N. 60 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 - 8 ottobre 2008

Ordinanza del 10 ottobre  2008  emessa  dal  Tribunale  di  Roma  nel
procedimento  civile  promosso  da  Chianelli  Ilaria  contro   Poste
Italiane S.p.A.. 
 
Lavoro e occupazione - Prevista possibilita'  di  apposizione  di  un
  termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di
  ragioni  di  carattere   tecnico,   produttivo,   organizzativo   o
  sostitutivo, anche  se  riferibili  alla  ordinaria  attivita'  del
  datore di lavoro -  Abrogazione  della  previgente  disciplina  che
  consentiva l'apposizione della clausola del  termine,  per  ragioni
  sostitutive di personale con diritto alla conservazione  del  posto
  di lavoro,  alla  condizione  che  fossero  indicati  il  nome  del
  lavoratore sostituito e la causa della sostituzione  -  Eccesso  di
  delega - Violazione di vincoli derivanti dal diritto comunitario. 
- Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1, comma  1,  e
  11. 
- Costituzione, artt. 76, 77 e 117, primo comma. 
Lavoro e occupazione - Apposizione illegittima di termini alla durata
  del contratto di lavoro subordinato - Previsione, per i giudizi  in
  corso alla data di entrata in vigore della norma censurata,  di  un
  indennizzo a carico del datore di lavoro e in favore del lavoratore
  di importo compreso tra un  minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  6
  mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto  -  Violazione
  dei principi di certezza del diritto e di affidamento  -  Incidenza
  sul diritto di azione e  di  difesa  -  Indebita  interferenza  sul
  potere giudiziario. 
- Decreto  legislativo  6  settembre  2001,  n.  368,   art.   4-bis,
  introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n.
  133 [recte: art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008,
  n. 112, inserito dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133]. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, 24, comma  secondo,  101,  102,
  comma secondo, 104, comma secondo, e 117, primo comma. 
(GU n.10 del 11-3-2009 )
                            IL TRIBUNALE 
    Ha pronunciato  la  seguente  ordinanza  sciogliendo  la  riserva
assunta all'udienza del 25 settembre 2008; 
    Ritenuto in fatto che con ricorso depositato il 30 novembre  2006
Chianelli Ilaria ha convenuto qui in giudizio Poste Italiane S.p.A.; 
        che  la  ricorrente  ha  esposto:  di  aver   lavorato   alle
dipendenze della convenuta dal 1° ottobre 2004 al 15 gennaio 2005 con
contratto a tempo determinato nel quale la  clausola  appositiva  del
termine era stata giustificata con la seguente espressione «ai  sensi
dell'art.  l  del  d.lgs.  n.  368/2001  per  ragioni  di   carattere
sostitutivo correlate alla  specifica  esigenza  di  provvedere  alla
sostituzione del personale  addetto  al  servizio  di  smistamento  e
movimentazione carichi presso il Polo Corrispondenza  Lazio,  assente
nel periodo dal 1° ottobre 2004 al 15 gennaio 2005»; di aver lavorato
come Addetto CRO Junior presso il CMP di Roma Fiumicino; 
        che la ricorrente ha dedotto la nullita' della  clausola  del
termine, per i seguenti motivi (in sintesi): 
          a) per violazione dell'art.  l,  comma  2,  del  d.lgs.  n.
368/2001. La  ricorrente  sostiene  che  la  ragione  sostitutiva  e'
indicata in contratto in modo inammissibilmente generico, tale da non
consentire alcun controllo concreto sulla sussistenza della medesima,
e sul suo carattere temporaneo ed  eccezionale  rispetto  al  normale
andamento dell'attivita'  produttiva,  che,  secondo  la  ricorrente,
sarebbe richiesto dall'art. 1 cit. ed ancor prima dalla direttiva  Ce
n. 99/70. In particolare, ad avviso della  ricorrente,  la  clausola,
per rispettare la disposizione, avrebbe dovuto indicare il  nome  del
lavoratore sostituito e la causa della  sostituzione.  Al  contrario,
essa faceva riferimento a tutte le assenze verificatesi, nel medesimo
periodo, in tutta la Regione Lazio (recte, nell'ambito  di  tutta  la
funzione   regionale   di   smistamento   in   senso   ampio    della
corrispondenza, che fa capo ai c.d. Poli),  rendendo  impossibile  la
verifica di qualunque nesso causale tra il  macrofenomeno  addotto  a
ragione giustificativa e l'apposizione della clausola al rapporto  de
quo; 
          b) per  insussistenza  della  ragione  addotta  (violazione
dell'art. l, comma 1, del d.lgs n. 368 cit.), specie con riguardo  al
nesso causale. In realta' la convenuta avrebbe assunto da  vari  anni
tutto l'anno lavoratori a termine in un  numero  pressoche'  costante
per far fronte  ad  una  cronica  carenza  di  personale  nell'unita'
produttiva e/o per coprire le ordinarie necessita' di servizio; 
          c) per violazione della clausola di contingentamento  posta
in relazione all'art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368/2001; 
          d) per violazione  dell'art.  3  del  d.lgs.  n.  368/2001,
giacche'  contestava  che  nell'unita'  produttiva  nella  quale  era
avvenuta l'assunzione fosse stata operata la valutazione  dei  rischi
ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. n. 626/1994; 
        che la ricorrente ha concluso chiedendo:  a)  dichiararsi  la
nullita' della clausola del termine; b) dichiararsi, di  conseguenza,
che tra le  parti  era  in  corso  un  rapporto  di  lavoro  a  tempo
indeterminato sin  dalla  data  dell'assunzione;  c)  condannarsi  la
convenuta a riammetterla nel  posto  di  lavoro;  d)  condannarsi  la
convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dalla scadenza del
termine nullo; 
        che Poste  Italiane  S.p.A.  si  e'  costituita  in  giudizio
chiedendo respingersi le avverse domande, per i seguenti  motivi  (in
sintesi): 
          a) la domanda  attorea  sarebbe  inammissibile  perche'  il
prolungato disinteresse mostrato dalla scadenza del termine  pattuito
all'iniziativa giudiziaria varrebbe a dimostrare che il  rapporto  si
sarebbe comunque estinto per mutuo dissenso; 
          b) la disposizione di cui all'art. l, comma 2 del d.lgs. n.
