N. 129 SENTENZA 16 - 30 aprile 2008

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Processo  penale - Casi di revisione - Impossibilita' di conciliare i
  fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di
  condanna con la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo
  che  abbia  accertato  l'assenza  di equita' del processo ex art. 6
  della   CEDU   -  Mancata  previsione  -  Denunciata  irragionevole
  disparita'  di  trattamento  rispetto  alle ipotesi di cui all'art.
  630,  comma  1,  lettera a), cod. proc. pen. - Non condivisibilita'
  della  premessa argomentativa basata sull'assenta omologabilita' di
  fattispecie  viceversa  non  assimilabili  -  Non  fondatezza della
  questione.
- Cod. proc. pen., art. 630, comma 1 , lettera a).
- Costituzione, art. 3.
Processo  penale - Casi di revisione - Impossibillta' di conciliare i
  fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di
  condanna con la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo
  che  abbia  accertato  l'assenza  di equita' del processo ex art. 6
  della  CEDU - Mancata previsione - Denunciata lesione del principio
  secondo  cui  l'ordinamento  italiano  si  conforma  alle  norme di
  diritto  internazionale  generalmente riconosciute - Impossibilita'
  di assumere la norma invocata come integratrice dell'art. 10 Cost.,
  trattandosi di norma pattizia - Non fondatezza della questione.
- Cod. proc. pen., art. 630, comma 1, lettera a).
- Costituzione, art. 10.
Processo  penale - Casi di revisione - Impossibilita' di conciliare i
  fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di
  condanna con la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo
  che  abbia  accertato  l'assenza  di equita' del processo ex art. 6
  della  CEDU  -  Mancata  previsione  -  Denunciata  violazione  del
  principio  della  finalita' rieducativa della pena - Impossibilita'
  di  assegnare  alle  regole  del  «giusto  processo»  una  funzione
  strumentale alla «rieducazione» - Non fondatezza della questione.
- Cod. proc. pen., art. 630, comma 1, lettera a).
- Costituzione, art. 27, comma terzo.
Processo  penale - Casi di revisione - Impossibilita' di conciliare i
  fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di
  condanna con la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo
  che  abbia  accertato  l'assenza  di equita' del processo ex art. 6
  della  CEDU  -  Mancata  previsione  -  Questione per la quale sono
  prospettabili  molteplici soluzioni, con correlativa esigenza di un
  intervento   normativo  -  Invito  al  legislatore  ad  adottare  i
  provvedimenti   piu'   idonei  per  consentire  all'ordinamento  di
  adeguarsi  alle  sentenze  della  Corte  di  Strasburgo che abbiano
  riscontrato,  nei  processi  penali,  violazioni  dell'art. 6 della
  CEDU.
- Cod. proc. pen., art. 630, comma 1, lettera a).
(GU n.20 del 7-5-2008 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta  dai  signori:  Presidente:  Franco  BILE; Giudici: Giovanni
Maria  FLICK,  Francesco  AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO,
Alfonso  QUARANTA,  Franco  GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI,
Sabino  CASSESE,  Maria  Rita  SAULLE,  Giuseppe TESAURO, Paolo Maria
NAPOLITANO; ha pronunciato la seguente
                              Sentenza
nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 630, comma 1,
lettera  a),  del  codice di procedura penale, promosso con ordinanza
del  22 marzo 2006 dalla Corte di appello di Bologna nel procedimento
penale  a  carico di D. P., iscritta al n. 337 del registro ordinanze
2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, 1ª
serie speciale, dell'anno 2006;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di consiglio del 27 febbraio 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
                          Ritenuto in fatto
   1.  -  Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di
Bologna  ha  sollevato,  in  relazione  agli  artt.  3, 10 e 27 della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630,
comma  1,  lettera a), del codice di procedura penale «nella parte in
cui  esclude,  dai  casi  di  revisione, l'impossibilita' che i fatti
stabiliti  a  fondamento  della sentenza o del decreto di condanna si
concilino  con  la  sentenza  della Corte europea che abbia accertato
l'assenza  di  equita'  del  processo,  ai  sensi  dell'art.  6 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo».
   Il  rimettente  premette  di essere investito della delibazione di
un'istanza di revisione, proposta dal difensore di persona sottoposta
a  regime  di  detenzione  domiciliare  in  espiazione di una pena di
tredici  anni e sei mesi di reclusione, inflitta dalla Corte d'assise
di  Udine.  Tale persona - divenuta irrevocabile la condanna - si era
rivolta  alla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo, la quale, con
sentenza  del  9  settembre  1998, aveva stabilito la non equita' del
giudizio  attraverso  cui si era irrogata la condanna, per violazione
dell'art.  6  della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; e cio'
in  quanto la condanna in questione era scaturita dalle dichiarazioni
di tre coimputati non esaminati in contraddittorio, giacche' si erano
avvalsi della facolta' di non rispondere.
   Dopo  la  pronuncia  della Corte europea, il Comitato dei ministri
aveva  piu'  volte sollecitato - senza effetto - lo Stato italiano ad
adottare  le  misure  necessarie  per  garantire  l'adempimento della
pronuncia  del giudice di Strasburgo. Anche l'incidente di esecuzione
-  sollevato  dal  Procuratore  della  Repubblica  per  verificare la
«legittimita»   della   detenzione,   con  contestuale  richiesta  di
sospensione  dell'esecuzione  della  pena - era stato rigettato dalla
competente  Corte d'assise di Udine. Quest'ultima aveva rilevato che,
in  sede  di  incidente  di  esecuzione,  l'indagine del giudice deve
ritenersi  limitata  alla  verifica  della  eseguibilita' del titolo;
mentre   resta  preclusa  ogni  valutazione  sulla  legittimita'  del
giudizio  di  cognizione  e  sull'eventuale  violazione  delle regole
interne ad esso.
