N. 137 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 - 8 novembre 2007

Ordinanza  dell'8  novembre  2007  emessa dal Corte di cassazione nel
procedimento penale a carico di De Nisi Vincenzo
Processo  penale  -  Appello - Modifiche normative recate dalla legge
  n. 46/2006  -  Possibilita'  per  il pubblico ministero di proporre
  appello contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di
  pace  -  Preclusione - Violazione del principio di ragionevolezza -
  Lesione  del  principio  di  parita'  tra  le parti - Richiamo alla
  sentenza n. 26/2007 della Corte costituzionale.
- Decreto   legislativo   28  agosto  2000,  n. 274,  art.  36,  come
  modificato  dall'art.  9,  comma  2,  della legge 20 febbraio 2006,
  n. 46.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.20 del 7-5-2008 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso proposto dal
Procuratore  della  Repubblica  presso  il Tribunale di Benevento nei
confronti  di  De  Nisi  Vincenzo, nato a San Leucio del Sannio il 30
ottobre  1952 avverso la sentenza del Giudice di pace di Benevento in
data 4 maggio 2006.
   Sentita  la  relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal
consigliere Piercamillo Davigo.
   Udita  la  requisitoria  del sostituto procuratore generale, dott.
Giuseppe  Febbraro  il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia
dichiarato inammissibile.
   Udito  il difensore che ha concluso per raccoglimento del ricorso,
osserva.
                       Motivi della decisione
   Con  sentenza  del  4 maggio 2006, il Giudice di pace di Benevento
assolse  De  Nisi  Vincenzo  dal  reato di cui all'art. 638 cod. pen.
perche'  il  fatto  non  sussiste,  peraltro sull'assunto che non era
provata  la sussistenza in capo all'imputato dell'elemento soggettivo
del  reato  (identificato  con  la  coscienza  e  volonta)  in quanto
l'incidente in cui fu ucciso il cane di proprieta' della parte civile
Russo   Lucia   avrebbe   potuto   dipendere   da   uno   sbandamento
dell'autovettura  condotta  dall'imputato.  Il primo giudice rilevava
altresi'  che  i  testi  dell'accusa  e  della  parte civile si erano
contraddetti  (tanto  che  fu  disposta la trasmissione degli atti al
p.m.  per  l'ipotesi  di  falsa testimonianza) e che l'imputato aveva
provato  che  al  momento  dell'incidente si trovava in altro luogo a
fungere da autista alla moglie.
   Ricorre  per  cassazione il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale   di  Benevento  (su  sollecitazione  della  parte  civile)
deducendo  violazione  della  legge  penale e vizio di motivazione in
quanto la motivazione della sentenza impugnata e' in contrasto con la
formula  adottata  nel  dispositivo  e  si  fonda su una premessa, lo
sbandamento  dell'auto,  di  cui  non vi sarebbe traccia in atti, pur
dando  atto  che  i  fatti  si  erano svolti come esposto dalla parte
civile,   ma   contestualmente   valutando  come  contraddittorie  le
testimonianze  dei  testimoni  indicati  dall'accusa  e  dalla  parte
civile.  Ancora  la sentenza impugnata, pur affermando che l'imputato
avrebbe  provato  di  essere stato altrove al momento dell'incidente,
non  considera che il teste Castaldo Giancarlo (sulla cui deposizione
si  fonderebbe l'affermazione) aveva affermato di non avere specifici
ricordi per il giorno dell'incidente.
   Il ricorso dovrebbe essere convertito in appello se non vi ostasse
una   disposizione   di   legge  che  questa  Corte  sospetta  essere
costituzionalmente   illegittima  (come  del  resto  ha  ritenuto  il
Tribunale  di  Tempio Pausania che ha sollevato la relativa questione
con  ordinanza  in  data  11  aprile  2006  pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 1 del 3 gennaio 2007).
   Si  deve infatti rilevare che il ricorso e' stato proposto in data
12  giugno  2006, vale a dire dopo la modifica dell'art. 36 d.lgs. 28
agosto 2000, n. 274, ad opera dell'art. 9, comma 2, legge 20 febbraio
2006,  n. 46,  che  ha  soppresso  la  possibilita'  per  il pubblico
ministero  di  appellare  le  sentenze  di  proscioglimento per reati
puniti  con  pene  alternative qual e' appunto quello di cui all'art.
638 cod. pen.
   Occorre  anche ricordare che la Corte costituzionale, con sentenza
n. 26  del  24  gennaio  2007,  depositata  il  6  febbraio  2007, ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 20
febbraio 2006, n. 46, "nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del
codice  di  procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa
appellare  contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per
le  ipotesi  di cui all'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la
nuova prova e' decisiva", nonche' dell'art. 10, comma 2, della citata
legge  n. 46/2006, "nella parte in cui prevede che l'appello proposto
contro  una  sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima
della  data  di  entrata in vigore della medesima legge e' dichiarato
inammissibile".
