N. 1 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 24 dicembre 2009
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 4 gennaio 2010 (della Regione Marche). Amministrazione pubblica - Impiego pubblico - Dirigenza pubblica - Incarichi per l'esercizio di funzioni dirigenziali a tempo determinato - Estensione alle Regioni e agli enti locali territoriali della disciplina statale concernente limiti e modalita' di accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto - Ritenuta indebita invasione della sfera di attribuzioni regionali in materia di organizzazione amministrativa ed ordinamento del personale della Regione e degli enti locali territoriali, in presenza di integrale regolamentazione della materia con legge regionale, nonche' contrasto della disciplina impugnata con l'oggetto della delega legislativa circoscritto alla materia del rapporto di lavoro, nonche' mancanza della prescritta intesa in sede di Conferenza unificata - Ricorso della Regione Marche - Denunciata violazione della competenza legislativa regionale nella materia residuale dell'organizzazione amministrativa e dell'ordinamento del personale della Regione e degli enti locali territoriali, vizio di eccesso di delega. - D.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 40, comma 1, lett. f), aggiuntivo dei commi 6-bis e 6-ter all'art. 19 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. - Costituzione, artt. 76, 117, quarto comma; legge 4 marzo 2009, n. 15, artt. 2 e 6; legge della Regione Marche 15 ottobre 2001, n. 20.(GU n.6 del 10-2-2010 )
Ricorso della Regione Marche, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, a cio' autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 2116 del 14 dicembre 2009, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Stefano Grassi ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo in Roma, piazza Barberini 12, come da procura speciale notaio dott. Stefano Sabatini rep. 50.247 del 23 dicembre 2009; Contro lo Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 31 ottobre 2009, n. 254, S.O., per violazione degli articoli 76 e 117, comma 4, della Costituzione. F a t t o 1. - Con l'art. 40 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, il Governo ha modificato l'art. 19 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in attuazione della delega legislativa contenuta negli artt. 2 e 6 della legge 4 marzo 2009, n. 15. In particolare, per quanto rileva in questa sede, il citato art. 2 della legge di delegazione individuava, al comma 1, l'oggetto della delega al Governo: «Adottare, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, entro il termine di nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu' decreti legislativi volti a riformare, anche mediante modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di cui all'articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo, come modificato dall'articolo 1 della presente legge, e della relativa contrattazione collettiva». Il comma 2 del medesimo art. 2 della legge di delegazione prevedeva poi i principi e criteri direttivi generali della delega, stabilendo che «i decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati nell'osservanza dei principi e criteri direttivi fissati dai seguenti articoli, nonche' nel rispetto del principio di pari opportunita', su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, e, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, relativamente all'attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 3, comma 2, lettera a), 4, 5 e 6, nonche' previo parere della medesima Conferenza relativamente all'attuazione delle restanti disposizioni della presente legge, sono trasmessi alle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, le quali esprimono il proprio parere entro sessanta giorni dalla data della trasmissione; decorso tale termine, i decreti sono adottati anche in mancanza del parere. Qualora il termine per l'espressione del parere parlamentare scada nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto al comma 1, o successivamente, quest'ultimo termine e' prorogato di sessanta giorni». Il successivo art. 6 della medesima legge di delegazione, rivolto specificamente alla fissazione dei principi e criteri direttivi della delega in materia di dirigenza pubblica, al comma 2, lett. h), vincolava il legislatore delegato al rispetto del seguente principio e criterio direttivo: «Ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, adeguando la relativa disciplina ai principi di trasparenza e pubblicita' ed ai principi desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale e delle giurisdizioni superiori, escludendo la conferma dell'incarico dirigenziale ricoperto in caso di mancato raggiungimento dei risultati valutati sulla base dei criteri e degli obiettivi indicati al momento del conferimento dell'incarico, secondo i sistemi di valutazione adottati dall'amministrazione, e ridefinire, altresi', la disciplina relativa al conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui e' possibile il conferimento degli incarichi medesimi». L'art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009 ha introdotto due nuovi commi nell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 (dedicato alla disciplina degli incarichi di funzioni dirigenziali), stabilendo che «dopo il comma 6 sono inseriti i seguenti: "6-bis. Fermo restando il contingente complessivo dei dirigenti di prima o seconda fascia il quoziente derivante dall'applicazione delle percentuali previste dai commi 4, 5-bis e 6, e' arrotondato all'unita' inferiore, se il primo decimale e' inferiore a cinque, o all'unita' superiore, se esso e' uguale o superiore a cinque. 6-ter. Il comma 6 ed il comma 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2.". Proprio grazie a quest'ultimo richiamo, dunque, la disciplina di cui ai commi 6 e 6-bis dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 risulta inequivocamente indirizzata ad applicarsi anche alle regioni, alle province, ai comuni, alle comunita' montane, e ai loro consorzi e associazioni. Il citato comma 6 dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella formulazione oggi vigente (anche a seguito dei «ritocchi» introdotti dallo stesso art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009), cosi' stabilisce: «Gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non puo' eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale il termine di cinque anni. Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, che abbiano svolto attivita' in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico puo' essere integrato da una indennita' commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneita' del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Per il periodo di durata dell'incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell'anzianita' di servizio». Tutta la disciplina appena richiamata, nella parte in cui pretende di applicarsi anche alle amministrazioni regionali, incide direttamente su materia gia' integralmente regolata dalla Regione Marche con la legge reg. 15 ottobre 2001, n. 20 («Norme in materia di organizzazione e di personale della Regione»). In particolare, rileva in questa sede quanto disposto dall'art. 28, in special modo, nei commi da 3 a 3-quater: «3. Fermo restando il vincolo numerico della complessiva dotazione organica della qualifica dirigenziale di cui all'articolo 34, comma 2, gli incarichi di cui al comma 1 possono essere conferiti anche a soggetti esterni all'Amministrazione regionale con contratto a termine di diritto privato, sino al 10 per cento della stessa dotazione. Oltre al requisito di cui all'articolo 26, comma 3, lettera a), e' richiesta un'esperienza almeno quinquennale in funzioni dirigenziali attinenti alla posizione da ricoprire ovvero una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza ovvero la provenienza dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico e' determinato in corrispondenza con quello previsto per le posizioni da ricoprire, secondo quanto previsto dal contratto collettivo per l'area della dirigenza. Il trattamento economico del dirigente competente in materia di sanita' e' definito sulla base dei parametri di cui all'articolo 27, comma 4. Per la durata dell'incarico non possono essere conferiti ai dirigenti di cui al presente comma incarichi di funzione dirigenziale diversi da quelli per cui sono stati assunti. Sulla base dei medesimi parametri e' definito il trattamento economico dei dirigenti dei servizi nel caso in cui alla regione sia affidato il coordinamento di una delle commissioni istituite nell'ambito della Conferenza delle regioni e delle province autonome e ai medesimi dirigenti sia affidato l'incarico di coordinamento della relativa commissione tecnica. 3-bis. Gli incarichi di cui al comma 3 possono essere conferiti solo in casi eccezionali e straordinari e comunque quando il loro espletamento richieda conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente ovvero conoscenze specifiche che non si possono riscontrare nell'apparato amministrativo. In particolare l'incarico a soggetti esterni all'amministrazione e' conferito: a) previo accertamento, mediante apposito atto ricognitivo, dell'inesistenza all'interno dell'organizzazione amministrativa di personale in possesso della specifica professionalita' richiesta; b) mediante ricorso a metodologie qualificate di valutazione e selezione dei curricula; c) con atto motivato attestante la proporzionalita' tra il compenso attribuito e l'utilita' conseguita dall'amministrazione. 3-ter. Fermo restando il vincolo numerico della complessiva dotazione organica della qualifica dirigenziale di cui all'articolo 34, comma 2, gli incarichi di posizione dirigenziale di progetto e di funzione possono essere conferiti con contratto a tempo determinato di diritto pubblico, a dipendenti regionali di categoria D a tempo indeterminato in possesso dei requisiti di cui al comma 3-quater, per la copertura dei posti vacanti della stessa dotazione. Gli incarichi sono conferiti mediante specifica selezione, secondo criteri e modalita' definiti dalla Giunta regionale, sentita la competente Commissione consiliare, previa concertazione con le organizzazioni sindacali. Per la durata dell'incarico i dipendenti regionali sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell'anzianita' di servizio. 3-quater. Per il conferimento degli incarichi di cui al comma 3-ter e' necessario il possesso dei seguenti requisiti: a) diploma di laurea conseguente ad un corso di durata almeno quadriennale o di laurea specialistica; b) una specializzazione professionale altamente qualificata, desumibile da concrete esperienze di lavoro maturate presso pubbliche amministrazioni, enti di diritto pubblico o aziende pubbliche o private, della durata di almeno tre anni». Come si puo' osservare, con una disciplina caratterizzata da limiti e modalita' di selezione assai rigorosi, la Regione Marche prevede sostanzialmente due categorie di soggetti quali possibili affidatari di incarichi dirigenziali a contratto: quelli indicati nel comma 3 dell'art. 28, ossia soggetti esterni all'Amministrazione regionale, per i quali e' imposto il limite massimo del 10% della dotazione organica complessiva della qualifica dirigenziale, e quelli indicati nel comma 3-ter del medesimo art. 28, ossia dipendenti regionali di categoria D con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per i quali vale il limite della copertura dei posti resisi vacanti in conseguenza di cessazioni dal servizio di dirigenti a tempo indeterminato. Tale disciplina regionale, pur conforme alla ratio (e, in larga parte, anche alla lettera) delle corrispondenti previsioni legislative statali, non trova coincidenza con i nuovi vincoli che il legislatore delegato del d.lgs. n. 150 del 2009 intenderebbe imporre alle Regioni: da un lato, con il limite complessivo del 10% dei posti della dotazione organica dirigenziale per l'affidamento di tutti gli incarichi a contratto e con l'annesso limite soggettivo dei possibili affidatari riferito ai soli soggetti estranei all'Amministrazione; dall'altro, con il criterio di arrotondamento automatico per il calcolo del suddetto limite percentuale, all'unita' inferiore qualora il primo decimale sia inferiore a cinque o all'unita' superiore qualora esso sia uguale o superiore a cinque. 