   Il  giudice a quo evidenzia, inoltre, che la difesa del condannato
ha  sostenuto  l'ammissibilita'  del  giudizio  di revisione ai sensi
dell'art.  630,  comma  1,  lettera  a),  cod.  proc.  pen.:  sia per
l'esistenza  del  contrasto tra giudicati; sia per la circostanza che
la  decisione della Corte europea - ritenuta prevalente sul giudicato
«interno»,  in quanto proveniente da organo sopranazionale - potrebbe
essere  equiparata  alla  sentenza  di  un «giudice speciale». Sempre
secondo   la  prospettazione  della  difesa,  se  cosi'  non  dovesse
ritenersi, ne discenderebbe l'illegittimita' costituzionale dell'art.
630  cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede «come titolo per
ottenere  la  revisione»  la sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo.
   Il   rimettente   afferma,   innanzitutto,   di   non  condividere
l'interpretazione  secundum  Constitutionem prospettata dalla difesa.
Sarebbe   impossibile   ricondurre  la  Corte  europea  alla  nozione
costituzionale  di  «giudice  speciale»,  perche'  tale  qualifica e'
riferibile   esclusivamente  ai  tribunali  militari,  per  «i  reati
militari  commessi  da appartenenti alle forze armate»; ed alla Corte
costituzionale,  «in  relazione alle accuse mosse al Presidente della
Repubblica».  D'altra  parte  -  prosegue  il  giudice a quo - non e'
possibile  neppure  ritenere  la  sentenza  della Corte europea quale
«nuova prova» ai sensi dell'art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc.
pen.;  essa  «nulla  aggiunge di diverso rispetto al fatto storico» -
gia'  apprezzato  nel  giudizio considerato «non equo» - mirando alla
semplice «ripetizione», ove possibile, delle prove ritenute invalide.
   Alla  luce  di  tali  considerazioni,  la Corte rimettente ritiene
rilevante il dubbio di costituzionalita' prospettato dalla difesa, in
quanto    l'istanza   di   revisione   dovrebbe   essere   dichiarata
inammissibile  ai  sensi  dell'art.  634  cod.  proc.  pen.,  perche'
proposta  fuori  dalle  ipotesi  previste  dall'art. 630 del medesimo
codice di rito.
   In  ordine  alla  non  manifesta infondatezza, la Corte - ritenuto
inconferente   il   parametro  dell'art.  111  Cost.,  rispetto  alla
prospettazione  difensiva  dell'eccezione  -  afferma, per contro, la
sussistenza  di  dubbi  di  compatibilita'  innanzitutto con l'art. 3
della  Costituzione,  sotto il profilo della lesione del principio di
ragionevolezza.  L'art.  630,  comma 1, lettera a), cod. proc. pen. -
prevedendo  il  contrasto  tra i fatti stabiliti dalla sentenza o dal
decreto  penale  di condanna e quelli stabiliti nella sentenza penale
di  altro  giudice,  ai  fini  dell'ammissibilita'  della revisione -
sembra  innestare una «ingiustificata discriminazione tra casi uguali
o  simili»,  escludendo  dai  casi  di  revisione il riferimento alla
sentenza  della  Corte  europea dei diritti dell'uomo emessa ai sensi
dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea.
   Secondo il giudice a quo, per «fatto» - ai fini della applicazione
della  norma  censurata - non dovrebbe intendersi solamente «il fatto
storico    all'origine    della   vicenda   processuale,   ma   anche
l'accertamento   dell'invalidita'   di   una   prova  del  precedente
giudizio», poiche' anche questo e' un fatto da cui, comunque, dipende
l'applicazione  di  norme  processuali che determina il venir meno di
prove  legittimamente assunte. Ne' la situazione in esame discende da
una modifica della disciplina processuale intervenuta successivamente
al giudizio, in quanto la decisione della Corte europea scaturisce da
un  raffronto tra la normativa convenzionale previgente (art. 6 della
Convenzione) e quella interna.
   Un'ulteriore  censura  e'  prospettata  in riferimento all'art. 10
della  Costituzione,  secondo  il  quale  «l'ordinamento giuridico si
conforma   alle   norme   del   diritto  internazionale  generalmente
riconosciute».  A  parere  del  giudice  a  quo,  e'  vero  che  tale
disposizione  si  riferisce  alle  norme  del  diritto internazionale
consuetudinario;  ma  e'  altrettanto indubbio che alcune norme della
Convenzione  di  Roma  del 1950 - segnatamente, quelle che sanciscono
garanzie  fondamentali,  quali  il  diritto  alla  vita  (art. 2), il
divieto  di  tortura (art. 3), l'inammissibilita' della condizione di
schiavitu'  (art.  4),  la  presunzione  d'innocenza  (art. 6) - sono
«effettivamente   riproduttive   di  analoghe  norme  consuetudinarie
esistenti nella Comunita' internazionale».
   Secondo il giudice a quo, la presunzione di innocenza si sostanzia
anche  nel  diritto  alla  revisione  di  una condanna pronunciata in
violazione  delle  garanzie  dell'equo  processo  (nella  specie,  il
diritto  dell'accusato  di  interrogare  e  fare  interrogare  chi lo
accusa,  ai sensi dell'art. 6, comma 3, lettera d), della Convenzione
europea).   E,   poiche'   tale   presunzione   -   in  quanto  norma
consuetudinaria di diritto internazionale - si adatta automaticamente
all'ordinamento  interno,  ai sensi dell'art. 10, primo comma, Cost.,
l'art.  630,  comma  1,  lettera  a),  cod.  proc.  pen.,  si risolve
conseguentemente   in   una   violazione   di  quest'ultimo  precetto
costituzionale,  nella parte in cui esclude la revisione del processo
allorquando  una  sentenza  della  Corte  europea  abbia accertato un
«vizio fondamentale nella procedura precedente».