   Le ragioni poste a base della pronunzia della Corte costituzionale
appaiono applicabili anche all'art. 36 d.lgs. n. 274/2000 citato.
   Infatti  la  Corte  costituzionale,  nella sentenza sopra indicata
n. 26/2007, ha cosi' motivato:
     «4.  -  In  riferimento  all'art.  111, secondo comma, Cost., la
questione e' fondata.
   Giova  premettere  come, secondo quanto reiteratamente rilevato da
questa  Corte,  il  secondo comma dell'art. 111 Cost., inserito dalla
legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi
del  giusto  processo  nell'articolo  111 della Costituzione) - nello
stabilire  che  "ogni  processo  si svolge nel contraddittorio tra le
parti,  in  condizioni di parita' - abbia conferito veste autonoma ad
un  principio,  quello  di  parita'  delle parti, "pacificamente gia'
insito  nel  pregresso  sistema dei valori costituzionali" (ordinanze
n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
   Anche  dopo  la  novella costituzionale, resta pertanto pienamente
valida l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della
Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363
del  1991;  ordinanze  n. 426  del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del
1992)  -  secondo  la  quale,  nel  processo  penale, il principio di
parita'  tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita'
tra   i   poteri   processuali   del   pubblico  ministero  e  quelli
dell'imputato:  potendo  una  disparita'  di  trattamento  "risultare
giustificata,  nei  limiti  della ragionevolezza, sia dalla peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione  della  giustizia"  (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165
del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
   Alla   luce   di   tale  consolidato  indirizzo,  le  fisiologiche
differenze  che connotano le posizioni delle due parti necessarie del
processo  penale, correlato alle diverse condizioni di operativita' e
ai  differenti  interessi  dei  quali,  anche  alla luce dei precetti
costituzionali,  le  parti  stesse sono portatrici - essendo l'una un
organo  pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di
interessi  collettivi;  l'altra  un  soggetto  privato  che difende i
propri   diritti   fondamentali   (in   primis,  quello  di  liberta'
personale),  sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna
impediscono  di  ritenere che il principio di parita' debba (e possa)
indefettibilmente  tradursi,  nella  cornice di ogni singolo segmento
dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facolta'.
   Alterazioni  di  tale  simmetria  -  tanto nell'una che nell'altra
direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella
privata)  -  sono  invece compatibili con il principio di parita', ad
una  duplice  condizione:  e,  cioe', che esse, per un verso, trovino
un'adeguata   ratio   giustificatrice  nel  ruolo  istituzionale  del
pubblico  ministero,  ovvero  in  esigenze  di  funzionale e corretta
esplicazione  della  giustizia  penale,  anche  in vista del completo
sviluppo  di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per
un  altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di
complessivo  riequilibrio  dei poteri, avuto riguardo alle disparita'
di  segno  opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da
quelle  in  cui  s'innesta  la singola norma discriminatrice avuta di
mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) entro i
limiti della ragionevolezza.
   Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base
del  rapporto  comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso,
la norma generatrice della disparita' e l'ampiezza dello "scalino" da
essa  creato  tra  le  posizioni delle parti: mirando segnatamente ad
acclarare   l'adeguatezza   della   ratio   e   la   proporzionalita'
dell'ampiezza  di  tale  "scalino"  rispetto a quest'ultima. Siffatta
verifica  non  puo'  essere  pretermessa,  se  non  a  prezzo  di  un
sostanziale  svuotamento,  in parte qua, della clausola della parita'
delle  parti:  non potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione
di  vantaggio  di  cui  fisiologicamente fruisce l'organo dell'accusa
nella  fase  delle  indagini  preliminari,  sul piano della ricchezza
degli  strumenti  investigativi - posizione di vantaggio che riflette
il  ruolo  istituzionale  di  detto  organo,  avuto riguardo anche al
carattere  "invasivo"  e "coercitivo" di determinati mezzi d'indagine
abiliti  di  per  se'  sola il legislatore, in nome di un'esigenza di
"riequillbrio",  a  qualsiasi  deminutio, anche la piu' radicale, dei
poteri  del  pubblico  ministero  nell'ambito  di tutte le successive
fasi.  Una  simile  impostazione  - negando, di fatto, l'esistenza di
limiti    di   compatibilita'   costituzionale   alla   distribuzione
asimmetrica delle facolta' processuali tra i contendenti - priverebbe
di  ogni  concreta valenza la clausola di parita': risultato, questo,
tanto  meno  accettabile  a  fronte  della  sua attuale assunzione ad
espresso ed autonomo precetto costituzionale.
   5.   -   All'indicata   chiave  di  lettura  si  e',  in  effetti,
costantemente  ispirata  la  giurisprudenza  di questa Corte relativa
alla  tematica  -  che  viene  qui specificamente in rilievo -  delle
possibili  dissimmetrie  a sfavore del pubblico ministero in punto di
poteri di impugnazione.
