N. 198 SENTENZA 24 giugno - 1 luglio 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Fallimento e procedure concorsuali - Esonero dalle  disposizioni  sul
  fallimento per gli imprenditori commerciali in  possesso  congiunto
  dei requisiti dimensionali di cui all'art. 1, comma secondo,  della
  legge fallimentare, con onere della prova a carico del  debitore  -
  Ritenuta violazione del principio direttivo della legge  delega  n.
  80 del 2005 inteso ad estendere la platea  dei  soggetti  esonerati
  dall'istituto  -   Esclusione   -   Fissazione   di   oggettivi   e
  predeterminati criteri quantitativi volti a delimitare  i  soggetti
  esonerati - Conseguente conformita' della disciplina denunciata  al
  principio della legge delega - Non fondatezza della questione. 
- R.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, secondo comma, come  modificato
  dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169. 
- Costituzione, art. 76; legge 14 maggio 2005, n. 80. 
Fallimento e procedure concorsuali - Esonero dalle  disposizioni  sul
  fallimento per gli imprenditori commerciali in  possesso  congiunto
  dei requisiti dimensionali di cui all'art. 1, comma secondo,  della
  legge fallimentare, con onere della prova a carico del  debitore  -
  Ritenuta irragionevolezza del regime probatorio per contrasto con i
  requisiti di utilita' generale - Esclusione - Omessa considerazione
  della complessiva normativa sul fallimento che consente,  anche  al
  giudice, una valutazione dell'esistenza dei requisiti per l'esonero
  - Inammissibilita' della questione. 
- R.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, secondo comma, come  modificato
  dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.27 del 8-7-2009 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO ,  Alfonso
  QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE ,  Maria  Rita  SAULLE  ,  Giuseppe  TESAURO,  Paolo  Maria
  NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
                              Sentenza 
nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,   comma
secondo, del regio decreto 16 marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
fallimento, del concordato preventivo  e  della  liquidazione  coatta
amministrativa), come modificato dal decreto legislativo 12 settembre
2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio  decreto
16 marzo 1942, n. 267, nonche' al decreto legislativo 9 gennaio 2006,
n.  5,  in  materia  di  disciplina  del  fallimento  del  concordato
preventivo e  della  liquidazione  coatta  amministrativa,  ai  sensi
dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n.  80),
promossi dal Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, con
ordinanze del 16 maggio e del 21 luglio 2008, iscritte ai nn.  258  e
421 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 37 e 54, 1ª serie speciale, dell'anno 2008; 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del  6  maggio  2009  il  giudice
relatore Paolo Maria Napolitano. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. - Con ordinanza depositata in data 16 maggio 2008 il Tribunale
ordinario di Napoli, sezione fallimentare, ha sollevato questione  di
legittimita' costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 76, primo
comma, della Costituzione, dell'art.  1,  secondo  comma,  del  regio
decreto 16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del
concordato preventivo e della  liquidazione  coatta  amministrativa),
come modificato  a  seguito  della  entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo 12 settembre 2007, n.  169  (Disposizioni  integrative  e
correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche' al decreto
legislativo 9 gennaio 2006,  n.  5,  in  materia  di  disciplina  del
fallimento del concordato  preventivo  e  della  liquidazione  coatta
amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge
14 maggio 2005, n. 80). 
    1.1. - Riferisce il Tribunale di  Napoli  di  essere  chiamato  a
giudicare  in  ordine  alla  istanza  di  fallimento  presentata  nei
confronti di una societa' in liquidazione. Dopo aver precisato che la
societa' istante ha dimostrato di  essere  creditrice  nei  confronti
della fallenda - la  quale,  pur  ritualmente  intimata,  non  si  e'
costituita ne' e' comparsa in giudizio  -  in  forza  di  un  decreto
ingiuntivo, divenuto definitivo, per un importo  di  circa  80.000,00
euro, e che la medesima, secondo quanto emerso in sede di istruttoria
prefallimentare,  e'  altresi'  debitrice,  in  forza   di   cartelle
esattoriali emesse nei  suoi  confronti,  per  altri  95.000,00  euro
circa, il rimettente rileva che non e' dubbia -  tenuto  anche  conto
degli  indici  offerti  dall'avvenuta,  considerevole  e   repentina,
contrazione del volume d'affari, dall'abbandono della  sede  sociale,
dal gravoso carico debitorio e,  infine,  dal  mancato  deposito  dei
bilanci successivi all'anno 2003 -  la  sussistenza  a  carico  della
societa' fallenda del necessario requisito della insolvenza. 
    Riguardo alla assoggettabilita' di questa al  fallimento,  rileva
il Tribunale che essa deve essere accertata alla stregua dell'art. 1,
commi primo e secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, nel testo a
tale data vigente. 
    Il rimettente ritiene, pero', che il  comma  secondo  del  citato
art. 1, nella parte  in  cui  prevede  che  non  sono  soggetti  alle
disposizioni  sul  fallimento  e  sul   concordato   preventivo   gli
imprenditori  i  quali  dimostrino  il  possesso  congiunto  dei  tre
requisiti indicati dalla medesima disposizione - cioe': avere  avuto,
nei  tre  esercizi  precedenti  alla  presentazione  dell'istanza  di
fallimento un attivo patrimoniale annuo non  superiore  a  300.000,00
euro, avere avuto, nel medesimo lasso di tempo, un ricavo lordo annuo
non superiore a 200.000,00 euro, ed, infine, di avere  debiti,  anche
non scaduti, per un ammontare non superiore a 500.000,00 euro  -  sia
in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, violando  il  principio
di ragionevolezza. 
    Cio', puntualizza il rimettente, nella  parte  in  cui  grava  il
debitore dell'onere «di  provare  la  sua  non  assoggettabilita'  al
fallimento o, se  si  preferisce,  nella  parte  in  cui  prevede  il
fallimento dell'imprenditore insolvente che non abbia  dimostrato  di
non essere ricompreso nell'area di non fallibilita». 
    Al proposito,  osserva  il  rimettente  che,  anteriormente  alla
riforma del diritto fallimentare operata con il decreto legislativo 9
gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005,
n. 80), era quasi unanime l'opinione che, ai  fini  dell'accoglimento
della istanza di fallimento, il ricorrente dovesse provare, oltre  lo
stato di insolvenza del debitore e la sua  qualita'  di  imprenditore
commerciale,  anche  il  fatto  che  questi  non  fosse  un   piccolo
imprenditore. 
    Riguardo  al  criterio  distintivo,   nell'ampio   ambito   degli
imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il Tribunale  di
Napoli ricorda come questa Corte, con la sentenza n.  570  del  1989,
abbia chiarito che a fondare siffatta distinzione, in particolare  ai
fini della assoggettabilita'  o  meno  alla  procedura  fallimentare,
debbono essere fissati criteri  oggettivi,  ancorati  alla  attivita'
svolta,   all'organizzazione   dei   mezzi   impiegati,   all'entita'
dell'impresa  e  alle   ripercussioni   che   il   dissesto   produce
nell'economia nazionale. Cio' al  fine  di  evitare  che  imprese  di
modeste dimensioni siano sottoposte alle  procedure  fallimentari,  a
rischio,  in  caso  contrario,  che  queste  si  trasformino  in  uno
strumento impeditivo della tutela dei creditori. 