   Infine,  la  disciplina  censurata  contrasterebbe con il disposto
dell'art.  27 della Costituzione - secondo cui le pene devono tendere
alla  rieducazione  del  condannato  - giacche' quel principio «ha un
senso solo se si parte dal presupposto che tali pene siano inflitte a
seguito  di  un processo giusto». Lo Stato non potrebbe esigere alcun
dovere  di  rieducazione  e riadattamento sociale nei confronti di un
soggetto condannato secondo un processo privo di equita'.
   La  stessa funzione retributiva della pena sembra posta in dubbio,
nel  caso  in cui essa venga irrogata in esito ad un processo «le cui
regole non garantiscono l'innocente». Se nell'ordinamento interno non
e'  consentita  la  revisione del processo al condannato a seguito di
una  procedura  giudicata  non  equa  dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo  -  le  cui  decisioni  il  nostro  Paese si e' impegnato a
rispettare - ne deriverebbe, dunque, anche la violazione del precetto
costituzionale che presidia la corretta funzione della pena.
   Il  rimettente  evidenzia,  infine,  che,  in  ragione  della  non
manifesta   infondatezza   della   questione,   ha   provveduto  alla
sospensione  dell'esecuzione  della  pena  inflitta al condannato, ai
sensi dell'art. 635 cod. proc. pen.
   2. - Nel giudizio si e' costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,   concludendo  per  l'inammissibilita'  e,  comunque,  per  la
manifesta infondatezza della questione.
   La  difesa  erariale  rileva,  preliminarmente,  l'erroneita'  del
presupposto  interpretativo  da cui muove il rimettente. Ad avviso di
essa,  la  nozione  di  «fatto»,  richiamata  dall'art. 630, comma 1,
lettera   a),  cod.  proc.  pen.,  non  potrebbe  estendersi  fino  a
comprendere anche l'accertamento della invalidita' di una prova di un
precedente giudizio. Tale nozione, infatti, non risulterebbe conforme
alla costante elaborazione giurisprudenziale del concetto, ricondotto
da  sempre  al  mero  fatto  storico emergente dal procedimento. Cio'
determinerebbe  l'irrilevanza  della  questione  di costituzionalita'
prospettata,   poiche'   dalla   sentenza  della  Corte  europea  non
emergerebbero  fatti inconciliabili con quelli stabiliti a fondamento
della sentenza di condanna.
   L'Avvocatura generale deduce anche l'infondatezza della questione,
innanzitutto  sotto  il profilo dell'impossibilita' del contrasto tra
le  sentenze,  posto  che  quella  della  Corte  europea comporta una
valutazione  relativa  soltanto  alla procedura seguita per pervenire
alla condanna, senza accertamento dei fatti di reato.
   Inoltre,  si  assume  l'infondatezza  della  censura relativa alla
pretesa  violazione  dell'art.  10  Cost., attesa l'impossibilita' di
elevare  il  principio  della  revisione  del  processo  - in caso di
violazione   di   regole  processuali  -  al  rango  di  consuetudine
internazionalmente  riconosciuta.  Tale  rango puo' riconoscersi solo
alla   garanzia   della  presunzione  di  innocenza,  che  tuttavia -
contrariamente  a  quanto  opinato dal rimettente - non coinciderebbe
con il diritto alla revisione, ne' lo implicherebbe.
   Non   sussisterebbe,  infine,  neppure  la  ipotizzata  violazione
dell'art.   27   della   Costituzione,  atteso  che  le  esigenze  di
rieducazione  in  esso  sancite  «sono  da  riferire  alle  modalita'
esecutive  della  pena  o,  al  piu', alle modalita' di computo della
stessa  e  non  al  procedimento  utilizzato  per  giungere  alla sua
applicazione».
                       Considerato in diritto
   1.  -  La Corte di appello di Bologna solleva, in riferimento agli
artt.  3,  10,  e  27  della  Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  630,  comma  1,  lettera a), del codice di
procedura  penale,  nella  parte in cui esclude dai casi di revisione
l'impossibilita'  di  conciliare i fatti stabiliti a fondamento della
sentenza  (o  del  decreto penale di condanna) con la decisione della
Corte  europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato l'assenza di
equita'  del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.
   Chiamata  a  delibare  una  istanza  di  revisione, proposta da un
condannato con sentenza divenuta irrevocabile, la Corte rimettente ha
sottolineato  che il suo difensore - a sostegno della interpretazione
proposta  per  la  norma  citata,  o  in subordine della eccezione di
illegittimita'  costituzionale  -  aveva richiamato la sentenza del 9
settembre   1998   della   Corte   europea   dei  diritti  dell'uomo.
Quest'ultima  -  sul  ricorso del condannato - aveva stabilito la non
equita'  del  giudizio  cui  il  medesimo  era  stato sottoposto, per
violazione  dell'art. 6 della Convenzione; e cio' in quanto i giudici
italiani  avevano pronunciato la condanna «in base alle dichiarazioni
di  tre  coimputati  non  esaminati  in  contraddittorio»,  essendosi
costoro avvalsi, in dibattimento, della facolta' di non rispondere. A
seguito della decisione della Corte europea, il Comitato dei ministri
del Consiglio d'Europa aveva piu' volte sollecitato lo Stato italiano
ad  adottare  le  misure  necessarie  a  garantire l'osservanza della
pronuncia  di  Strasburgo; ma tali sollecitazioni erano rimaste prive
di effetto.
