N. 12 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 21 gennaio 2010

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 28 gennaio 2010 (della Regione Liguria). 
 
Enti locali -  Servizi  pubblici  locali  di  rilevanza  economica  -
  Disciplina della scelta della forma  di  gestione  del  servizio  e
  delle procedure di affidamento dello stesso, al dichiarato fine  di
  adeguamento  alle  norme  comunitarie  -  Previsione  quali   forme
  ordinarie  di  gestione,  che  non  necessitano   di   motivazione,
  dell'affidamento  in  concessione  a  terzi  e  dell'affidamento  a
  societa'   mista   (c.d.    esternalizzazioni)    -    Possibilita'
  dell'affidamento «in  house»  ai  soli  casi  espressi  in  via  di
  eccezione - Previsione di puntuale e dettagliato regime transitorio
  con imposizione agli enti territoriali di cedere  quote  societarie
  ai privati  -  Lamentata  insussistenza  di  normativa  comunitaria
  limitativa  del  diritto  di  ogni   amministrazione   di   erogare
  direttamente i  servizi  pubblici,  preclusione  dello  svolgimento
  delle   funzioni   fondamentali   degli   enti   locali,   indebita
  privatizzazione delle risorse pubbliche  erroneamente  fondata  sul
  principio della tutela della concorrenza -  Ricorso  della  Regione
  Liguria - Denunciata  violazione  della  competenza  legislativa  e
  amministrativa  regionale  nelle  materie  residuali  dei   servizi
  pubblici locali e dell'organizzazione degli enti locali, violazione
  dei principi  di  sussidiarieta'  e  proporzionalita',  esorbitanza
  dalla competenza statale  esclusiva  in  materia  di  tutela  della
  concorrenza, contrasto con il diritto comunitario. 
- Decreto-legge  25  settembre  2009,   n.   135,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 20 novembre 2009, n. 166, art. 15, comma
  1, lett. b) e d), modificative, rispettivamente, dei commi 2, 3,  4
  e 8 dell'art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n.  112,  convertito,
  con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133. 
- Costituzione, artt. 117, primo, secondo, terzo,  quarto,  quinto  e
  sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 119; legge  30  dicembre
  1989, n. 439; Carta europea dell'autonomia locale 15 ottobre  1985,
  artt. 3 e 4. 
(GU n.10 del 10-3-2010 )
    Ricorso della Regione Liguria,  in  persona  del  vice-Presidente
della Regione pro-tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta
regionale 30 dicembre 2009, n. 1909 (doc. 1), rappresentata e difesa,
come da procura speciale n. rep. 14263 dell'il gennaio  2010,  rogata
dal dott. Margherita Poli, notaio in Genova (doc. 2), dall'avv. prof.
Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi  di  Roma,  con
domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Luigi  Manzi,  in
via Confalonieri, n. 5; 
    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri   per   la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1,
lettera b) e lettera d) del decreto-legge 25 settembre 2009, n.  135,
Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi  comunitari  e  per
l'esecuzione di sentenze della Corte  di  giustizia  delle  Comunita'
europee, convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 2009,
n. 166, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 274  del  24  novembre
2009 - Supplemento Ordinario n. 215, per violazione: 
        dell'art. 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e  sesto
comma, della Costituzione; 
        dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione; 
        dell'art. 119 della Costituzione; 
    nei modi e per i profili di seguito illustrati, 
 
                              F a t t o 
 
    La Regione Liguria e' dotata di  potesta'  legislativa  piena  in
materia di servizi pubblici locali (v., ad  es.,  sent.  Corte  cost.
29/2006) e di organizzazione degli enti locali (salvi  i  profili  di
cui all'art. 117, co. 2, lettera p), ai sensi dell'art. 117,  co.  4,
Cost. 
    L'ultima disciplina del servizio idrico e' stata dettata con 1.r.
39/2008, il cui art. 4 prevede che l'AATO affidi il  servizio  idrico
nel rispetto dell'art. 113, co. 7, d.lgs. 267/2000 «e delle modalita'
di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs. 152/2006» (co.  4).  A  sua
volta, l'art. 150, co. 1, d.lgs. 152/2006 rinvia all'art. 113, co. 5,
in base al  quale  «l'erogazione  del  servizio  avviene  secondo  le
discipline di settore e  nel  rispetto  della  normativa  dell'Unione
europea, con conferimento della titolarita' del servizio: 
        a)   a   societa'   di   capitali   individuate    attraverso
l'espletamento di gare con  procedure  ad  evidenza  pubblica;  b)  a
societa' a capitale misto  pubblico  privato  nelle  quali  il  socio
privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con  procedure
ad evidenza pubblica che abbiano  dato  garanzia  di  rispetto  delle
norme interne e comunitarie in  materia  di  concorrenza  secondo  le
linee di indirizzo  emanate  dalle  autorita'  competenti  attraverso
provvedimenti o  circolari  specifiche;  c)  a  societa'  a  capitale
interamente pubblico a condizione che  l'ente  o  gli  enti  pubblici
titolari del capitale sociale esercitino sulla societa' un  controllo
analogo a quello esercitato sui propri  servizi  e  che  la  societa'
realizzi la parte piu' importante della propria attivita' con  l'ente
o gli enti pubblici che la controllano». 
    Dunque, la legge regionale rinvia ad una disciplina  che  ammette
senza limitazioni la gestione in house. 
    Il d.l. 135/2009, convertito nella  l.  166/2009,  e'  intitolato
Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi  comunitari  e  per
l'esecuzione di sentenze della Corte  di  giustizia  delle  Comunita'
europee, ma, mentre pressoche' tutti gli altri articoli  del  decreto
citano con precisione le fonti comunitarie o le sentenze della  Corte
di giustizia di cui  rappresentano  attuazione  (o  le  procedure  di
infrazione cui si vuole porre rimedio), l'art. 15  del  decreto,  pur
essendo intitolato Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia
di servizi pubblici locali di rilevanza economica, non cita mai  atti
comunitari. 