2. - La Regione Marche, con la deliberazione della Giunta indicata in epigrafe, ha espresso la volonta' di impugnare davanti a questa Corte la citata disposizione del d.lgs. n. 150 del 2009 perche' costituzionalmente illegittima e lesiva dell'autonomia che la Costituzione riconosce e garantisce alla stessa Regione ricorrente, per le seguenti ragioni di D i r i t t o 3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett. f), del d.lgs. indicato, per violazione dell'art. 117, comma 4, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potesta' legislativa residuale nella materia «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale della Regione». Come si e' gia' dato conto nelle pagine che precedono, la disposizione censurata modifica l'art. 19 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, introducendovi due nuovi commi, il 6-bis e il 6-ter, i quali - per quanto rileva in questa sede - stabiliscono, rispettivamente, nuove modalita' di calcolo dei limiti percentuali complessivi per il conferimento, con contratti a tempo determinato, di incarichi dirigenziali a personale esterno ai ruoli della dirigenza pubblica, nonche' l'applicabilita' anche alle amministrazioni regionali e agli enti locali territoriali delle limitazioni previste per tale conferimento nei commi 6 e 6-bis. Cosi' facendo e, in particolare, rendendo la suddetta disciplina direttamente applicabile anche agli apparati amministrativi delle regioni, il legislatore statale ha evidentemente invaso la competenza legislativa regionale nella materia «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale della regione», competenza ormai riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale «la regolamentazione delle modalita' di accesso al lavoro pubblico regionale e' riconducibile alla materia dell'organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti pubblici regionali e rientra nella competenza residuale delle regioni di cui all'art. 117, quarto comma, della Costituzione» (sentt. nn. 95/2008, 233/2006, 380 e 2/2004, 274/2003). La disciplina legislativa in questione e' indubbiamente rivolta a regolare le sole «modalita' di accesso» al lavoro (in particolare, a quello di dirigente) presso le amministrazioni e, nella parte in cui si applica alle amministrazioni dello Stato e agli enti pubblici nazionali, deve essere ricondotta alla materia di legislazione esclusiva statale di cui all'art. 117, secondo comma, lett. g), Cost., non potendo in alcun modo - per come essa e' configurata - ritenersi riconducibile ad eventuali altri titoli di legittimazione della potesta' legislativa dello Stato contenuti nell'art. 117, secondo e terzo comma, Cost. (quali, in ipotesi, l'«ordinamento civile» o il «coordinamento della finanza pubblica»), come tali in grado di consentire al legislatore statale di vincolare anche i legislatori regionali. 3.1. - Quanto alla materia «ordinamento civile», la giurisprudenza di questa Corte ha ormai chiarito inequivocabilmente che tale titolo di intervento legislativo dello Stato comprende senz'altro ogni aspetto concernente la regolazione degli strumenti riguardanti le relazioni inter privatos, quand'anche a tali strumenti faccia ricorso una amministrazione pubblica (cosi', ad esempio, la sent. n. 322 del 2008, concernente «le regole contrattuali che disciplinano i rapporti privati», o le sentt. nn. 411 del 2008, 401 e 431 del 2007, relativamente alla fase negoziale della procedura di evidenza pubblica). Altrettanto chiaramente, pero', la giurisprudenza ha evidenziato corna si resti al di fuori dell'ambito di tale materia ove vengano in rilievo norme volte a disciplinare le modalita' tramite le quali (o i limiti entro i quali) le pubbliche amministrazioni possano far ricorso a questi strumenti. In tal senso depone, inequivocabilmente, la sent. n. 159 del 2008, la quale ha escluso che norme che definiscono «il numero complessivo, i compensi e le indennita' dei componenti del consiglio di amministrazione delle "societa' a totale partecipazione di comuni o province" o delle "societa' a partecipazione mista di enti locali e altri soggetti pubblici o privati", non quotate in borsa» siano riconducibili all'ordinamento civile, poiche' esse concernono soltanto i «limiti alle forme di partecipazione degli enti locali in societa' di diritto privato» e non, viceversa, il regime giuridico di queste ultime (par. 7.1 del Considerato in diritto). Una conferma - anche se da altro punto di vista - di quanto sostenuto in queste sede e' reperibile inoltre nella sent. n. 411 del 2006, nella quale questa Corte ha riconosciuto la pertinenza della norma oggetto del giudizio all'«ordinamento civile» in quanto volta a disciplinare il potere dei soggetti di diritto di porre in essere fenomeni di autonomia negoziale. E' del tutto evidente che tale circostanza non ricorre nel caso di specie, posto che la normativa che in questa sede si contesta non si risolve affatto nella regolazione dell'esercizio dell'autonomia negoziale: viceversa, essa pone dei limiti alle ipotesi in cui la pubblica amministrazione puo' fare uso di tale autonomia, restando ferma la disciplina del suo esercizio e dei rapporti contrattuali che ne derivino. Per quel che qui specificamente interessa, infatti, deve essere evidenziato che - alla luce delle argomentazioni svolte - puo' ritenersi di competenza legislativa esclusiva statale in virtu' dell'art. 117, comma 2, lett. l), Cost., solo cio' che concerne gli effetti e le modalita' dell'esercizio dell'autonomia negoziale, ed in particolare il regime giuridico del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni, e non, viceversa, quanto attiene ai limiti ed alle forme del conferimento dell'incarico (anche mediante la stipula di contratti), profili che invece ricadono senz'altro nella materia, di competenza residuale regionale, della «organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti pubblici regionali». Tale conclusione risulta inequivocabilmente confermata dalla gia' citata sent. n. 233 del 2006, la quale ha ritenuto non contrastante con la competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile» una normativa regionale concernente la scadenza del termine di durata dell'incarico dirigenziale, in quanto essa attiene agli effetti ed «alla operativita' del provvedimento che lo ha conferito» e non all' eventuale «sottostante rapporto di lavoro di diritto privato» (punto 4.2. del Considerato in diritto). Analogamente, del resto, questa Corte ha deciso con la sent. n. 29 del 2006, che ha ritenuto non contrastante con l'art. 117, comma 2, lett. l), Cost. la normativa regionale impugnata dal Governo che faceva divieto «alle societa' a capitale interamente pubblico, alle quali sia affidato in via diretta