24 maggio 1986 n. 4216; 28
agosto  1996,  n. 7905)  -  non  pare  poi  ragionevole  nel  sistema
condizionarla  al  criterio  non giurisdizionale di pendenza, laddove
gli eventi processuali incidenti sul corso della causa estintiva sono
sempre  connessi a provvedimenti dell'autorita' giudiziaria (art. 159
e  160  cod.  pen.,  477  cod. proc. pen.). La non consentita critica
dell'esercizio  di  scelte  discrezionali,  di  esclusiva  competenza
legislativa, non induce, tuttavia, a sottacere (e' citata la sentenza
della  Corte  costituzionale  n. 20  del 1978,) che obiettivamente la
legge   n. 251   del   2005,   modificando  la  materia  del  diritto
sostanziale,  persegue  anche  e, soprattutto, per via indiretta, una
parziale  sollecitazione processuale, con una regolamentazione nuova,
per  un  verso  con  l'art.  157, primo comma, cod. pen. ampliando il
tempo di prima prescrizione, quindi di esercizio dell'azione penale e
di  definizione  del  primo  grado, e, nei limiti pertinenti, con gli
art.  160, terzo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., restringendo
il  tempo  complessivo  di  trattazione  dei  gradi successivi per il
quarto del tempo non superabile.
   Il  rimettente  sottolinea,  inoltre,  che  la  prescrizione, piu'
specificamente collegata alla gravita' del reato ed al suo disvalore,
non  sembra  avere  una  uniforme  disciplina. Anzi, ove maggiore sia
stata  la  sollecitudine  nel  procedere,  i  termini  piu' brevi non
trovano  applicazione - per l'appunto ad esclusione dei processi gia'
pendenti  in  grado di appello - come, invece, nel caso contrario dei
processi  pendenti  dopo  l'8 dicembre 2005 ed esauriti in prime cure
alla   stessa   data.   Prima   della  declaratoria  d'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  10,  comma 3, della legge n. 251 del 2005,
nel testo originario, tale discrasia era vieppiu' accentuata, esclusa
l'applicazione della lex mitior da parte del giudice di primo grado.
   La  pendenza  presso  il giudice ad quem nei giorni immediatamente
antecedenti  o successivi all'8 dicembre 2005 puo' essere - rileva il
giudice  a  quo  - casuale, sicche' nessuna certezza d'eguaglianza di
fronte alla lex mitior si ha in tutte le fattispecie di gia' maturata
nuova  prescrizione  dopo  la sentenza di primo grado. L'effettivita'
della  sua  uniforme  applicazione  puo' essere fortuita, poiche' non
trattasi  di una mera disparita' di fatto, cui e' estranea la legge e
quindi  irrilevante  ai  fini  dell'applicazione  dell'art.  3  della
Costituzione (e' citata la sentenza della Corte costituzionale n. 163
del  1972),  ma  di un inconveniente emergente dal meccanismo legale,
interno  alla  norma  transitoria.  In  sintesi,  sebbene in casi non
ancora  riscontrati,  ma  teoricamente ipotizzabili, non e' improprio
definire  casuale  e dissimile tra gli imputati la data di entrata in
vigore  dell'art.  10,  comma  3, della legge n. 251 del 2005, se non
ricondotto a regole irrinunciabili (artt. 3, primo comma, e 73, terzo
comma,  della  Costituzione).  Non  puo'  pensarsi, come inizialmente
cennato,  che  il  rimedio  sia quello di fare retroagire, rendendola
virtuale,  la  pendenza  alla data dell'ultima formalita' prescritta,
come   ad  esempio,  tra  le  altre,  la  comunicazione  del  gravame
dell'imputato  al  procuratore generale o la notificazione alla parte
civile,  poiche'  da  un canto si ricorrerebbe ad una interpretazione
contraria  all'applicazione  della lex mitior per anticipata pendenza
e,    dall'altro,   gli   adempimenti   funzionali   all'impugnazione
incidentale   dell'accusa   e   della   parte   civile   porterebbero
paradossalmente   alla  sua  applicazione.  Tanto  meno  puo'  aversi
riguardo  alla  presentazione  dell'appello  principale  prima dell'8
dicembre  2005,  giungendosi all'efficacia dei piu' lunghi termini di
prescrizione  in contrasto con il diritto della difesa per violazione
dell'art.  24,  primo e secondo comma, della Costituzione. Neppure va
dato  rilievo alla comunicazione di cancelleria ai sensi dell'art. 15
del regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale (D.M.