   Il   rimettente   respinge  la  tesi  avanzata  dalla  difesa  del
condannato,  circa  la  possibilita'  di ricondurre alla revisione il
contrasto  di  giudicati  tra  la  decisione  della  Corte  europea -
ritenuta  equiparabile  alla  sentenza  di  un «giudice speciale» - e
quella  del  giudice nazionale; e cio' perche' la Corte di Strasburgo
non puo' essere qualificata come un giudice speciale.
   D'altra   parte,   ad   avviso  della  Corte  rimettente,  non  e'
accettabile   neppure  la  tesi  avanzata  dal  procuratore  generale
requirente,  di  attrarre  nel  concetto di «prova nuova» la sentenza
della  Corte  europea. Infatti - agli effetti dell'art. 630, comma 1,
lettera  c),  cod.  proc.  pen.,  - tale decisione, «ne' da sola, ne'
unita alle prove gia' valutate, [...] dimostrerebbe che il condannato
deve  essere prosciolto a norma dell'art. 631 c.p.p. Quella sentenza,
infatti,   nulla  aggiunge  di  diverso  rispetto  al  fatto  storico
apprezzato  nel  giudizio  considerato  «non equo», e cio' a cui essa
mira   e'   la  ripetizione  (ove  possibile)  delle  prove  ritenute
invalide».
   2.  -  Alla  stregua di tali premesse, la Corte rimettente ritiene
rilevante  la  questione. Inoltre, nel merito, essa ravvisa, in primo
luogo,  una violazione dell'art. 3 Cost., in quanto l'art. 630, comma
1,  lettera  a),  cod.  proc.  pen. - nell'ammettere la revisione per
l'ipotesi  di  contrasto  tra  i  fatti  stabiliti nella pronuncia di
condanna  del  giudice  penale  e  quelli posti a fondamento di altra
sentenza  penale  irrevocabile  del giudice ordinario o di un giudice
speciale  -  non  prevede  anche  l'ipotesi  in  cui  il contrasto si
verifichi  rispetto  alla  sentenza  della  Corte europea dei diritti
dell'uomo,  ai  sensi  dell'art.  6,  paragrafo  1, della Convenzione
europea.   Secondo   il   giudice   a  quo,  «per  "fatto"  non  deve
semplicemente  intendersi  il fatto storico all'origine della vicenda
processuale,  ma  anche l'accertamento della invalidita' di una prova
del  precedente  giudizio, essendo questo un fatto "dal quale dipende
l'applicazione  di  norme  processuali",  che determina il venir meno
della legittimita' delle prove assunte e, dunque, dei fatti sui quali
la sentenza interna di condanna si e' fondata».
   La norma censurata sarebbe in contrasto anche con l'art. 10 Cost.,
in  base al quale «l'ordinamento giuridico si conforma alle norme del
diritto    internazionale    generalmente    riconosciute».   Secondo
l'ordinanza  di  rimessione,  e' vero che il principio costituzionale
evocato   si   riferisce   alle   norme   di  diritto  internazionale
consuetudinario.  Peraltro  -  come  e' stato posto in evidenza dalla
dottrina - le norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  che  fanno riferimento a
garanzie  e valori inderogabili, sono «effettivamente riproduttive di
analoghe    norme    consuetudinarie    esistenti   nella   Comunita'
internazionale».
   Posto,  dunque,  che  tra i principi della Convenzione e' prevista
anche  la  presunzione di innocenza; e considerato che tale principio
e'   annoverabile   tra   le   norme   internazionali   di  carattere
consuetudinario,  la  stessa  tutela  -  soggiunge il giudice a quo -
dovrebbe  essere  riconosciuta  a  quell'aspetto della presunzione di
innocenza  «che  si  sostanzia  nel  diritto  alla  revisione  di una
condanna   pronunciata   in   violazione   delle  garanzie  dell'equo
processo».  Non  senza  trascurare, al riguardo, che l'art. 4 del VII
Protocollo  aggiuntivo della Convenzione - relativo al divieto di bis
in  idem  -  consente espressamente la riapertura del processo, nella
ipotesi  in  cui  «un vizio fondamentale della procedura antecedente»
sia in grado di inficiare la sentenza intervenuta.
   Pertanto,  secondo  l'ordinanza  di  rimessione,  venendo  qui  in
discorso    garanzie    provenienti    dal   diritto   internazionale
consuetudinario  - che rinvengono nell'art. 10, primo comma, Cost. la
fonte  del relativo adattamento automatico nell'ordinamento interno -
la  norma  impugnata  si porrebbe in evidente frizione con l'indicato
parametro,  nella  parte,  appunto,  «in cui esclude la revisione del
processo   quando  una  sentenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo  abbia  accertato  un  "vizio  fondamentale della procedura
precedente"».
   La  disciplina  censurata,  infine, si porrebbe in contrasto anche
con  l'art.  27  Cost.,  secondo il quale le pene devono tendere alla
rieducazione  del condannato; detto principio «ha un senso solo se si
parte  dal  presupposto  che tali pene siano inflitte a seguito di un
processo  giusto».  L'ordinanza  di rimessione sottolinea che «nessun
condannato  potra'  sentire  il dovere di rieducarsi e di riadattarsi
alle  regole sociali, se queste regole lo hanno condannato secondo un
processo  privo  di  equita';  correlativamente,  lo Stato non potra'
pretendere  dal  condannato  la rieducazione e il reinserimento nella
societa', se lo ha giudicato secondo regole inique».