    Secondo il rimettente,  da  tali  considerazioni  si  ricaverebbe
l'obbligo  di  legiferare  in  modo  tale  da  ridurre  al  minimo  i
fallimenti nei  quali  l'attivo  non  e'  sufficiente  a  soddisfare,
neppure in parte, i  creditori,  cosi'  liberando  «risorse  umane  e
materiali preziose per l'organizzazione giudiziaria» ed evitando,  al
contempo, di criminalizzare comportamenti privi di reale disvalore. 
    1.2. - In questo solco, prosegue il giudice a quo, si  era  posto
il legislatore delegante che, all'art. 1 della legge 14 maggio  2005,
n. 80, (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14
marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano
di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale.  Deleghe
al Governo per la modifica del codice di procedura civile in  materia
di processo di cassazione e  di  arbitrato  nonche'  per  la  riforma
organica  della  disciplina  delle  procedure   concorsuali),   aveva
previsto, fra i principi e criteri direttivi cui doveva attenersi  il
Governo  nell'attuazione  della  delega   conferitagli,   quello   di
«semplificare la  disciplina  attraverso  l'estensione  dei  soggetti
esonerati dall'applicabilita' dell'istituto e  l'accelerazione  delle
procedure applicabili alle controversie in materia». 
    Scopo dichiarato dei riportati criteri sarebbe stato,  ad  avviso
del rimettente, la eliminazione di  quelle  numerosissime  procedure,
chiuse con la  realizzazione  di  un  attivo  neppure  sufficiente  a
coprire le spese, il cui  bilancio  era  destinato  a  gravare  sullo
Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o
per la collettivita'. 
    Il legislatore delegato del  2006,  conservando,  ai  fini  della
soggezione o  meno  al  fallimento,  il  tradizionale  richiamo  alla
categoria dei piccoli imprenditori, aveva  dettato  alcuni  parametri
finalizzati alla individuazione degli appartenenti a tale  categoria,
senza  peraltro  nulla  disporre  in  merito  alla  ripartizione  del
relativo onere probatorio,  ed  aveva  introdotto,  all'ultimo  comma
dell'art. 15 della legge fallimentare, un limite quantitativo  minimo
dell'ammontare dei debiti scaduti e non pagati, al di sotto del quale
non poteva essere dichiarato il fallimento. 
    1.3. - Entrata in vigore la riforma, prosegue il  rimettente,  si
e' verificata una «sensibilissima riduzione  delle  dichiarazioni  di
fallimento», dovuta al fatto che al «dubbio sul superamento da  parte
del debitore delle soglie quantitative dell'area della  fallibilita»,
fissate dall'allora vigente secondo comma  dell'art.  1  della  legge
fallimentare, seguiva  il  rigetto  della  istanza.  Tale  riduzione,
sebbene ritenuta dal rimettente in linea  con  la  delega  conferita,
sarebbe stata contrastata dal legislatore delegato che, in  occasione
dell'emanazione del decreto correttivo n. 169 del 2007, ha gravato il
debitore dell'onere di dimostrare la sua qualita' di imprenditore non
soggetto  a  fallimento,  in  quanto  rientrante  nell'area  di   non
assoggettabilita' al fallimento delineata  dal  nuovo  secondo  comma
dell'art. 1 della legge fallimentare. 
    Tale  riparto  dell'onere  probatorio,  anche  se  ritenuto   dal
rimettente, cosi' come emergerebbe anche dalla Relazione illustrativa
al d.lgs. n. 169 del 2007, conforme al principio generale in  materia
espresso  dall'art.  2697  cod.  civ.  nonche'  a  quello,  al  primo
correlato, della prossimita' della prova, violerebbe, stante  la  sua
irragionevolezza, l'art. 3 della Costituzione. 
    Con esso, infatti, sarebbero state sostanzialmente  disattese  le
indicazioni date dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n.
570 del 1989, la quale aveva evidenziato l'esigenza di un  discrimine
oggettivo tra imprenditore suscettibile di  fallire  ed  imprenditore
non soggetto a tale procedura. 
    Addossare,  invece,  sul  debitore  l'onere  di  provare  la  sua
assoggettabilita' o meno al  fallimento,  continua  il  Tribunale  di
Napoli, puo' far dipendere la apertura della procedura concorsuale da
un comportamento del debitore  stesso  che  normalmente  non  dipende
«dalla natura e dall'importanza dell'attivita' economica e dei  mezzi
impiegati» nell'esercizio dell'impresa, ne' ha «alcun rapporto con le
ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul sistema  economico»,
favorendo,  anzi,  dichiarazioni  di  fallimento  del  tutto  inutili
(soggette, peraltro, al reclamo del debitore che in tale sede  potra'
dimostrare  di  essere  in  possesso  dei   requisiti   ostativi   al
fallimento). 
    D'altra parte, aggiunge il giudice a quo, la regola probatoria di
cui all'art. 2697 cod. civ. si giustifica ove siano in giuoco diritti
di cui le parti possano disporre;  viceversa  l'interesse  a  evitare
inutili dichiarazioni di fallimento e', per le considerazioni  svolte
dalla Corte costituzionale con  la  sentenza  n.  570  del  1989,  un
interesse pubblico. 
    A conferma della  irragionevolezza  della  disposizione  che,  in
questa materia, disciplina l'onere probatorio, il rimettente  ritiene
difficilmente comprensibile la regola che imporrebbe al debitore,  il
quale chieda il proprio fallimento, di fornire poi la prova della sua
«non fallibilita», posto che egli non ha alcun  interesse  a  fornire
siffatta prova. 
    1.4. - La descritta  disciplina  della  distribuzione  dell'onere
probatorio sarebbe anche in contrasto con  l'art.  76,  primo  comma,
della Costituzione, in quanto «potenzialmente idonea  a  contraddire,
di fatto, nella sua concreta applicazione, la direttiva  della  legge
delega concernente l'estensione del novero dei soggetti  esclusi  dal
fallimento». 
    Ci saranno, infatti, imprenditori che, pur non  raggiungendo  «le
soglie di fallibilita», non potranno, o non vorranno, darne la prova,
anche «al fine di accedere all'istituto dell'esdebitazione». 
    Rileva, ancora, il Tribunale che il chiaro tenore letterale della
disposizione censurata, la quale  stabilisce  semplicemente  che  non
sono soggetti alle disposizioni sul  fallimento  gli  imprenditori  i
quali «dimostrino il possesso congiunto» dei requisiti  elencati  dal
secondo comma dell'art. 1  della  legge  fallimentare,  lo  induce  a
ritenere preclusa la possibilita' d'interpretare la norma  nel  senso
di  ripartire  l'onere  probatorio  relativamente  al  possesso   dei
ricordati requisiti  in  maniera  diversa  da  come,  invece,  sinora
prospettato. 