la gestione di un servizio pubblico locale, il conferimento di incarichi professionali, di collaborazione e di qualsiasi altro genere in favore di persone e/o di societa' legate da rapporti di dipendenza e/o di collaborazione con l'ente o gli enti titolari del capitale sociale». Cio' in quanto essa non incideva sulla disciplina del contratto, neanche di quello stipulato in contrasto con tale disposizione, poiche' le conseguenze di tale stipula avrebbero dovuto «essere eventualmente verificate in sede di giudizio davanti alla competente autorita' giudiziaria ordinaria» (part. 14 e 15 del Considerato in diritto). Questa giurisprudenza ha dunque chiarito che il confine tra profili organizzativi regionali e profili rientranti nell'«ordinamento civile» separa gli aspetti attinenti alla regolazione del rapporto di lavoro - i quali sono senz'altro da ricomprendere in quest'ultima materia - e quelli attinenti alle modalita' e ai limiti della instaurazione e della cessazione di tale rapporto, i quali ineriscono senza dubbio alla materia della «organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali». 3.2. - Quale eventuale fondamento della competenza legislativa statale a dettare la disciplina impugnata vincolando le attribuzioni spettanti alla Regione non puo' neppure essere invocata la materia di potesta' concorrente «coordinamento della finanza pubblica». Le norme in questione non hanno ne' la finalita' ne', tanto meno, l'effetto concreto di determinare il contenimento della spesa pubblica complessiva per la remunerazione delle funzioni dirigenziali. Il conferimento di incarichi di dirigente a contratto, infatti, sempre che avvenga entro i confini della dotazione organica e, dunque, per i soli posti resisi vacanti, non puo', per sua stessa natura, determinare alcuna spesa maggiore per l'Amministrazione conferente. D'altronde, la dimostrazione piu' evidente che la normativa impugnata non e' in grado di produrre alcun effetto di contenimento della spesa pubblica e' costituita dal fatto che l'estensione del limite delle quote percentuali rispetto alla dotazione organica a tutti gli incarichi dirigenziali a contratto, accompagnata dalla riserva di tali incarichi ai soli soggetti estranei all'Amministrazione conferente (cosi' come risulta dal nuovo comma 6 dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001), finisce per vietare il conferimento di incarichi dirigenziali al personale interno non avente qualifica di dirigente (cosi' come attualmente previsto dall'art. 28, comma 3-ter, della legge reg. Marche n. 20 del 2001), con cio' impedendo, di fatto, il relativo risparmio di spesa che una simile soluzione inevitabilmente comporta. In ogni caso, anche a voler ritenere che la normativa impugnata - non si sa come - abbia l'effetto di imporre il contenimento della spesa pubblica, tale disciplina non potrebbe comunque ritenersi conforme ai limiti che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di individuare in relazione alla potesta' legislativa statale di «coordinamento della finanza pubblica». Come risulta precisato a chiare lettere, ad esempio, nella sent. n. 120 del 2008 (par. 5 del Considerato in diritto), «e' ormai consolidato l'orientamento secondo cui norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 412 e n. 169 del 2007; n. 88 del 2006)». Le norme statali in questione, a tutta evidenza, non hanno carattere transitorio o temporaneo e, per di piu', impongono un vincolo puntuale e specifico che non lascia alcun margine di attuazione al libero apprezzamento del legislatore regionale. Anche sotto tale profilo, pertanto, la disciplina impugnata non potrebbe in alcun modo essere qualificata come «principi di coordinamento della finanza pubblica». 3.3. - Per tutte le ragioni fin qui esposte, la disposizione che si impugna e' costituzionalmente illegittima nella parte in cui rende applicabile alle regioni la disciplina dell'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001. 4. - L'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett. f), del d.lgs. indicato, per violazione dell'art. 117, comma 4, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potesta' legislativa residuale nella materia «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale dei comuni, delle province e delle citta' metropolitane». Per le medesime ragioni appena illustrate, il legislatore statale non dispone di un titolo di potesta' legislativa che lo abiliti a disciplinare le «modalita' di accesso al lavoro» presso le amministrazioni degli enti locali territoriali, potendo esclusivamente, in riferimento a tali enti, regolare la materia della «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane» come previsto dall'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost. La regione, dunque, in base all'art. 117, quarto comma, Cost. e fatta salva la suddetta competenza statale per la disciplina degli organi di governo e delle funzioni fondamentali degli enti locali territoriali, nonche' la possibilita', per lo Stato, di intervenire nell'ambito materiale dell'ordinamento degli enti locali in base ad ulteriori titoli di legittimazione reperiti negli secondo e terzo comma dell'art. 117 Cost., e' titolare della potesta' legislativa residuale nella materia «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale dei Comuni, delle province e delle citta' metropolitane», ancorche' con il limite del rispetto dell'autonomia organizzativa costituzionalmente riconosciuta a tali enti. Tale competenza legislativa regionale risulta illegittimamente invasa dalla disposizione statale censurata, la quale, pertanto, e' costituzionalmente illegittima anche nella parte in cui rende applicabile ai comuni, alle province e alle citta' metropolitane la disciplina dell'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001. 