    Ed in effetti,  esso  non  e'  affatto  imposto  da  esigenze  di
adeguamento alla normativa comunitaria ma e'  frutto  di  una  scelta
meramente statale  volta  ad  imporre  la  procedura  competitiva  di
affidamento del servizio come procedura ordinaria e l'affidamento  in
house come procedura eccezionale. 
    Tutt'al  contrario,  invece,  il  diritto   comunitario   -   pur
incentrato sulla tutela della concorrenza come metodo  per  garantire
la pari opportunita' di accesso al mercato delle  commesse  pubbliche
per tutti gli operatori europei - ammette pienamente  il  diritto  di
ogni amministrazione  di  erogare  direttamente  i  servizi  pubblici
autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione. 
    E' invece soltanto nel momento nel  quale  un'autorita'  pubblica
scelga  di  esternalizzare  il  servizio  che  il   procedimento   di
affidamento  deve  rispettare  i  principi  di  non  discriminazione,
trasparenza, parita' di trattamento, libera circolazione di persone e
imprese ed in particolare la disciplina  comunitaria  in  materia  di
appalti pubblici. 
    Inoltre, in assenza di una specifica regolamentazione comunitaria
di settore (direttiva e regolamento), la  scelta  della  piu'  idonea
forma di gestione del servizio pubblico spetta agli Stati-membri  nel
rispetto del riparto interno delle competenze. 
    L'art. 15 modifica l'art. 23-bis d.l. 112/2008, convertito  nella
1. 133/2008, il quale e' stato a sua volta gia' impugnato  da  questa
Regione con ricorso n. 72/2008, tuttora pendente. 
    Anche l'art. 15 risulta lesivo  delle  competenze  costituzionali
della   Regione   nelle    materie    dei    servizi    pubblici    e
dell'organizzazione degli enti locali, in quanto conferma  l'impianto
dell'art.  23-bis,  coartando  il  diritto   dell'ente   territoriale
responsabile di erogare in proprio il servizio idrico a favore  della
propria comunita'. 
    Di seguito si illustreranno con precisione le norme impugnate  ed
i motivi del ricorso. Qui resta solo da aggiungere che l'art. 15 d.l.
135/2009 e' impugnabile anche nelle parti  in  cui  sia  confermativo
dell'art.  23-bis   d.l.   112/2008,   in   base   alla   consolidata
giurisprudenza costituzionale secondo la quale gli  atti  legislativi
sono  sempre  impugnabili  anche  se  apparentemente  «confermativi»,
perche' dotati sempre, per propria natura intrinseca,  del  carattere
della novita' (v., ad es., sentt. n. 30  e  44/1957,  47  e  63/1959,
3/1964, 19/1970, 171/1971, 49/1987, 1035/1988, 381/1990, 224/1994). 
    Si puo' anche ricordare la recente sent. 328/2009, in  base  alla
quale «l'esistenza di una preesistente  normativa  non  costituirebbe
motivo di  preclusione  alla  impugnazione  di  altra  sopravveniente
disciplina che, novando il quadro normativo, andasse  a  regolare  la
medesima materia» (punto 3.3 del Diritto). 
 
                            D i r i t t o 
 
1. -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 15,  comma  1,  lettera
b). 
    Il comma  2  dell'art.  23-bis  d.l.  112/2008,  come  sostituito
dall'art. 15, comma 1, lettera b), d.l. n. 135/2009, prevede che  «il
conferimento della gestione dei servizi pubblici locali  avviene,  in
via ordinaria», a favore di terzi «mediante procedure competitive  ad
evidenza  pubblica»,  oppure  a  «societa'  a  partecipazione   mista
pubblica e privata, a condizione che la selezione del  socio  avvenga
mediante procedure  competitive  ad  evidenza  pubblica,..  le  quali
abbiano  ad  oggetto,  al  tempo  stesso,  la  qualita'  di  socio  e
l'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla  gestione
del servizio e che al socio sia  attribuita  una  partecipazione  non
inferiore al 40 per cento». 
    Il comma 3 dispone che, «in deroga alle modalita' di  affidamento
ordinario..., per situazioni eccezionali che, a  causa  di  peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto territoriale di riferimento, non permettono  un  efficace  e
utile ricorso al mercato, l'affidamento puo'  avvenire  a  favore  di
societa'  a  capitale  interamente  pubblico,  partecipata  dall'ente
locale, che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento  comunitario
per la gestione cosiddetta «in house» e, comunque, nel  rispetto  dei
principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo
sulla societa' e di prevalenza dell'attivita' svolta dalla stessa con
l'ente o gli enti pubblici che la controllano». 
    Infine, il comma 4 statuisce che, «nei casi di cui  al  comma  3,
l'ente  affidante  deve  dare  adeguata  pubblicita'   alla   scelta,
motivandola in base  ad  un'analisi  del  mercato  e  contestualmente
trasmettere  una  relazione  contenente  gli  esiti  della   predetta
verifica all'Autorita' garante della concorrenza e  del  mercato  per
l'espressione di un parere  preventivo,  da  rendere  entro  sessanta
giorni dalla ricezione della predetta relazione»; decorso il termine,
«il parere, se non reso, si intende espresso in senso favorevole». 
    Dunque, tali norme escludono il  diritto  dell'ente  pubblico  di
gestire direttamente il servizio idrico (in proprio o tramite azienda
speciale)  e  pongono  pesanti  limiti  sostanziali   (comma   3)   e
procedurali  (comma  4)  al  diritto  di  erogarlo  tramite  societa'
pubblica in house. 
    E' chiara la  drastica  compressione  dell'autonomia  legislativa
regionale in materia di servizi  pubblici  locali  ed  organizzazione
degli enti locali (art. 117, comma 4, Cost.), dato che  le  possibili
scelte della Regione sulla forma di  gestione  del  servizio  vengono
limitate a due possibilita', mentre la gestione diretta viene esclusa
e quella tramite societa' in house limitata a casi eccezionali. 