368/2001 sarebbe stata sufficientemente onorata specificando  che  si
trattava di una ragione sostitutiva  (tra  le  quattro  previste  dal
comma 1) e riferita ad una determinata categoria di personale (quello
addetto al servizio smistamento  e  movimentazione  carichi)  di  una
determinata  unita'  produttiva   (il   CMP   di   Roma   Fiumicino).
L'indicazione dei nomi delle persone da sostituire e delle specifiche
cause della sostituzione non sarebbero richiesti dall'art.  1,  comma
2, del d.lgs n. 368/2001, come invece era previsto dall'art. l, comma
2, lett. b), della legge n. 230/1962, abrogato dall'art. 11 del d.lgs
n. 368/2001; 
          c)  le  ragioni  sostitutive  sarebbero  sussistenti,  come
basterebbero a provare le seguenti circostanze, dedotte ed invocate a
prova orale: i)  nel  periodo  di  impiego,  i  lavoratori  «stabili»
addetti all'unita' produttiva avrebbero  maturato,  complessivamente,
un numero di giorni di assenza (201) inferiore al numero  complessivo
delle persone impiegate a  tempo  determinato  nello  stesso  periodo
nella stessa struttura; 
          d) di aver effettuato la valutazione dei rischi; 
          e) che l'assunzione a termine per ragioni  sostitutive  era
sottratta alla clausola di contingentamento, ai sensi dei commi 7 e 8
dell'art. 10 del d.lgs n. 368/2001; 
          f) che l'onere probatorio sarebbe tutto della ricorrente; 
        che Poste Italiane ha  inoltre  dedotto:  che  le  contestate
violazioni non potrebbero portare alla  conversione  del  rapporto  a
tempo indeterminato; che le retribuzioni spetterebbero solo a  titolo
risarcitorio dalla data della messa in mora,  con  detraibilita'  dal
risarcimento dell'aliunde perceptum e percipiendum; 
        che sono stati escussi due testimoni,  all'esito  di  che  e'
stata fissata udienza di discussione; 
        che nelle more, e' entrato in vigore l'art.  21  del  d.l  n.
112/2008, che, come convertito in legge n. 133/2008,  ha  introdotto,
nel d.lgs. n. 368/2001, dopo l'art. 4, un art. 4-bis, che recita  che
«Con riferimento ai soli giudizi in corso alla  data  di  entrata  in
vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate
in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni  di  cui  agli
artt. 1, 2, e  4,  il  datore  di  lavoro  e'  tenuto  unicamente  ad
indennizzare il prestatore di lavoro  con  un'indennita'  di  importo
compreso tra un minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  sei  mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai  criteri
di cui all'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n.  604,  e  successive
modificazioni»; 
        che  in  sede  di  discussione  orale,  la  difesa  di  parte
ricorrente ha chiesto  disapplicarsi  tale  disposizione  perche'  in
contrasto con la normativa  comunitaria  o  in  subordine  giudicarsi
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale di detta  disposizione,  per  violazione  dell'art.  3
della Costituzione. Il giudice ha prospettato anche  altre  questioni
di legittimita' costituzionale, ed all'esito ha assunto  la  causa  a
riserva, oggi sciolta; 
    Ritenuto in diritto  che  la  disciplina  legislativa  previgente
l'entrata in vigore del d.lgs. n. 368/2001  consentiva  l'apposizione
della clausola del  termine  per  ragioni  sostitutive  di  personale
assente con diritto alla conservazione  del  posto  di  lavoro,  alla
condizione che fosse indicato il nome del lavoratore sostituito e  la
causa della  sostituzione  (art.  1,  comma  2,  lett.  b,  legge  n.
230/1962); 
        che tale disposizione e' stata abrogata, con tutta  la  legge
n. 230, dall'art.11 del d.lgs. n. 368/2001; 
        che in detto decreto si contempla ancora la  possibilita'  di
assumere  a  termine  «a  fronte  di   ragioni   di   carattere   ...
sostitutivo», ma non si richiede piu', almeno  sul  piano  letterale,
che sia indicato il nome del lavoratore sostituito ne' la causa della
sostituzione (art. 1, comma 1); 
        che l'onere di specificazione delle ragioni imposto dall'art.