4.1. - Questa difesa e' consapevole del fatto che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che «con riferimento alle regioni a statuto ordinario, spetta al legislatore statale (..) disciplinare i profili organizzativi concernenti l'ordinamento degli enti locali» (sent. n. 159 del 2008), e cio' in quanto «il nuovo testo dell'art. 117 della Costituzione ha sostanzialmente confermato, sul punto, il previgente sistema, nel quale le regioni ordinarie, a differenza di quelle a statuto speciale, non avevano alcuna competenza in materia di ordinamento degli enti locali appartenenti al rispettivo territorio» (sent. n. 337 del 2003; nel medesimo senso anche la sent. n. 48 del 2003). La regione ricorrente intende pero' evidenziare, in primo luogo, come le affermazioni appena richiamate non possano vantare a proprio sostegno, nelle medesime decisioni che le contengono, alcuna motivazione o argomentazione specifica; in secondo luogo, come esse - ad ulteriore riprova della loro infondatezza - non trovino conferma in altre decisioni della stessa Corte costituzionale, dalle quali risultano smentite, chiaramente anche se implicitamente. In particolare, ci si riferisce alle sentt. nn. 244 e 456 del 2005 e 237 del 2009 in tema di comunita' montane. La sent. n. 244 del 2005 dichiara infondate alcune questioni di legittimita' costituzionale proposte in via incidentale nei confronti dell'art. 17 della legge della Regione Molise 8 luglio 2002, n. 12 (Riordino e ridefinizione delle comunita' montane). In particolare, qui interessano le motivazioni addotte a sostegno dell'infondatezza della censura che invocava, quale parametro, l'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost. Sul punto, la sent. n. 244 del 2005 prende le mosse dal riconoscimento - ormai consolidato, nella giurisprudenza costituzionale - della natura di ente locale delle comunta' montane. In particolare, si tratta «di un caso speciale di unioni di comuni», «create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo piu' adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, "funzioni proprie", "funzioni conferite" e funzioni comunali» (cosi' anche la sent. n. 229 del 2001), caratterizzate peraltro da un regime di autonomia «(non solo dalle regioni ma anche) dai comuni, come dimostra, tra l'altro, l'espressa attribuzione [alle stesse] della potesta' statutaria e regolamentare». Cio' e' sufficiente per ritenere che la normativa regionale concernente le comunita' montane non viola l'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., «in quanto la citata disposizione fa espresso riferimento ai comuni, alle province e alle citta' metropolitane e l'indicazione deve ritenersi tassativa». Da tale premessa «la conseguenza che la disciplina delle comunita' montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra nella competenza legislativa residuale delle regioni ai sensi dell'art. 117, quarto comma, della Costituzione». Dalla sent. n. 244 del 2005 risulta chiaramente, dunque, che non basta la qualificazione delle Comunita' montane come «enti locali» per fondare una qualsivoglia competenza statale in relazione ad esse. E cio' perche', evidentemente, non esiste nessuna norma costituzionale che attribuisce allo Stato una competenza generale in materia di enti locali. L'unica norma che e' espressamente rivolta a disciplinare la competenza legislativa su tale oggetto e' il menzionato art. 117, secondo comma, lett. p) , Cost., il quale limita il titolo di intervento statale non soltanto in relazione al «tipo» di enti locali (comuni, province e comunita' montane), ma anche in relazione agli aspetti degli ordinamenti di questi ultimi (legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali). E' dunque del tutto evidente che - per la sent. n. 244 del 2005 - il legislatore statale ha soltanto il titolo per disciplinare la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane, mentre - in relazione ad enti locali diversi rispetto a quelli menzionati - non dispone neanche di tale titolo. Ad ulteriore conferma di questa conclusione e' possibile menzionare il rifiuto, da parte della sent. n. 244 del 2005, della applicazione analogica - pur richiesta dal giudice rimettente - dell'art. 117, secondo comma, lett. p) , Cost. Secondo l'ordinanza che aveva sollevato la questione, infatti, la competenza statale di cui alla disposizione da ultimo menzionata si sarebbe dovuta riconoscere in via analogica anche in relazione ai medesimi aspetti ivi considerati in relazione alle comunita' montane. Questa ipotesi e' respinta dalla sent. n. 244, ma non a causa della assenza di una «somiglianza rilevante» tra comunita' montane ed enti contemplati dall'art. 117, secondo comma, lett. p) , Cost., la quale viene anzi esplicitamente riconosciuta. L'applicazione analogica richiesta dal giudice a quo e' invece rifiutata in quanto viene ritenuto mancante l'altro presupposto necessario al compimento di tale operazione, oltre alla «somiglianza rilevante», ossia la lacuna nell'ordinamento che altrimenti sussisterebbe. La norma (sia pure implicita) che disciplina il caso, infatti, e' evidentemente rinvenibile nell'art. 117, quarto comma, Cost., ed e' quella che assegna la potesta' legislativa in materia di «ordinamento degli enti locali» alla competenza residuale regionale. Deve inoltre essere messo in evidenza che la sent. n. 244 del 2005 e' ben lungi dall'essere isolata nell'ambito della giurisprudenza costituzionale. Al suo fianco, infatti, devono essere citate le sentt. nn. 465 del 2005 (patr. parr. 4 e 5 del Considerato in diritto), 397 del 2006 (part. par. 7 del Considerato in diritto) e 237 del 2009, che confermano pianamente quanto messo in luce piu' sopra. All'ultima delle decisioni menzionate, peraltro, si deve un ulteriore contributo di chiarezza sul tema. Essa ha infatti sottolineato che - nonostante la pertinenza alla potesta' legislativa residuale regionale della competenza in materia di enti locali (anche in quella circostanza si trattava di Comunita' montane) - lo Stato e' legittimato ad intervenire in base ad «un autonomo titolo di legittimazione» individuato - nel caso di specie - «nella competenza dello Stato relativa alla armonizzazione dei bilanci pubblici ed al coordinamento della finanza pubblica di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.» (par. 16 del Considerato in diritto). Cio', evidentemente, puo' valere anche per altri titoli di competenza statale che interessino, da altri angoli prospettici, il tema dell'ordinamento degli enti locali. In sintesi, risulta evidente che la giurisprudenza costituzionale appena citata riconosce implicitamente, ma chiaramente, la spettanza alla potesta' legislativa residuale regionale della competenza in materia di «ordinamento degli enti locali», facendo salve da un lato, ovviamente, le norme che lo Stato puo' porre in attuazione dell'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost. - e dunque in tema di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane - e dall'altro quelle che trovino copertura in ulteriori titoli di legittimazione individuabili nei secondo e terzo comma dell'art. 117 Cost., quali ad esempio, come riconosce la citata sent. n. 237 del 2009, quelle poste in vista del fine del «coordinamento della finanza pubblica». 4.2. - In sintesi, in relazione alla censura qui sottoposta al giudizio della Corte, e' possibile osservare quanto segue. Nella giurisprudenza costituzionale esistono due differenti filoni concernenti la spettanza della potesta' legislativa circa l'ordinamento degli enti locali. Secondo un primo indirizzo, essa continuerebbe a spettare, immutata, allo Stato anche dopo l'entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001; secondo un diverso indirizzo - che si e' sviluppato in relazione alle comunita' montane, ma in base ad argomenti valevoli, in generale, per tutti gli enti locali - questa potesta' legislativa deve ormai ritenersi ricompresa nell'area affidata alla residualita' regionale ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., fatta salva la competenza statale di cui all'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., e quella derivante da ulteriori titoli di intervento che giustifichino «incursioni» nella materia in questione, quale, ad esempio, quello concernente la competenza statale a porre norme di principio in tema di «coordinamento della finanza pubblica». In virtu' dell'inversione del criterio della residualita' nel riparto di competenze avvenuto ad opera della menzionata legge costituzionale - come questa Corte ha da subito riconosciuto - «nel quadro del nuovo sistema di riparto della potesta' legislativa risultante dalla riforma del titolo V, parte 11, della Costituzione realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001», infatti, per scrutinare la legittimita' costituzionale di una legge dello Stato in relazione alle norme che regolano il riparto di competenza, e' necessario muovere «non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell'intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale» (sent. n. 282 del 2002, par. 3 del Considerato in diritto). Partendo da questa premessa, e' evidente che la prima delle due ricostruzioni presenti nella giurisprudenza costituzionale ha a proprio carico l'onere di individuare la norma in grado di fondare la «riserva, esclusiva o parziale», di competenza statale. Tale norma potrebbe essere individuata alternativamente: o nell'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., a prezzo pero' della inaccettabile conseguenza di ritenere che il legislatore della revisione costituzionale, con la formula «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane» abbia in realta' fatto riferimento a tutto l'ordinamento degli enti locali; ovvero in altra disposizione costituzionale. La prima ipotesi della suddetta alternativa supera evidentemente le possibilita' ermeneutiche del testo costituzionale, e del resto nessuna delle tre decisioni piu' sopra evocate (sentt. nn. 159 del 2008, 377 e 48 del 2003) si spinge a tanto. La seconda ipotesi, invece, trova un ostacolo difficilmente superabile nella totale «assenza» di un titolo costituzionale che affidi allo Stato la competenza generale in materia di ordinamento degli enti locali (alla maniera dell'art. 128 del testo costituzionale originario, espressamente abrogato dalla legge cost. n. 3 del 2001). Il che, del resto, e' ben comprensibile, dal momento che, se si ritenesse sussistente una norma siffatta, non risulterebbe in alcun modo spiegabile l'esistenza dell'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., posto che quest'ultimo si troverebbe ad attribuire allo Stato una competenza normativa in ambiti gia' al medesimo affidati dalla menzionata norma generale la cui esistenza si sta ipotizzando a fini argomentativi. In conclusione, non resta che ritenere che la competenza legislativa in materia di «ordinamento degli enti locali» ricada nell'ambito disciplinato dall'art. 117, quarto comma, Cost., spettando dunque alla potesta' residuale regionale, fatto salvo quanto previsto dall'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., e da eventuali ulteriori titoli di intervento statale in grado di giustificare «incursioni» nella materia de qua. La regione ricorrente e' ben consapevole della notevole estensione che caratterizza i settori affidati alla competenza esclusiva statale dall'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost. Cio' che e' certo, pero', e' che tale notevole estensione non e' sufficiente a ricondurre ai medesimi la disciplina impugnata nel presente giudizio. Quest'ultima, infatti, disciplinando le modalita' di accesso al lavoro dirigenziale presso le amministrazioni pubbliche, nella parte in cui si applica agli enti locali territoriali rientra nella «sub-materia» «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale» dei medesimi, a sua volta facente parte del piu' ampio «ordinamento degli enti locali» ma non ascrivibile ai settori della «legislazione elettorale», degli «organi di governo» e delle «funzioni fondamentali». Tale conclusione, d'altronde, ha trovato da ultimo inequivocabile conferma nella sent. n. 326 del 2008, nella quale questa Corte si e' trovata a giudicare di una disposizione che imponeva «alcune limitazioni alle societa' partecipate da (...) enti locali per lo svolgimento di funzioni amministrative o attivita' strumentali alle stesse» (par. 1 del Considerato in diritto). In questa decisione, infatti, la Corte ha ricondotto la norma censurata alla «potesta' legislativa regionale in materia di organizzazione degli uffici (...) degli enti locali, fondata sull'art. 117 Cost. », argomentando espressamente addirittura sulla applicabilita' di questa competenza di tipo residuale ex quarto comma dell'art. 117 anche alle regioni ad autonomia speciale - pure dotate della potesta' legislativa primaria nella materia dell' «ordinamento degli enti locali» in base alle norme degli statuti speciali - in quanto la potesta' legislativa conferita alle regioni dall'art. 117 Cost. «assicura una autonomia piu' ampia di quella prevista dagli statuti speciali» (par. 8.1 del Considerato in diritto). 