    Quanto alla rilevanza della questione, il Tribunale  afferma  che
nella fattispecie - non essendosi la societa' fallenda costituita  in
giudizio, risultando in atti solamente  che  la  medesima,  nell'anno
2005, compreso nel triennio anteriore al deposito  della  istanza  di
fallimento, aveva realizzato un volume di affari di poco superiore  a
88.000,00  euro  e  non  essendo  ipotizzabili  ulteriori   attivita'
istruttorie,  poiche'  la  debitrice  ha  depositato,  quale   ultimo
bilancio, quello relativo all'esercizio chiusosi alla fine del  2003,
quindi anteriormente al triennio precedente il deposito della istanza
di fallimento - questo sarebbe dichiarato solo in quanto la debitrice
non ha dimostrato il possesso dei requisiti ostativi alla  soggezione
alla procedura indicati dal secondo comma  dell'art.  1  della  legge
fallimentare. 
    2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri, rappresentato e  difeso  dalla  Avvocatura  generale  dello
Stato. 
    La  difesa  erariale  ha  concluso  per  la  inammissibilita'  o,
comunque, per la infondatezza della questione sollevata dal Tribunale
di Napoli. 
    Ad avviso della Avvocatura, la questione sarebbe inammissibile in
quanto il rimettente avrebbe  omesso  di  tentare  un'interpretazione
della  disposizione  censurata  tale   da   superare   i   dubbi   di
costituzionalita'; non si  sarebbe,  ad  esempio,  interrogato  sulla
possibilita' di procedere d'ufficio ad indagini patrimoniali relative
all'imprenditore fallendo. 
    Comunque, aggiunge la difesa  pubblica,  anche  l'interpretazione
indicata dal ricorrente non contrasta  coi  parametri  costituzionali
evocati. 
    Si osserva, infatti, come  il  sistema  preveda  una  regola,  la
soggezione  dell'imprenditore  commerciale  al  fallimento,  ed   una
eccezione, l'esclusione da tale  soggezione  per  l'imprenditore  che
svolga  un'attivita'  che,  sulla  base  di   determinati   parametri
normativi,   sia   economicamente   poco    rilevante.    La    prova
dell'eccezione,  come  sempre  avviene,  e'   rimessa   al   soggetto
interessato. 
    Tale  sistema  non   puo'   certamente   essere   sospettato   di
irragionevolezza ne' contrasta coi  principi  contenuti  nella  legge
delega, la quale prevedeva la semplificazione  della  disciplina  del
fallimento   attraverso   l'estensione   dei    soggetti    esonerati
dall'applicabilita' dell'istituto. 
    D'altra parte, osserva la Avvocatura,  la  Corte  costituzionale,
nella giurisprudenza formatasi successivamente alla sentenza  n.  570
del 1989, ha precisato che le considerazioni concernenti i criteri di
applicabilita' della disciplina delle procedure concorsuali correlati
alle dimensioni economiche dell'imprenditore fallendo «attengono alla
sfera  della  discrezionalita'  del  legislatore  perche'   rientrano
nell'ambito della generale politica economica e giudiziaria e  a  lui
spetta la scelta delle varie soluzioni possibili». 
    3. - Con altra ordinanza, depositata in data 16 maggio 2008,  dal
contenuto largamente  coincidente  con  la  precedente,  il  medesimo
Tribunale di Napoli, Sezione fallimentare,  ha  nuovamente  sollevato
questione di legittimita' costituzionale, con riferimento agli  artt.
3 e 76, primo comma, della Costituzione, dell'art. 1, secondo  comma,
del regio decreto n. 267 del 1942, come modificato  a  seguito  della
entrata in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007. 
    3.1. - Riferisce il Tribunale di  Napoli  di  essere  chiamato  a
giudicare in ordine  a  due  istanze  di  fallimento  presentate  nei
confronti di una societa'  commerciale.  Precisa,  altresi',  che  le
parti istanti hanno dimostrato di essere creditrici della fallenda  -
la quale, pur ritualmente intimata,  non  si  e'  costituita  ne'  e'
comparsa in giudizio - in forza ciascuna  di  un  decreto  ingiuntivo
esecutivo per un importo complessivo di circa 22.000,00 euro,  e  che
la medesima fallenda, secondo quanto emerso in  sede  di  istruttoria
prefallimentare,  e'  altresi'  debitrice  verso  terzi   per   oltre
151.000,00 euro. 
    Tanto premesso, il rimettente rileva che non v'e' dubbio - tenuto
anche  conto   degli   indici   offerti   dai   riscontrati   plurimi
inadempimenti relativi ad obbligazioni aventi un  valore  complessivo
superiore, secondo quanto richiesto dall'art. 15 del r.d. n. 267  del
1942, a euro 30.000,00 - sulla sussistenza a  carico  della  societa'
fallenda del necessario requisito della insolvenza. 
    Riguardo  alla  assoggettabilita'  della  ricordata  societa'  al
fallimento, rileva il Tribunale che essa deve essere  accertata  alla
stregua dell'art. 1, commi primo e secondo, del regio decreto n.  267
del 1942, nel testo a tale data vigente. 
    Osservato che nel caso in questione la  societa'  debitrice,  non
costituitasi sebbene  ritualmente  intimata,  non  ha  svolto  alcuna
attivita' per dimostrare di non essere  assoggettata  alle  procedure
fallimentari e rilevato che gli accertamenti disposti  d'ufficio  dal
Tribunale hanno consentito di acquisire  elementi  relativi  ai  dati
IRPEG ed IVA della debitrice, riferibili, pero', a periodi precedenti
a quelli rilevanti ai sensi del citato art.  1,  comma  secondo,  del
r.d. n. 267 del 1942, il rimettente ritiene che  detta  disposizione,
nella parte in cui prevede che non siano soggetti  alle  disposizioni
sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori  i  quali
dimostrino il possesso congiunto dei gia' ricordati tre requisiti  da
essa indicati, sia in contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,
violando il principio di ragionevolezza. 
    3.2.  -  Il  Tribunale  di  Napoli  ricorda  che  ai  fini  della
soggezione dell'imprenditore al fallimento si  e'  sempre  richiesta,
oltre al dato della  insolvenza,  la  qualita'  di  imprenditore  non
piccolo. 
    Riguardo  al  criterio  distintivo,   nell'ampio   ambito   degli
imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il Tribunale  di
Napoli ricorda come la Corte costituzionale, con la sentenza  n.  570
del 1989, abbia chiarito che a fondare siffatta  distinzione,  specie
ai fini della assoggettabilita' o meno alla  procedura  fallimentare,
debbono essere fissati criteri  oggettivi,  ancorati  alla  attivita'
svolta,   all'organizzazione   dei   mezzi   impiegati,   all'entita'
dell'impresa  e  alle   ripercussioni   che   il   dissesto   produce
nell'economia nazionale. Cio' al  fine  di  evitare  che  imprese  di
modeste dimensioni siano assoggettate alle procedure fallimentari,  a
rischio,  in  caso  contrario,  che  queste  si  trasformino  in  uno
strumento impeditivo della tutela dei creditori. 
    In questo solco, prosegue il  giudice  a  quo,  si  e'  posto  il
legislatore delegante che, all'art. 1 della  legge  n.  80  del  2005
aveva previsto,  fra  i  principi  e  criteri  direttivi  cui  doveva
attenersi il governo nell'attuazione della delega commessagli, quello
di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione  dei  soggetti
esonerati dall'applicabilita' dell'istituto e  l'accelerazione  delle
procedure applicabili alle controversie in materia». 