    Ne' le norme impugnate  possono  essere  giustificate  in  virtu'
della competenza statale di cui all'art. 117,  comma  2,  lettera  e)
della Costituzione («tutela della concorrenza»).  Sia  consentito,  a
questo proposito, riprodurre alcuni passi del ricorso proposto contro
l'art. 23-bis d.l. n. 112/2008: 
    «L'art. 23-bis e' dedicato alla disciplina dei  Servizi  pubblici
locali di rilevanza  economica.  Conviene  ricordare  che  i  servizi
pubblici, in quanto tali, non ricadono in alcuna potesta' legislativa
statale, ma che lo Stato  puo'  intervenire  in  essa,  come  codesta
ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito con la sentenza n.  272  del
2004, a titolo di tutela della concorrenza, ai sensi  dell'art.  117,
comma secondo, lettera e) della Costituzione, e che pertanto non sono
censurabili tutte quelle norme «che garantiscono, in forme adeguate e
proporzionate, la piu' ampia liberta' di concorrenza  nell'ambito  di
rapporti -  come  quelli  relativi  al  regime  delle  gare  o  delle
modalita' di gestione e conferimento dei servizi -  i  quali  per  la
loro diretta incidenza sul mercato appaiono piu' meritevoli di essere
preservati da pratiche anticoncorrenziali» (punto 3 in diritto). 
    La presente  impugnazione  non  intende  mettere  in  discussione
questo principio. 
    Tuttavia,  le  impugnate  disposizioni  dell'art.  23-bis,  commi
secondo e terzo, riguardano non la tutela della concorrenza, ma  piu'
precisamente  il  diritto  dell'ente  territoriale  responsabile   di
erogare in proprio  il  servizio  pubblico  a  favore  della  propria
comunita'. 
    Occorre ricordare che tale diritto non solo non e' precluso dalle
regole di tutela della concorrenza, ma e' espressamente  riconosciuto
dalla  giurisprudenza  della  Corte  di  giustizia  delle   Comunita'
europee, espressa in modo chiaro  e  lineare  nella  decisione  Stadt
Halle (sentenza dell'11 gennaio 2005, in causa C-26/03). 
    Al punto 48  di  tale  decisione  e'  chiaramente  stabilito  che
«un'autorita' pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ha
la possibilita' di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa
incombenti mediante propri strumenti, amministrativi,  tecnici  e  di
altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad  entita'  esterne
non appartenenti ai propri servizi», e che, «in tal caso, non si puo'
parlare  di  contratto  a  titolo  oneroso  concluso  con  un'entita'
giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice»,  e  che
«non  sussistono  dunque  i  presupposti  per  applicare   le   norme
comunitarie in materia di appalti pubblici». 
    Ha inoltre precisato, al punto 49,  che,  «in  conformita'  della
giurisprudenza della Corte, non e' escluso che possano esistere altre
circostanze  nelle  quali   l'appello   alla   concorrenza   non   e'
obbligatorio ancorche' la  controparte  contrattuale  sia  un'entita'
giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice»,  e  che
«cio' si verifica nel caso  in  cui  l'autorita'  pubblica,  che  sia
un'amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull'entita' distinta  in
questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui  propri
servizi e tale  entita'  realizzi  la  parte  piu'  importante  della
propria attivita' con l'autorita' o le  autorita'  pubbliche  che  la
controllano». 
    Tale giurisprudenza della Corte di giustizia  e'  sempre  rimasta
ferma e costante, dalla Teckal, (18 novembre 1999, in causa C-107/98)
alla   recente   sentenza   Associazione   Nazionale    Autotrasporto
Viaggiatori (6 aprile 2006, in causa C410/04). 
    Ora, questo diritto  delle  amministrazioni,  che  non  mette  in
discussione la tutela della concorrenza ed e' pienamente riconosciuto
dalla Corte di giustizia, e'  invece  negato  dai  commi  2,  3  e  4
dell'art. 23-bis qui impugnato. 
    Il comma 2, infatti, prevede che «il conferimento della  gestione
dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria,  a  favore  di
imprenditori o di societa' in qualunque forma costituite  individuati
mediante procedure competitive ad evidenza pubblica», mentre il comma
3 dispone che ogni  diverso  modo  di  «affidamento»  (ma  con  cio',
presumibilmente, anche ogni diverso modo di  gestione)  possa  essere
scelto «in deroga alle modalita' di affidamento ordinario di  cui  al
comma 2, per situazioni che, a  causa  di  peculiari  caratteristiche
economiche,  sociali,  ambientali  e  geomorfologiche  del   contesto
territoriale di riferimento,  non  permettono  un  efficace  e  utile
ricorso al mercato»,  nel  rispetto  dei  principi  della  disciplina
comunitaria. 
    Ed il comma 4 aggiunge che, «nei casi di cui al comma  3,  l'ente
affidante deve dare adeguata pubblicita' alla scelta, motivandola  in
base ad un'analisi del  mercato  e  contestualmente  trasmettere  una
relazione contenente gli esiti della predetta verifica  all'Autorita'
garante  della  concorrenza  e  del  mercato  e  alle  autorita'   di
regolazione del settore, ove  costituite,  per  l'espressione  di  un
parere sui profili di competenza da  rendere  entro  sessanta  giorni
dalla ricezione della predetta relazione». 
    Ad avviso della Regione Liguria, tale limitazione della capacita'
delle amministrazioni regionali e locali  di  gestire  in  proprio  i
servizi pubblici  risulta  costituzionalmente  illegittima  e  lesiva
della potesta' legislativa regionale nella materia. 