30  settembre  1989,  n. 334)  e  dell'art.  590 cod. proc. pen., non
essendo  essa  legata  ad  atto  dell'autorita'  giudiziaria, al pari
dell'attestazione  della pendenza. Si evidenzia, dunque, che non c'e'
soluzione  interpretativa  dell'inciso  dell'art.  10, comma 3, della
legge  n. 251  del 2005: «ad esclusione... dei processi gia' pendenti
in   grado  di  appello»,  l'eccezione  proposta  essendo  obbligata,
poiche',  pur  a  seguito della sentenza d'incostituzionalita' n. 393
del  2006  limitatamente  alle  parole «dei processi gia' pendenti in
primo  grado  ove  vi  sia  stata  la  dichiarazione  di apertura del
dibattimento,  nonche»,  le  disposizioni  prescrizionali  di  favore
relative  al  giudizio  di  primo  grado non sono applicabili a norma
dell'art.  598  cod.  proc. pen., per la tassativa eccezione fatta ai
termini  piu'  brevi  maturatisi  in  appello,  ove  la  pendenza sia
anteriore  all'8  dicembre  2005,  sempre che i medesimi non si siano
compiuti  in  prime  cure  ed,  ovviamente,  non sia stata dichiarata
l'estinzione  del  reato per detta causa con la decisione anteriore a
quella  della Corte costituzionale. Soltanto in questa ultima ipotesi
e  per l'efficacia retroattiva delle pronuncie di incostituzionalita'
(vengono  citate  le  sentenze  della Corte costituzionale n. 127 del
1966,  n. 329  del 1985, n. 94 del 1986), essi non possono non essere
osservati  anche  nei  gradi  successivi, cosi' realizzando l'inverso
costituzionale  del  dettato  normativo, per il quale, esclusi i piu'
brevi  termini  estintivi  in  primo  grado,  lo erano a fortiori nel
secondo ed in cassazione.
   In conclusione, il rimettente ritiene non manifestamente infondata
l'esclusione  dei termini di prescrizione, fissata dalla pendenza del
processo  in  grado  di  appello alla data di entrata in vigore della
nuova  legge,  quando  piu' favorevoli e maturati dopo la sentenza di
primo  grado.  Rimane affidato alla Corte costituzionale il sindacato
se   l'eventuale   declaratoria  d'incostituzionalita'  debba  essere
estesa,  ai  sensi  dell'art.  27  della  legge 11 marzo 1953, n. 87,
all'intero  residuo  secondo  inciso  del  comma 3 dell'art. 10 della
legge n. 251 del 2005.
   3.2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che la questione venga dichiarata infondata, sulla
base delle medesime argomentazioni esposte sub 2.2.
   4.1.  - Con ordinanza del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007),
la Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
10  e 11 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  10,  comma  3,  della  legge  n. 251  del  2005,  anche in
relazione  alla  nuova  formulazione dell'art. 158, primo comma, cod.
pen.
   Afferma la rimettente di dover giudicare l'appello di due persone,
imputate,  rispettivamente,  il  primo del reato di cui all'art. 416,
primo  comma, cod. pen., commesso dal 1960 all'aprile 2002; del reato
di cui agli artt. 81, 648, 61, numero 7, cod. pen., commesso dal 1960
al 17 aprile 1999; del reato di cui agli artt. 81, 61, numero 7, cod.
pen., 87 e 124 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo
unico  delle  disposizioni legislative in materia di beni culturali e
ambientali),  fatto  «accertato  dal  luglio  1995 in poi, situazione
permanente»;  nonche'  del  reato di cui agli artt. 81, 110, 483 cod.
pen.; artt. 65, 66 e 123 del predetto testo unico, fatto commesso dal
1960 al 17 aprile 1999; il secondo del reato di cui all'art. 416 cod.
pen., commesso dal 1960 all'aprile 2002.
   Rileva  il  giudice a quo che la questione e' rilevante poiche' il
procedimento,  alla  data di entrata in vigore della legge n. 251 del
2005,  pendeva in grado di appello in ordine al reato di ricettazione
di cui all'art. 648 cod. pen., reato che ha costituito la base su cui
il primo giudice ha operato gli aumenti per la continuazione esterna,
essendo  la  maggior  parte  degli  episodi in continuazione commessi
anteriormente  al  1995  e  dovendo  trovare applicazione l'art. 158,
primo  comma,  cod.  pen.,  in  tema  di decorrenza del termine della
prescrizione nel reato continuato. Secondo il rimettente, inoltre, in
base  alla  disciplina dettata dagli artt. 157 e 158 cod. pen., nella
formulazione  anteriore  all'entrata in vigore della legge n. 251 del
2005,  i  termini  di  prescrizione  massima  sono di quindici anni e
maturano  «dal  giorno  in cui e' cessata la continuazione», pertanto
non prima del 2010, mentre, se si ha riguardo alla nuova formulazione
degli  artt.  157 e 158 cod. pen. tali termini, ridotti a dieci anni,
sono  maturati,  per  il  maggiore  numero dei fatti-reato, prima nel
2005.