   5.1.   -   Nello   scrutinare   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale  sollevate  a  tal  proposito,  questa Corte ha sempre
recapito  come  corretta la premessa fondante di esse: che, cioe', la
disciplina  delle  impugnazioni,  quale  capitolo  della  complessiva
regolamentazione  del  processo, si collochi anch'essa - sia pure con
le  peculiarita'  che  poco  oltre si evidenzieranno - entro l'ambito
applicativo  del  principio di parita' delle parti; premessa, questa,
la cui validita' deve essere confermata.
   Il  principio  in  parola  non  e'  infatti  suscettibile  di  una
interpretazione  riduttiva,  quale  quella  che  -  facendo  leva, in
particolare, sulla connessione proposta dall'art. 111, secondo comma,
cost.  tra  parita'  delle  parti,  contraddittorio,  imparzialita' e
terzieta' del giudice - intendesse negare alla parita' delle parti il
ruolo  di  connotato  essenziale dell'intero processo, per concepirla
invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e cio'
al  fine  di desumerne che l'unico mezzo d'impugnazione, del quale le
parti  dovrebbero  indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il
ricorso  per  cassazione  per violazione di legge, previsto dall'art.
111, settimo comma, Cost.
   Una  simile  ricostruzione  finirebbe  difatti  per  attribuire al
principio  di  parita'  delle  parti,  in  luogo  del  significato di
riaffermazione  processuale dei principi di cui all'art. 3 Cost., una
antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno
plausibile  a fronte del tenore letterale della norma costituzionale,
nella   quale  la  parita'  delle  parti  e'  enunciata  come  regola
generalissima,  riferita  indistintamente  ad "ogni processo" e senza
alcuna   limitazione   a  determinati  momenti  o  aspetti  dell'iter
processuale. Ne' puo' trarsi argomento, in contrario, dallo specifico
risalto  che  il  legislatore  costituzionale  ha inteso assegnare al
valore  del  contraddittorio  nel  processo  penale,  attestato dalle
puntuali  "direttive"  al  riguardo impartite nel quarto e nel quinto
comma  dell'art.  111  Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano
logico,   che   tale   distinto   valore   -   anziche'  affiancarsi,
rafforzandolo,  al  principio di parita' - sia destinato ad esplicare
un  ruolo  limitativo  del  medesimo;  cosi'  da  legittimare  l'idea
palesemente  inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale,
ad  esempio,  il  processo  civile - per cui, nel processo penale, la
clausola  di  parita' opererebbe solo nei confini del procedimento di
formazione della prova.
   5.2.  - Cio' posto, questa Corte ha ribadito che, anche per quanto
attiene  alla  disciplina delle impugnazioni, parita' delle parti non
significa,  nel  processo penale, necessaria omologazione di poteri e
facolta'.
   A  tal proposito - sulla premessa che la garanzia del doppio grado
di   giurisdizione   non  fruisce,  di  per  se',  di  riconoscimento
costituzionale  (ex  plurimis,  sentenza  n. 280  del 1995; ordinanza
n. 316  del  2002)  - questa Corte ha in particolare rilevato come il
potere  di  impugnazione  nel merito della sentenza di primo grado da
parte  del  pubblico ministero presenti margini di "cedevolezza" piu'
ampi,  a  fronte  di  esigenze  contrapposte,  rispetto  a quelli che
connotano   il   simmetrico   potere   dell'imputato.  Il  potere  di
impugnazione   della   parte   pubblica   trova,  infatti,  copertura
costituzionale   unicamente   entro  i  limiti  di  operativita'  del
principio  di  parita'  delle  parti  - "flessibile" in rapporto alle
rationes  dianzi  evidenziato  -  non potendo essere configurato come
proiezione necessaria del principio di obbligatorieta' dell'esercizio
dell'azione  penale,  di  cui all'art. 112 Cost. (sentenza n. 280 del
1995;  ordinanze  n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e
n. 426  del  1998);  mentre  il  potere di impugnazione dell'imputato
viene  a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto
di  difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di
fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del 1994).
   Cio' non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere
di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare
potere  dell'imputato,  debbano  comunque rappresentare - ai fini del
rispetto  del  principio di parita' - soluzioni normative sorrette da
una   ragionevole  giustificazione,  nei  termini  di  adeguatezza  e
proporzionalita'  dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su
questo  versante  -  se  non  a  prezzo  di  svuotare  di significato
l'enunciazione  di detto principio con riferimento al processo penale
-  che  l'evidenziata  maggiore  "flessibilita'" della disciplina del
potere  di  impugnazione  del  pubblico ministero legittimi qualsiasi
squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni
normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalita'.