l, comma  2  del  decreto  non  sembra  imporre  indirettamente  tali
specificazioni, sul mero  piano  dell'esegesi  «ordinaria»  (traibile
dall'art. 12 delle preleggi),  non  parendo  possibile  escludere  «a
priori», in base al dato letterale, ed in un contesto  storico  e  di
politica legislativa improntato ormai da  anni  ad  una  tendenza  di
progressiva flessibilizzazione della  materia,  che  la  ragione  del
termine possa risiedere, nell'intenzione  del  Legislatore  (come  in
sostanza assume la difesa di Poste Italiane) anche  nell'esigenza  di
supplire mediante personale assunto a termine ad esigenze sostitutive
indeterminate ma pronosticate, in un  determinato  ambito  aziendale,
tra gli addetti ad una determinata mansione,  riguardo  ai  quali  si
preveda, in un determinato  ambito  temporale,  un  certo  numero  di
giornate complessive di  assenza  (e  cio',  a  prescindere  da  ogni
valutazione in ordine alla sufficienza  della  giustificazione  quale
offerta e provata nel caso di specie; valutazione  che  appare,  allo
stato,  comunque  negativa,  quantomeno  per  la  eccessiva  ampiezza
dell'ambito di riferimento, consistente in tutti gli  uffici  facenti
parte del Polo Corrispondenza Lazio); 
        che in tale senso depone, tra l'altro, lo stesso passaggio da
una regola che prevedeva quell'onere di specificazione,  ad  una  ben
piu' generica che non lo prevede piu'; 
        che in tal senso, e se cio' e' vero, la disposizione  di  cui
all'art. l, comma  1,  del  d.lgs.  n.  368/2001  appare  segnare  un
indubbio arretramento della tutela del lavoratore, per quanto attiene
ai presupposti  per  la  legittima  apposizione  della  clausola  del
termine, rispetto  alla  disciplina  previgente,  almeno  per  quanto
attiene alle esigenze sostitutive; 
        che l'arretramento appare peraltro investire l'intero art.1 ,
comma 1, posto che, quale  lettura  si  dia  della  disposizione,  il
riferimento  affatto  generico  a  «ragioni  di  carattere   tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo» consente certo l'apposizione
della clausola in casi nei quali essa non  poteva  ritenersi  ammessa
alla stregua della disciplina previgente, che pure aveva  riguardo  a
tali ragioni di rango, per cosi' dire, «obiettivo», siccome afferenti
alle esigenze aziendali  (almeno  per  quanto  attiene  alle  ipotesi
previste direttamente  dalla  legge),  ma  limitava  la  possibilita'
dell'apposizione della clausola a fattispecie ben piu' definite; 
        che a tale evidenza non sembra potersi opporre che l'art.  23
della legge n. 56/1987, pure abrogato  dall'art.  11  del  d.lgs.  n.
368/2001, consentiva, secondo il diritto vivente ormai  invalso  (per
tutte, Cass. 4588/2006) alla contrattazione collettiva  di  prevedere
ipotesi anche indeterminate e non necessariamente neppure ancorate  a
ragioni obiettive (nel senso di  attinenti  ad  esigenze  aziendali),
bensi' anche a  ragioni  inerenti  la  persona  del  lavoratore  (cd.
ragioni soggettive), posto, da un lato, che e'  difficile  immaginare
una regola di governo  delle  esigenze  oggettive  aziendali  atte  a
legittimare l'apposizione della  clausola  piu'  generica  di  quella
posta dall'art. 1, comma 1 cit.; dall'altro, che  appare  dubbio  (ed
appare  anzi  da   escludere)   che   l'impossibilita',   conseguente
all'intervenuta abrogazione anche dell'art. 23 cit.  da  parte  dello
stesso art. 11 del d.lgs. n. 368 cit., di giustificare la apposizione
della clausola in base alla condizione del lavoratore  (che  sia,  ad
esempio, disoccupato di lungo periodo,  per  dare  un  esempio  della
casistica che si era prodotta in materia) costituisca un  avanzamento
del livello di tutela del lavoratore sul punto; 
        che con il d.lgs. n. 368/2001 il  Governo  Italiano  ha  dato
attuazione alla legge delega n. 422/2000, e, per essa, alla Direttiva
1999/70/CE; 
        che  la  direttiva  comunitaria  non  appare  dettare   alcun
principio o obiettivo,  ne'  alcuna  regola,  cui  gli  Stati  membri
debbano conformarsi per garantire ai lavoratori a  tempo  determinato
un livello di tutela minimo, per quanto attiene  ai  presupposti  per
l'apposizione della clausola del termine  ad  un  singolo  contratto;
ossia  non  appare  dettare  alcun  criterio   in   base   al   quale
l'apposizione della clausola ad un contratto singolo possa giudicarsi
«abusiva»,  per  non  trovare  ragione  in  circostanze  obiettive  o
soggettive di sorta, che debbano ricorrere onde evitare che essa  sia
«imposta» al  lavoratore  dalla  parte  datoriale  piu'  forte  quale
condizione dell'assunzione, al solo fine di consentire al  datore  di
beneficiare della precarieta' del rapporto, per i vantaggi  che  essa
obiettivamente in se' determina  in  capo  ad  esso,  specie  per  le
mansioni in ordine alle quali non sussiste un interesse datoriale  ad
un particolare affinamento della professionalita' del lavoratore, sia
sul   piano   economico   (non   maturazione   di   benefici   legati
all'anzianita'), sia su quello dei rapporti personali (condizione  di
soggezione).  La  direttiva  pone  solo,  fissandone  le   linee   di
perseguimento, due  obiettivi:  la  garanzia  del  principio  di  non
discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti  dall'utilizzo
in successione di contratti o rapporti a tempo determinato; 
        che solo nella parte non propriamente normativa  (il  settimo
considerando)  compare   l'affermazione   che   «l'utilizzazione   di
contratti a tempo determinato basata su ragioni oggettive e' un  modo
di prevenire gli abusi»; 
        che peraltro, ed a prescindere  dalla  posizione  «logistica»
dell'affermazione e del suo contenuto  sostanzialmente  valutativo  e
non «normativo», l'uso del plurale (utilizzazione di contratti) ed il
collegamento esegetico con la clausola 5, punto 1, lettera  a)  della
Direttiva (che pone l'esistenza di ragioni obiettive tra i  requisiti
alternativi minimi necessari a giustificare le reiterazioni), in  una
con l'assenza, nella medesima, di alcuna regola che ancori a  ragioni