   3.  -  La  questione  di  legittimita'  costituzionale nasce dalla
assenza  -  nel  sistema processuale penale - di un apposito rimedio,
destinato  ad  attuare  l'obbligo  dello  Stato di conformarsi (anche
attraverso  una  eventuale rinnovazione del processo) alle conferenti
sentenze  definitive  della  Corte di Strasburgo, nell'ipotesi in cui
sia  stata  accertata  la  violazione  della  Convenzione  o dei suoi
Protocolli,   secondo   quanto   prevede   l'art.   46  della  stessa
Convenzione,   nel   testo  modificato  ad  opera  dell'art.  16  del
Protocollo  n. 14  , ratificato con la legge 15 dicembre 2005, n. 280
(Ratifica  ed esecuzione del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle liberta' fondamentali
emendante   il  sistema  di  controlli  della  Convenzione,  fatto  a
Strasburgo il 13 maggio 2004).
   Il  Comitato  dei  Ministri  e  l'Assemblea del Consiglio d'Europa
hanno   stigmatizzato   -   con  reiterate  risoluzioni,  risoluzioni
interinali e raccomandazioni, proprio in riferimento alla vicenda del
condannato  nel  giudizio  a  quo  -  l'inerzia  dello Stato italiano
nell'approntare adeguate iniziative riparatorie.
   Da ultimo, il Comitato dei Ministri - facendo seguito a precedenti
«moniti» - ha espressamente deplorato «il fatto che, piu' di sei anni
dopo  l'accertamento  della  violazione  in questo caso, le autorita'
italiane non abbiano adottato alcuna misura per cancellare per quanto
possibile  le conseguenze della violazione (restitutio in integrum) e
che   non   siano  state  attuate  soluzioni  alternative,  quali  la
concessione  della  grazia presidenziale»; ed ha constatato, al tempo
stesso,  che  «la  riapertura  del procedimento in questione resta lo
strumento  migliore  d'assicurare la restitutio in integrum in questo
caso»   (Risoluzione  interinale  ResDH  (2005)  85.  V.,  anche,  la
Risoluzione finale CM/ResDH (2007) 83).
   Allo  stesso modo, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa
nella  Risoluzione  n. 1516  (2006)  - adottata il 2 ottobre 2006, in
materia  di attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti
dell'uomo  -  ha  deplorato  la circostanza che «in Italia, e, in una
certa  misura,  in Turchia, la legge non prevede ancora la riapertura
dei  processi penali per i quali la Corte abbia constatato violazioni
alla  CEDU  e  questi  due  Stati non hanno adottato altre misure per
ripristinare  il  diritto dei ricorrenti ad un equo processo malgrado
le   domande  pressanti  e  ripetute  del  Comitato  dei  Ministri  e
dell'Assemblea  (tra numerosi altri casi Dorigo contro Italia e Hulki
Gunes contro Turchia)».
   Tuttavia,  nonostante  l'evidente,  improrogabile  necessita'  che
l'ordinamento  predisponga  adeguate  misure  -  atte a riparare, sul
piano  processuale,  le  conseguenze  scaturite  dalle  violazioni ai
principi  della  Convenzione in tema di «processo equo», accertate da
sentenze  della  Corte  europea  dei diritti dell'uomo - la questione
sollevata dalla Corte di appello di Bologna, in riferimento a tutti i
parametri evocati, deve ritenersi infondata.
   4.1.  -  Il giudice a quo fonda la prima censura di illegittimita'
costituzionale  su  una  premessa argomentativa le cui coordinate non
possono condividersi ne' sul piano logico, ne' su quello sistematico.
A  base della dedotta irragionevole disparita' di trattamento - a suo
avviso  derivante  dalla  mancata  previsione  della  revisione delle
condanne  «in  contrasto» con sentenze della Corte di Strasburgo, che
abbiano  accertato  la  violazione dei principi della Convenzione nel
relativo  processo  - la Corte rimettente pone un postulato infondato
di  omologabilita'  fra  i  casi disciplinati dall'art. 630, comma 1,
lettera a), cod. proc. pen., e la situazione in esame.
   Secondo  il  giudice  rimettente - considerato che la norma citata
prevede,  nelle  ipotesi che legittimano la revisione della condanna,
il  contrasto  tra  i «fatti» stabiliti da due diverse sentenze - non
dovrebbe  necessariamente  accedersi  «alla  accezione di "fatto" con
esclusivo   riferimento   alle  circostanze  storiche  della  vicenda
sottoposta   a   giudizio».   Agli   effetti   che  qui  interessano,
rappresenterebbe  «un  "fatto"  anche l'accertamento dell'invalidita'
(iniquita)  della  prova assunta nel processo interno, intervenuto ad
opera del giudice sopranazionale».
   In  realta',  pero',  il  contrasto,  che legittima - e giustifica
razionalmente   -  l'istituto  della  revisione  (per  come  esso  e'
attualmente  disciplinato)  non  attiene alla difforme valutazione di
una  determinata  vicenda  processuale  in  due  diverse  sedi  della
giurisdizione  penale. Esso ha la sua ragione d'essere esclusivamente
nella  inconciliabile  alternativa  ricostruttiva  che un determinato
«accadimento  della  vita»  - essenziale ai fini della determinazione
sulla  responsabilita'  di  una  persona, in riferimento ad una certa
regiudicanda  -  puo'  aver  ricevuto all'esito di due giudizi penali
irrevocabili.
   Nella logica codicistica - secondo una affermazione costante della
giurisprudenza di legittimita' - il concetto di inconciliabilita' fra
sentenze  irrevocabili,  evocato  dall'art. 630, comma 1, lettera a),
cod.   proc.   pen.,   non   puo'   essere   inteso   in  termini  di
contraddittorieta'  logica  tra  le  valutazioni effettuate nelle due
decisioni.  Tale  concetto  deve, invece, essere inteso in termini di
oggettiva  incompatibilita' tra i «fatti» (ineludibilmente apprezzati
nella  loro  dimensione  storico-naturalistica)  su cui si fondano le
diverse sentenze.