   5.3.  -  In simile ottica, questa Corte si e' quindi ripetutamente
pronunciata  -  tanto  prima che dopo la modifica dell'art. 111 Cost.
nel  senso  della  compatibilita'  con  il principio di parita' delle
parti  della  norma  che  escludeva  l'appello del pubblico ministero
avverso  le  sentenze  di  condanna  emesse  a  seguito  di  giudizio
abbreviato, anche nella sola forma dell'appello incidentale, salvo si
trattasse  di  sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443,
comma 3, e 595 cod. proc. pen.).
   Al  riguardo,  si  e'  infatti  osservato come la soppressione del
potere  della  parte  pubblica  di impugnare nel merito decisioni che
segnavano  "comunque  la  realizzazione  della pretesa punitiva fatta
valere  nel  processo  attraverso  l'azione  intrapresa" - essendo lo
scarto   tra   la  richiesta  dell'accusa  e  la  sentenza  sottratta
all'appello  non di ordine "qualitativo", ma meramente "quantitativo"
-  risultasse  razionalmente giustificabile alla luce dell'"obiettivo
primario  di  una rapida e completa definizione dei processi svoltisi
in  primo  grado  secondo  il  rito  alternativo  di  cui  si tratta"
(sentenza  n. 363  del  1991;  ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del
1991):  rito  che - sia pure per scelta esclusiva dell'imputato, dopo
le  modifiche attuate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - "implica
una  decisione  fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto
dalla  parte  che  subisce  la  limitazione  censurata,  fuori  delle
garanzie  del  contraddittorio" (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del
2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
   Tali caratteristiche del giudizio abbreviato - che conferiscono un
particolare risalto alla dissimmetria di segno opposto, riscontrabile
a   favore   del   pubblico   ministero  nella  fase  delle  indagini
preliminari, le cui risultanze sono direttamente utilizzabili ai fini
della  decisione  (al riguardo, si veda la sentenza n. 98 del 1994) -
valevano,   dunque,   a  rendere  la  scelta  normativa  in  discorso
"incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata
al  fine  preminente  della speditezza del processo" (sentenza n. 363
del 1991). Fine al quale non avrebbe potuto essere invece sacrificato
-   per   la  ragione  dianzi  indicata  -  lo  speculare  potere  di
impugnazione dell'imputato (sentenza n. 98 del 1994).
   6.  -  Ben  diversa e' la situazione nel caso oggetto dell'odierno
scrutinio di costituzionalita'.
   6.1.  -  Al  di sotto dell'assimilazione formale delle parti - "il
pubblico  ministero e l'imputato possono appellare contro le sentenze
di  condanna" (ergo, non contro quelle di proscioglimento) - la norma
censurata   racchiude   una   dissimmetria   radicale.  A  differenza
dell'imputato,  infatti,  il  pubblico  ministero  viene  privato del
potere  di  proporre  doglianze  di merito avverso la sentenza che lo
veda  totalmente  soccombente,  negando per integrum la realizzazione
della  pretesa  punitiva  fatta  valere  con  l'azione intrapresa, in
rapporto a qualsiasi categoria di reati.
   Ne'  varrebbe,  al  riguardo,  opporre  che  l'inappellabilita'  -
sancita  per entrambe le parti - delle sentenze di proscioglimento si
presta  a  sacrificare  anche l'interesse dell'imputato, segnatamente
allorche'   il   proscioglimento   presupponga   un  accertamento  di
responsabilita'  o  implichi  effetti  sfavorevoli.  Tale conseguenza
della riforma - in ordine alla quale sono stati prospettati ulteriori
e  diversi  problemi  di  costituzionalita',  di  cui la Corte non e'
chiamata  ad  occuparsi  in  questa  sede - non incide comunque sulla
configurabilita' della rilevata sperequazione, per cui una sola delle
parti,  e  non l'altra, e' ammessa a chiedere la revisione nel merito
della pronuncia a se' completamente sfavorevole.
   E'  evidente, poi, come tale sperequazione non venga attenuata, se
non  in modo del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui
al  comma  2  dell'art  593  cod.  proc.  pen.,  in forza della quale
l'appello  contro  le sentenze di proscioglimento e' ammasso nel caso
di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio
di  primo  grado:  previsione  non presente nel testo originariamente
approvato  dal  Parlamento,  ma introdotta a fronte dei rilievi su di
esso  formulati  dal  Presidente  della  Repubblica  con il messaggio
trasmesso alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell'art. 74, primo
comma,  Cost.,  nel  quale  si  era  segnalato, tra l'altro, come "la
soppressione   dell'appello   delle   sentenze   di  proscioglimento"
determinasse   -   stante   la  "disorganicita'  della  riforma"  una
condizione  di  disparita'  "delle parti nel processo" ... che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse". Risulta, infatti, palese come l'ipotesi considerata -
sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive nel corso del breve
termine  per impugnare (art. 585 cod. proc. pen. ) presenti connotati
di   eccezionalita'   tali   da   relegarla   a   priori  ai  margini
dell'esperienza   applicativa   (oltre  a  non  coprire,  ovviamente,
l'errore di valutazione nel merito).