   Osserva   la  rimettente  che  il  tenore  letterale  della  norma
impugnata  impone di ritenere che tra «le nuove disposizioni» rientra
anche  la  nuova  formulazione dell'art. 158, primo comma, cod. pen.,
come  si  desume  anche  dalla circostanza che l'art. 10, comma 2, fa
espresso  richiamo  all'art.  6,  nel  quale  e' appunto contenuta la
modifica  dell'art.  158, primo comma, cod. pen. (viene richiamata la
sentenza   della  Corte  di  cassazione,  sez.  II,  5  maggio  2006,
n. 19584).
   Ritiene il giudice a quo che l'art. 3 della Costituzione impone al
legislatore,  allorche'  escluda  l'applicazione  retroattiva  di una
norma  che  preveda  un  trattamento  sostanziale piu' favorevole, di
assicurare  il pari trattamento dei cittadini, con la conseguenza che
detta esclusione deve avere una giustificazione razionale.
   Lo  stesso  rimettente  condivide le argomentazioni esposte, per i
processi   pendenti   in   primo  grado,  nella  citata  sentenza  di
incostituzionalita'  n. 393  del 23 ottobre 2006 citata - che possono
estendersi  ai procedimenti pendenti in grado di appello - secondo le
quali   e'   carente   di  razionalita'  una  disciplina  transitoria
riguardante la entrata in vigore di una disciplina sostanziale, quale
quella  della  prescrizione, che faccia dipendere la esclusione della
retroattivita'  della  norma piu' favorevole solo dall'evoluzione del
processo  e  dal  grado  in cui esso sia pervenuto ad una certa data,
costituendo  tale  evoluzione e il relativo grado processuale aspetti
irrilevanti  rispetto  al  decorso,  uguale per tutti, del termine di
prescrizione,  che  non puo' trovare la sua ragion d'essere nel grado
del  processo il quale, come gia' osservato nella richiamata sentenza
costituzionale,   «non   e'   in   alcun  modo  idoneo  a  correlarsi
significativamente  ad  un  istituto  di  carattere  generale come la
prescrizione,  e  al  complesso delle ragioni che ne costituiscono il
fondamento,  legato  al  gia'  menzionato  rilievo che il decorso del
tempo  da  un  lato fa diminuire l'allarme sociale e dall'altro rende
piu' difficile l'esercizio del diritto di difesa». In caso contrario,
qualora cioe' l'effetto retroattivo della disciplina sopravvenuta sia
collegato  al  mero  dato  processuale  del superamento o meno di una
certa   soglia,   puo'   prospettarsi  una  intrinseca  irragionevole
disparita'  di  trattamento tra coloro che hanno commesso il medesimo
reato  prima dell'entrata in vigore della nuova normativa, alcuni dei
quali, solo perche' piu' rapidamente processati, si trovino ad essere
giudicati in base alla disciplina previgente, e coloro che, per cause
diverse, abbiano beneficiato di un iter processuale piu' lento.
   In particolare, la scelta di individuare il momento della pendenza
del  processo  in  grado  di  appello  come  discrimine temporale per
l'applicazione  della lex mitior nei processi in corso di svolgimento
in  tale grado di giudizio alla data di entrata in vigore della legge
n. 251  del  2005,  non appare sostenuta dalla necessita' di tutelare
interessi    di    analogo   rilievo,   mentre   «lo   scrutinio   di
costituzionalita'  ex  art.  3  della  Costituzione,  sulla scelta di
derogare  alla  retroattivita' di una norma penale piu' favorevole al
reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a
tal  fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente
irragionevole»  (cfr. la sentenza n. 393 del 2006), atteso il livello
di rilevanza dell'interesse preservato dalla lex mitior, quale emerge
dal  grado  di protezione accordatogli dal diritto interno, vincolato
all'osservanza del diritto internazionale convenzionale e del diritto
comunitario.