di sorta la possibilita' di apporre la clausola  del  termine  ad  un
singolo  contratto,  suggeriscono  che  la  necessita'  di   «ragioni
obiettive»   si   riferisca   esclusivamente   alla   materia   della
reiterazione; 
        che nessuna concreta disposizione precettiva appare  traibile
dai considerando 6 e 8, che, da un lato,  confermano  la  «normalita»
della forma a tempo indeterminato del  rapporto  di  lavoro,  che  la
direttiva vede con  favore,  perche'  «contribuiscono  alla  qualita'
della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il  rendimento»
e  d'altronde  giovano   anche   ai   datori,   per   l'accrescimento
professionale  che  il  lavoratore  vi  ha  modo  di  acquisire;   ma
dall'altro non guardano con disfavore  ai  rapporti  a  termine,  che
«rappresentano una caratteristica  dell'impiego  in  alcuni  settori,
occupazioni ed attivita' atta a soddisfare sia i datori di lavoro che
i lavoratori».  Anche  detti  «considerando»  non  appaiono  peraltro
dettare regole o principi  di  sorta,  ma  esprimere  valutazioni  di
merito di carattere socio-lavorativo; 
        che neppure la necessita' che  l'apposizione  della  clausola
del termine sia  giustificata  da  pur  generiche  ragioni  oggettive
appare traibile dalla clausola n. 3, punto 1 della direttiva, che nel
recitare «Ai fini del presente accordo,  il  termine  ''lavoratore  a
tempo determinato'' indica una persona con un contratto o un rapporto
di lavoro  definiti  direttamente  fra  il  datore  di  lavoro  e  il
lavoratore e il cui termine e' determinato da  condizioni  oggettive,
quali il raggiungimento di una certa data,  il  completamento  di  un
compito specifico o il verificarsi di un evento specifico» non fa che
definire il lavoratore a termine come lavoratore che ha instaurato un
rapporto individuale di  lavoro  rispetto  al  quale  le  «condizioni
oggettive» non appaiono  essere  che  le  circostanze  obiettive  che
individuano, direttamente o indirettamente, quando il rapporto verra'
a cessare, ossia il termine in quanto tale. Cio' appare reso  palese,
oltre che dal tenore testuale della disposizione, dall'annovero,  tra
le «condizioni oggettive», del «raggiungimento di  una  certa  data»,
che non e' certo una ragione, bensi'  puramente  e  semplicemente  il
giorno convenuto per la  scadenza  del  rapporto,  che  lo  individua
direttamente; mentre le altre «condizioni» (il  completamento  di  un
compito specifico  e  il  verificarsi  di  un  evento  specifico)  lo
individuano indirettamente. D'altronde, anche il «verificarsi  di  un
evento   specifico»   non   esprime,   in   se',   alcuna   «ragione»
dell'apposizione del termine. Ed ancora  la  direttiva  dice  che  il
termine e' «determinato da condizioni oggettive» e non  «giustificato
da ragioni oggettive»,  con  cio'  rendendo  palese,  ad  avviso  del
giudicante, che la disposizione si limita ad individuare  la  nozione
di termine rilevante per la fattispecie (noi diremmo che il  dies  e'
certus an e puo' essere certus (raggiungimento di una certa  data)  o
incertus quando (completamento di un compito specifico o  verificarsi
di un evento specifico); 
        che al giudicante e' noto che la Corte costituzionale  (Sent.
n. 41/2000) e la S.C. di  cassazione  (Sent.  n.  12985/2008)  hanno,
seppur incidentalmente, rilevato nelle «disposizioni»  in  esame  una
qualche portata afferente la materia della necessita' di  presupposti
legittimativi  dell'apposizione  della  clausola  del   termine.   Il
giudicante Ritiene di aver spiegato i motivi per cui ritiene che tale
posizione meriti di essere  rimeditata  o  comunque  piu'  ampiamente
ponderata; 
        che la clausola 8 della direttiva prevede, al  comma  1,  che
«Gli Stati membri e/o le Parti Sociali possono mantenere o introdurre
disposizioni piu' favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel
presente accordo»; ed al comma 3, che  «L'applicazione  del  presente
accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale
di tutela offerto  ai  lavoratori  nell'ambito  coperto  dall'accordo
stesso»; 
        che pertanto appare del pari evidente che, anche  a  ritenere
che la direttiva richieda che il termine del  singolo  contratto  sia
giustificato da ragioni obiettive, cosi' come del tutto genericamente
(in ogni caso) indicate, non rientra tra gli  scopi  della  direttiva
quello di allineare al livello  di  tutela  individuato  da  siffatti
presunti principi, la disciplina degli Stati membri  che,  attraverso
la previsione di presupposti di legittimita' piu' specifici, dettasse
gia' una disciplina  piu'  favorevole  al  lavoratore,  con  riguardo
all'interesse di questi alla migliore qualita'  della  vita  ed  alle
maggiori opportunita' di  accrescimento  del  bagaglio  professionale
offerte dal rapporto a tempo indeterminato.  La  direttiva  mirerebbe
infatti comunque solo ad offrire una tutela minima; 
        che la legge delega  n.  422/2000  delegava  il  Governo  «ad
emanare... i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare
attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati
A e B» (tra le quali la direttiva 99/70  CE):  art.  1,  comma  1;  e
prevedeva, all'art.2, comma 1 lett. f)  che  «I  decreti  legislativi
assicureranno  in  ogni  caso  che,  nelle  materie  trattate   dalle
direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente  conforme
alle prescrizioni delle direttive medesime, tenuto anche conto  delle
eventuali modificazioni intervenute fino  al  momento  dell'esercizio
della delega»; 
        che nella legge delega non appare desumibile  dunque,  cd  in
genere,  alcun  altro  mandato  al  Governo,  che  di  dare  puntuale
attuazione alla direttiva comunitaria in questione; 
        che la direttiva, per quanto si e' Premesso, non  poneva,  ad
avviso del giudicante, alcuna regola o obiettivo riguardo alla tutela
dei  lavoratori  sul  piano  della  necessita'  di  presupposti   per
l'apposizione  della  clausola  del  termine,  sicche'  il  d.lgs  n.