   Altrettanto evidente, ancora, e' come l'eliminazione del potere di
appello  del  pubblico ministero non possa ritenersi compensata - per
il  rispetto  del principio di parita' delle parti - dall'ampliamento
dei  motivi  del ricorso per cassazione, parallelamente operato dalla
stessa  legge  n. 46 del 2006 (lettere d ed e dell'art. 606, comma 1,
cod. proc. pen., come sostituite dall'art. 8 della legge): e cio' non
soltanto  perche' tale ampliamento e' sancito a favore di entrambe le
parti,  e  non  del  solo  pubblico ministero; ma anche e soprattutto
perche'  -  quale  che  sia l'effettiva portata dei nuovi e piu' ampi
casi  del ricorso - il rimedio non attinge comunque alla pienezza del
riesame di merito, consentito dall'appello.
   6.2.  -  La rimozione del potere di appello del pubblico ministero
si   presenta,  per  altro  verso,  generalizzata  e  unilaterale  E'
generalizzata,  perche'  non e' riferita a talune categorie di reati,
ma  e'  estesa  indistintamente  a  tutti  i processi: di modo che la
riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell'imputato, in
caso di soccombenza, anche quando si tratti di illeciti bagatellari -
salva  la  preesistente  eccezione relativa alle sentenze di condanna
alla  sola  pena dell'ammenda (art. 593, comma 3, cod. proc. pen.; si
veda, altresi', per i reati di competenza del giudice di pace, l'art.
37  del  d.lgs.  28 agosto 2000, n 274) fa invece cadere quello della
pubblica  accusa anche quando si discuta dei delitti piu' severamente
puniti  e  di  maggiore  allarme  sociale,  che coinvolgono valori di
primario rilievo costituzionale.
   E'    "unilaterale",    perche'   non   trova   alcuna   specifica
"contropartita"  in particolari modalita' di svolgimento del processo
-  come  invece nell'ipotesi gia' scrutinata dalla Corte in relazione
al  rito  abbreviato,  caratterizzata  da  una  contrapposta rinuncia
dell'imputato  all'esercizio di proprie facolta', atta a comprimere i
tempi   processuali   -  essendo  sancita  in  rapporto  al  giudizio
ordinario,  nel  quale l'accertamento e' compiuto nel contraddittorio
delle  parti,  secondo  le generali cadenze prefigurate dal codice di
rito.
   7.  -  A  fronte delle evidenziate connotazioni, l'alterazione del
trattamento  paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame,
non   puo'   essere   giustificata,   in  termini  di  adeguatezza  e
proporzionalita',  sulla  base  delle  rationes che, alla stregua dei
lavori parlamentari si collocano alla radice della riforma.
   7.1.  -  A  sostegno  della  soluzione  normativa censurata, si e'
rilevato,  anzitutto, che l'avvenuto proscioglimento in primo grado -
rafforzando  la  presunzione  di  non  colpevolezza  impedirebbe  che
l'imputato,  gia'  dichiarato  innocente  da un giudice, possa essere
considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli "al di
la'  di  ogni  ragionevole dubbio", secondo quanto richiesto, ai fini
della  condanna,  dall'art.  533,  comma  1,  cod.  proc.  pen., come
novellato  dall'art.  5  della stessa legge n. 46 del 2006. In simile
situazione,  la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare
un individuo gia' risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una
connotazione  "persecutoria",  contraria  ai  "principi  di uno Stato
democratico"  (in questo senso, in particolare, l'illustrazione della
proposta  di  legge  A.C. 4604 da parte dei relatori alla Commissione
giustizia della Camera dei deputati).
   Al riguardo, e' peraltro sufficiente osservare come la sussistenza
o   meno   della  colpevolezza  dell'imputato  "al  di  la'  di  ogni
ragionevole  dubbio"  rappresenti la risultante di una valutazione: e
la previsione dl un secondo grado di giurisdizione di merito trova la
sua  giustificazione  proprio nell'opportunita' di una verifica piena
della  correttezza  delle valutazioni del giudice di primo grado, che
non  avrebbe  senso  dunque  presupporre  esatte,  equivalendo cio' a
negare  la  ragione stessa dell'istituto dell'appello. In effetti, se
il doppio grado mira a rafforzare un giudizio di "certezza"; esso non
puo'  non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di
primo  grado  puo'  pervenire:  quello  di colpevolezza, appunto, ma,
evidentemente,  anche  quello  -  antitetico  - di innocenza. In tale
ottica,  l'iniziativa  del pubblico ministero volta alla verifica dei
possibili  (ed  eventualmente,  anche  evidenti)  errori commessi dal
primo  giudice, nel negare la responsabilita' dell'imputato, non puo'
qualificarsi,  in  se',  "persecutoria"  essa ha, infatti, come scopo
istituzionale  quello  di  assicurare  la corretta applicazione della
legge penale nel caso concreto e - tramite quest'ultima - l'effettiva
attuazione   dei  principi  di  legalita'  e  di  eguaglianza,  nella
prospettiva  della  tutela dei molteplici interessi, connessi anche a
diritti   fondamentali,   a   cui   presidio   sono  poste  le  norme
incriminatrici.