   Secondo il rimettente, inoltre, non e' manifestamente infondata la
questione  di  legittimita'  costituzionale  della norma in questione
anche  con  riferimento  all'art.  10,  secondo  comma,  e  11  della
Costituzione,   secondo   cui  l'ordinamento  giuridico  italiano  si
conforma   alle   norme   del   diritto  internazionale  generalmente
riconosciute,  in  quanto tra le dette norme, come riconosciuto dalla
citata   sentenza  n. 393  del  2006,  si  colloca  il  principio  di
necessaria   applicazione   della   norma   penale  piu'  favorevole,
(ancorche'  non  incluso  nell'art.  25  della  Costituzione),  quale
portato  della  civilta'  giuridica  internazionale  ed espressamente
previsto  in convenzioni e trattati internazionali, tra cui l'art. 15
del  Patto  di  New  York,  che  sancisce che «Se posteriormente alla
commissione  del  reato,  la legge prevede l'applicazione di una pena
piu'   lieve,   il   colpevole   deve  beneficiarne»:  principio  che
costituisce  inoltre  norma generale del diritto comunitario, secondo
l'art. 6, secondo comma, del Trattato di Amsterdam, che statuisce che
«L'Unione  rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali,  firmata  a  Roma  4  novembre  1950, e quali
risultano  dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri,
in  quanto principi generali del diritto comunitario»). In ossequio a
tale principio, la Corte di giustizia delle Comunita' europee, con le
sentenze  12 giugno 2003, nella causa C-112/00, 10 luglio 2003, nelle
cause  C-20/00  e  C64/00  e da ultimo con la sentenza 3 maggio 2005,
nelle  cause C-387/02, C-391/02 e C-403/02, ha precisato che «Secondo
una  giurisprudenza  costante,  i  diritti fondamentali costituiscono
parte  integrante  dei  principi generali del diritto di cui la Corte
garantisce  l'osservanza.  A  tal  fine  quest'ultima  si ispira alle
tradizioni  costituzionali  degli  Stati  membri  e  alle indicazioni
fornite  dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti
dell'uomo.  Orbene,  il principio dell'applicazione retroattiva della
pena  piu'  mite fa parte delle tradizioni costituzionali degli Stati
membri.  Ne deriva che questo principio deve essere considerato parte
integrante  dei  principi  generali  del  diritto  comunitario che il
giudice  nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale
adottato per attuare l'ordinamento comunitario».
   4.2.  -  Si  e'  costituito  in  giudizio  uno degli imputati e ha
depositato  una  memoria, con la quale si ripercorrono le motivazioni
della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale, sostenendo
la  tesi  della  fondatezza  della  questione  sollevata  dalla Corte
d'appello.
   La  parte  privata aggiunge inoltre che sarebbe discriminatorio ed
irragionevole  fissare  una  separazione  nell'applicazione della lex
mitior  nel  momento  in  cui  e' completato il dibattimento di primo
grado. Nel caso di specie l'imputato ha optato per il rito abbreviato
e  si  trova  ora  in  grado  di  appello; gli imputati che non hanno
chiesto  il rito alternativo si trovano invece ancora in primo grado,
con  la conseguenza che in uno stesso originario processo finirebbero
con il trovare applicazione due diverse leggi penali sostanziali.
   Parimenti  fondata  sarebbe  la  questione  sotto  il  profilo del
momento  a  partire  dal  quale  decorre la prescrizione. La modifica
dell'art.  158  cod.  pen.  riguardante il reato continuato, ad opera
dell'art.  6,  comma  2,  della  legge  n. 251 del 2005, attenendo al
diritto  penale  sostanziale e non a quello processuale, deve potersi
applicare  anche  ai  processi  in corso, e dunque non puo' parimenti
trovare  un  ostacolo  nell'art.  10, comma 3, della legge n. 251 del
2005.
   5.1.  -  Con ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007),
la  Corte d'appello di Palermo ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  10,  comma 3, della legge 5 dicembre 2005,
n. 251  -  in  riferimento  all'art.  3 della Costituzione -, perche'
derogherebbe  ingiustificatamente  al  disposto  dell'art.  2, quarto
comma,  cod.  pen.  secondo  cui  «Se  la  legge  del tempo in cui fu
commesso  il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le
cui  disposizioni  sono  piu'  favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile».
   Secondo  il  rimettente,  la  questione sarebbe non manifestamente
infondata, alla luce soprattutto della sentenza n. 393 del 2006 della
Corte  costituzionale,  limitatamente  alle parole «dei processi gia'
pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura
del  dibattimento, nonche». Afferma il giudice a quo che la norma del
codice  penale  piu' favorevole deve essere interpretata, ed e' stata
costantemente  interpretata dalla giurisprudenza costituzionale (e da
quella di legittimita), nel senso che la locuzione «disposizioni piu'
favorevoli  al  reo»  si riferisce a tutte quelle norme che apportino
modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi
comprese  quelle che incidono sulla prescrizione del reato, e che nel
caso  di  specie l'art. 6 della legge n. 251 del 2005, risulta essere
per  l'imputato chiaramente piu' favorevole, poiche' fissa il termine
massimo  di prescrizione in relazione al reato contestato al medesimo
nella  misura  di anni sei, mentre, ai sensi dell'art. 157 cod. pen.,
prima della modifica il termine di prescrizione era di anni quindici.
   Conclude  il giudice a quo rilevando che la scelta del legislatore
di  escludere  la  disciplina  della  legge  n. 251  del  2005  per i
«processi gia' pendenti in grado di appello» (art. 10, comma 3, legge
n. 251  del  2005)  non  appare sorretta da giustificazioni di ordine
logico,  ne'  appare  ispirata  a  finalita'  tali da giustificare il
diverso trattamento cosi' riservato a diverse categorie di cittadini.