368/2001,  nell'abrogare,  all'art.  11,  la  previgente   disciplina
nazionale in materia (ed in particolare, per stare al caso di specie,
all'art. l, comma 2, lett. b) della legge n.  230/1962)  appare  aver
operato in assenza di delega, e quindi in violazione degli artt. 76 e
77 della Costituzione; 
        che la nuova disciplina dell'apposizione della  clausola  del
termine, quale introdotta con l'art. l, comma 1,  del  d.lgs.  detto,
appare affetta dal medesimo vizio; 
        che peraltro (e lo si dice incidentalmente) anche a  ritenere
che la direttiva richiedesse  che  la  clausola  di  apposizione  del
termine fosse in qualche  modo  giustificata  da  ragioni  oggettive,
appare evidente che la normativa italiana non richiedeva, sul  punto,
alcun adeguamento, posto che le causali di cui alla legge n. 230/1962
ed alle leggi  speciali  successivamente  intervenute  in  materia  e
rimaste   abrogate   contemplavano   ipotesi   basate   o    comunque
riconducibili a ragioni obiettive, tanto piu' se intese nel senso del
tutto vago, fino al punto di essere soddisfatto «a priori» (come  nel
caso del «raggiungimento di una certa data»), traibile dalla clausola
3, punto 1 della direttiva; 
        in particolare, l'abrogato art. 1, comma 2,  lett.  b)  della
legge n. 230/1962  soddisfaceva  senz'altro  la  presunta  necessita'
comunitaria che la clausola appositiva del termine fosse giustificata
da ragioni obiettive; 
        che  in  aggiunta,  l'arretramento  del  livello  di   tutela
precedentemente offerto dalla  normativa  italiana  ai  lavoratori  a
termine  con  riguardo  ai  presupposti  per   l'applicazione   della
clausola, mediante la abrogazione del  precedente  regime  (legge  n.
230/1962; leggi speciali che qui si omettono per  brevita';  art.  23
della legge n. 56/1987)  improntato  in  larga  parte  su  previsioni
specifiche e tassative,  e  la  sua  sostituzione  con  una  clausola
elastica; arretramento che  peraltro,  a  stare  al  caso  di  specie
(esigenze di sostituzione  di  personale  assente  con  diritto  alla
conservazione al posto di lavoro) appare di palmare evidenza, sia sul
piano  sostanziale  (non  e'  piu'  necessario  che  il  contrattista
sostituisca  un  lavoratore  preindividuato)  sia  sul  piano   delle
garanzie  di  trasparenza  della  causale  di  utilizzo,  appare   in
conflitto con la clausola 8, punto 3, della direttiva, che  stabiliva
che l'applicazione dell'accordo  non  costituiva  motivo  valido  per
ridurre  il  livello  generale  di  tutela  offerto   ai   lavoratori
nell'ambito dell'accordo stesso (c.d. clausola di non regresso); 
        e' ben noto al giudicante che la Corte di  Giustizia  europea
nella  c.d.  sentenza  Mangold  (22  novembre  2005  -  C/144/04)  ha
giudicato che la direttiva in  questione  non  vieta  come  tale  una
reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori a termine,
a  condizione  che  essa  non  sia  in  alcun  modo   collegata   con
l'applicazione di questa; 
        pur tuttavia, ed anzi proprio per questo, non  si  vede  come
tale reformatio in peius possa dirsi in questo caso «in  alcun  modo»
collegata con l'applicazione dell'accordo quadro e  della  direttiva,
se  si  considera  che  essa  e'   stata   realizzata   proprio   nel
provvedimento  destinato  specificamente  a  dare  applicazione  alla
direttiva, e dichiaratamente allo scopo di darvi applicazione; 
        merita   aggiungere   che    nelle    Conclusioni    espresse
dall'Avvocato generale sul caso Mangold  si  suggeriva  espressamente
che non poteva ritenersi consentito agli Stati membri intervenire  in
peius nel sistema di tutele previste  per  i  lavoratori  a  termine,
dando l'impressione che cio' fosse imposto dalla necessita'  di  dare
attuazione alla direttiva comunitaria; tanto da suggerire,  altresi',
che gli Stati membri che avessero cosi' operato dovessero fornire, al
riguardo, una giustificazione. Tale ultima indicazione non  e'  stata
recepita dalla sentenza Mangold, ma l'interpretazione  offerta  dalla
sentenza alla c.d. clausola di non regresso accredita  la  fondatezza
del primo suggerimento dell'Avvocato generale; 
        che sotto il profilo in questione l'art. l, comma 1 e  l'art.
11  del  d.lgs.  n.  368/2001  appaiono  viziati  da   illegittimita'
costituzionale anche in rapporto  all'art.  117,  primo  comma  della
Costituzione, per violazione dei vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario, in forza del principio di c.d.  illegittimita'  derivata
ormai accreditato dai consessi superiori (per tutte  Cort.  cost.  n.
349/2007); 
        che la questione di legittimita'  costituzionale  come  sopra
prospettata appare rilevante in  causa  sotto  piu'  profili,  ed  in
particolare i seguenti: 
          a)  dalla  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
delle disposizioni in esame deriverebbe che la fattispecie ricadrebbe
nell'ambito di applicazione dell'art. l,  comma  2,  lett.  b)  della
legge n. 230/1962, che risulterebbe violato, perche' il contratto non
contiene l'indicazione del lavoratore sostituito e della causa  della
sostituzione. Il giudice non dovrebbe  piu',  in  particolare,  darsi
carico di valutare se  la  giustificazione  nella  specie  posta  nel
contratto individuale di lavoro risponda al  canone  di  specificita'
posto dall'arti, comma 2, del d.lgs. n. 368/2001; 
          b) lo stesso art.  1,  comma  2,  del  d.lgs.  n.  368/2001
rimarrebbe  presumibilmente  immune  da   censure   di   legittimita'
costituzionale    (secondo    il    principio    dell'interpretazione
adeguatrice) solo a condizione che la  specificazione  della  ragione
rispondesse alla regola posta dalla legge 230; cosa che al giudicante
appare perfettamente possibile (onde si astiene dal  sollevare  anche
tale questione); 
          c) le conseguenze della eventuale violazione  della  regola
che, in caso di accoglimento  della  questione,  avrebbe  imposto  al
datore di individuare in contratto il nome del lavoratore  sostituito
e la  causa  della  sostituzione  non  sarebbero  riconducibili  alla
violazione dell'art. 1  del  d.lgs.  n.  368/2001,  che  risulterebbe
annullato, ma alla violazione dell'art. l, comma 2,  lett.  b)  della
legge  n.  230/1962,  che  e'  estranea  all'ambito  di  applicazione
dell'art. 21 del  d.l.  n.  112/2008  come  convertito  in  legge  n.