    In effetti, un problema di tutela della concorrenza puo' iniziare
solo dopo che e' stata presa la  decisione  di  gestire  il  servizio
attraverso  il  mercato,  anziche'  in  proprio.  Al  contrario,   la
decisione  di  mantenere  il  servizio  nell'ambito   della   propria
organizzazione diretta, o della propria organizzazione in house,  non
restringe e non altera in alcun modo la concorrenza. 
    Nel  quadro  della   gestione   in   proprio,   invece,   abbiamo
semplicemente lo svolgimento dell'attivita' amministrativa  da  parte
dell'ente responsabile davanti alla propria comunita'. 
    Naturalmente, le regole di concorrenza  riprenderanno  pienamente
il loro vigore ogni  volta  che  l'amministrazione  responsabile  del
servizio si debba rivolgere al  mercato  per  l'acquisto  di  beni  o
servizi: ma essa non puo' invece  essere  costretta  ad  affidare  il
servizio in quanto tale ad entita' esterne, con le quali essa non  ha
un  rapporto  di  pieno  controllo  ma  esclusivamente   un   vincolo
contrattuale. 
    Le disposizioni dei commi 2, 3 e 4 risultano  dunque  illegittime
in quanto, in violazione dell'art. 117, comma 4, limitano la potesta'
legislativa regionale di  disciplinare  il  normale  svolgimento  del
servizio pubblico da parte  dell'ente,  sottoponendo  tale  scelta  a
vincoli sia sostanziali (le  «peculiari  caratteristiche  economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del  contesto  territoriale  di
riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso  al  mercato)
che procedurali (l'onere di «trasmettere una relazione contenente gli
esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza
e del mercato e  alle  autorita'  di  regolazione  del  settore,  ove
costituite,  per  l'espressione  di  un   parere   sui   profili   di
competenza)». 
    Si noti che sin dalla sentenza n.  14  del  2004  codesta  ecc.ma
Corte ha affermato che dal punto di vista  del  diritto  interno,  la
nozione di concorrenza non puo' non  riflettere  quella  operante  in
ambito comunitario» (punto 4 in diritto). 
    Cosi' dunque come l'ordinamento comunitario - che pure  ha  nella
tutela della concorrenza un valore essenziale - rispetta tuttavia  il
diritto delle amministrazioni di  erogare  da  se'  il  servizio,  lo
stesso principio non puo' non  valere  in  diritto  interno,  ove  la
tutela della concorrenza costituisce semplicemente il limite  esterno
della competenza regionale e locale in relazione ai servizi  pubblici
ad essi spettanti. 
    «Ad  integrazione  di  tali  considerazioni  sia  consentito   di
rinviare anche a quelle svolte nel punto 3 del presente ricorso,  ove
e'  argomentata  la  distinzione  tra  tutela  della  concorrenza   e
privatizzazione delle risorse pubbliche. 
    Per  quanto  riguarda  altri   titoli   di   competenza   statale
eventualmente  immaginabili  (l'art.  23-bis,   comma   1,   richiama
espressamente l'art. 117, comma 2, lettera m), si puo' ricordare  che
la sent. n. 272/2004 ha avuto pure ad  oggetto  norme  relative  alle
forme di gestione dei servizi pubblici e codesta Corte  ha  osservato
che «la disciplina in esame non appare riferibile... alla  competenza
legislativa statale in tema di «determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art.  117,
secondo comma, lettera m),  della  Costituzione),  giacche'  riguarda
precipuamente servizi di rilevanza economica e comunque  non  attiene
alla determinazione di livelli essenziali» (punto 3 del Diritto). 
    In effetti, non si vede in quale  modo  il  divieto  di  gestione
diretta del servizio e la forte limitazione della gestione  in  house
potrebbero favorire il perseguimento dello  scopo  «di  garantire  il
diritto di tutti gli utenti alla universalita' ed accessibilita'  dei
servizi pubblici locali ed al livello essenziale  delle  prestazioni,
ai sensi dell'art.  117,  secondo  comma,  lettere  e)  e  m),  della
Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti»
(art.  23-bis,  comma  1):  anzi,  sembra  logico  pensare  che  tali
obiettivi possano essere meglio raggiunti con le  forme  di  gestione
appena citate. 
    Per quanto riguarda l'art. 117,  comma  2,  lettera  p),  la  non
invocabilita' di esso in relazione alle modalita' di affidamento  dei
servizi locali e' gia' stata sancita da codesta Corte nelle sentt. n.
272/2004 e n. 307/2009, punto 6.1. 
    Nella sent.  n.  307/2009  si  legge  anche  che  «le  competenze
comunali   in   ordine   al   servizio   idrico   sia   per   ragioni
storico-normative sia per l'evidente  essenzialita'  di  questo  alla
vita associata  delle  comunita'  stabilite  nei  territori  comunali
devono essere considerate  quali  funzioni  fondamentali  degli  enti
locali». 
    Ora, se il servizio idrico e' una funzione fondamentale dell'ente
locale, lo Stato non puo' vietare all'ente di svolgerlo direttamente,
costringendolo ad affidarlo a terzi! L'art. 117, comma 2, lettera  p)
non puo' legittimare lo Stato a negare la possibilita' per l'ente  di
esercitare la funzione. Puo' essere utile  ricordare  che  l'art.  2,
comma 4, l. n. 131/2003 delega il Governo a «individuare le  funzioni
fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Citta'  metropolitane
in modo da prevedere, anche al fine della  tenuta  e  della  coesione
dell'ordinamento della Repubblica, per  ciascun  livello  di  governo
locale, la titolarita' di funzioni connaturate  alle  caratteristiche
proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per  il
funzionamento dell'ente e per il soddisfacimento di  bisogni  primari
delle comunita' di riferimento». 
    Dunque,  delle  funzioni  fondamentali  i  comuni  devono  essere
titolari e che significato ha la titolarita' se e' preclusa a  priori
la possibilita' di svolgimento della funzione? 