   5.2.   -  Nel  giudizio  innanzi  alla  Corte  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che la questione
venga    dichiarata    infondata,   alla   stregua   delle   medesime
argomentazioni gia' riportate.
                       Considerato in diritto
   1.  -  La  Corte d'appello di L'Aquila, con ordinanza del 24 marzo
2006 (r.o. n. 273 del 2006), dubita della legittimita' costituzionale
dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al  codice  penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti  generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze  di  reato  per  i recidivi, di usura e di prescrizione),
nella  parte  in  cui esclude dall'applicazione delle norme contenute
nell'art.  6  della  medesima legge i procedimenti penali pendenti in
grado  d'appello,  per  violazione  dell'art.  3  della Costituzione,
perche'    determinerebbe   una   disparita'   di   trattamento   non
giustificabile,  in  quanto  irragionevolmente  rimessa  a criteri di
selezione  assolutamente  distonici rispetto alla ratio dell'istituto
della prescrizione.
   2. - La Corte d'appello di Roma, con tre ordinanze del 20 dicembre
2006  (r.o.  nn.  105, 106 e 107 del 2007), dubita della legittimita'
costituzionale  dello stesso art. 10, comma 3, della legge n. 251 del
2005,  nella  parte  in  cui  esclude  l'applicazione  dei termini di
prescrizione  piu' brevi ai processi gia' pendenti in grado d'appello
alla  data  di entrata in vigore della medesima legge, per violazione
dell'art.  3  della  Costituzione, perche' la pendenza in appello non
sarebbe  indicata  tra  gli  atti  interruttivi  della prescrizione e
perche' la pendenza stessa dipenderebbe dalla data in cui il processo
perviene presso il giudice ad quem, data che, a sua volta, dipende da
una  pluralita' di fattori esterni (gli incombenti di cancelleria per
la   trasmissione   del  fascicolo)  e  non  da  attivita'  puramente
giurisdizionale;   inoltre   il   fatto  da  giudicare  nel  processo
d'appello,  proprio  per  l'ulteriore  decorso del termine rispetto a
quello  di primo grado, sarebbe connotato da minore allarme sociale e
al  contempo  renderebbe  piu'  difficile  l'esercizio del diritto di
difesa.
   3.  -  La  stessa  Corte  d'appello  di Roma, con ordinanza del 10
gennaio  2007  (r.o.  n. 347 del 2007), censura la medesima norma per
violazione  dell'art.  3  della Costituzione, sotto il profilo che la
ricezione  degli  atti,  datata  dalla  cancelleria  del  giudice del
gravame,  si  risolverebbe  in regola d'applicazione o no dei termini
piu'  brevi  di  prescrizione, a seconda che gli atti siano pervenuti
successivamente  o anteriormente all'8 dicembre 2005, dal momento che
questo    discrimine    temporale   limiterebbe   il   principio   di
retroattivita'   della   legge   penale   piu'   favorevole  in  modo
irragionevole e determinerebbe una disparita' di trattamento dovuta a
fattori   casuali,   essendo   il   tempo   degli   adempimenti   non
giurisdizionali  variabile  e non identico in tutti i casi (art. 582,
secondo  comma, del codice di procedura penale), e non trattandosi di
una  mera  disparita'  di fatto, cui sia estranea la norma censurata,
ma, piuttosto, di un inconveniente emergente dal meccanismo legale.
   4.  -  La  Corte  d'appello di Roma, con ordinanza del 19 febbraio
2007 (r.o. n. 383 del 2007), dubita della legittimita' costituzionale
dello  stesso  art.  10,  comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella
parte   in   cui  esclude  dall'applicazione  delle  norme  contenute
nell'art.  6  della  medesima legge i procedimenti penali pendenti in
grado  d'appello  e,  dunque,  anche  nella  parte  in  cui impedisce
l'applicabilita'    della   nuova   disciplina   della   prescrizione
riguardante  il  reato  continuato,  per violazione dell'art. 3 della
Costituzione, in particolare perche' realizzerebbe una ingiustificata
disparita'  di  trattamento tra coloro che hanno commesso il medesimo
reato, alcuni dei quali, solo perche' piu' rapidamente processati, si
siano trovati ad essere giudicati in base alla disciplina previgente,
e  coloro  che,  per  cause  diverse,  abbiano beneficiato di un iter
processuale  piu'  lento;  nonche'  per  violazione  degli  artt. 10,
secondo  comma, e 11 della Costituzione, in quanto, come riconosciuto
dalla  sentenza  n. 393  del  2006, il principio della retroattivita'
della  norma  penale  piu'  favorevole  costituisce  un principio del
diritto internazionale e del diritto comunitario.