    Scopo dichiarato dei riportati criteri sarebbe stato,  ad  avviso
del rimettente, la eliminazione di  quelle  numerosissime  procedure,
chiuse con la  realizzazione  di  un  attivo  neppure  sufficiente  a
coprire le spese, il cui  bilancio  era  destinato  a  gravare  sullo
Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o
per la collettivita'. 
    Il legislatore delegato del  2006,  conservando,  ai  fini  della
soggezione o  meno  al  fallimento,  il  tradizionale  richiamo  alla
categoria dei piccoli imprenditori, aveva  fissato  alcuni  parametri
finalizzati alla individuazione degli appartenenti a tale  categoria,
senza  peraltro  nulla  disporre  in  merito  alla  ripartizione  del
relativo onere probatorio. 
    Cio' ha fatto si' che si accendesse, sia in giurisprudenza che in
dottrina, il dibattito fra chi poneva a carico del debitore la  prova
della sussistenza degli elementi esonerativi dal fallimento,  essendo
questi considerati in guisa  di  fatti  impeditivi,  e  chi,  invece,
ritenuto  il  superamento  delle  soglie  di   assoggettabilita'   al
fallimento quale requisito soggettivo ai  fini  della  qualificazione
dell'imprenditore come "non piccolo", ne poneva  la  dimostrazione  a
carico del creditore istante. 
    Al riguardo, ritiene il  rimettente  che  la  questione  andrebbe
risolta - stante  la  inesistenza  di  un  «diritto  soggettivo  alla
dichiarazione  di  fallimento»,  trattandosi  di  tema   coinvolgente
interessi pubblici - negando  l'applicabilita'  dell'art.  2697  cod.
civ. e pervenendo all'accertamento della suscettibilita'  di  fallire
dell'imprenditore attraverso «il contributo  assertivo  e  probatorio
delle parti e con l'utilizzo dei poteri officiosi del giudice». 
    3.3. - Senonche',  adottando  il  d.lgs.  n.  169  del  2007,  il
legislatore ha formulato ex novo il secondo  comma  dell'art.  1  del
r.d. n. 267 del 2007, prevedendo che siano esclusi dal fallimento gli
imprenditori «i quali dimostrino il possesso congiunto» dei requisiti
indicati alle successive lettere a), b) e c) del medesimo comma. 
    Tale modifica, con la quale si sarebbe espressamente  gravato  il
debitore di dimostrare di essere  insuscettibile  di  fallimento,  e'
dovuta, come il  rimettente  chiarisce  riportandosi  alla  relazione
illustrativa, all'eccessiva riduzione della «area della  fallibilita»
conseguente  alla  precedente  modifica  dell'art.  1   della   legge
fallimentare. 
    Ma, aggiunge il Tribunale di Napoli, questo criterio  di  riparto
dell'onere  probatorio,  violerebbe,  per  la  sua  irragionevolezza,
l'art. 3 della Costituzione, disattendendo, infatti, sostanzialmente,
le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la citata sentenza
n. 570  del  1989,  la  quale  aveva  evidenziato  l'esigenza  di  un
discrimine oggettivo tra  imprenditore  suscettibile  di  fallire  ed
imprenditore non soggetto a tale procedura. 
    Addossare,  invece,  sul  debitore  l'onere  di  provare  la  sua
assoggettabilita' o meno al fallimento, continua il  giudice  a  quo,
puo' far dipendere la apertura della procedura  da  un  comportamento
del debitore stesso che  normalmente  non  dipende  «dalla  natura  e
dall'importanza  dell'attivita'  economica  e  dei  mezzi  impiegati»
nell'esercizio  dell'impresa,  ne'  ha   «alcun   rapporto   con   le
ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul sistema  economico»,
favorendo  cosi'  dichiarazioni  di  fallimento  del  tutto   inutili
(soggette, peraltro, al reclamo  del  debitore  che,  in  tale  sede,
potra' dimostrare di essere in possesso dei requisiti per non  essere
suscettibile di fallimento). 
    A  conferma  della  irragionevolezza   della   disposizione   che
disciplina  l'onere  probatorio,  il  rimettente  pone  il  caso  del
fallimento richiesto dallo stesso debitore: dovendosi in questo  caso
escludere l'applicabilita' della regola  generale,  essendo  illogico
imporre al debitore,  il  quale  chieda  il  proprio  fallimento,  di
fornire poi la prova della sua impossibilita' di fallire,  posto  che
egli non avrebbe alcun interesse a fornire  siffatta  prova.  Poiche'
e', altresi', da escludere che la mancata dimostrazione da parte  del
debitore  della  sua  non  assoggettabilita'  al   fallimento   porti
direttamente alla apertura della procedura, dovrebbe ritenersi che in
questo caso, coerentemente con  l'art.  14  legge  fall.,  spetti  al
debitore dimostrare la sua sottoponibilita' al fallimento. 
    Ma  sarebbe  difficilmente  giustificabile,   sul   piano   della
ragionevolezza, il mutare di una disciplina in  funzione  del  mutare
del soggetto che ne chiede l'applicazione. 
    Ne', ad escludere i dubbi di legittimita'  costituzionale,  giova
la valutazione comparativa operata dal  legislatore  fra  l'interesse
alla tutela del diritto di credito e quello di evitare l'apertura  di
procedure concorsuali improduttive. Infatti la soluzione adottata dal
legislatore ha il solo effetto, peraltro dichiarato  nella  Relazione
illustrativa, di evitare che i debitori che non si difendono in  fase
prefallimentare o che non collaborano nel corso di questa  siano  poi
«premiati» con la dichiarazione della loro non  assoggettabilita'  al
fallimento: finalita', questa, che corrisponde ad una concezione  del
fallimento  di  «tipo   sanzionatorio»   abbandonata   dallo   stesso
legislatore e in  contrasto  con  i  principi  espressi  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 570 del 1989. 
    La   descritta   disciplina   della   distribuzione    dell'onere
probatorio, prosegue il rimettente, sarebbe anche  in  contrasto  con
l'art. 76, primo comma, della Costituzione, in quanto «potenzialmente
idonea a contraddire, di fatto, nella sua concreta  applicazione,  la
direttiva della legge delega concernente l'estensione del novero  dei
soggetti esclusi dal fallimento». 
    Aver  previsto  dei  requisiti   dimensionali   ai   fini   della
assoggettabilita' al fallimento, ma aver poi  assegnato  al  debitore
l'onere della relativa dimostrazione, facendo cosi' in  modo  che  da
essi si possa prescindere,  determina,  in  contrasto  col  principio
direttivo  della  delega,  volto  alla  riduzione   dell'area   della
assoggettabilita' al fallimento, un suo incontrollato ampliamento; si
e'  cosi',  in  sostanza,  prevista  una  sorta  di  presunzione   di
assoggettabilita' al fallimento fino a  prova  contraria,  divergente
rispetto agli obiettivi del legislatore delegante. 
    4. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri, rappresentato e  difeso  dalla  Avvocatura  generale  dello
Stato. 
    La  difesa  erariale  ha  concluso  per  la  inammissibilita'  o,
comunque, per la infondatezza della questione sollevata dal Tribunale
di Napoli. 