   7.2.  -  A  fondamento  della  scelta  legislativa  in esame viene
allegata,  per  altro  verso,  l'esigenza di uniformare l'ordinamento
italiano  alle previsioni dell'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle  liberta'  fondamentali,  adottato  a Strasburgo il 22 novembre
1984,  ratificato  e  reso  esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98;
nonche'  dell'art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo
ai  diritti  civili  e  politici,  adottato a New York il 16 dicembre
1966,  ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
Tali   norme  internazionali  pattizie  prevedono  che  ogni  persona
condannata  per  un  reato  ha diritto a che l'accertamento della sua
colpevolezza   o  la  condanna  siano  riesaminati  da  un  tribunale
superiore  o  di  seconda  istanza:  principio  che  -  si sostiene -
verrebbe  vulnerato  nel  caso  di  condanna dell'imputato in secondo
grado,  conseguente  all'appello  del  pubblico  ministero avverso la
sentenza   di  proscioglimento  emessa  in  primo  grado  (in  questa
prospettiva,  si  veda  la  relazione del proponente alla proposta di
legge A.C. 4604).
   Con  riguardo  ad  entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro,
gia'  in  precedenza  a  rilevare  come  il  riesame  ad  opera di un
tribunale  superiore,  da  esse  previsto a favore dell'imputato, non
debba  necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziche'
con  il ricorso per cassazione; e cio' perche' l'obiettivo perseguito
e'  quello di "assicurare comunque un istanza davanti alla quale fare
valere  eventuali  errori  in  procedendo o in iudicando commessi nel
primo  giudizio,  con  la  conseguenza  che  il  riesame  nel  merito
interverra'  solo  ove  tali  errori  risultino  accertati" (sentenza
n. 288 del 1997; si veda, altresi', la sentenza n. 62 del 1981).
   Al   riguardo,   non  e',  d'altro  canto,  senza  significato  la
circostanza   che  il  legislatore  costituzionale  del  1999  -  nel
riformulare  l'art.  111  Cost., nell'ottica di un suo adeguamento al
principi  del  "giusto processo" - non sia intervenuto sul tema delle
impugnazioni,  continuando  a riferirsi al ricorso per cassazione per
violazione    di    legge    come    unico    rimedio    impugnatorio
costituzionalmente  imposto.  Dirimente e', peraltro, il rilievo che,
alla  luce della disciplina - piu' recente ed analitica di quella del
Patto  internazionale  -  dell'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7
alla  Convezione  europea  (su  cui  soprattutto  fanno leva i lavori
parlamentari),  il  diritto  della persona dichiarata colpevole di un
reato  al  riesame  della  "dichiarazione di colpa o di condanna", da
parte  di  un tribunale superiore, puo' essere oggetto di eccezioni -
oltre  che  "in  caso  di  infrazioni minori" e "in casi nei quali la
persona  interessata  sia  stata  giudicata  in  prima  istanza da un
tribunale  della giurisdizione piu' elevata" - anche quando essa "sia
stata  dichiarata  colpevole  e  condannata  a  seguito di un ricorso
avverso  il  suo  proscioglimento"  (paragrafo  2 del citato art. 2).
Quest'ultima   eccezione  presuppone,  evidentemente,  che  la  legge
interna  contempli  un potere di impugnazione contra reum, e quindi a
favore    dell'organo   dell'accusa;   essa   implica   pertanto   il
riconoscimento   che   tale  potere  -  anche  quando  si  tratti  di
impugnazione  di  merito  -  e'  compatibile con il sistema di tutela
delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto
conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell'Europa
continentale.
   7.3.  -  Si pone l'accento, da ultimo, sul rapporto solo "mediato"
che  il giudice dell'appello ha con le prove (in tale ottica, si veda
nuovamente  la  citata  illustrazione  dei relatori della proposta di
legge A.C. 4604): reputandosi, in specie, che comporti una situazione
di   diminuita  garanzia  in  rapporto  ai  principi  di  oralita'  e
immediatezza,  ispiratori del processo penale nel modello accusatorio
un  assetto  nel  quale la decisione di proscioglimento di un giudice
(quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova
nel  contraddittorio  fra  le  parti,  puo' essere ribaltata da altro
giudice (quello di appello), che fonda invece la sua decisione su una
prova prevalentemente scritta.