    In definitiva, il  nuovo  art.  23-bis,  commi  2  e  3,  risulta
illegittimo per violazione dell'autonomia  legislativa  regionale  in
materia di servizi  pubblici  locali  ed  organizzazione  degli  enti
locali (art. 117, comma 4,  Cost.),  in  quanto  impone  come  regime
ordinario il conferimento della gestione del servizio idrico a favore
di terzi o a favore di societa' miste, vieta la gestione  diretta  da
parte dell'ente locale (in proprio  o  tramite  azienda  speciale)  e
limita fortemente la gestione in house. 
    Non si comprende come «servizi di interesse generale»  (cosi'  lo
stesso art. 23-bis, comma 1) non possano essere gestiti  direttamente
dall'ente pubblico deputato a soddisfare gli interessi generali della
propria comunita' (art. 3, comma 2, d.lgs. 267/2000:  «Il  comune  e'
l'ente locale che rappresenta  la  propria  comunita',  ne  cura  gli
interessi e ne promuove lo sviluppo»). Sotto tale aspetto,  il  nuovo
art. 23-bis, commi 2 e 3, viola anche l'art. 118, commi 1 e 2, Cost.,
perche' - vietando lo  svolgimento  diretto  del  servizio  idrico  -
vanifica  la  norma  che  assegna,   preferibilmente,   le   funzioni
amministrative ai comuni (il servizio idrico virtualmente  rimane  di
spettanza  dei  comuni  ma  in  concreto  viene  assegnato  ad  altri
soggetti; inoltre, la norma impugnata  toglie  ai  comuni  una  parte
essenziale della funzione, cioe'  la  possibilita'  di  scegliere  la
forma di gestione piu' adeguata). 
    Il legislatore statale, male intendendo - ad avviso della Regione
- la propria funzione di tutela della concorrenza, ha dunque svuotato
il principio di sussidiarieta' di cui all'art. 118, comma 1, Cost., e
ha  violato  anche  il  comma  2  dell'art.  118  Cost.,  perche'  ha
vanificato la norma in base alla quale i  comuni  «sono  titolari  di
funzioni amministrative proprie» (il  servizio  idrico,  essendo  una
funzione fondamentale, rientra  tra  le  funzioni  «proprie»  di  cui
all'art. 118, comma 2). 
    Ancora, i nuovi commi 2 e 3 dell'art. 23-bis violano l'art.  117,
comma  1,  Cost.,  in  quanto  contrastano  con  la   Carta   europea
dell'autonomia locale  di  cui  alla  1.  n.  439/1989,  Ratifica  ed
esecuzione della convenzione  europea  relativa  alla  Carta  europea
dell'autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985. 
    E' ormai pacifico, dopo le sentt. n. 348 e n.  349  del  2007  di
codesta Corte, che il senso di tali disposizioni consiste nel rendere
i  trattati  internazionali  legittimamente   stipulati   dall'Italia
vincolanti per il legislatore ordinario. 
    Se e' cosi', pare chiara la contraddizione delle norme  impugnate
con le disposizioni della  Carta.  Si  considerino,  in  particolare:
l'art. 3, comma 1, secondo cui «per autonomia  locale,  s'intende  il
diritto e la capacita' effettiva, per  le  collettivita'  locali,  di
regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge, sotto la  loro
responsabilita', e a favore delle popolazioni, una  parte  importante
di  affari  pubblici»);  l'art.  4,  comma   2,   secondo   cui   «le
collettivita' locali hanno, nell'ambito della legge, ogni piu'  ampia
facolta' di prendere iniziative proprie per qualsiasi  questione  che
non  esuli  dalla  loro  competenza  o  sia  assegnata  ad   un'altra
autorita'»); l'art. 4, comma 4, secondo cui «le  competenze  affidate
alle  collettivita'  locali  devono  di  regola  essere  complete  ed
integrali» (enfasi aggiunta). 
    Una volta che si riconosca, come codesta  stessa  Corte  ha  gia'
affermato, che per le tradizioni storiche e per  l'essenzialita'  del
servizio per la vita sociale e collettiva, la gestione  del  servizio
idrico e'  parte  delle  funzioni  fondamentali  dei  Comuni,  sembra
evidente che solo ad essi spetta la decisione sul  migliore  modo  di
organizzarlo. La loro autonomia potra' essere limitata  sul  versante
del dimensionamento del servizio  per  assicurare  una  distribuzione
efficiente, e dunque  sulla  eventuale  necessita'  di  una  gestione
associativa della risorsa idrica, ma non si vede come possa risultare
legittimo privarli o comunque configurare come eccezionale e soggetta
a specifici aggravi procedimentali la scelta di assumere essi  stessi
- conformemente del resto a consolidate tradizioni ed esperienze - la
responsabilita' della gestione diretta del servizio. 
    Ne' varrebbe replicare che le norme impugnate non incidono  sulla
spettanza delle funzioni ma solo sulle forme di gestione:  quando  la
disciplina delle forme di gestione arriva  ad  impedire  la  gestione
diretta del servizio idrico, non si puo'  negare  un'incidenza  sulla
spettanza concreta della funzione;  inoltre,  come  detto,  la  norma
impugnata toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioe'
la possibilita' di scegliere la forma di  gestione  piu'  adeguata  a
soddisfare le esigenze della comunita' rappresentata. 
    Infine, e' da precisare che  la  Regione  e'  legittimata  a  far
valere la violazione dell'art. 118, commi 1 e 2, Cost. e della  Carta
europea  dell'autonomia  locale:  sia  perche'   la   lesione   delle
competenze comunali e' strettamente connessa  alla  violazione  della
competenza legislativa regionale in materia di servizi pubblici e  di
organizzazione degli enti locali (come  visto  sopra),  sia  perche',
comunque (sia consentito qui citare testualmente le parole di codesta
ecc.ma  Corte  costituzionale),  «le  Regioni  sono   legittimate   a
denunciare la legge statale anche per la lesione  delle  attribuzioni
degli  enti  locali,  indipendentemente  dalla  prospettazione  della
violazione  della  competenza  legislativa   regionale»   (sent.   n.