5. - L'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett. f), del d.lgs. indicato, per violazione dell'art. 76 Cost., in ragione del contrasto della disposizione censurata con l'oggetto della delega legislativa individuato nell'art. 2, comma 1, della legge di delegazione 4 marzo 2009, n. 15. La citata disposizione della legge di delegazione limitava i poteri normativi del Governo alla sola riforma della «disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di cui all'articolo 2, comma 2», del decreto legislativo n. 165 del 2001. Le norme impugnate, come si e' gia' osservato, recano una disciplina concernente «i limiti e le modalita' di accesso» agli incarichi di dirigente pubblico a contratto, fuoriuscendo palesemente dall'ambito oggettivo individuato dalla delega che, al contrario, risultava circoscritto alla materia del «rapporto di lavoro». E' dunque evidente il vizio di eccesso di delega in relazione all'oggetto della medesima, vizio che, per costante giurisprudenza costituzionale, si traduce in violazione dell'art. 76 Cost. (ex multis, cfr. la sent. n. 281 del 2004). 5.1. - Al riguardo, la ricorrente ritiene necessario evidenziare le ragioni che rendono ammissibile la presente censura, proposta in riferimento al parametro costituito dall'art. 76 Cost. In via generale deve essere notato che, secondo l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale, e' possibile, per la regione, invocare nel giudizio in via principale un parametro diverso da quelli che regolano il riparto costituzionale delle competenze soltanto nei casi in cui la violazione di tale parametro ridondi in lesioni delle sfere di competenza regionale. Tale evenienza, in particolare, secondo quanto precisato da questa Corte, si verifica soltanto ove «il contrasto con norme costituzionali diverse» da quelle che disciplinano il riparto di competenze «si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali» (sentenza n. 50 del 2005, par. 3 del Considerato in diritto). In altre parole, perche' la relativa questione sia da considerare ammissibile, «dalla invocata violazione» di norme extracompetenziali deve «derivare una compressione dei poteri della ricorrente» (cosi' la sentenza n. 383 del 2005, par. 8 del Considerato in diritto), ossia «una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite» (cosi' la sent. n. 371 del 2008, par. 6 del Considerato in diritto, che richiama le sentt. nn. 216 del 2008 e 401 del 2007). Cio' e' precisamente quanto si verifica in relazione alla violazione lamentata in questa sede, posto che la indebita estensione della normativa posta del decreto legislativo anche ai «limiti e alle modalita' di accesso» al lavoro pubblico oltre che al regime del rapporto di lavoro impedisce alla normativa regionale esistente di dispiegare la propria efficacia, e alla Regione di porre in essere nuove norme in un ambito materiale che - come si e' argomentato piu' sopra - per quel che riguarda l'organizzazione amministrativa regionale e quella degli enti locali e' senz' altro di sua competenza. E' dunque possibile affermare che, nel caso di specie, la violazione di un parametro costituzionale extracompetenziale «si traduce in una diretta lesione delle (...) competenze» regionali (sent. n. 235 del 2009). A differenza di quanto accaduto in altre circostanze, anche recenti, in cui la giurisprudenza di questa Corte ha negato 1' ammissibilita' della questione perche' le censure proposte dalla Regione vertevano su un ambito di interessi certamente rilevante, a livello politico, per la medesima, che pero' nulla aveva a che vedere con «l'esercizio delle competenze proprie» di quest'ultima (sent. n. 233 del 2009), cio' e' precisamente quanto accade nel caso che in questa sede si porta alla attenzione della Corte. La violazione dell'art. 76 Cost. - sub specie della ultroneita' del decreto legislativo rispetto all'oggetto definito dalla legge di delegazione - e', in conseguenza, sicuramente ridondante sulla sfera delle competenze costituzionalmente attribuite alla regione, dal momento che la disciplina censurata, per la parte in cui si rivolge direttamente alle pubbliche amministrazioni regionali e locali, determina una compressione dell'autonomia legislativa regionale. Da qui la sicura ammissibilita' della questione sollevata. 5.2. - Quanto al merito, la Regione Marche ritiene di aver gia' sufficientemente argomentato nelle pagine che precedono le ragioni che sostengono l'estraneita' della disciplina impugnata - incentrata sulla definizione di limiti e di modalita' di accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto - rispetto all'oggetto della delega individuato nell'art. 2, comma 1, della legge n. 15 del 2009, che, invece, risultava limitato alla sola disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Deve precisarsi, peraltro, che la violazione ad opera delle norme impugnate dei limiti imposti dalla delimitazione dell'ambito oggettivo della delega risulta palese anche qualora si volesse ritenere che il legislatore delegante, in sede di determinazione dei principi e criteri direttivi della delega in materia di dirigenza pubblica (cfr. l'art. 6 della legge n. 15 del 2009), abbia - sia pure impropriamente - provveduto ad estendere l'oggetto della delega medesima attribuendo al Governo il potere di disciplinare, oltre al rapporto di lavoro del dirigente, anche i limiti e le modalita' di accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto. Il citato art. 6, al comma 2, lett. h), contemplava il seguente «principio e criterio direttivo» (cosi' espressamente qualificato): «Ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, (...), e ridefinire, altresi', la disciplina relativa al conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui e' possibile il conferimento degli incarichi medesimi». Lo stesso tenore testuale di questa disposizione non puo' lasciare spazio a dubbi di sorta: la delega a prevedere «la riduzione delle quote percentuali di dotazione organica» entro le quali ammettere l'attribuzione di incarichi dirigenziali «a contratto» era espressamente riferita solo al conferimento degli incarichi «ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli» dell'Amministrazione conferente. Il legislatore delegato non era dunque abilitato ad estendere, come invece risulta dal testo del nuovo comma 6 dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, il suddetto limite delle quote percentuali di dotazione organica a tutti i conferimenti di incarichi dirigenziali a contratto, comprendendovi oltre a quelli concernenti i soggetti espressamente individuati dalla citata norma della legge di delegazione anche quelli concernenti i soggetti dipendenti della medesima Amministrazione conferente ma non aventi la qualifica di dirigente. Di qui l'evidente violazione dei limiti imposti dalla delega legislativa, sotto il particolare profilo del contrasto con l'oggetto della delega medesima, anche se interpretato estensivamente attraverso il disposto dell'art. 6, comma 2, lett. h), della legge n. 15 del 2009. Il vizio di eccesso di delega appena evidenziato, ovviamente nella sola parte in cui esso e' reso applicabile alle amministrazioni regionali e locali dalle norme qui censurate, vulnera direttamente le attribuzioni legislative della regione ricorrente. Basti pensare, infatti, a quanto gia' esposto nelle premesse del presente ricorso, ossia alla attuale vigenza dell'art. 28, commi da 3 a 3-quater, della legge reg. Marche n. 20 del 2001, in base alla quale sono previste due categorie di soggetti quali possibili affidatari di incarichi dirigenziali a contratto: quelli indicati nel comma 3, ossia soggetti esterni all'Amministrazione regionale, per i quali e' imposto il limite massimo del 10% della dotazione organica complessiva della qualifica dirigenziale, e quelli indicati nel comma 3-ter , ossia dipendenti regionali di categoria D con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per i quali non vale il limite della quota percentuale bensi' il diverso limite della copertura dei posti resisi vacanti in conseguenza di cessazioni dal servizio di dirigenti a tempo indeterminato. 6. - L'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett. f), del d.lgs. indicato, per violazione dell'art. 76 Cost., in ragione del contrasto della disposizione censurata con i principi e criteri direttivi contenuti nell'art. 2, comma 2, della legge di delegazione 4 marzo 2009, n. 15. Si e' gia' posto in evidenza che i principi e criteri direttivi generali della delega, contenuti nell'art. 2, comma 2, della legge n. 15 del 2009, imponevano al Governo l'adozione dei decreti legislativi «previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, relativamente all'attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 3, comma 2, lettera a), 4, 5 e 6, nonche' previo parere della medesima Conferenza relativamente all'attuazione delle restanti disposizioni della presente legge». La disposizione censurata, in particolare nella parte in cui introduce il nuovo comma 6-ter nell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, e' stata introdotta dal Governo all'interno del d.lgs. n. 150 del 2009 a seguito dei pareri espressi dalle competenti Commissioni parlamentari, rispettivamente il 23 settembre (Commissione affari costituzionali del Senato) e il 2 ottobre 2009 (Commissioni riunite I e XI della Camera dei deputati), senza essere stata sottoposta alla prescritta intesa in sede di Conferenza unificata (la quale era intervenuta il 29 luglio 2009). L'acquisizione di tale intesa nella sede istituzionalmente preposta alla rappresentazione delle posizioni delle regioni e degli enti locali territoriali era invece espressamente prevista dall'art. 2, comma 2, della legge di delegazione n. 15 del 2009 come principio e criterio direttivo generale imposto al Governo per l'attuazione della delega legislativa nella materia della «dirigenza pubblica» di cui all'art. 6 della medesima legge n. 15. Il legislatore delegato statale e' dunque incorso in una palese violazione proprio di quei principi e criteri direttivi della delega posti a tutela della posizione costituzionale delle autonomie regionali e locali; e tale vizio, per costante giurisprudenza costituzionale, si traduce nella violazione dell'art. 76 Cost., alla cui denuncia in sede di giudizio di legittimita' costituzionale in via principale la Regione vanta senza dubbio uno specifico interesse, quanto meno in riferimento all'adozione di norme legislative statali che pretendano di imporre direttamente limiti alle sfere di autonomia costituzionale regionale. A questo riguardo, la regione ricorrente e' confortata da diversi precedenti della giurisprudenza di questa Corte. Sul punto rileva, innanzi tutto, la sent. n. 110 del 2001, con la quale e' stata accolta la questione di legittimita' costituzionale, proposta in via principale da una regione, avverso un decreto legislativo adottato in violazione della norma posta dalla legge di delega a mente della quale il primo avrebbe dovuto essere adottato «sentita la regione interessata». Secondo quanto affermato nella sentenza in questione, mancando la acquisizione del punto di vista regionale, l'atto normativo impugnato andava considerato senz'altro costituzionalmente illegittimo. Analogamente, del resto, questa Corte ha deciso nella sent. n. 206 del 2001, nella quale e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 76 Cost., la norma di un decreto legislativo che era stata approvata dal Governo in un testo (solo) «parzialmente diverso da quello risultante dall'intesa sancita nella Conferenza Stato-regioni», in una circostanza in cui l'intesa era invece prescritta dalla legge delega. Da tale giurisprudenza e' possibile desumere, con certezza, due conclusioni di estrema importanza in riferimento al presente giudizio. Innanzi tutto, che la censura di violazione dell'art. 76 Cost. - cosi' come qui prospettata - e' senz'altro ammissibile, in quanto ridonda nella compressione di poteri propri della regione. Questa Corte, infatti, ha gia' affrontato nel merito, e sovente accolto, analoghe questioni di legittimita' costituzionale proposte da parte regionale, riconoscendo dunque che esse fossero caratterizzate dalla necessaria «ridondanza». In secondo luogo, che la medesima censura non puo' che ritenersi fondata, avendo gia' la giurisprudenza costituzionale - chiaramente ed in svariate occasioni - affermato la assoluta necessita' che il decreto legislativo delegato si adegui ai vincoli procedurali che derivano dalla legge di delegazione nella quale esso trova il suo diretto fondamento di legittimita'.
P. Q. M. Si chiede che questa ecc.ma Corte costituzionale, in accoglimento del presente ricorso, dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lettera f) , del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nei termini sopra esposti. Roma, addi' 24 dicembre 2009 Avv. Prof.: Stefano Grassi