   Ai    fini    della    risoluzione   dell'odierno   incidente   dl
costituzionalita',   non   e'   peraltro   necessario  scrutinare  la
condivisibilita' o meno di tale affermazione, la quale evoca tensioni
interne  al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento
di  impugnazioni  di  tipo  tradizionale nell'ambito di un processo a
carattere  tendenzialmente  accusatorio.  A prescindere, difatti, dal
rilievo  che  l'ipotizzata  distonia  del  sistema ove effettivamente
riscontrabile  -  sussisterebbe  anche  in  rapporto alle sentenze di
condanna,  per  la  quali il pubblico ministero mantiene il potere di
appello,  avuto  riguardo  alla  possibile  modifica  in  peius della
decisione  da  parte del giudice di secondo grado come conseguenza di
divergenti  valutazioni  di  fatto  (le quali portino, ad esempio, al
mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza
aggravante);   e'   assorbente   la  considerazione  che  il  rimedio
all'eventuale   deficit   delle  garanzie  che  assistono  una  parte
processuale  va  rinvenuto  -  in  via preliminare - in soluzioni che
escludano  quel  difetto,  e  non gia' in una eliminazione dei poteri
della  parte  contrapposta  che  generi  un radicale squilibrio nelle
rispettive posizioni.
   All'obiezione,  poi,  che  le  possibili  soluzioni alternative al
problema   dianzi  evidenziato,  almeno  ove  calibrate  sull'attuale
assetto del sistema delle impugnazioni, peserebbero negativamente sui
tempi  di  definizione del giudizio, e' agevole replicare che neppure
la  ragionevole  durata  del  processo -  principio che, per costante
affermazione  di questa Corte, va contemperato con il complesso delle
altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004;
ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004, n. 251 del 2003, n.. 458 e n. 519
del  2002) - puo' essere perseguita, come nella specie, attraverso la
totale  soppressione  di  rilevanti  facolta' processuali di una sola
delle  parti. E cio' a prescindere dalla possibilita' - da piu' parti
prospettata  e che resta aperta alla valutazione del legislatore - di
una  revisione  organica  del  regime  delle  impugnazioni, intesa ad
eliminare  le  tensioni  da  cui,  per  quanto accennato, il problema
stesso trae origine.
   8.  -  Nel  suo  carattere  settoriale,  per  contro,  la  novella
censurata   ha,   inoltre,  alterato  il  rapporto  paritario  tra  i
contendenti  con  modalita'  tali da determinare anche una intrinseca
incoerenza del sistema.
   Per  effetto  della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero
totalmente  soccombente  in  primo  grado  resta  privo del potere di
proporre  appello,  detto  potere viene invece conservato dall'organo
dell'accusa  nel  caso  di  soccombenza  solo parziale, vuoi in senso
qualitativo  (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato
o  con  esclusione  di  circostanze  aggravanti), vuoi anche in senso
meramente  "quantitativo"  (sentenza  di condanna a pena ritenuta non
congrua).
   9.  - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque
ribadire  che,  nella  cornice  dei valori costituzionali, la parita'
delle   parti   non   corrisponde   necessariamente   ad  una  eguale
distribuzione  di  poteri e facolta' fra i protagonisti del processo.
In particolare, per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni
-   ferma   restando  la  possibilita'  per  il  legislatore,  dianzi
accennata,  di  una  generale  revisione  del ruolo e della struttura
dell'istituto  dell'appello - non contraddice, comunque, il principio
di  parita'  l'eventuale differente modulazione dell'appello medesimo
per  l'imputato e per il pubblico ministero, purche' essa avvenga nel
rispetto   del  canone  della  ragionevolezza,  con  i  corollari  di
adeguatezza e proporzionalita', che si sono a piu' riprese ricordati.
Nella  specie,  per  contro,  la  menomazione recata dalla disciplina
impugnata  ai  poteri  della parte pubblica, nel confronto con quelli
speculari   dell'imputato,   eccede   il   limite  di  tollerabilita'
costituzionale,  in  quanto  non  sorretta  da  una ratio adeguata in
rapporto  al  carattere  radicale,  generale  e  "unilaterale"  della
menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato -
intrinsecamente  contraddittoria  rispetto al mantenimento del potere
di  appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna. Le
residue   censure  dei  giudici  rimettenti  restano  di  conseguenza
assorbite.».
   Le ragioni poste dalla Corte costituzionale a fondamento della sua
pronunzia  appaiono  adattarsi  anche  al  novellato  art.  36 d.lgs.
n. 274/2000,  nel  quale sembra realizzarsi l'identica ingiustificata
asimmetria  fra  le  parti,  censurata in relazione all'art. 593 cod.
proc. pen.