   5.  -  Con ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007) la
Corte  d'appello  di Palermo dubita della legittimita' costituzionale
dello  stesso  art.  10,  comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella
parte   in   cui  esclude  dall'applicazione  delle  norme  contenute
nell'art.  6  della  medesima legge i procedimenti penali pendenti in
grado   d'appello,   ancora   per   violazione   dell'art.   3  della
Costituzione,  perche'  verrebbe  a  determinare  una  disparita'  di
trattamento tra diverse categorie di cittadini.
   6.  -  Tutte  le  ordinanze  sollevano  questione  di legittimita'
costituzionale  della  stessa  norma,  onde  deve  essere disposta la
riunione dei relativi giudizi, per essere congiuntamente decisi.
   7.  -  La questione sollevata dalla Corte d'appello di L'Aquila e'
manifestamente    inammissibile    per   omessa   descrizione   della
fattispecie,  non  enunciando il giudice rimettente ne' la natura del
reato,  ne' la data della sua commissione, e non chiarendo nemmeno se
l'appello  fosse  pendente  alla  data  dell'8 dicembre 2005, data di
entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.
   E'   infatti  costante,  nella  giurisprudenza  di  questa  Corte,
l'affermazione  del  principio  secondo  cui  il giudice deve rendere
esplicite  le  ragioni  che  lo  inducono a sollevare la questione di
costituzionalita'   con   una  motivazione  autosufficiente  tale  da
permettere  la  verifica  della  valutazione  sulla rilevanza, con la
conseguenza  che  ove,  come nella specie, per le evidenziate lacune,
tale   valutazione  non  sia  possibile,  la  questione  proposta  e'
manifestamente  inammissibile  (ex  plurimis, ordinanze n. 23 e n. 19
del 2008).
   8.  -  Anche  la questione sollevata dalla Corte d'appello di Roma
con  l'ordinanza  del  20  dicembre  2006  (r.o.  n. 105 del 2007) e'
manifestamente  inammissibile,  per  le  stesse ragioni in precedenza
indicate,  in  quanto  il  rimettente  afferma  di  dovere  giudicare
dell'appello  di  un  imputato  condannato  dal  giudice dell'udienza
preliminare  presso il Tribunale di Roma con sentenza dell'8 febbraio
2001  per  il  reato  di  cui agli artt. 453 e 455 del codice penale,
commesso il 7 febbraio 2005.
   L'errore  commesso  dal  giudice  a  quo nell'indicare la data del
commesso reato non consente di valutare la rilevanza della questione,
essendo  impossibile  l'emanazione di una sentenza quattro anni prima
della  commissione  del  reato;  per  tacere poi del fatto che, se il
reato fosse stato realmente commesso il 7 febbraio 2005, la questione
sarebbe  pur  sempre  irrilevante  per  non  essere il reato comunque
prescritto.
   9.  - Del pari manifestamente inammissibile, per i medesimi motivi
esposti  sub  n. 7  e  n. 8,  e'  la  questione sollevata dalla Corte
d'appello  di  Roma con l'ordinanza del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 106
del  2007),  con  la  quale il rimettente afferma di dovere giudicare
dell'appello  di  un  imputato  condannato  dal  giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale di Roma con sentenza 18 aprile 2000 (per il
reato  di  cui  all'art. 368 cod. pen., commesso il 9 aprile 1998), a
seguito  della  sentenza della Corte di cassazione 30 settembre 2002,
che  aveva  annullato  la  sentenza  della Corte d'appello di Roma 25
ottobre  2001,  con  la  quale  era  stata confermata la sentenza del
giudice dell'udienza preliminare.
   L'art.  368  cod.  pen. prevede, al terzo comma, una aggravante ad
effetto  speciale  del  delitto  di calunnia, nei casi di particolare
gravita'  del  reato  di  cui  si  incolpa  qualcuno  e,  quindi, una
prescrizione  diversa  in  tali  casi.  Il  rimettente non specifica,
pero',  di  quale reato e' stato accusato il calunniato, il che rende
impossibile  il  calcolo  della  prescrizione e, conseguentemente, la
verifica della rilevanza della questione.
   10.  -  E',  infine,  manifestamente  inammissibile, per le stesse
ragioni  in  precedenza  esposte,  anche la questione sollevata dalla
Corte  d'appello di Palermo con l'ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o.
n. 642 del 2007).
   Il rimettente si limita ad affermare che le nuove norme fissano il
termine  massimo  di  prescrizione  di  sei anni, mentre, prima della
modifica,  il  termine era di anni quindici, senza neppure enunciare,
al  fine  della  verifica  della  rilevanza,  quale  sia  il reato da
giudicare  e  se  l'appello  fosse pendente alla data dell'8 dicembre
2005.
   11.   -   Le   questioni  sollevate  con  le  altre  ordinanze  e,
precisamente,  quelle  della  Corte d'appello di Roma del 20 dicembre
2006  (r.o.  n. 107  del  2007), del 10 gennaio 2007 (r.o. n. 347 del
2007) e del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007) non sono fondate,
sulla base delle considerazioni che seguono.