    Ad  avviso  della  difesa  pubblica,  infatti,   il   rimettente,
contraddittoriamente, dapprima ha esercitato i suoi poteri  officiosi
ai fini di stabilire l'ammissibilita' o meno della  dichiarazione  di
fallimento, e, successivamente, invece di giudicare sulla base  delle
risultanze cosi' acquisite, ha sollevato la questione di legittimita'
costituzionale. 
    Ad  avviso  della  Avvocatura  la  questione   sarebbe   altresi'
inammissibile in quanto il  rimettente  avrebbe  omesso  di  motivare
sulla impraticabilita' di diverse interpretazioni della  disposizione
impugnata, tali da escludere che spetti solo al debitore  di  provare
la sussistenza delle condizioni che lo esentano dal fallimento. 
    Comunque, aggiunge la difesa  pubblica,  anche  l'interpretazione
indicata dal ricorrente non contrasta  coi  parametri  costituzionali
evocati. 
    Si osserva, infatti, come il sistema  preveda  una  regola  -  la
soggezione dell'imprenditore  commerciale  al  fallimento  -  ed  una
eccezione - l'esclusione da tale soggezione  per  l'imprenditore  che
svolga  un'attivita'  che,  sulla  base  di   determinati   parametri
normativi,   sia   economicamente   poco   rilevante   -   La   prova
dell'eccezione,  come  sempre  avviene,  e'   rimessa   al   soggetto
interessato. 
    Tale  sistema  non   puo'   certamente   essere   sospettato   di
irragionevolezza, ne' contrasta coi principi  contenuti  nella  legge
delega, la quale prevedeva la semplificazione  della  disciplina  del
fallimento   attraverso   l'estensione   dei    soggetti    esonerati
dall'applicabilita' dell'istituto. 
    D'altra parte, osserva la  Avvocatura,  la  Corte  costituzionale
nella giurisprudenza formatasi successivamente alla sentenza  n.  570
del 1989, ha precisato che le considerazioni concernenti i criteri di
applicabilita' della disciplina delle procedure concorsuali correlati
alle dimensioni economiche dell'imprenditore fallendo «attengono alla
sfera  della  discrezionalita'  del  legislatore  perche'   rientrano
nell'ambito della generale politica economica e giudiziaria e  a  lui
spetta la scelta delle varie soluzioni possibili». 
                       Considerato in diritto 
    1. - Con due ordinanze di rimessione,  dal  contenuto  largamente
coincidente, la  Sezione  fallimentare  del  Tribunale  ordinario  di
Napoli ha sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento agli artt.  3  e  76  della  Costituzione,  dell'art.  1,
secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942,  n.  267  (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta
amministrativa), come modificato a seguito della  entrata  in  vigore
del decreto legislativo  12  settembre  2007,  n.  169  (Disposizioni
integrative e correttive al regio decreto  16  marzo  1942,  n.  267,
nonche' al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5,  in  materia  di
disciplina  del  fallimento  del  concordato   preventivo   e   della
liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art.  1,  commi  5,
5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80). 
    1.2.  -  In  particolare,  il  rimettente   ritiene   la   citata
disposizione,  la  quale  prevede  che   non   sono   soggetti   alle
disposizioni  sul  fallimento  e  sul   concordato   preventivo   gli
imprenditori commerciali «i quali dimostrino il  possesso  congiunto»
dei tre requisiti dimensionali elencati alle  lettere  a),  b)  e  c)
della medesima disposizione censurata,  in  contrasto  con  l'art.  3
Cost. e con l'art. 76 Cost. poiche', per un  verso,  facendo  gravare
sul debitore l'onere di provare la sussistenza dei requisiti ostativi
alla dichiarazione di fallimento, farebbe dipendere la  dichiarazione
stessa da un comportamento del debitore non condizionato dalla natura
e dalla importanza economica dell'attivita' da questo  svolta  o  dai
mezzi in essa impiegati ne' in rapporto con le ripercussioni del  suo
dissesto sul sistema  economico,  cosi'  favorendo  dichiarazioni  di
fallimento inutili,  e  in  quanto,  per  altro  verso,  violando  il
principio direttivo contenuto  nell'art.  1,  comma  6,  lettera  a),
numero 1), della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione  in  legge,
con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005,  n.  35,  recante
disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo  sviluppo
economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica
del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e
di arbitrato nonche' per la riforma organica della  disciplina  delle
procedure concorsuali), secondo il quale il legislatore delegato deve
provvedere  alla  semplificazione  della  disciplina  del  fallimento
«attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dalla  applicabilita»
dei relativi istituti, rende possibile la dichiarazione di fallimento
di   soggetti   che,   sebbene   non   raggiungano   la   soglia   di
assoggettabilita' al fallimento, non sono in grado di dare  la  prova
di cio', oppure trascurano di farlo o, infine, non hanno interesse  a
farlo. 
    2. - Attesa l'evidente connessione, i due giudizi possono  essere
riuniti per essere congiuntamente decisi. 
    3. - La articolata questione di  legittimita'  costituzionale  e'
inammissibile nella parte in cui essa e'  formulata  con  riferimento
all'art. 3 Cost. e non e' fondata la' dove formulata con  riferimento
all'art. 76 Cost. 
    4. - Osserva, infatti, questa Corte che  la  disciplina  relativa
alla    individuazione    dei    requisiti    richiesti    ai    fini
dell'assoggettabilita' dell'imprenditore alla disciplina fallimentare
si e' svolta, nel tempo, attraverso diverse vicende normative. 
    L'originario impianto  normativo  del  1942  prevedeva  che,  per
quanto  ora  interessa,  fossero  esclusi  dalla  applicazione  delle
disposizioni  in  materia  di   procedure   concorsuali   i   piccoli
imprenditori.  Di  tale  categoria,  ai  fini  della   normativa   in
questione,  era  data  una  precisa  definizione:   erano,   infatti,
considerati tali gli imprenditori commerciali per i quali  era  stato
accertato un reddito, relativamente alla applicazione dell'imposta di
ricchezza mobile, inferiore al minimo imponibile. Nel caso in cui non
si fosse proceduto  all'accertamento  del  reddito,  era  considerato
piccolo imprenditore, e come tale non suscettibile  di  fallire,  chi
aveva investito nella propria impresa  commerciale  un  capitale  non
superiore a lire 30.000, somma questa elevata sino  a  lire  900.000,
onde  renderla  adeguata  al  mutamento   del   valore   del   danaro
verificatosi  al  termine  del  secondo   conflitto   mondiale,   con
l'articolo unico della legge 20 ottobre 1952,  n.  1375  (Adeguamento
dei limiti di somma indicati dalle  disposizioni  degli  articoli  1,
comma secondo;  35,  comma  secondo;  e  155  della  «disciplina  del
fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
controllata e della liquidazione  coatta  amministrativa»,  approvata
con regio decreto 16 marzo 1942, n. 267). 
    Tale disciplina, come si vede basata su rigidi criteri oggettivi,
e' stata, tuttavia, abbandonata col tempo in quanto, da  un  lato,  a
seguito della entrata in vigore dell'art. 82 del d.P.R. 29  settembre
1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposte sul reddito delle
persone fisiche), a decorrere dal  1°  gennaio  1974  la  imposta  di
ricchezza mobile e' stata abolita, per essere sostituita  da  diverso
tipo di imposizione, mentre,  d'altro  lato,  questa  Corte,  con  la
sentenza, piu' volte richiamata dallo stesso Tribunale rimettente, n.