   D'altra  parte,  ove  cosi'  non  fosse,  la revisione, da rimedio
impugnatorio   straordinario,   si  trasformerebbe  in  un  improprio
strumento   di   controllo   (e   di   eventuale  rescissione)  della
«correttezza»,    formale    e    sostanziale,   di   giudizi   ormai
irrevocabilmente conclusi. Non e' la erronea (in ipotesi) valutazione
del giudice a rilevare, ai fini della rimozione del giudicato; bensi'
esclusivamente  «il  fatto  nuovo»  (tipizzato  nelle  varie  ipotesi
scandite  dall'art.  630 del codice di rito), che rende necessario un
nuovo scrutinio della base fattuale su cui si e' radicata la condanna
oggetto di revisione.
   La  infondatezza  della  tesi  sostenuta  dal  giudice  a  quo  e'
confermata proprio dal referente normativo che il medesimo richiama a
conforto  del  proprio  percorso logico. La Corte rimettente sostiene
che  la  possibilita' di attrarre nella sfera del concetto di «fatto»
anche  la  ipotesi  dell'accertamento  della  «invalidita' (iniquita)
della  prova  assunta nel processo interno», si desumerebbe dall'art.
187,  comma 2, cod. proc. pen.: una norma secondo la quale e' "fatto"
anche quello da cui dipende «l'applicazione di norme processuali». Ma
il richiamo a tale norma dimostra l'esatto contrario.
   La  disposizione  citata  - nel menzionare, come oggetto di prova,
anche   i   fatti   dai  quali  dipende  l'applicazione  delle  norme
processuali  -  si  riferisce  proprio  agli  accadimenti (ancora una
volta,   naturalisticamente   intesi)   costituenti   il  presupposto
«materiale»   che   deve  essere  «provato»,  perche'  si  generi  un
determinato  effetto  processuale: come la situazione di fatto a base
del legittimo impedimento, che determina l'assoluta impossibilita' di
comparire;  o  l'evento  che  integra  il  caso  fortuito  o la forza
maggiore,  agli  effetti  della  restituzione  nel termine, e simili.
Essa, evidentemente, non puo' riferirsi alla disposizione processuale
la cui applicabilita' puo' scaturire dall'accertamento di quei fatti;
e  meno  ancora  alla  valutazione che il giudice abbia effettuato in
ordine  alla  congruita'  della  prova di quegli stessi fatti e della
relativa  idoneita' a porsi quale premessa per la (equa) applicazione
della regola processuale che venga, volta a volta, in discorso.
   Infine,  sotto  il  profilo  sistematico,  il  concetto di «fatto»
assunto   a  paradigma  della  ipotesi  di  conflitto  «teorico»  fra
giudicati  - previsto quale caso di revisione dall'art. 630, comma 1,
lettera  a),  cod. proc. pen. - non puo' distinguersi dal concetto di
medesimo  «fatto»  su  cui  si  radica  la  disciplina  del conflitto
«pratico»  tra  giudicati,  di  cui all'art. 669, comma 1, cod. proc.
pen. Ed e' pacifico che quest'ultima norma risulta applicabile quando
la  pluralita'  di sentenze - oltre che lo stesso imputato - concerna
il  «medesimo fatto», inteso come coincidenza tra tutte le componenti
delle   fattispecie   concrete.   D'altronde,  anche  ai  fini  della
preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identita' del
"fatto"  sussiste - secondo la giurisprudenza di legittimita' (Cass.,
Sez.  un.,  28  giugno 2005, n. 34655) - quando vi sia corrispondenza
storico-naturalistica  nella configurazione del reato, considerato in
tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e
con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
   La  pretesa  irragionevole  disparita'  di  trattamento  -  che il
giudice  a  quo  pone  a  fulcro della dedotta violazione dell'art. 3
della Carta fondamentale - deve ritenersi, dunque, infondata, proprio
perche'   la   asserita  assimilabilita'  delle  situazioni  poste  a
confronto non puo' essere condivisa.
   4.2.  -  Allo  stesso epilogo conduce lo scrutinio della questione
alla stregua del parametro di cui all'art. 10 Cost.
   A   parere   della   Corte  rimettente,  alcune  fra  le  garanzie
fondamentali  enunciate  dalla  CEDU  coinciderebbero con altrettante
«norme  di  diritto  internazionale generalmente riconosciute» (cosi'
l'art.   10   Cost.)   che,   come  tali,  troverebbero  «adattamento
automatico»  nell'ordinamento  interno. Sicche', dovendosi annoverare
tra  quelle  garanzie anche il principio di presunzione di innocenza,
l'art.  630,  comma  1,  lettera  a), cod. proc. pen., si porrebbe in
contrasto con l'art. 10, primo comma, della Costituzione, nella parte
in cui non prevede - tra i casi di revisione del processo - l'ipotesi
in  cui una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo «abbia
accertato un "vizio fondamentale nella procedura precedente"».
   L'assunto e' per piu' versi infondato.
   In  primo  luogo,  il principio di presunzione di non colpevolezza
non  si  pone in contrasto con la esigenza di salvaguardare il valore
del  giudicato,  la  cui  ineludibile  funzione  e'  stata piu' volte
affermata  da questa Corte (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 74
del  1980;  n. 294  del 1995; n. 413 del 1999 e le ordinanze nn. 14 e
501  del  2000).  La  presunzione  di  non colpevolezza accompagna lo
status del «processando» ed impedisce sfavorevoli «anticipazioni» del
giudizio di responsabilita'; ma essa si dissolve necessariamente (sul
piano sintattico, ancor prima che giuridico) allorche' il processo e'
giunto  al  proprio  epilogo,  trasformando la posizione di chi vi e'
sottoposto  da imputato - presunto non colpevole - in condannato, con
una statuizione di responsabilita' irrevocabile.