   A  cio'  si  deve  aggiungere  la irragionevolezza della norma che
consente  al p.m. di appellare le sentenza di condanna, in cui la sua
domanda  e'  stata in parte accolta, ma non quelle di proscioglimento
in  cui  la  domanda  e' stata integralmente rigettata, in violazione
dell'art. 3 della Costituzione.
   La  questione  di  legittimita'  costituzionale  appare quindi non
manifestamente infondata.
   La  questione predetta e' altresi' rilevante perche', laddove tale
norma  fosse  giudicata  costituzionalmente illegittima, questa Corte
dovrebbe convertire il ricorso in appello.
   E' ben vero che, prima che venisse esclusa l'appellabilita' questa
Corte  ammetteva  anche  per  tali  sentenze il ricorso immediato per
cassazione (Cass., sez. 4, sent. n. 43367 del 29 settembre 2003, dep.
12  novembre  2003,  r.v. 226410: «in tema di reati di competenza del
giudice  di pace, avverso la sentenza, emessa da tale giudice, di non
doversi procedere in ordine a un reato punito con pena alternativa e'
consentito  -  accanto al rimedio dell'appello, previsto dall'art. 36
d.lgs. n. 274 del 2000 anche il ricorso per saltum in cassazione alla
luce  della  generale  applicabilita'  dell'art. 568 cod. proc. pen.;
tale  potere  e'  peraltro  riconosciuto  sia  al  Procuratore  della
Repubblica  sia al Procuratore generale presso la Corte d'appello, in
virtu'  del fatto che l'uso generico del termine "pubblico ministero"
deve  essere  inteso  come  comprensivo di entrambi gli uffici cui e'
riconosciuto il potere di impugnare.»).
   Tuttavia, quand'anche fosse stata intenzione del Procuratore della
Repubblica  di  proporre  comunque  ricorso immediato per cassazione,
secondo  l'orientamento  di  questa  Corte,  «qualora  l'impugnazione
proposta  sia  non quella ordinaria ma quella eccezionale del ricorso
per  saltum,  la  Corte  di  cassazione deve dapprima interpretare la
volonta'  della  parte,  per stabilire di quale mezzo abbia realmente
inteso  avvalersi  ed,  in  caso di dubbio, deve privilegiare il tipo
ordinario  di  gravame.  Qualora, pertanto, nell'atto di impugnazione
non  solo  vi  sia  una  formale  denuncia  di  difetto  e  manifesta
illogicita'  della  motivazione ma lo stesso contenuto delle censure,
che letteralmente deducono anche violazione di legge, ad onta di tale
formale   qualificazione,  le  riveli  come  sostanzialmente,  tutte,
dirette avverso la valutazione delle prove in ordine ad una questione
di  mero  fatto,  il ricorso appare sostanzialmente proposto ai sensi
dell'art.  606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. e va convertito
in  appello»  (Cass.,  sez.  4, sent. 4264 del 5 aprile 1996, dep. 23
aprile 1996, r.v. 204447).
   Piu'  di  recente, con decisione che il collegio condivide, questa
Corte   ha   affermato  che  «il  ricorso  per  cassazione,  proposto
dall'imputato,  che  contenga  tra  i  motivi anche la censura di cui
all'art.  606,  comma  1, lett. e), relativa a carente motivazione in
ordine  all'elemento soggettivo del reato, non puo' essere presentato
per  saltum  ma deve essere convertito in appello, ai sensi dell'art.
569,  comma 3, del codice di rito». (Cass., sez. 6, sent. 3405 del 10
gennaio 2003, dep. 23 gennaio 2003, r.v. 223561).
   Poiche',  nel  caso  qui  esaminato,  le  doglianze  contenute nel
ricorso  sono  anche di merito, il ricorso dovrebbe essere convertito
in appello.
   Deve pertanto essere sollevata d'ufficio questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 36, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ad opera
dell'art. 9, comma 2, legge 20 febbraio 2006, n. 46 per contrasto con
l'art. 3 e con l'art. 111 dellla Costituzione della Repubblica.
                              P. Q. M.
   Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento
all'art.  3  ed  all'art. 111 della Costituzione della Repubblica, la
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  36, d.lgs. 28
agosto  2000,  n. 274, come modificato ad opera dell'art. 9, comma 2,
legge  20  febbraio  2006.  n. 46, nella parte in cui non consente al
pubblico  ministero  di  appellare  le  sentenza  di  proscioglimento
pronunziate dal giudice di pace.
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti  del  presente
procedimento  alla  Corte  costituzionale  e  sospende il giudizio in
corso.
   Ordina  che,  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  private  ed  al procuratore generale in sede
nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei ministri e comunicata ai
presidenti delle due Camere del Parlamento.
   Cosi' deliberato in Camera di consiglio, il 6 novembre 2007.
                      Il Presidente: Cosentino
                                     Il consigliere estensore: Davigo