570 del 1989, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art.
1, secondo comma, del r.d.  n.  267  del  1942  nella  parte  in  cui
ancorava  il  residuo  criterio  oggettivo  di  assoggettabilita'  al
fallimento  (l'importo   del   capitale   investito   nella   impresa
commerciale)  ad  un  parametro  finanziario  che,  a  seguito  della
progressiva alterazione dei valori monetari, aveva perso  l'idoneita'
a costituire un valido discrimine fra il piccolo imprenditore  e  gli
altri imprenditori commerciali. 
    In tale situazione,  e  per  un  lungo  periodo,  l'unico  indice
distintivo del piccolo imprenditore, come tale  non  suscettibile  di
fallire, era offerto dalla  definizione  che,  per  altro  a  diverso
titolo, e' contenuta nell'art. 2083 del codice civile. 
    Onde colmare la lacuna che si era in tal modo creata, e anche  al
fine di dare  quindi  attuazione  alle  indicazioni  contenute  nella
citata sentenza n. 570 del 1989  di  questa  Corte,  e'  intervenuto,
sulla scorta della delega conferita con la legge 14 maggio  2005,  n.
80, (Conversione in legge, con modificazioni,  del  decreto-legge  14
marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano
di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale.  Deleghe
al Governo per la modifica del codice di procedura civile in  materia
di processo di cassazione e  di  arbitrato  nonche'  per  la  riforma
organica  della   disciplina   delle   procedure   concorsuali),   il
legislatore delegato che, riformando organicamente la disciplina  del
fallimento e delle altre procedure concorsuali,  pur  conservando  la
tradizionale distinzione fra piccolo imprenditore, non assoggettabile
al fallimento, e gli altri  imprenditori  commerciali,  suscettibili,
invece, di fallimento, ha reintrodotto dei criteri oggettivi  tramite
i quali discernere l'una categoria dall'altra. 
    Infatti, l'art. 1 del decreto legislativo 9 gennaio  2006,  n.  5
(Riforma organica della  disciplina  delle  procedure  concorsuali  a
norma dell'articolo 1, comma 5, della L. 14 maggio 2005, n. 80),  che
aveva sostituito, a decorrere dal 16 luglio  2006,  l'art.  1,  comma
secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, dopo aver ribadito che  i
piccoli  imprenditori  erano   esclusi   dalla   applicazione   della
disciplina del fallimento e del concordato preventivo, aveva previsto
che non erano piccoli imprenditori coloro che, operando sia in  forma
individuale che collettiva,  avevano  effettuato  investimenti  nella
azienda per un valore superiore  a  euro  300.000,00  ovvero  avevano
realizzato, nei tre anni  precedenti  al  rilevamento  o  dall'inizio
della attivita' se risalente a piu' breve periodo, ricavi medi  annui
superiori a 200.000,00 euro. 
    Come correttamente osservato nelle due ordinanze  di  rimessione,
la introduzione del descritto discrimine fra imprenditore commerciale
soggetto al fallimento e imprenditore esentato da tale  procedura  ha
immediatamente determinato, in sede di prima applicazione della nuova
normativa, una sensibilissima contrazione del numero  dei  fallimenti
dichiarati, imputabile, per lo piu',  alla  incertezza  normativa  in
ordine alla attribuzione  dell'onere  di  provare  giudizialmente  la
sussistenza  degli  elementi  tramite  i  quali  distinguere  le  due
categorie,  aggravata  dalla  ulteriore  incertezza   sulla   residua
sussistenza,  nonche'  sulla  loro  eventuale  ampiezza,  di   poteri
officiosi di indagine in capo all'ufficio giudiziario  investito  del
ricorso per dichiarazione di fallimento. 
    Al dichiarato fine di ovviare a siffatto  fenomeno,  come  emerge
dagli stessi relativi lavori preparatori, e'  nuovamente  intervenuto
il legislatore delegato che, in occasione della adozione del  decreto
legislativo,  cosiddetto  correttivo,  12  settembre  2007,  n.   169
(Disposizioni integrative e correttive  al  regio  decreto  16  marzo
1942, n. 267, nonche' al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in
materia di disciplina del fallimento,  del  concordato  preventivo  e
della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi  dell'articolo  1,
commi 5,  5-bis  e  6,  della  legge  14  maggio  2005,  n.  80),  ha
ulteriormente  modificato  l'art.   1   della   legge   fallimentare,
abbandonando  definitivamente,  ai  fini  della  determinazione   dei
requisiti individuali richiesti per  l'apertura  del  fallimento,  il
richiamo alla  categoria  del  piccolo  imprenditore.  Ha,  altresi',
modificato gli indici rilevanti  ai  fini  dell'assoggettamento  alla
procedura fallimentare (portandoli da due a tre e qualificandoli  non
piu',  come  invece  nella  precedente   versione   normativa,   come
requisiti, anche alternativamente, necessari per far ricadere  fra  i
soggetti  suscettibili  di  fallimento   chi   li   possedesse,   ma,
costruendoli, invece, come elementi negativi della legittimazione  al
fallimento, prevedendo, cioe', che il  loro  congiunto  possesso  sia
ostativo alla assoggettabilita' alla procedura  fallimentare)  ed  ha
affermato,  infine,  che  la  dimostrazione  del  loro  possesso   e'
attribuita  all'imprenditore  nei  cui  confronti  si  indirizzi   la
richiesta di fallimento. 
    4.1. - Cosi' delineato in  senso  diacronico  lo  sviluppo  della
disposizione oggetto di censura da parte  del  Tribunale  di  Napoli,
questa Corte osserva che deve escludersi  che  essa,  nella  versione
attualmente vigente, sia stata adottata in contrasto  con  l'art.  76
Cost. 
    Poiche' fra i principi e criteri  direttivi  cui  il  legislatore
delegato doveva attenersi nel riformare la disciplina del  fallimento
e  delle  altre  procedure  concorsuali  vi  era  quello  relativo  a
«semplificare la disciplina attraverso  la  estensione  dei  soggetti
esonerati dall'applicabilita' dell'istituto e  l'accelerazione  delle
procedure applicabili alle controversie in materia» (art. 1, comma 6,
lettera a), numero 1, della legge n. 80 del  2005),  deve  osservarsi
che non vi e' dubbio che la fissazione di oggettivi e  predeterminati
criteri quantitativi, volti a delimitare precisamente il  novero  dei
soggetti estranei alla disciplina del fallimento, e' -  a  fronte  di
una pregressa disciplina  che  ancorava  alla  incerta,  e  priva  di
inequivoci  termini  di  riferimento,  qualificazione  soggettiva  di
«piccolo imprenditore»  il  requisito  per  la  assoggettabilita'  al
fallimento o meno  dell'operatore  commerciale  -  conforme  a  detto
principio. 
    E' infatti evidente  che  la  oggettivizzazione  dei  criteri  di
discernimento tra soggetti che possono essere  dichiarati  falliti  e
soggetti esonerati dal fallimento comporta, ex  se,  data  la  minore
complessita' della relativa attivita' di accertamento e  valutazione,
sia un'accelerazione della procedura che  una  semplificazione  della
disciplina fallimentare. 