   La  revisione  mira  a riparare un (ipotetico) errore di giudizio,
alla  luce  di  «fatti»  nuovi; non a rifare un processo (in ipotesi)
iniquo.  La presunzione di innocenza, in se' e per se', non ha dunque
nulla  a che vedere con i rimedi straordinari destinati a purgare gli
eventuali errores, in procedendo o in iudicando che siano.
   In  secondo  luogo,  la  impossibilita'  di far leva sul parametro
richiamato  dal  giudice a quo si evince dai principi enunciati dalla
giurisprudenza  di  questa Corte. Si e' infatti in piu' occasioni (si
vedano,  da ultimo, le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) affermato che
l'art.  10, primo comma, della Costituzione, con l'espressione «norme
del   diritto   internazionale  generalmente  riconosciute»,  intende
riferirsi  alle  norme  consuetudinarie;  e  dispone,  rispetto  alle
stesse, l'adattamento automatico dell'ordinamento giuridico italiano.
L'osservanza  che a simili norme presta l'ordinamento internazionale,
nel  suo  complesso, giustifica all'evidenza il postulato che ad esse
si  debba necessariamente conformare anche l'ordinamento «interno»; e
cio'  per  evitare un intollerabile sfasamento circa la realizzazione
«domestica»   di   principi   universalmente   affermati  e,  dunque,
patrimonio comune delle genti.
   Al contrario, la norma invocata dal remittente, in quanto pattizia
e  non avente la natura richiesta dall'art. 10 Cost., esula dal campo
di  applicazione  di  quest'ultimo.  Se  ne  deve  dedurre, pertanto,
l'impossibilita'  di assumerla come integratrice di tale parametro di
legittimita' costituzionale.
   4.3.   -  Ugualmente  infondata  si  rivela,  infine,  la  pretesa
violazione  dell'art.  27, terzo comma, Cost., il quale - nel sancire
il  principio  della  necessaria funzione rieducativa della pena - ad
avviso  del giudice rimettente «presuppone istanze etiche che trovano
contrappunto in regole processuali non inique».
   La  giurisprudenza  di  questa  Corte  ha  avuto  modo  -  in piu'
occasioni  -  di  puntualizzare i confini entro i quali il richiamato
principio  costituzionale  e'  destinato  ad operare; e cio', anche a
voler  prescindere  dal  rilievo  preliminare  -  e per certi aspetti
assorbente  - che, se si assegnasse alle regole del «giusto processo»
una  funzione strumentale alla «rieducazione», si assisterebbe ad una
paradossale  eterogenesi  dei fini, che vanificherebbe - questa si' -
la stessa presunzione di non colpevolezza.
   Secondo  tale  giurisprudenza,  «la  necessita'  che la pena debba
"tendere"  a  rieducare,  lungi  dal  rappresentare una mera generica
tendenza  riferita  al  solo  trattamento,  indica invece proprio una
delle  qualita'  essenziali e generali che caratterizzano la pena nel
suo   contenuto   ontologico,   e  l'accompagnano  da  quando  nasce,
nell'astratta  previsione  normativa,  fino  a  quando in concreto si
estingue».  Questa  Corte  ha  ribadito  «esplicitamente [...] che il
precetto  di  cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale
tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre
che  per quelli della esecuzione e della sorveglianza, nonche' per le
stesse autorita' penitenziarie» (sentenza n. 313 del 1990).
   «Giusto  processo» e «giusta pena» sono, dunque - per quel che qui
interessa,  soprattutto  sul piano dei valori costituzionali che essi
rispettivamente  esprimono  -  termini di un binomio non confondibili
fra  loro;  se  non  a  prezzo,  come  si  e'  gia' accennato, di una
inaccettabile  trasfigurazione  dello  «strumento»  (il processo) nel
«fine» cui esso tende (la sentenza irrevocabile e la pena che da essa
puo' conseguire).
   D'altra  parte,  ove  fosse  valido  l'assunto  del rimettente, si
dovrebbe   ipotizzare,  come  soluzione  costituzionalmente  imposta,
quella di prevedere - sempre e comunque - la revisione della condanna
in tutti i casi in cui si sia realizzata nel processo una invalidita'
in  rito,  che  ne  abbia  contaminato l'«equita». Cio' - oltre a non
essere neppure adombrato dal rimettente - risulterebbe apertamente in
contrasto sia con l'esigenza dello stare decisis che scaturisce dalle
preclusioni  processuali;  sia con la piu' volte riaffermata funzione
costituzionale del giudicato.
   5. - La complessa tematica dei rimedi «revocatori» e', d'altronde,
contrassegnata,  tanto  nel settore del processo civile che di quello
penale,   da  una  nutrita  serie  di  interventi  di  questa  Corte;
interventi  ai  quali  hanno poi finito per corrispondere altrettanti
significativi «innesti» normativi. Per un verso, cio' conferma quanto
sia  problematica  l'individuazione  di  un  punto  di equilibrio tra
l'esigenza  di  assicurare meccanismi riparatori, a fronte dei sempre
possibili errori del giudice; e quella - contrapposta alla prima - di
preservare  la  certezza  e  la stabilita' della res iudicata. Per un
altro verso, cio' sottolinea quanto risulti correlativamente ampia la
sfera   entro   la   quale   trova  spazio  la  discrezionalita'  del
legislatore.