133/2008, sicche' tale  ultima  disposizione  non  potrebbe  comunque
trovare applicazione nel caso di specie; 
        che inoltre, ed eventualmente in subordine,  appare  altresi'
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale di tale  ultima  disposizione,  in  primo  luogo,  con
riguardo agli artt. 3 e 117, comma 1 della Costituzione; 
        sotto il primo  profilo,  va  Premesso  che,  ad  avviso  del
giudicante, la  nullita'  della  clausola  del  termine  (qual'appare
indubbiamente integrata dalla violazione dell'art.  1  del  d.lgs  n.
368/2001, come  dall'art.  l,  comma  2,  lett.  b)  della  legge  n.
230/1962, trattandosi di disposizioni imperative), secondo i principi
generali - artt. 1419, comma 2 e art. 1339  c.c.  -,  che  dovrebbero
trovare applicazione, in assenza di disposizioni specifiche,  se  non
fosse in vigore la disposizione qui impugnata, comporta  le  seguenti
conseguenze: 
          a) non dovrebbe estendersi all'intero contratto  (soluzione
condivisa dalla preponderante dottrina e giurisprudenza di merito,  e
di recente convalidata da Cass. 12985/2008, alla cui motivazione, del
tutto esauriente sul punto, si fa rinvio); 
          b)  secondo  i  surrichiamati  principi   generali,   dalla
sopravvivenza giuridica del rapporto dovrebbe derivare la  permanenza
nel tempo dei  suoi  effetti  obbligatori,  tra  i  quali  quello  di
retribuire; potendo semmai discettarsi se sia conforme  al  principio
generale di buona fede che il lavoratore possa vantare  tale  diritto
finche'  non  abbia  rivendicato  la   riattivazione   fattuale   del
sinallagma, in un contesto nel quale per solito questo e' cessato per
il mutuo convincimento della cessazione de iure del rapporto;  ovvero
se possa trovare applicazione l'art. 1460 c.c.  in  un  contesto  nel
quale, se e' vero che il lavoratore non e' stato retribuito, e' anche
vero che non ha offerto la controprestazione; 
          c) deve tuttavia darsi atto che il c.d. diritto vivente  si
e' consolidato, a partire da Cass. SU n. 14381/2002, nel  senso  che,
poiche'  il  rapporto  di  lavoro  sarebbe  retto  da  una  sorta  di
sinallagmaticita' esecutiva per cui il diritto alla retribuzione  non
sorge - salvi i casi per  i  quali  la  legge  espressamente  prevede
altrimenti - se non quando il prestatore effettivamente lavora, dalla
mera persistenza giuridica del rapporto  (in  forza  della  quale  il
prestatore ha pur  diritto  ad  essere  riammesso  in  servizio)  non
discenderebbe  il  diritto  alla  retribuzione,  ma  il  diritto   al
risarcimento del danno (parametrato alle retribuzioni), e dal momento
in cui il prestatore abbia messo in mora il  datore,  offrendogli  le
proprie prestazioni; e con le limitazioni generali della materia  del
risarcimento (detraibilita' dell'aliunde perceptum et percipiendum); 
          d) in tale contesto il diritto vivente  e'  nel  senso  che
dalla nullita' della clausola del  termine  discendono,  dal  momento
dell'offerta    della    prestazione,    conseguenze     risarcitorie
sostanzialmente  analoghe  a  quelle  previste,  per  il   caso   del
licenziamento illegittimo, dall'art. 18 della legge n.  300/1970.  In
ogni  caso  la  tutela  del  lavoratore  quanto   all'interesse   del
ripristino del sinallagma e' - con la predetta limitazione -  «reale»
- nel senso che e' simile a quella  del  lavoratore  illegittimamente
licenziato nell'ambito della tutela cosi' solitamente denominata; 
        l'art. 4-bis del d.lgs. n.  368/2001,  quale  introdotto  dal
comma 1-bis dell'art. 21 della  legge  n.  133/2008,  il  cui  tenore
testuale e' stato  gia'  sopra  riportato,  sostituisce  alla  tutela
risarcitoria reale pur in qualche modo offerta  dal  diritto  vivente
previgente (ed in qualche modo gia' attenuata rispetto a  quelle  che
appaiono le regole traibili dai principi generali) con una tutela  di
rango  inferiore,  di  consistenza  indennitaria,  che   esclude   la
prosecuzione giuridica del rapporto e lo stesso diritto al ripristino
fattuale del sinallagma, e sostanzialmente strutturata,  mediante  il
rinvio all'art. 8 della legge n. 604/1966 e s.m., sulla  c.d.  tutela
obbligatoria prevista, nel caso del licenziamento illegittimo, per le
piccole imprese; 
        la disposizione qui censurata opera  tale  modifica  in  modo
retroattivo, in quanto esteso  ai  giudizi  in  corso  alla  data  di
entrata in vigore della novella (tra i  quali  il  presente);  e  nel
contempo non valido per l'avvenire, ed in particolare per  i  giudizi
che fossero instaurati dopo l'entrata in vigore della disposizione. 
    Tale regime normativo appare censurabile  ai  sensi  dell'art.  3
della Costituzione sotto diversi profili; 
    Il primo,  e  piu'  appariscente,  attiene  alla  violazione  del
principio di uguaglianza insita nel  fatto  di  disporre  una  tutela
attenuata, a parita' di tutte le altre condizioni,  a  carico  di  un
lavoratore, per il mero fatto,  che  appare  palesemente  inidoneo  a
giustificare una discriminazione, di avere gia' un giudizio in corso.
Un lavoratore che avesse  stipulato  un  identico  contratto  la  cui
clausola appositiva del termine fosse nulla (o  altrimenti  invalida)
per i medesimi motivi, e che avesse proposto  il  ricorso  il  giorno
dopo l'entrata  in  vigore  della  novella  o  in  qualunque  momento
successivo, godrebbe della «tutela forte»  sopra  delineata;  e  cio'
sebbene il fatto di aver tardato ad agire in giudizio non possa certo
ascriversi a ragione di maggior merito. 
    Non piu' giustificata appare peraltro la discriminazione  operata
nei confronti dei lavoratori  in  questione,  rispetto  a  quelli  (e
notoriamente ve ne sono almeno a  centinaia)  che  hanno  giudizi  in
corso nei  quali  vengono  in  considerazione  le  conseguenze  della
invalidita' della clausola  del  termine,  che  peraltro  sia  retta,
ratione temporis, dal sistema normativo previgente di cui alla  legge
n. 230/1962 e altre leggi speciali; ovvero  che  addirittura  non  li
abbiano ancora instaurati. 
    Si  puo'  solo  ipotizzare  che  il  Legislatore  abbia  ritenuto
opportuno, in  una  contingenza  caratterizzata  da  un  fenomeno  di
massiccia impugnazione di clausole del termine, specie nei  confronti
di Poste Italiane S.p.A., arginare  parzialmente  e  provvisoriamente
gli effetti  economici  e  le  conseguenze  sul  piano  occupazionale
dell'accoglimento dei ricorsi, limitando i risarcimenti ed escludendo
la possibilita' del ripristino. Tuttavia  il  criterio  di  selezione
delle fattispecie alle quali dovrebbe trovare applicazione la nuova e
attenuata  tutela  appare  francamente  del  tutto  irragionevole,  e
produttivo  di  sperequazioni  che  appaiono   prive   di   qualsiasi
ragionevole giustificazione. 
    La  disposizione  censurata  appare  peraltro  viziata  anche  in
rapporto all'art. 117, comma 1 della Costituzione, in  rapporto  agli
obblighi assunti dallo Stato italiano con la legge n.  848/1955,  con
la quale e' stata  resa  esecutiva  la  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  del
4 novembre 1950. 
    L'art. 6 della Convenzione, nel porre  la  garanzia  del  «giusto
processo», e' stata  infatti  interpretata  dalla  Corte  europea  di
Strasburgo (causa Scordino/Italia n. 36813/97 e  precedenti  da  essa
richiamati) nel senso che gli Stati aderenti alla  Convenzione  hanno
l'obbligo di non esercitare un  ingerenza  normativa  finalizzata  ad
ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo
che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi imperiosi  di
carattere generale; specie quando l'intervento avvenga in  una  causa
nella quale lo Stato sia parte. 
    Che la violazione di tale regola  determini  un  vulnus  all'art.
117, comma 1  della  Costituzione  e'  stato  gia'  riconosciuto  dal
Giudice delle leggi quantomeno nella  sentenza  n.  349/2007;  ed  e'
stato recentemente opinato,  in  altra  fattispecie,  dalla  S.C.  di
Cassazione nell'ordinanza di rimessione n. 22260/2008. 
    Nella specie la disposizione censurata trova applicazione a tutte
le ipotesi di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2  e
4 del d.lgs. n. 368/2001. Poiche', peraltro, un intervento di  ambito
temporale cosi' contingente (vale per i giudizi in corso, ma non vale
per i giudizi futuri) non sembra poter trovare altra motivazione  che
nella  presunta  esigenza  di  una  contingente  attenuazione   delle
conseguenze dell'accoglimento di  ricorsi  fondati  sulla  violazione
degli artt. 1, 2 o 4 del d.lgs. n. 368/2001, sul presupposto che tali
conseguenze siano attualmente e provvisoriamente  insopportabili  per
le imprese che le subiscono; poiche' per quanto questo  giudice  puo'
constatare nella sua quotidiana esperienza  giudiziaria,  solo  Poste
Italiane S.p.A. e' attualmente «vittima» di un fenomeno di  massiccia
e  pressoche'  sistematica  impugnazione  di  clausole  del   termine
stipulate sulla base del d.lgs n.  368/2001;  poiche'  in  ogni  caso
Poste Italiane S.p.A.  sta  notoriamente  subendo  oggi  un  siffatto
fenomeno;  poiche'  lo  Stato  italiano  e'   attualmente   azionista
largamente maggioritario di Poste Italiane S.p.A. (partecipata al 65%
dal Ministero dell'economia e  delle  finanze  ed  al  35%  da  Cassa
Depositi e Prestiti S.p.A.,  a  sua  volta  partecipata  al  70%  dal
medesimo Ministero); poiche', infine, una disposizione che vale  solo
per i giudizi in corso, non valendo neppure per  l'avvenire,  e'  per
definizione una disposizione che ha il solo  scopo  di  ottenere  una
determinata soluzione di un tipo di controversia in  corso;  poiche',
d'altronde, non e' necessario che tale sia il  fine  esclusivo  della
disposizione (Cass. ord. 22260/2008); appare lecito dubitare  che  il
Legislatore abbia violato i  surrichiamati  principi  in  materia  di
«giusto processo», cosi' violando l'art. 117 della Costituzione. 
    Ne' cio' basta. 
    La disposizione qui  censurata  incide  retroattivamente  (sempre
nell'ipotesi,  che  il  giudicante  ritiene  di  dover   allo   stato
accreditare,  che  la  clausola  del  termine  sia  nella  specie  da
giudicare  invalida),  sopprimendolo,  su  un  diritto  (quello  alla
«tutela reale» quale sopra formulata) che era stato gia' acquisito al
patrimonio della parte ricorrente. La Corte  costituzionale  ha  piu'
volte ricordato (v. es sentenze n. 390/1995, 211/1997, 416/1999)  che
la Carta fondamentale tutela, all'art. 3,  comma  1  (ma  allo  scopo
potrebbe anche essere invocato l'art. 24, comma  2)  il  diritto  del
cittadino a poter  riporre  affidamento  nella  sicurezza  (certezza)
giuridica, quale elemento essenziale di uno stato di diritto, che non
puo' essere leso da disposizioni retroattive, che  trasmodino  in  un
regolamento irrazionale di situazioni sostanziali  fondate  su  leggi
precedenti. La parte ricorrente ha agito in giudizio  nell'ambito  di
un  quadro  normativo  che  le  garantiva,  in  caso   di   accertata
invalidita' della clausola del termine, la prosecuzione giuridica del
rapporto ed in ogni caso il diritto al ripristino dello  stesso,  con
conseguenze risarcitorie, in caso di violazione,  idonee  alla  piena
riparazione  del  danno  subito;  e  non  appare  ravvisabile  alcuna
giustificazione razionale nel fatto che la legge lo abbia privato  di
tale diritto non solo in corso di causa, ma proprio  e  solo  per  il
fatto di avere una causa in corso (che' se avesse tardato a proporla,
il suo diritto sarebbe stato fatto salvo). 
    Ma  ancora,  ed  infine,  la  disposizione  in  esame  appare  in
contrasto con gli artt. 101, 102,  comma  2  e  104,  comma  1  della
Costituzione, perche' un  intervento  della  legislazione  che,  come
nella specie, riguardi esclusivamente un certo  tipo  di  giudizi  in
corso ad una certa data si palesa privo del carattere di  astrattezza
proprio   della   normazione   legislativa,   ed   assume   carattere
provvedimentale  generale  (ha  ad  oggetto   esclusivo   un   numero
concretamente ancorche' indirettamente  determinato  di  fattispecie)
con riguardo a giudizi in corso, cosi' invadendo un ambito  che  deve
ritenersi riservato al potere giudiziario. Ancora una volta la  Corte
costituzionale ha avuto modo di affermare che non e' legittimo che la
legge introduca disposizioni intenzionalmente dirette ad incidere  su
concrete fattispecie  sub  iudice  (sentenze  nn.  397/1994,  6/1994,
429/1993 ed altre); ed il fatto  che  la  disposizione  in  questione
valga solo per i giudizi in corso, escludendo  anche  quelli  futuri,
appare rendere del tutto evidente che nella specie la legge ha inteso
intenzionalmente  quanto  esclusivamente  incidere  sulle  sorti   di
fattispecie sub  iudice,  cosi'  invadendo  l'ambito  riservato  alla
giurisdizione. 
    La rilevanza di dette ultime questioni  appare  evidente:  se  la
disposizione   censurata    fosse    dichiarata    costituzionalmente
illegittima, ed il giudicante trovasse invalida  nella  specie  (come
comunque allo stato gli appare, quantomeno per  violazione  dell'art.
1,  comma  2,  del  d.lgs.   n.   368/2001,   ove   fosse   giudicato
costituzionalmente legittimo, ed a fortiori  in  caso  contrario)  la
clausola appositiva del termine (la causa e' pronta per la decisione)
essa non potrebbe trovare l'applicazione  altrimenti  necessaria  nel
presente  giudizio,  e  dovrebbe  applicarsi   il   diritto   vivente
previgente (o altro). 
    Per mero scrupolo, sempre  in  punto  di  rilevanza,  il  giudice
ritiene di dover precisare che  gli  sembra,  allo  stato,  infondata
l'eccezione di mutuo dissenso, perche' a  prescindere  dall'obiettiva
brevita' del tempo  trascorso  tra  la  fine  fattuale  del  rapporto
(gennaio 2005) e la prima iniziativa stragiudiziale (settembre  2006:
presentazione della richiesta di conciliazione), il mero decorso  del
tempo non  ha  significato  negoziale,  tantomeno  concludente  (come
necessario allo scopo) per un lavoratore che puo' aver ritenuto, fino
all'imminenza della reazione, che il rapporto fosse cessato «de iure»
(come d'altronde ancora ritiene la controparte), e nel contempo  aver
confidato  nell'assenza  di  termini  decadenziali  e   nell'adeguata
ampiezza di quelli prescrizionali. Affidamento indubbiamente tradito,
in modo che appare ingiustificato, da chi ritiene che  per  integrare
un dissenso basti un «protratto disinteresse». 
                              P. Q. M. 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; 
    Dichiara rilevante, e non manifestamente infondata, la  questione
di legittimita' costituzionale degli artt.  1,  comma  1,  e  11  del
d.lgs. n. 368/2001, per contrasto con gli artt. 76, 77 e 117, comma 1
della Costituzione; 
    Dichiara rilevante, e non manifestamente infondata, la  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis, della legge
n. 133/2008, inserente dopo l'art. 4 del d.lgs. n. 368/2001  un  art.
4-bis, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma,
101, 102, secondo comma, 104, secondo comma e 117, primo comma  della
Costituzione; 
    Sospende il giudizio e dispone la  trasmissione  immediata  degli
atti alla Corte costituzionale; 
    Manda  alla  Cancelleria  per  la  notificazione  della  presente
ordinanza alle parti ed al Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
nonche' per la comunicazione della stessa  ai  Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
        Roma, addi' 8 ottobre 2008 
                          Il giudice: Conte