    Nessun rilievo ha il fatto  che,  secondo  quanto  osservato  dal
Tribunale rimettente, attraverso la normativa introdotta  col  d.lgs.
n.  169  del  2007  e'  stata  ampliata  la   platea   dei   soggetti
astrattamente  suscettibili  di  fallire  rispetto  a  quella,   piu'
ridotta, delineata a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n.  5
del 2006, dato che e' corretto  criterio  di  giudizio  comparare  la
norma cosi' come censurata con la versione di essa vigente al momento
del conferimento della  delega,  senza  tener  conto  della  versione
intermedia, scaturita in sede di  prima  attuazione,  successivamente
modificata tramite il decreto correttivo. 
    Operando in tal modo, l'intervento del  legislatore  delegato  e'
rispettoso della delega conferitagli,  dato  che  i  vigenti  criteri
quantitativi di  determinazione  dei  soggetti  che  possono  fallire
comportano, rispetto alla precedente  esclusione  dei  soli  "piccoli
imprenditori", una estensione dell'area di non  assoggettabilita'  al
fallimento. 
    La disciplina introdotta non risulta, altresi', in contrasto  con
le indicazioni fornite da questa Corte  nella  sentenza  n.  570  del
1989, la' dove si era segnalata la necessita' che la distinzione  fra
imprenditore commerciale suscettibile di fallire  e  mero  insolvente
civile  dovesse  essere  fondata  su  criteri  sicuri  che  facessero
riferimento all'entita' dell'impresa, all'organizzazione dei mezzi in
essa impiegati ed alle ripercussioni che il dissesto veniva ad  avere
sull'economia  generale;  tutti  criteri  questi  che  non   appaiono
disattesi se posti a raffronto con i tre requisiti indicati nel comma
secondo dell'art. 1 della legge  fallimentare,  come  modificato  col
decreto correttivo n. 169 del 2007. 
    4.2. - Riguardo alla violazione dell'art. 3 Cost. la questione di
legittimita' costituzionale e' inammissibile per piu' motivi. 
    Il Tribunale rimettente  con  le  due  citate  ordinanze  censura
l'art. 1, secondo comma,  della  legge  fall.  nella  parte  in  cui,
prevedendo che non sono soggetti alle disposizioni sul  fallimento  e
sul concordato  preventivo  gli  imprenditori  commerciali  «i  quali
dimostrino» il possesso  dei  requisiti  esonerativo  elencati  nelle
lettere a), b) e c) del medesimo secondo comma,  graverebbe  in  modo
esclusivo del relativo onere probatorio gli imprenditori medesimi,  i
quali, limitatamente a tale aspetto  della  controversia,  sarebbero,
pertanto, «arbitri» dell'esito della lite. 
    Con rischio, paventato in ambedue le ordinanze di rimessione, che
la  dichiarazione  di  fallimento  sia,  in   qualche   modo,   nella
disponibilita' dello stesso soggetto fallendo, ovvero che la  stessa,
potendo intervenire, stante l'inerzia probatoria del debitore,  anche
in assenza degli  elementi  quantitativi  previsti  dal  legislatore,
potrebbe non rispondere a quei requisiti di utilita' generale che  ne
debbono, invece, giustificare la adozione. 
    4.3. - Vanno esaminate, preliminarmente, due linee  argomentative
sviluppate dal rimettente  per  dimostrare  l'irragionevolezza  della
disciplina recata dal citato  decreto  correttivo  all'art.  1  della
legge fallimentare. 
    Non ha pregio l'argomento svolto nelle due  ordinanze  a  quibus,
con riferimento alla ipotesi della  istanza  di  fallimento  proposta
dallo stesso fallendo, volto a  sostenere  che,  essendo  lui  stesso
istante  ed  avendo,  pertanto,  in   ipotesi   un   interesse   alla
dichiarazione  di  fallimento,   potrebbe,   artatamente,   sottrarsi
all'onere di dimostrare la sua non assoggettabilita'  al  fallimento,
conseguendo, in tal modo, la dichiarazione di  fallimento  anche  la'
dove ne sarebbero mancati i presupposti soggettivi.  Per  privare  di
significato il pur suggestivo rilievo, basti osservare che l'art.  14
della legge fallimentare prevede, a carico del debitore che chieda il
proprio fallimento, degli adempimenti istruttori - significativamente
qualificati in sede normativa alla stregua di obblighi e non di oneri
-  tali  da  rimuovere  le  preoccupazioni  paventate  dal  Tribunale
rimettente.  Che  gli  adempimenti  richiesti  debbano   avere   tale
qualificazione risulta non solo dal dato, notoriamente  non  decisivo
ma neppure neutro, offerto  dalla  stessa  rubrica  dell'articolo  di
legge in discorso intitolata «obblighi dell'imprenditore  che  chiede
il proprio fallimento», ma anche dal reiterato uso del  verbo  «deve»
da parte del legislatore con riferimento alla attivita'  di  deposito
documentale da compiersi da parte del debitore istante. 
    Infine, con riferimento ai possibili  benefici  che  il  debitore
potrebbe indebitamente lucrare dalla dichiarazione di fallimento,  in
realta'  il   rimettente   indica   solo   quello   della   possibile
esdebitazione; ma, a ben riflettere, stante il tenore  dell'art.  142
della legge fall., il quale indica le condizioni per poter accedere a
questo istituto, pare del tutto improbabile che di  un  debitore  che
abbia omesso di fornire un'attendibile documentazione in ordine  alla
sua contabilita' (unico mezzo in base al  quale  sarebbe  per  costui
possibile farsi dichiarare fallito pur non ricorrendone le condizioni
soggettive) possa dirsi, come invece prescrive  il  citato  art.  142
legge fall. per la concessione del beneficio della esdebitazione, che
abbia  cooperato  con  gli  organi  della   procedura   fornendo   la
documentazione e le informazioni ad essi necessarie. 
    4.4. - Superate le argomentazioni preliminari,  occorre  valutare
il contenuto centrale del petitum del rimettente. 
    Nelle due ordinanze di rimessione il Tribunale di  Napoli  chiede
nella sostanza  a  questa  Corte  un  intervento  che,  anche  se  si
limitasse alla semplice caducazione delle parole «i quali  dimostrino
il»  e  le  sostituisse  con  la  preposizione  «in»  (di  modo   che
l'espressione complessivamente affermi che «non  sono  soggetti  alle
disposizioni  sul  fallimento  [...]  gli  imprenditori  in  possesso
congiunto dei seguenti requisiti:  [...]»),  ovvero  ove  consistesse
nella  sostituzione  della  voce  verbale  «dimostrino»  con  l'altra
«siano» (di modo che l'espressione complessivamente affermi che  «non
sono soggetti alle disposizioni sul fallimento [...] gli imprenditori
i quali siano in possesso congiunto dei seguenti requisiti:  [...]»),
avrebbe delle conseguenze i cui effetti non sarebbero  giustificabili
alla luce  della  dichiarata  ratio  legis  che  ha  presieduto  alla
adozione della novella del 2007 e comporterebbero  la  necessita'  di
ulteriori modifiche inibite al giudice costituzionale. 
    Infatti, fermi restando i  requisiti  dimensionali  necessari  ai
fini dell'assoggettabilita' al fallimento, la modifica  del  criterio
di riparto dell'onere  della  prova  equivarrebbe  a  rovesciare  sul
creditore istante questo onere. 