   Cosi',  ad esempio, questa Corte ha dichiarato la inammissibilita'
di  una questione di legittimita' costituzionale degli artt. 629, 630
e  seguenti del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento
agli  artt.  3  e  24  Cost.,  nella parte in cui non era prevista la
revisione delle decisioni penali della Corte di cassazione per errore
di  fatto  -  materiale  e meramente percettivo - nella lettura degli
atti  interni  del  giudizio. A tal fine la Corte ha sottolineato che
l'istituto  della  revisione  e'  un  «modello  del  tutto eccentrico
rispetto  alle  esigenze  da  preservare  nel  caso  di specie, avuto
riguardo:  sia  alla diversita' dell'organo chiamato a celebrare tale
giudizio   (la  corte  di  appello);  sia  alla  duplicita'  di  fase
(rescindente  e  rescissoria) che ne contraddistingue le cadenze; sia
alle  stesse  funzioni che tale istituto e' chiamato a soddisfare nel
sistema» (sentenza n. 395 del 2000).
   Il  legislatore  a  sua  volta  -  per soddisfare le esigenze e le
lacune  poste in luce nella pronuncia richiamata - ha introdotto, con
l'art.  625-bis  cod. proc. pen., un nuovo istituto per rimuovere gli
effetti  di  quel  tipo di errori commessi dalla Corte di cassazione,
denominandolo  significativamente  «ricorso  straordinario per errore
materiale  o di fatto»; ed assegnandogli una collocazione sistematica
ed  una  disciplina  avulse  (e logicamente «alternative») rispetto a
quelle che caratterizzano la revisione.
   6.  -  Ad  ulteriore  conferma  della  molteplicita'  di soluzioni
suscettibili  di  prospettarsi con riferimento alla odierna questione
di  legittimita'  costituzionale  e  della correlativa esigenza di un
intervento   normativo   di   sistema,   sta  la  recente  iniziativa
legislativa,  indotta proprio dalle reiterate censure mosse al nostro
Paese  dal  Comitato  dei  Ministri  e  dalla Assemblea del Consiglio
d'Europa in relazione al caso Dorigo contro Italia.
   Dopo diverse proposte di origine parlamentare - alcune delle quali
menzionate  anche dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa -
il  Governo,  richiamandole, ha presentato al Senato, il 18 settembre
2007,  il disegno di legge n. 1797 recante, appunto, «Disposizioni in
materia  di  revisione del processo a seguito di sentenza della Corte
europea  dei diritti dell'uomo». In esso si proponeva la introduzione
di  un  Titolo  IV-bis  nel  libro IX del codice di procedura penale,
destinato  a  disciplinare  una ipotesi di revisione «speciale» delle
sentenze  di condanna, «quando la Corte europea dei diritti dell'uomo
ha  accertato  con  sentenza definitiva la violazione di taluna delle
disposizioni  di  cui  all'articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione
per   la   salvaguardia   dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848».
   La  relazione  illustrativa al disegno di legge sottolinea come la
scelta  della  collocazione  sistematica,  realizzata  attraverso  la
previsione  del  nuovo «titolo IV-bis», fosse «diretta, da un lato, a
confermare  la natura straordinaria del rimedio; dall'altro, a tenere
distinto l'istituto in esame da quello della revisione della sentenza
di cui agli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale. E
cio' per una serie di ragioni, la prima delle quali risiede nella non
automaticita' della rinnovazione dell'intero processo (come precisato
nel  successivo  articolo  647-septies),  quando  vi  sia  stata  una
pronuncia  della  Corte  di  Strasburgo  che  abbia  riconosciuto  la
cosiddetta  iniquita'  del  processo celebrato in Italia; automatismo
che rimane, invece, connotato essenziale della revisione dell'attuale
sistema processuale».
   Inoltre,  attraverso l'istituto «speciale», ipotizzato nel disegno
di  legge citato, si stabiliva la necessita' della rinnovazione degli
atti cui si fossero riferite le violazioni riscontrate dalla Corte di
Strasburgo;  con  conseguente perdita di rilievo probatorio di quelli
la  cui  pregressa  assunzione  era stata accertata come «iniqua». Un
simile  epilogo  non  potrebbe  scaturire dalla richiesta di sentenza
additiva  formulata  dal  giudice a quo, dal momento che la revisione
«ordinaria»  -  per come positivamente disciplinata dagli artt. 629 e
seguenti  del  codice  di  rito  -  non  spiega,  di per se', effetti
«invalidanti»   sul   materiale  di  prova  raccolto  nel  precedente
giudizio.  Infatti,  nel caso di revisione di cui all'art. 630, comma
1,  lettera  c),  cod.  proc.  pen.,  le  «nuove  prove» - che devono
dimostrare  la necessita' del proscioglimento - vanno apprezzate o da
sole oppure «unite a quelle gia' valutate».
   7.  -  Pur  dovendosi  quindi  pervenire  ad  una  declaratoria di
infondatezza  della  questione  proposta dalla Corte rimettente - con
specifico  riferimento  ai  parametri  di  costituzionalita' che sono
stati  richiamati  -  questa Corte ritiene di non potersi esimere dal
rivolgere   al   legislatore   un  pressante  invito  ad  adottare  i
provvedimenti ritenuti piu' idonei, per consentire all'ordinamento di
adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo che
abbiano  riscontrato,  nei  processi  penali,  violazioni ai principi
sanciti dall'art. 6 della CEDU.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  630,  comma 1, lettera a), del codice di procedura penale,
sollevata,  in  riferimento agli artt. 3, 10 e 27 della Costituzione,
dalla Corte di appello di Bologna con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2008.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 30 aprile 2008.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola