N. 63 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 - 21 maggio 2008
Ordinanza del 29 maggio 2008 emessa dal Tribunale militare di Napoli - Ex Tribunale militare di Palermo nel procedimento penale militare a carico di Calafato Calogero. Reati militari - Diffamazione - Possibilita' per il colpevole di provare i fatti attribuiti e, in caso di esito positivo, la non punibilita' della condotta - Mancata previsione - Disparita' di trattamento rispetto ai soggetti imputati dell'analogo reato comune. - Codice penale militare di pace, art. 227. - Costituzione, art. 3.(GU n.10 del 11-3-2009 )
IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di Calafato Calogero, nato il 19 aprile 1966 a Ravanusa (Agrigento), maresciallo CC. in servizio presso il R.O.S. di Palermo, imputato di diffamazione aggravata (artt. 47 n. 2, 227 commi 1 e 2 c.p.m.p.). Calafato Calogero veniva tratto a giudizio innanzi a questo Tribunale militare per rispondere del reato di diffamazione aggravata. Secondo l'accusa, e come si rileva dalla lettura del capo d'imputazione, egli, in un esposto inviato a diverse autorita', avrebbe offeso la reputazione del brig. CC. Ferreri Maurizio attribuendogli vari fatti determinati. All'udienza del 5 ottobre 2005 la difesa dell'imputato sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 227 c.p.m.p. in relazione all'art. 3 della Costituzione nella parte in cui, a differenza dell'art. 596 c.p. e alle condizioni da questo poste ai commi 3 e 4, non prevede la possibilita' di provare i fatti attribuiti. Il Tribunale, accogliendo la questione, emetteva sotto la stessa data la relativa ordinanza. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 49 del 25 febbraio - 4 marzo 2008, dichiarava la manifesta inammissibilita' della questione sotto due profili: per un verso l'omissione, da parte del Tribunale, della descrizione del caso concreto; e per altro verso la mancata indicazione di quella tra le tre ipotesi previste dall'art. 596, comma 3 c.p. che ricorrerebbe nel caso di specie. All'udienza odierna, pertanto, la difesa dell'imputato risollevava la questione di legittimita' costituzionale negli stessi termini gia' esposti. Secondo quanto si ricava dal capo d'imputazione e dai documenti prodotti dalle parti all'udienza del 5 ottobre 2005 (ff. 16-113), il Calafato, maresciallo capo CC. in servizio presso la sezione anticrimine corpo Carabinieri di Monreale (Palermo), con un esposto indirizzato in data 25 ottobre 2004 a vari Comandi dell'Arma e a varie autorita' giudiziarie, avrebbe offeso la reputazione del brig. CC Maurizio Ferreri attribuendogli i fatti determinati di spendere con disinvoltura il nome di un sostituto procuratore generale di Caltanissetta, di lasciare l'auto di servizio incustodita sulla pubblica via, di occupare abusivamente un seminterrato grazie alla compiacenza di istituzioni locali, di mancare di riservatezza cosi' pregiudicando la sicurezza del sostituto procuratore generale e di colleghi del Ferreri, di vivere indebitamente di luce riflessa senza far sapere di non avere piu' rapporti di lavoro col magistrato, di utilizzare il nome di quest'ultimo come quello di «garante inconsapevole di inqualificabili condotte», e infine di godere della «comprensione» del Comando provinciale CC di Caltanissetta per le sue vicende personali. L'art. 596 c.p., pur escludendo in via generale la prova liberatoria (comma 1), la ammette pero' nelle limitate ipotesi contemplate nei commi 2 e 3; e stabilisce (comma 4) che, se la verita' del fatto e' provata, l'autore dell'imputazione non e' punibile. Questa speciale causa di non punibilita' rimane del tutto ignota al codice penale militare, che non contiene alcuna norma analoga. Deve ricordarsi che il regime originario voluto dal codice Rocco per i reati contro l'onore non prevedeva la possibilita' della prova liberatoria, ma solo quella - eventuale - del deferimento a un giuri' d'onore del giudizio sulla verita' del fatto. La modifica apportata all'art. 596 c.p. nei termini tutt'oggi in vigore era intervenuta grazie all'art. 5, d.l. 14 settembre 1944, n. 288, che pero' nulla aveva disposto riguardo alle corrispondenti fattispecie militari. In tal modo il trattamento penalistico dei due settori, pressoche' identico quanto alla morfologia complessiva delle figure criminose di ingiuria e diffamazione, aveva finito per diversificarsi profondamente in tema di cause di non punibilita': mentre nel codice penale comune si risolveva in senso liberale la questione del valore da attribuire alla verita' dell'addebito, il codice militare, nato nel 1941, continuava a rispecchiare la sua matrice autoritaria, contraria ad ammettere la legittimita' della pubblica censura ai comportamenti di determinati soggetti. L'attuale disarmonia tra i due settori penalistici non appare comprensibile sotto il profilo della ragionevolezza, non essendo possibile individuare alcun valido motivo della perdurante sperequazione; e per cio' stesso appare ingiustificato ex art. 3 della Costituzione, poiche' finisce per trattare la posizione dei militari imputati di ingiuria o diffamazione in modo pesantemente diverso da quello previsto per i non appartenenti alle Forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi. Nel caso di specie, se il trattamento previsto dal codice militare fosse identico a quello previsto dal codice penale, dovrebbe ritenersi ricorrente l'ipotesi contemplata nell'art. 596, comma 3 n. 1 c.p., apparendo evidente che la persona offesa, brigadiere dei Carabinieri, riveste la qualita' di pubblico ufficiale e che i fatti a lui attribuiti dall'imputato si riferiscono all'esercizio delle sue funzioni. Da cio' discende la non manifesta infondatezza della questione sollevata dalla difesa. Quanto alla sua rilevanza nel procedimento in corso, e' appena il caso di rilevare che l'esito di quest'ultimo sarebbe ben diverso ammettendosi o negandosi la possibilita' della prova liberatoria poiche' in un caso si potrebbe pervenire, e nell'altro no, a una pronuncia favorevole all'imputato nei termini previsti dall'art. 596, comma 4 c.p.
P. Q. M. Viste le norme richiamate nonche' l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 227 c.p.m.p., in relazione all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede, come fa invece l'art. 596 comma 3 n. 1 e comma 4 c.p., la possibilita' di provare i fatti attribuiti e, in caso di esito positivo, la non punibilita' della condotta; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; sospende il giudizio in corso; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al p.m., nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento. Palermo, addi' 21 maggio 2008 Il Presidente estensore: Messina