298/2009, punto 7.2; v. anche le sentt.  n.  169/2007,  punto  3;  n.
95/2007, n. 417/2005, n. 196/2004 e n. 533/2002). 
    In subordine, qualora fosse ritenuta legittima  l'imposizione  di
un regime «ordinario» di affidamento del servizio  all'esterno  e  la
limitazione  a  casi   eccezionali   di   forme   di   gestione   non
concorrenziali,  sarebbe  comunque  incostituzionale  il  nuovo  art.
23-bis, comma 2, lettera b), nella parte in cui regola  in  dettaglio
l'affidamento  del  servizio  alla  societa'  mista,  imponendo   una
partecipazione minima del 40% del socio privato e «l'attribuzione [al
socio] di specifici compiti  operativi  connessi  alla  gestione  del
servizio». 
    In  tal  modo  il  legislatore  ha   violato   il   criterio   di
proporzionalita'  che  deve  guidare  l'adozione  di  norme  volte  a
tutelare la concorrenza (v. la sent. n. 272/2004), invadendo il campo
riservato alla potesta' legislativa regionale in materia  di  servizi
pubblici. 
    Le norme in questione, infatti, pongono  ulteriori  vincoli  alla
potesta' legislativa regionale, senza che essi  risultino  funzionali
ad una maggiore promozione della concorrenza, della quale  potrebbero
persino risultare piuttosto  limitative.  Infatti,  sono  gli  stessi
privati  che  potrebbero  non  avere  interesse  ad  acquistare,   un
pacchetto di azioni significativo (almeno il 40%)  e  presumibilmente
di notevole impegno economico (e che tuttavia non garantisce  affatto
il controllo sulla societa'), per avere in cambio - in ipotesi - solo
singoli e specifici compiti operativi  e  non  l'intera  gestione  (a
volte, unica condizione per poter rientrare degli investimenti  fatti
per «comprare» la qualifica di socio). 
    E per  altro  verso,  in  senso  contrario,  in  alcuni  casi  la
situazione  gestionale  concretamente  esistente   potrebbe   rendere
preferibile in termini di efficienza una  privatizzazione  attraverso
la selezione di un socio privato  mero  finanziatore,  al  quale  non
affidare  alcun  compito  operativo,  ma  da  coinvolgere  solo   nel
finanziamento della attivita'. 
    La ritenuta illegittimita'  dell'imposizione  dell'affidamento  a
privati come forma gestionale  ordinaria,  e  della  previsione  come
eccezionale della gestione mediante  la  propria  organizzazione  (in
house), comporta logicamente l'illegittimita' dell'art. 23-bis, comma
4, in quanto esso richiede uno speciale parere per  l'adozione  della
gestione diretta del servizio mediante la propria organizzazione o in
house. 
    E' evidente,  infatti,  che  tale  parere  si  puo'  giustificare
soltanto come forma di garanzia della «eccezionalita'» della gestione
in house e della fondatezza delle specifiche ragioni della scelta, ma
che esso non ha piu'  senso  ne'  ragionevolezza  una  volta  che  si
riconosca il diritto dell'amministrazione di gestire  in  proprio  il
servizio. 
    Giova infine precisare che la gestione in  proprio  del  servizio
non  sottrae  quote  sostanziali  di  mercato  alla  concorrenza:  e'
evidente, infatti, che le regole della gara  pubblica  torneranno  ad
applicarsi  per   i   beni,   le   forniture   ed   i   servizi   che
l'amministrazione dovra' procurarsi per l'erogazione del servizio. 
    Anche da questo  punto  di  vista,  dunque,  l'imposizione  della
privatizzazione della gestione non  puo'  giustificarsi  come  tutela
della concorrenza. 
2. - In subordine: illegittimita' costituzionale dell'art. 15,  comma
1, lettera b), nella parte in cui regola le forme di affidamento  non
competitive. 
    In subordine, qualora fosse ritenuta legittima  l'imposizione  di
un regime «ordinario» di affidamento del servizio  all'esterno  e  la
limitazione  a  casi   eccezionali   di   forme   di   gestione   non
concorrenziali, sarebbe comunque incostituzionale il  nuovo  comma  3
dell'art. 23-bis, che, invece di  rinviare  alle  forme  di  gestione
diretta previste dalla legislazione regionale o, in mancanza,  scelte
dagli enti locali, regola direttamente anche tale caso, imponendo  la
gestione in house ed escludendo  la  gestione  in  proprio  da  parte
dell'ente locale o la gestione tramite azienda speciale. 
    Sotto tale profilo,  l'art.  15  d.l.  n.  135/2009  peggiora  la
disposizione rispetto a quanto risultava dall'originario art.  23-bis
d.l. n. 112/2008: infatti, l'originario comma 3  stabiliva  che,  «in
deroga alle modalita' di affidamento ordinario di cui al comma 2, per
situazioni che, a  causa  di  peculiari  caratteristiche  economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del  contesto  territoriale  di
riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso  al  mercato,
l'affidamento  puo'  avvenire  nel  rispetto   dei   principi   della
disciplina comunitaria» (che, come visto,  ammette  sia  la  gestione
diretta da parte dell'ente locale, sia la  gestione  tramite  azienda
speciale, sia la gestione tramite societa' in house). 
    Invece, l'art. 15 d.l. n. 135/2009 - oltre ad imporre  una  forma
di  gestione  «ordinaria»  -  impone  anche  la  forma  di   gestione
alternativa, per i casi in cui non ci puo' essere un  «utile  ricorso
al mercato». Ma appare evidente che, nel momento in cui non si attiva
la procedura competitiva, e' escluso che lo Stato possa  invocare  la
propria competenza in materia di «tutela  della  concorrenza»:  anche
ammesso, in denegata ipotesi, che il nuovo comma 2  dell'art.  23-bis
sia giustificato dall'art. 117, comma 2, lettera e),  di  certo  tale
norma non potrebbe legittimare la disciplina statale delle  forme  di
gestione non competitive, che ricadono indubbiamente nella competenza
regionale piena in materia di servizi pubblici  e  di  organizzazione
degli enti locali. 