    Per valutare le conseguenze che deriverebbero da questa decisione
occorre  tenere  conto   della   controversia   giurisprudenziale   -
ampiamente descritta nelle ordinanze di rimessione - che  ha  indotto
il legislatore  delegato  a  modificare  la  precedente  disposizione
contenuta nell'art. 1 della legge fallimentare, il dubbio cioe' se la
prova  della  sussistenza  degli  elementi   che   determinavano   la
assoggettabilita' al fallimento dell'imprenditore fosse a carico  del
creditore istante, venendo  ad  essere  un  fatto  costitutivo  della
fattispecie che veniva sottoposta al giudizio del  tribunale,  o  del
debitore resistente, venendo ad  essere  un  fatto  impeditivo  della
fattispecie. Se  insieme  a  cio'  si  considera  lo  sviluppo  delle
argomentazioni formulate dal rimettente, che, tra l'altro,  manifesta
il suo contrario avviso all'adozione del principio della attribuzione
dell'onere probatorio alla  parte  piu'  vicina  alla  prova  stessa,
ricavabile dall'art. 2697 cod. civ., l'accoglimento determinerebbe il
risultato di riversare sul creditore istante o sul pubblico ministero
richiedente tale onere. Ma si tratterebbe di un  onere  non  di  rado
inesigibile. 
    Basti  pensare  alle  stesse  fattispecie  da  cui  originano  le
ordinanze di rimessione ora in esame: il fatto che  le  due  societa'
commerciali fallende abbiano omesso di depositare gli ultimi  bilanci
di esercizio rende, in sostanza, se non impossibile certamente  assai
arduo   al   creditore   istante   l'accertamento   sia   dell'attivo
patrimoniale conseguito dal  debitore  nei  tre  anni  precedenti  al
deposito della istanza di fallimento sia  l'accertamento  dei  ricavi
lordi realizzati dal medesimo nello stesso periodo. 
    Ancor piu' difficoltoso sarebbe poi, per un soggetto che non  sia
lo stesso debitore, fornire  una  prova  adeguata  della  complessiva
esposizione debitoria di questo. 
    E', pertanto, chiaro che, ove non fossero modificati i  requisiti
richiesti   al   fine   della   assoggettabilita'   alla    procedura
fallimentare,  l'eventuale  ribaltamento  dell'onere  probatorio  sul
creditore  istante  o  sul  pubblico  ministero   renderebbe   spesso
impossibile per costoro  ottenere  l'accoglimento  della  istanza  di
fallimento da loro proposta. 
    Ne' e' chiaramente possibile a questa  Corte,  al  di  la'  della
circostanza che neppure  il  petitum  contenuto  nelle  ordinanza  di
rimessione  lo  richiede,  intervenire  addirittura   modificando   i
requisiti di assoggettabilita' al  fallimento,  essendo  cio',  senza
alcun dubbio, rimesso alla libera determinazione del legislatore. 
    Ma vi e', anche, un secondo motivo che rende inammissibili le due
ordinanze di rimessione. In ambedue i  casi,  infatti,  il  Tribunale
rimettente, che, peraltro, pur dichiara espressamente di avervi fatto
ricorso, omette di considerare che nella materia fallimentare  vi  e'
un ampio potere di indagine officioso  in  capo  allo  stesso  organo
giudicante. Di cio' e' sicuro indice non solo la previsione contenuta
nella fine del quarto comma dell'art. 15  della  legge  fallimentare,
la' dove si precisa che il tribunale, dopo aver ordinato al  debitore
fallendo il deposito dei bilanci relativi agli  ultimi  tre  esercizi
nonche' atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, puo'
comunque  chiedere  informazioni  urgenti,  potendosi  a   tal   fine
avvalere, evidentemente, di ogni organo pubblico a  cio'  competente,
ma anche quanto previsto alla lettera b) del secondo comma  dell'art.
1  della  legge  fall.,  ove  e'  chiarito  che   i   dati   relativi
all'ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore  nel  triennio
antecedente alla data di deposito della istanza  di  fallimento  sono
utilizzabili in «qualunque modo risulti» e quindi non soltanto  sulla
base delle allegazioni probatorie del debitore. 
    Il prudente e consapevole uso di siffatto potere e'  di  per  se'
strumento idoneo ad evitare, nei  limiti  di  quanto  ragionevolmente
dovuto, la possibilita' che siano dichiarati fallimenti che, date  le
caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati. 
    Viene, altresi', trascurata  la  capacita'  espansiva  di  quanto
dispone  l'art.  22  della  legge  fall.,  il  quale,   sancendo   la
possibilita'  di  proporre  gravame  avverso  il  provvedimento   che
respinge l'istanza di fallimento da parte dei creditori ricorrenti  e
da parte del  pubblico  ministero,  prevede,  al  quarto  comma,  che
l'accoglimento del reclamo determina  la  rimessione  degli  atti  al
tribunale «salvo che, anche su segnalazione di parte, accerti che sia
venuto meno alcuno dei  presupposti  necessari».  Si  tratta  di  una
facolta'  probatoria  riconosciuta  a  chiunque  abbia  interesse  ad
opporsi alla dichiarazione di fallimento che, per evidenti motivi  di
economia processuale e, prima  ancora,  per  la  palese  anomalia  di
sistema che deriverebbe dal riconoscerla solo in sede di gravame, non
puo' ritenersi negata in relazione all'originario giudizio di  fronte
al tribunale. 
    Anche  per  questo  verso  il  rimettente  omette,   quindi,   di
considerare  significative  parti  della  complessiva  normativa   in
materia che valgono a smentire l'assunto che sta alla base delle  sue
argomentazioni, vale a dire che la vigente  disciplina  attribuirebbe
in via esclusiva al fallendo la prova della sua non assoggettabilita'
al fallimento, vietando  al  giudice  la  possibilita'  di  acquisire
aliunde,  o  tramite  l'apporto  probatorio  delle  altre  parti  del
procedimento, gli elementi necessari per  verificare  la  sussistenza
dei requisiti richiesti. 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
    Riuniti i giudizi, 
    Dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del regio decreto 16 marzo
1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo  e
della  liquidazione  coatta  amministrativa),  come  modificato   dal
decreto  legislativo  12  settembre  2007,   n.   169   (Disposizioni
integrative e correttive al regio decreto  16  marzo  1942,  n.  267,
nonche' al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5,  in  materia  di
disciplina  del  fallimento,  del  concordato  preventivo   e   della
liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art.  1,  commi  5,
5-bis e 6,  della  legge  14  maggio  2005,  n.  80),  sollevata,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Napoli, sezione fallimentare, con le ordinanze in epigrafe; 
    Dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dello stesso art. 1, comma secondo, del  regio  decreto  n.  267  del
1942, come modificato  dal  decreto  legislativo  n.  169  del  2007,
sollevata,  in  riferimento  all'art.  76  della  Costituzione,   dal
Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, con le  medesime
ordinanze. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2009. 
                       Il Presidente: Amirante 
                      Il redattore: Napolitano 
                      Il cancelliere: Fruscella 
    Depositato in cancelleria il 1° luglio 2009. 
                      Il cancelliere: Fruscella