   12.  -  La  legge  n. 251 del 2005 ha ridotto, per alcuni reati, i
termini di prescrizione.
   La  legge,  dopo  avere  stabilito  (art.  10, comma 1) la propria
entrata   in   vigore   il  giorno  successivo  a  quello  della  sua
pubblicazione  nella  Gazzetta Ufficiale, aggiunge (comma 3) che «Se,
per  effetto  delle  nuove  disposizioni,  i  termini di prescrizione
risultano  piu'  brevi,  le  stesse si applicano ai procedimenti e ai
processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge
ad  esclusione  dei  processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia
stata  la  dichiarazione  di  apertura  del dibattimento, nonche' dei
processi  gia'  pendenti  in  grado di appello o avanti alla Corte di
cassazione».
   Questa  Corte,  con  la  sentenza  n. 393  del 2006, ha dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  di  tale comma 3 limitatamente alle
parole «dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata la
dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche».
   La  predetta  sentenza  ha  affermato  che la prescrizione esprime
l'interesse generale di non perseguire piu' i reati rispetto ai quali
sia  trascorso  un  periodo  di tempo che, secondo la valutazione del
legislatore, ha comportato l'attenuazione dell'allarme sociale e reso
piu'  difficile  l'acquisizione  del materiale probatorio (e, quindi,
l'esercizio  del diritto di difesa), e che la norma volta a ridurre i
termini  di  prescrizione  del  reato si colloca fra le «disposizioni
piu'  favorevoli  al reo» di cui all'art. 2, quarto comma, del codice
penale.  Da tale norma codicistica (e da una serie di dati risultanti
dai  trattati  internazionali  e  dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia    delle   Comunita'   europee)   si   ricava   la   regola
dell'applicazione  retroattiva  delle disposizioni piu' favorevoli al
reo:  deroghe a tale regola sono possibili solo se superano un vaglio
positivo  di  ragionevolezza in quanto mirino a tutelare interessi di
analogo  rilievo  rispetto  a  quelli  soddisfatti dalla prescrizione
(efficienza  del  processo,  salvaguardia  dei  diritti  dei soggetti
destinatari  della  funzione  giurisdizionale)  o relativi a esigenze
dell'intera collettivita' connesse a valori costituzionali.
   In  particolare,  la  deroga  al regime della retroattivita' delle
disposizioni  piu'  favorevoli al reo e' ammissibile nei confronti di
norme  che riducano i termini di prescrizione del reato, purche' essa
sia  coerente con la funzione assegnata dall'ordinamento all'istituto
della  prescrizione  e  tuteli  interessi  del  tipo indicato. Sempre
secondo   la  sentenza  n. 393  del  2006,  la  scelta  di  escludere
l'applicazione retroattiva della norma sulla riduzione dei termini di
prescrizione  del reato ai processi pendenti in primo grado alla data
della  sua  entrata  in  vigore,  ove  sia intervenuta l'apertura del
dibattimento,  non  e'  ragionevole,  in quanto la norma individua il
discrimine fra i processi di primo grado soggetti ai nuovi termini di
prescrizione (piu' brevi) e quelli nei quali continuano ad applicarsi
i   termini   vecchi  (piu'  lunghi)  in  un  momento  (apertura  del
dibattimento)  che,  nel  complesso  della disciplina del processo di
primo  grado,  non  e'  indefettibile  (infatti  non  riguarda i riti
alternativi, miranti a deflazionare il dibattimento, e, in specie, il
giudizio  abbreviato),  ne'  e'  incluso  fra  gli  atti  considerati
rilevanti   dall'art.  160  cod.  pen.  ai  fini  della  prescrizione
(sentenza o decreto di condanna ed altri atti processuali).
   L'apertura  del  dibattimento, quindi, come momento eventuale, non
e'   significativamente  correlabile  ad  un  istituto  di  carattere
generale  come  la  prescrizione  e al complesso delle ragioni che ne
costituiscono  il  fondamento,  legate  al  rilievo sopra ricordato -
anch'esso  di  portata  generale  - che il decorso del tempo non solo
attenua l'allarme sociale, ma rende piu' difficile l'acquisizione del
materiale  probatorio  e,  quindi,  l'esercizio del diritto di difesa
dell'imputato.
   Tale   motivazione   non  si  attaglia  alla  parte  della  stessa
disposizione  censurata  secondo  cui i nuovi, piu' brevi, termini di
prescrizione  non si applicano retroattivamente ai processi che, alla
data  della  sua  entrata  in  vigore, pendano in grado di appello (o
avanti alla Corte di cassazione).