    Di  qui  l'illegittimita'   costituzionale   della   disposizione
censurata. 
3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera d). 
    Il nuovo comma 8 dell'art. 23-bis regola il  «regime  transitorio
degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3». 
    Nella lettera a) si dispone che «le gestioni in essere alla  data
del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi  comunitari  in
materia di cosiddetta «in house'» cessano, improrogabilmente e  senza
necessita' di deliberazione da parte dell'ente affidante,  alla  data
del 31 dicembre 2011»;  «esse  cessano  alla  scadenza  prevista  dal
contratto di servizio a condizione che entro il 31 dicembre  2011  le
amministrazioni cedano almeno il 40 per cento del capitale attraverso
le modalita' di cui alla lettera b) del comma 2». 
    Le lettera b) e c) regolano il regime transitorio delle  gestioni
affidate direttamente a societa' miste. 
    La lettera d) stabilisce che «gli affidamenti  diretti  assentiti
alla data del 1° ottobre 2003 a societa'  a  partecipazione  pubblica
gia' quotate in borsa a tale data e a quelle da esse  controllate  ai
sensi  dell'art.  2359  del  codice  civile,  cessano  alla  scadenza
prevista  nel  contratto   di   servizio,   a   condizione   che   la
partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente,  attraverso
procedure ad evidenza pubblica ovvero forme di  collocamento  privato
presso investitori qualificati e operatori industriali, ad una  quota
non superiore al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e non superiore
al 30 per cento entro il 31 dicembre 2015;  ove  siffatte  condizioni
non si verifichino, gli affidamenti cessano improrogabilmente e senza
necessita'   di   apposita   deliberazione    dell'ente    affidante,
rispettivamente, alla data del 30  giugno  2013  o  del  31  dicembre
2015». 
    Dunque, tali norme impongono o  la  cessazione  anticipata  della
gestione  in  house  o  la  dismissione  di  quote  rilevanti   delle
partecipazioni pubbliche. 
    Esse sono illegittime in primo luogo  -  naturalmente  -  per  le
medesime ragioni gia' esposte nel punto 1, in  quanto,  impedendo  la
gestione del servizio da parte degli  enti  locali  tramite  societa'
pubblica, coartano il diritto degli enti locali di erogare in proprio
il servizio e ledono la potesta' legislativa regionale nella  materia
in questione: sia consentito, dunque, rinviare al motivo n. 1. 
    Ad  avviso  della  Regione,  anche  tali  norme  non  si  possono
giustificare a titolo di «tutela della concorrenza». 
    In realta' l'art. 23-bis, come modificato dalla norma  impugnata,
imponendo agli  enti  territoriali  di  cedere  quote  societarie  ai
privati, confonde la tutela della concorrenza con la  privatizzazione
delle risorse pubbliche. 
    La tutela della concorrenza e' un principio comunitario e  oramai
costituzionale  che   riguarda   l'organizzazione   dei   mercati   e
presuppone, percio', che un mercato esista e che l'apparato  pubblico
debba assicurare le regole  di  competitivita'  tra  le  imprese.  In
questi termini vale,  al  riguardo,  la  competenza  esclusiva  dello
Stato, oltre che l'incombente e prevalente normativa comunitaria. 
    La privatizzazione delle risorse pubbliche, invece, ha  come  sua
ragione giustificativa la miglior utilizzazione di  tali  risorse  e,
quindi, si impone per ragioni del tutto estranee  alla  tutela  della
concorrenza: la quale invece, dovra' essere assunta come  metodo  per
pervenire alla privatizzazione (una volta che la  si  sia  per  altra
ragione  decisa),  affinche'   questa   non   favorisca   determinati
operatori, a scapito di altri. 
    La privatizzazione non ricade in specifiche competenze ne'  della
Comunita' europea, ne' dello Stato:  ne',  d'altronde,  e'  una  vera
materia, trattandosi invece di una modalita' di gestione di un  bene,
servizio o attivita'. 
    Inoltre, trattandosi di un trasferimento ai  privati  di  risorse
costituite a  spese  della  collettivita',  e'  un  processo  che  va
attentamente  valutato  in  termini  di  benefici  di  ritorno   alla
collettivita' stessa. Essa, dunque, si giustifica soltanto  la'  dove
l'ingresso del privato sia una garanzia di maggiore efficienza  della
gestione del bene privatizzato. 
    Se cio' e' vero, lo Stato non puo' imporre la privatizzazione con
la propria legge, per ragioni attinenti  ad  un'astratta  valutazione
dell'efficienza del servizio, a meno che non si tratti di tutelare  i
livelli essenziali delle  prestazioni  (come  non  accade  certo  nel
presente caso: v. supra). L'efficienza, infatti, deve essere valutata
in  concreto  dagli  enti  esponenziali   della   collettivita'   che
gestiscono il servizio, mentre disciplinarne le forme di esercizio in
via generale ed astratta non puo' che contravvenire al  principio  di
sussidiarieta', oltre  che  al  riparto  delle  materie  che  a  quel
principio si ispira. 
    Lo  Stato,  dunque,  puo'  legiferare:  a)  per   assicurare   la
concorrenza la' dove l'ente competente decida di aprire  il  servizio
ai privati; b) per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni;
c) ponendo norme di principio sul coordinamento finanziario, la' dove
si tratti di limitare il  costo  dei  servizi  rispetto  al  bilancio
pubblico. 
    Per il resto, le modalita' di  erogazione  dei  servizi  pubblici
locali devono rientrare nella competenza e  responsabilita'  politica
delle comunita' territoriali, alle  quali  compete  la  scelta  anche
delle modalita' di erogazione e dei modelli di gestione. 
    Le norme impugnate sovrappongono e dunque confondono i due piani,
che vanno, invece, mantenuti nettamente distinti.  La  confusione,  a
sua volta,  nasce  da  un  presupposto  concettuale  che  si  ritiene
profondamente errato: che i principi della tutela  della  concorrenza
comportino la necessaria  privatizzazione  delle  risorse  pubbliche,
allo scopo di favorire l'insorgere di mercati  concorrenziali,  anche
la' dove essi attualmente non ci siano. 
    Questo, a ben vedere, non significa tutelare la  concorrenza,  ma
favorire la presenza di operatori privati, affidando loro le  risorse
pubbliche che sono patrimonio delle collettivita' territoriali. Cosi'
si contravviene a un ordine logico che, almeno per quanto riguarda  i
settori su cui non e' gia' presente un mercato concorrenziale (ad es.
servizio idrico),  dovrebbe  muovere  dall'obiettivo  fondamentale  e
irrinunciabile della qualita' dei servizi (il livello di  diffusione,
il  livello  delle  prestazioni,  il  livello   delle   tariffe,   la
trasparenza della gestione, la democraticita' dei controlli  e  degli
indirizzi, ecc.). 
    Sotto questo profilo, le norme sul superamento della gestione  in
house sono  palesemente  orientate  a  favorire  un  ingiustificabile
processo di «svendita» (trattandosi di vendita obbligatoria e  quindi
fuori  dalle  condizioni  di   mercato)   del   patrimonio   pubblico
capitalizzato nel valore delle societa' pubbliche che hanno avuto  in
affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle conseguenze che
questo processo  avrebbe  sulla  qualita'  dei  servizi.  Questo  non
corrisponde al principio comunitario di tutela della concorrenza,  ma
ad un «credo ideologico» circa la migliore  capacita'  delle  imprese
private di gestire non l'impresa in se', ma gli interessi pubblici. 
    Questa  opzione  e'  meramente  ideologica,  in  quanto  essa  e'
estranea  sia  alla  costituzione  comunitaria  -  nella   quale   e'
indiscusso il diritto delle amministrazioni di gestire direttamente i
propri servizi pubblici, sia alla Costituzione italiana, nella  quale
- fermo il diritto di iniziativa economica privata  -  e'  pienamente
ammessa l'impresa pubblica, in particolare finalizzata alla  gestione
dei servizi pubblici: al punto  che  non  solo  la  Costituzione  non
contiene alcuna limitazione, ma addirittura prevede (art. 43) che per
ragioni di utilita' generale (cioe' di  interesse  pubblico)  possano
addirittura essere trasferiti alla gestione pubblica imprese gia'  in
regime di iniziativa privata. 
    E', peraltro, evidente l'interesse  della  Regione  ad  impugnare
tali disposizioni: su un piano generale ad  opporre  ad  una  visione
ideologica, priva  di  qualsiasi  riscontro  oggettivo,  una  diversa
interpretazione degli interessi della propria  comunita';  sul  piano
piu' direttamente  giuridico,  a  realizzare  la  propria  competenza
legislativa in materia di servizi pubblici, che e' lo  strumento  con
cui la Costituzione garantisce la sua autonomia politica, nonche'  la
propria vocazione a rappresentare gli interessi delle amministrazioni
locali della propria comunita' (su cio' v.  le  sentt.  n.  298/2009,
punto 7.2, n. 169/2007, punto 3; n.  95/2007,  417/2005,  196/2004  e
533/2002). 
    Dunque, anche il nuovo art. 23bis, comma 8, lettera a) e  lettera
d) viola l'art. 117, comma 1 (per  contrasto  con  la  Carta  europea
dell'autonomia locale), comma  2  (per  erronea  interpretazione  dei
confini dei poteri statali ivi previsti) e comma  4  (per  violazione
della potesta' legislativa regionale  piena  in  materia  di  servizi
locali e organizzazione degli enti locali), e l'art. 118, comma  1  e
2, Cost. (per violazione del  principio  di  sussidiarieta'  e  della
titolarita' comunale di funzioni proprie), per le ragioni esposte nel
punto 1. 
    Ancora, il nuovo art. 23-bis, comma 8, lettera a)  e  lettera  d)
lede l'autonomia finanziaria degli enti locali (art. 119 Cost.), dato
che impone ad essi di cedere rilevanti quote delle societa'  da  essi
controllate (e, come detto,  l'obbligatorieta'  della  vendita  rende
difficile  ottenere  le  condizioni  di  mercato).  La   Regione   e'
legittimata a far valere tale lesione  (si  vedano  le  decisioni  di
codesta ecc.ma Corte costituzionale richiamate poco sopra). 
    In subordine, esso e' illegittimo in quanto regola nel  dettaglio
le quantita', le modalita' ed  i  tempi  di  tali  cessioni,  per  le
ragioni gia' esposte al punto 1) del presente ricorso, la' dove si e'
contestato il comma 2, lettera b), per la  regolazione  in  dettaglio
dell'affidamento alla societa' mista  (e  il  comma  8,  lettera  a),
rinvia appunto al comma 2, lettera b). 
 
                               P.Q.M. 
 
    La Regione Liguria, come sopra  rappresentata  e  difesa;  chiede
voglia codesta ecc.ma Corte  costituzionale  accogliere  il  ricorso,
dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art.  15,  comma  1,
lettera b) e lettera d) del decreto-legge 25 settembre 2009, n.  135,
Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi  comunitari  e  per
l'esecuzione di sentenze della Corte  di  giustizia  delle  Comunita'
europee, convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 2009,
n. 166. 
        Padova-Roma, 21 gennaio 2010 
 
             Avv. Giandomenico Falcon - Avv. Luigi Manzi