   Invero,   per   tali   processi,   l'esclusione  dell'applicazione
retroattiva della prescrizione piu' breve non discende dall'eventuale
verificarsi  di  un  certo  accadimento  processuale,  ma  dal  fatto
oggettivo  e  inequivocabile che processi di quel tipo siano in corso
ad una certa data.
   Del  resto,  la circostanza che nel processo sia stata pronunciata
una   sentenza  (di  primo  grado)  e'  significativamente  correlata
all'istituto  della  prescrizione,  come si desume dall'art. 160 cod.
pen.  che  considera rilevante ai fini della prescrizione la sentenza
(oltre il decreto di condanna ed altri atti processuali).
   Deve,  in particolare, evidenziarsi che il riferimento generico al
decreto  di  citazione a giudizio, contenuto nell'art. 160 cod. pen.,
consente  di  ricomprendere tra gli atti interruttivi del corso della
prescrizione anche il decreto di citazione per il giudizio di appello
di cui all'art. 601 cod. proc. pen.
   Inoltre,  nei giudizi penali di appello (e ancor piu' in quelli di
cassazione),  l'esigenza  di evitare che l'acquisizione del materiale
probatorio (e quindi l'esercizio del diritto di difesa dell'imputato)
sia  resa piu' difficile dallo scorrere del tempo e' gia' soddisfatta
dalla  disciplina  positiva  di  tali  giudizi.  Infatti,  in  via di
principio,  quel  materiale  probatorio  e'  acquisito  nel corso del
dibattimento   di   primo   grado   (in   appello   la   rinnovazione
dell'istruzione  dibattimentale  e'  ammessa  solo  nei  casi  di cui
all'art. 603 cod. proc. pen.).
   Sotto   tale   profilo,   la   scelta   legislativa  di  escludere
l'applicazione  a  tali  giudizi dei nuovi termini di prescrizione e'
ragionevole,  non  potendosi  per essi invocare la ricordata esigenza
cui il fondamento della prescrizione e' correlato.
   La  ragionevolezza  di tale scelta e' poi ulteriormente comprovata
dal  rilievo  che  essa  -  poiche' nei giudizi in esame il materiale
probatorio,  in  linea di massima, e' ormai stato acquisito - mira ad
evitare  la  dispersione  delle  attivita'  processuali gia' compiute
all'entrata  in  vigore  della legge n. 251 del 2005, secondo cadenze
calcolate  in  base  ai  tempi  di  prescrizione  piu' lunghi vigenti
all'atto  del  loro  compimento,  e cosi' tutela interessi di rilievo
costituzionale  sottesi  al  processo  (come  la  sua efficienza e la
salvaguardia    dei    diritti   dei   destinatari   della   funzione
giurisdizionale).
   Ne  discende che la questione di legittimita' costituzionale della
norma  censurata,  nella  parte in cui esclude l'applicabilita' delle
nuove  disposizioni  ai  processi  gia' pendenti al momento della sua
entrata  in  vigore, proposta in riferimento all'art. 3 Cost., non e'
fondata.
   Dalla   ragionevolezza   della   scelta  operata  dal  legislatore
discende, infine, anche la non fondatezza delle questioni prospettate
in riferimento agli artt. 10, secondo comma, e 11 della Costituzione,
e  cio' sulla base delle affermazioni contenute nella sentenza n. 393
del  2006  che,  nel  riconoscere  la  portata  generale dei principi
ricavabili   dai   trattati   internazionali   circa   l'applicazione
retroattiva delle disposizioni piu' favorevoli all'imputato, ha anche
ammesso  che  a  tale  applicazione si puo' derogare sulla base di un
vaglio positivo di ragionevolezza, nella specie sussistente.
             per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi;
   Dichiara   la   manifesta   inammissibilita'  delle  questioni  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  10,  comma  3, della legge 5
dicembre  2005,  n. 251  (Modifiche  al codice penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva,
di  giudizio  di  comparazione  delle  circostanze  di  reato  per  i
recidivi,  di  usura  e  di  prescrizione), sollevate, in riferimento
all'art.  3 della Costituzione, dalla Corte d'appello di L'Aquila con
l'ordinanza  del  24  marzo  2006 (r.o. n. 273 del 2006), dalla Corte
d'appello  di Roma con le ordinanze del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 105
e n. 106 del 2007) e dalla Corte d'appello di Palermo con l'ordinanza
del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007);
   Dichiara  non  fondate le questioni di legittimita' costituzionale
dello stesso art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, sollevate
dalla  Corte  d'appello  di  Roma,  in  riferimento  all'art. 3 della
Costituzione,  con le ordinanze del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 107 del
2007)  e  del  10  gennaio  2007  (r.o. n. 383 del 2007), nonche', in
riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, e 11 della Costituzione,
con l'ordinanza del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007).
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2008.
                         Il Presidente: Bile
                      Il redattore: Finocchiaro
                      Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 28 marzo 2008.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola