N. 12 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 21 gennaio 2010
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 28 gennaio 2010 (della Regione Liguria). Enti locali - Servizi pubblici locali di rilevanza economica - Disciplina della scelta della forma di gestione del servizio e delle procedure di affidamento dello stesso, al dichiarato fine di adeguamento alle norme comunitarie - Previsione quali forme ordinarie di gestione, che non necessitano di motivazione, dell'affidamento in concessione a terzi e dell'affidamento a societa' mista (c.d. esternalizzazioni) - Possibilita' dell'affidamento «in house» ai soli casi espressi in via di eccezione - Previsione di puntuale e dettagliato regime transitorio con imposizione agli enti territoriali di cedere quote societarie ai privati - Lamentata insussistenza di normativa comunitaria limitativa del diritto di ogni amministrazione di erogare direttamente i servizi pubblici, preclusione dello svolgimento delle funzioni fondamentali degli enti locali, indebita privatizzazione delle risorse pubbliche erroneamente fondata sul principio della tutela della concorrenza - Ricorso della Regione Liguria - Denunciata violazione della competenza legislativa e amministrativa regionale nelle materie residuali dei servizi pubblici locali e dell'organizzazione degli enti locali, violazione dei principi di sussidiarieta' e proporzionalita', esorbitanza dalla competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza, contrasto con il diritto comunitario. - Decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 2009, n. 166, art. 15, comma 1, lett. b) e d), modificative, rispettivamente, dei commi 2, 3, 4 e 8 dell'art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133. - Costituzione, artt. 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 119; legge 30 dicembre 1989, n. 439; Carta europea dell'autonomia locale 15 ottobre 1985, artt. 3 e 4.(GU n.10 del 10-3-2010 )
Ricorso della Regione Liguria, in persona del vice-Presidente della Regione pro-tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale 30 dicembre 2009, n. 1909 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale n. rep. 14263 dell'il gennaio 2010, rogata dal dott. Margherita Poli, notaio in Genova (doc. 2), dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Luigi Manzi, in via Confalonieri, n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera b) e lettera d) del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita' europee, convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 2009, n. 166, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 274 del 24 novembre 2009 - Supplemento Ordinario n. 215, per violazione: dell'art. 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, della Costituzione; dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione; dell'art. 119 della Costituzione; nei modi e per i profili di seguito illustrati, F a t t o La Regione Liguria e' dotata di potesta' legislativa piena in materia di servizi pubblici locali (v., ad es., sent. Corte cost. 29/2006) e di organizzazione degli enti locali (salvi i profili di cui all'art. 117, co. 2, lettera p), ai sensi dell'art. 117, co. 4, Cost. L'ultima disciplina del servizio idrico e' stata dettata con 1.r. 39/2008, il cui art. 4 prevede che l'AATO affidi il servizio idrico nel rispetto dell'art. 113, co. 7, d.lgs. 267/2000 «e delle modalita' di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs. 152/2006» (co. 4). A sua volta, l'art. 150, co. 1, d.lgs. 152/2006 rinvia all'art. 113, co. 5, in base al quale «l'erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'Unione europea, con conferimento della titolarita' del servizio: a) a societa' di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica; b) a societa' a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorita' competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; c) a societa' a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla societa' un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la societa' realizzi la parte piu' importante della propria attivita' con l'ente o gli enti pubblici che la controllano». Dunque, la legge regionale rinvia ad una disciplina che ammette senza limitazioni la gestione in house. Il d.l. 135/2009, convertito nella l. 166/2009, e' intitolato Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita' europee, ma, mentre pressoche' tutti gli altri articoli del decreto citano con precisione le fonti comunitarie o le sentenze della Corte di giustizia di cui rappresentano attuazione (o le procedure di infrazione cui si vuole porre rimedio), l'art. 15 del decreto, pur essendo intitolato Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, non cita mai atti comunitari. Ed in effetti, esso non e' affatto imposto da esigenze di adeguamento alla normativa comunitaria ma e' frutto di una scelta meramente statale volta ad imporre la procedura competitiva di affidamento del servizio come procedura ordinaria e l'affidamento in house come procedura eccezionale. Tutt'al contrario, invece, il diritto comunitario - pur incentrato sulla tutela della concorrenza come metodo per garantire la pari opportunita' di accesso al mercato delle commesse pubbliche per tutti gli operatori europei - ammette pienamente il diritto di ogni amministrazione di erogare direttamente i servizi pubblici autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione. E' invece soltanto nel momento nel quale un'autorita' pubblica scelga di esternalizzare il servizio che il procedimento di affidamento deve rispettare i principi di non discriminazione, trasparenza, parita' di trattamento, libera circolazione di persone e imprese ed in particolare la disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici. Inoltre, in assenza di una specifica regolamentazione comunitaria di settore (direttiva e regolamento), la scelta della piu' idonea forma di gestione del servizio pubblico spetta agli Stati-membri nel rispetto del riparto interno delle competenze. L'art. 15 modifica l'art. 23-bis d.l. 112/2008, convertito nella 1. 133/2008, il quale e' stato a sua volta gia' impugnato da questa Regione con ricorso n. 72/2008, tuttora pendente. Anche l'art. 15 risulta lesivo delle competenze costituzionali della Regione nelle materie dei servizi pubblici e dell'organizzazione degli enti locali, in quanto conferma l'impianto dell'art. 23-bis, coartando il diritto dell'ente territoriale responsabile di erogare in proprio il servizio idrico a favore della propria comunita'. Di seguito si illustreranno con precisione le norme impugnate ed i motivi del ricorso. Qui resta solo da aggiungere che l'art. 15 d.l. 135/2009 e' impugnabile anche nelle parti in cui sia confermativo dell'art. 23-bis d.l. 112/2008, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale secondo la quale gli atti legislativi sono sempre impugnabili anche se apparentemente «confermativi», perche' dotati sempre, per propria natura intrinseca, del carattere della novita' (v., ad es., sentt. n. 30 e 44/1957, 47 e 63/1959, 3/1964, 19/1970, 171/1971, 49/1987, 1035/1988, 381/1990, 224/1994). Si puo' anche ricordare la recente sent. 328/2009, in base alla quale «l'esistenza di una preesistente normativa non costituirebbe motivo di preclusione alla impugnazione di altra sopravveniente disciplina che, novando il quadro normativo, andasse a regolare la medesima materia» (punto 3.3 del Diritto). D i r i t t o 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera b). Il comma 2 dell'art. 23-bis d.l. 112/2008, come sostituito dall'art. 15, comma 1, lettera b), d.l. n. 135/2009, prevede che «il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria», a favore di terzi «mediante procedure competitive ad evidenza pubblica», oppure a «societa' a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica,.. le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualita' di socio e l'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento». Il comma 3 dispone che, «in deroga alle modalita' di affidamento ordinario..., per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento puo' avvenire a favore di societa' a capitale interamente pubblico, partecipata dall'ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta «in house» e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla societa' e di prevalenza dell'attivita' svolta dalla stessa con l'ente o gli enti pubblici che la controllano». Infine, il comma 4 statuisce che, «nei casi di cui al comma 3, l'ente affidante deve dare adeguata pubblicita' alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato per l'espressione di un parere preventivo, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione»; decorso il termine, «il parere, se non reso, si intende espresso in senso favorevole». Dunque, tali norme escludono il diritto dell'ente pubblico di gestire direttamente il servizio idrico (in proprio o tramite azienda speciale) e pongono pesanti limiti sostanziali (comma 3) e procedurali (comma 4) al diritto di erogarlo tramite societa' pubblica in house. E' chiara la drastica compressione dell'autonomia legislativa regionale in materia di servizi pubblici locali ed organizzazione degli enti locali (art. 117, comma 4, Cost.), dato che le possibili scelte della Regione sulla forma di gestione del servizio vengono limitate a due possibilita', mentre la gestione diretta viene esclusa e quella tramite societa' in house limitata a casi eccezionali. Ne' le norme impugnate possono essere giustificate in virtu' della competenza statale di cui all'art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione («tutela della concorrenza»). Sia consentito, a questo proposito, riprodurre alcuni passi del ricorso proposto contro l'art. 23-bis d.l. n. 112/2008: «L'art. 23-bis e' dedicato alla disciplina dei Servizi pubblici locali di rilevanza economica. Conviene ricordare che i servizi pubblici, in quanto tali, non ricadono in alcuna potesta' legislativa statale, ma che lo Stato puo' intervenire in essa, come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito con la sentenza n. 272 del 2004, a titolo di tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettera e) della Costituzione, e che pertanto non sono censurabili tutte quelle norme «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la piu' ampia liberta' di concorrenza nell'ambito di rapporti - come quelli relativi al regime delle gare o delle modalita' di gestione e conferimento dei servizi - i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono piu' meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali» (punto 3 in diritto). La presente impugnazione non intende mettere in discussione questo principio. Tuttavia, le impugnate disposizioni dell'art. 23-bis, commi secondo e terzo, riguardano non la tutela della concorrenza, ma piu' precisamente il diritto dell'ente territoriale responsabile di erogare in proprio il servizio pubblico a favore della propria comunita'. Occorre ricordare che tale diritto non solo non e' precluso dalle regole di tutela della concorrenza, ma e' espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunita' europee, espressa in modo chiaro e lineare nella decisione Stadt Halle (sentenza dell'11 gennaio 2005, in causa C-26/03). Al punto 48 di tale decisione e' chiaramente stabilito che «un'autorita' pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilita' di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entita' esterne non appartenenti ai propri servizi», e che, «in tal caso, non si puo' parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un'entita' giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice», e che «non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici». Ha inoltre precisato, al punto 49, che, «in conformita' della giurisprudenza della Corte, non e' escluso che possano esistere altre circostanze nelle quali l'appello alla concorrenza non e' obbligatorio ancorche' la controparte contrattuale sia un'entita' giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice», e che «cio' si verifica nel caso in cui l'autorita' pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull'entita' distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entita' realizzi la parte piu' importante della propria attivita' con l'autorita' o le autorita' pubbliche che la controllano». Tale giurisprudenza della Corte di giustizia e' sempre rimasta ferma e costante, dalla Teckal, (18 novembre 1999, in causa C-107/98) alla recente sentenza Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (6 aprile 2006, in causa C410/04). Ora, questo diritto delle amministrazioni, che non mette in discussione la tutela della concorrenza ed e' pienamente riconosciuto dalla Corte di giustizia, e' invece negato dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 23-bis qui impugnato. Il comma 2, infatti, prevede che «il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di societa' in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica», mentre il comma 3 dispone che ogni diverso modo di «affidamento» (ma con cio', presumibilmente, anche ogni diverso modo di gestione) possa essere scelto «in deroga alle modalita' di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato», nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria. Ed il comma 4 aggiunge che, «nei casi di cui al comma 3, l'ente affidante deve dare adeguata pubblicita' alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato e alle autorita' di regolazione del settore, ove costituite, per l'espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione». Ad avviso della Regione Liguria, tale limitazione della capacita' delle amministrazioni regionali e locali di gestire in proprio i servizi pubblici risulta costituzionalmente illegittima e lesiva della potesta' legislativa regionale nella materia. In effetti, un problema di tutela della concorrenza puo' iniziare solo dopo che e' stata presa la decisione di gestire il servizio attraverso il mercato, anziche' in proprio. Al contrario, la decisione di mantenere il servizio nell'ambito della propria organizzazione diretta, o della propria organizzazione in house, non restringe e non altera in alcun modo la concorrenza. Nel quadro della gestione in proprio, invece, abbiamo semplicemente lo svolgimento dell'attivita' amministrativa da parte dell'ente responsabile davanti alla propria comunita'. Naturalmente, le regole di concorrenza riprenderanno pienamente il loro vigore ogni volta che l'amministrazione responsabile del servizio si debba rivolgere al mercato per l'acquisto di beni o servizi: ma essa non puo' invece essere costretta ad affidare il servizio in quanto tale ad entita' esterne, con le quali essa non ha un rapporto di pieno controllo ma esclusivamente un vincolo contrattuale. Le disposizioni dei commi 2, 3 e 4 risultano dunque illegittime in quanto, in violazione dell'art. 117, comma 4, limitano la potesta' legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell'ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (le «peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato) che procedurali (l'onere di «trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato e alle autorita' di regolazione del settore, ove costituite, per l'espressione di un parere sui profili di competenza)». Si noti che sin dalla sentenza n. 14 del 2004 codesta ecc.ma Corte ha affermato che dal punto di vista del diritto interno, la nozione di concorrenza non puo' non riflettere quella operante in ambito comunitario» (punto 4 in diritto). Cosi' dunque come l'ordinamento comunitario - che pure ha nella tutela della concorrenza un valore essenziale - rispetta tuttavia il diritto delle amministrazioni di erogare da se' il servizio, lo stesso principio non puo' non valere in diritto interno, ove la tutela della concorrenza costituisce semplicemente il limite esterno della competenza regionale e locale in relazione ai servizi pubblici ad essi spettanti. «Ad integrazione di tali considerazioni sia consentito di rinviare anche a quelle svolte nel punto 3 del presente ricorso, ove e' argomentata la distinzione tra tutela della concorrenza e privatizzazione delle risorse pubbliche. Per quanto riguarda altri titoli di competenza statale eventualmente immaginabili (l'art. 23-bis, comma 1, richiama espressamente l'art. 117, comma 2, lettera m), si puo' ricordare che la sent. n. 272/2004 ha avuto pure ad oggetto norme relative alle forme di gestione dei servizi pubblici e codesta Corte ha osservato che «la disciplina in esame non appare riferibile... alla competenza legislativa statale in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione), giacche' riguarda precipuamente servizi di rilevanza economica e comunque non attiene alla determinazione di livelli essenziali» (punto 3 del Diritto). In effetti, non si vede in quale modo il divieto di gestione diretta del servizio e la forte limitazione della gestione in house potrebbero favorire il perseguimento dello scopo «di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalita' ed accessibilita' dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti» (art. 23-bis, comma 1): anzi, sembra logico pensare che tali obiettivi possano essere meglio raggiunti con le forme di gestione appena citate. Per quanto riguarda l'art. 117, comma 2, lettera p), la non invocabilita' di esso in relazione alle modalita' di affidamento dei servizi locali e' gia' stata sancita da codesta Corte nelle sentt. n. 272/2004 e n. 307/2009, punto 6.1. Nella sent. n. 307/2009 si legge anche che «le competenze comunali in ordine al servizio idrico sia per ragioni storico-normative sia per l'evidente essenzialita' di questo alla vita associata delle comunita' stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali». Ora, se il servizio idrico e' una funzione fondamentale dell'ente locale, lo Stato non puo' vietare all'ente di svolgerlo direttamente, costringendolo ad affidarlo a terzi! L'art. 117, comma 2, lettera p) non puo' legittimare lo Stato a negare la possibilita' per l'ente di esercitare la funzione. Puo' essere utile ricordare che l'art. 2, comma 4, l. n. 131/2003 delega il Governo a «individuare le funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Citta' metropolitane in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della coesione dell'ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo locale, la titolarita' di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell'ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunita' di riferimento». Dunque, delle funzioni fondamentali i comuni devono essere titolari e che significato ha la titolarita' se e' preclusa a priori la possibilita' di svolgimento della funzione? In definitiva, il nuovo art. 23-bis, commi 2 e 3, risulta illegittimo per violazione dell'autonomia legislativa regionale in materia di servizi pubblici locali ed organizzazione degli enti locali (art. 117, comma 4, Cost.), in quanto impone come regime ordinario il conferimento della gestione del servizio idrico a favore di terzi o a favore di societa' miste, vieta la gestione diretta da parte dell'ente locale (in proprio o tramite azienda speciale) e limita fortemente la gestione in house. Non si comprende come «servizi di interesse generale» (cosi' lo stesso art. 23-bis, comma 1) non possano essere gestiti direttamente dall'ente pubblico deputato a soddisfare gli interessi generali della propria comunita' (art. 3, comma 2, d.lgs. 267/2000: «Il comune e' l'ente locale che rappresenta la propria comunita', ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo»). Sotto tale aspetto, il nuovo art. 23-bis, commi 2 e 3, viola anche l'art. 118, commi 1 e 2, Cost., perche' - vietando lo svolgimento diretto del servizio idrico - vanifica la norma che assegna, preferibilmente, le funzioni amministrative ai comuni (il servizio idrico virtualmente rimane di spettanza dei comuni ma in concreto viene assegnato ad altri soggetti; inoltre, la norma impugnata toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioe' la possibilita' di scegliere la forma di gestione piu' adeguata). Il legislatore statale, male intendendo - ad avviso della Regione - la propria funzione di tutela della concorrenza, ha dunque svuotato il principio di sussidiarieta' di cui all'art. 118, comma 1, Cost., e ha violato anche il comma 2 dell'art. 118 Cost., perche' ha vanificato la norma in base alla quale i comuni «sono titolari di funzioni amministrative proprie» (il servizio idrico, essendo una funzione fondamentale, rientra tra le funzioni «proprie» di cui all'art. 118, comma 2). Ancora, i nuovi commi 2 e 3 dell'art. 23-bis violano l'art. 117, comma 1, Cost., in quanto contrastano con la Carta europea dell'autonomia locale di cui alla 1. n. 439/1989, Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell'autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985. E' ormai pacifico, dopo le sentt. n. 348 e n. 349 del 2007 di codesta Corte, che il senso di tali disposizioni consiste nel rendere i trattati internazionali legittimamente stipulati dall'Italia vincolanti per il legislatore ordinario. Se e' cosi', pare chiara la contraddizione delle norme impugnate con le disposizioni della Carta. Si considerino, in particolare: l'art. 3, comma 1, secondo cui «per autonomia locale, s'intende il diritto e la capacita' effettiva, per le collettivita' locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge, sotto la loro responsabilita', e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»); l'art. 4, comma 2, secondo cui «le collettivita' locali hanno, nell'ambito della legge, ogni piu' ampia facolta' di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un'altra autorita'»); l'art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettivita' locali devono di regola essere complete ed integrali» (enfasi aggiunta). Una volta che si riconosca, come codesta stessa Corte ha gia' affermato, che per le tradizioni storiche e per l'essenzialita' del servizio per la vita sociale e collettiva, la gestione del servizio idrico e' parte delle funzioni fondamentali dei Comuni, sembra evidente che solo ad essi spetta la decisione sul migliore modo di organizzarlo. La loro autonomia potra' essere limitata sul versante del dimensionamento del servizio per assicurare una distribuzione efficiente, e dunque sulla eventuale necessita' di una gestione associativa della risorsa idrica, ma non si vede come possa risultare legittimo privarli o comunque configurare come eccezionale e soggetta a specifici aggravi procedimentali la scelta di assumere essi stessi - conformemente del resto a consolidate tradizioni ed esperienze - la responsabilita' della gestione diretta del servizio. Ne' varrebbe replicare che le norme impugnate non incidono sulla spettanza delle funzioni ma solo sulle forme di gestione: quando la disciplina delle forme di gestione arriva ad impedire la gestione diretta del servizio idrico, non si puo' negare un'incidenza sulla spettanza concreta della funzione; inoltre, come detto, la norma impugnata toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioe' la possibilita' di scegliere la forma di gestione piu' adeguata a soddisfare le esigenze della comunita' rappresentata. Infine, e' da precisare che la Regione e' legittimata a far valere la violazione dell'art. 118, commi 1 e 2, Cost. e della Carta europea dell'autonomia locale: sia perche' la lesione delle competenze comunali e' strettamente connessa alla violazione della competenza legislativa regionale in materia di servizi pubblici e di organizzazione degli enti locali (come visto sopra), sia perche', comunque (sia consentito qui citare testualmente le parole di codesta ecc.ma Corte costituzionale), «le Regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale» (sent. n. 298/2009, punto 7.2; v. anche le sentt. n. 169/2007, punto 3; n. 95/2007, n. 417/2005, n. 196/2004 e n. 533/2002). In subordine, qualora fosse ritenuta legittima l'imposizione di un regime «ordinario» di affidamento del servizio all'esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali, sarebbe comunque incostituzionale il nuovo art. 23-bis, comma 2, lettera b), nella parte in cui regola in dettaglio l'affidamento del servizio alla societa' mista, imponendo una partecipazione minima del 40% del socio privato e «l'attribuzione [al socio] di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio». In tal modo il legislatore ha violato il criterio di proporzionalita' che deve guidare l'adozione di norme volte a tutelare la concorrenza (v. la sent. n. 272/2004), invadendo il campo riservato alla potesta' legislativa regionale in materia di servizi pubblici. Le norme in questione, infatti, pongono ulteriori vincoli alla potesta' legislativa regionale, senza che essi risultino funzionali ad una maggiore promozione della concorrenza, della quale potrebbero persino risultare piuttosto limitative. Infatti, sono gli stessi privati che potrebbero non avere interesse ad acquistare, un pacchetto di azioni significativo (almeno il 40%) e presumibilmente di notevole impegno economico (e che tuttavia non garantisce affatto il controllo sulla societa'), per avere in cambio - in ipotesi - solo singoli e specifici compiti operativi e non l'intera gestione (a volte, unica condizione per poter rientrare degli investimenti fatti per «comprare» la qualifica di socio). E per altro verso, in senso contrario, in alcuni casi la situazione gestionale concretamente esistente potrebbe rendere preferibile in termini di efficienza una privatizzazione attraverso la selezione di un socio privato mero finanziatore, al quale non affidare alcun compito operativo, ma da coinvolgere solo nel finanziamento della attivita'. La ritenuta illegittimita' dell'imposizione dell'affidamento a privati come forma gestionale ordinaria, e della previsione come eccezionale della gestione mediante la propria organizzazione (in house), comporta logicamente l'illegittimita' dell'art. 23-bis, comma 4, in quanto esso richiede uno speciale parere per l'adozione della gestione diretta del servizio mediante la propria organizzazione o in house. E' evidente, infatti, che tale parere si puo' giustificare soltanto come forma di garanzia della «eccezionalita'» della gestione in house e della fondatezza delle specifiche ragioni della scelta, ma che esso non ha piu' senso ne' ragionevolezza una volta che si riconosca il diritto dell'amministrazione di gestire in proprio il servizio. Giova infine precisare che la gestione in proprio del servizio non sottrae quote sostanziali di mercato alla concorrenza: e' evidente, infatti, che le regole della gara pubblica torneranno ad applicarsi per i beni, le forniture ed i servizi che l'amministrazione dovra' procurarsi per l'erogazione del servizio. Anche da questo punto di vista, dunque, l'imposizione della privatizzazione della gestione non puo' giustificarsi come tutela della concorrenza. 2. - In subordine: illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera b), nella parte in cui regola le forme di affidamento non competitive. In subordine, qualora fosse ritenuta legittima l'imposizione di un regime «ordinario» di affidamento del servizio all'esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali, sarebbe comunque incostituzionale il nuovo comma 3 dell'art. 23-bis, che, invece di rinviare alle forme di gestione diretta previste dalla legislazione regionale o, in mancanza, scelte dagli enti locali, regola direttamente anche tale caso, imponendo la gestione in house ed escludendo la gestione in proprio da parte dell'ente locale o la gestione tramite azienda speciale. Sotto tale profilo, l'art. 15 d.l. n. 135/2009 peggiora la disposizione rispetto a quanto risultava dall'originario art. 23-bis d.l. n. 112/2008: infatti, l'originario comma 3 stabiliva che, «in deroga alle modalita' di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento puo' avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria» (che, come visto, ammette sia la gestione diretta da parte dell'ente locale, sia la gestione tramite azienda speciale, sia la gestione tramite societa' in house). Invece, l'art. 15 d.l. n. 135/2009 - oltre ad imporre una forma di gestione «ordinaria» - impone anche la forma di gestione alternativa, per i casi in cui non ci puo' essere un «utile ricorso al mercato». Ma appare evidente che, nel momento in cui non si attiva la procedura competitiva, e' escluso che lo Stato possa invocare la propria competenza in materia di «tutela della concorrenza»: anche ammesso, in denegata ipotesi, che il nuovo comma 2 dell'art. 23-bis sia giustificato dall'art. 117, comma 2, lettera e), di certo tale norma non potrebbe legittimare la disciplina statale delle forme di gestione non competitive, che ricadono indubbiamente nella competenza regionale piena in materia di servizi pubblici e di organizzazione degli enti locali. Di qui l'illegittimita' costituzionale della disposizione censurata. 3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera d). Il nuovo comma 8 dell'art. 23-bis regola il «regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3». Nella lettera a) si dispone che «le gestioni in essere alla data del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi comunitari in materia di cosiddetta «in house'» cessano, improrogabilmente e senza necessita' di deliberazione da parte dell'ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011»; «esse cessano alla scadenza prevista dal contratto di servizio a condizione che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40 per cento del capitale attraverso le modalita' di cui alla lettera b) del comma 2». Le lettera b) e c) regolano il regime transitorio delle gestioni affidate direttamente a societa' miste. La lettera d) stabilisce che «gli affidamenti diretti assentiti alla data del 1° ottobre 2003 a societa' a partecipazione pubblica gia' quotate in borsa a tale data e a quelle da esse controllate ai sensi dell'art. 2359 del codice civile, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio, a condizione che la partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica ovvero forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali, ad una quota non superiore al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e non superiore al 30 per cento entro il 31 dicembre 2015; ove siffatte condizioni non si verifichino, gli affidamenti cessano improrogabilmente e senza necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante, rispettivamente, alla data del 30 giugno 2013 o del 31 dicembre 2015». Dunque, tali norme impongono o la cessazione anticipata della gestione in house o la dismissione di quote rilevanti delle partecipazioni pubbliche. Esse sono illegittime in primo luogo - naturalmente - per le medesime ragioni gia' esposte nel punto 1, in quanto, impedendo la gestione del servizio da parte degli enti locali tramite societa' pubblica, coartano il diritto degli enti locali di erogare in proprio il servizio e ledono la potesta' legislativa regionale nella materia in questione: sia consentito, dunque, rinviare al motivo n. 1. Ad avviso della Regione, anche tali norme non si possono giustificare a titolo di «tutela della concorrenza». In realta' l'art. 23-bis, come modificato dalla norma impugnata, imponendo agli enti territoriali di cedere quote societarie ai privati, confonde la tutela della concorrenza con la privatizzazione delle risorse pubbliche. La tutela della concorrenza e' un principio comunitario e oramai costituzionale che riguarda l'organizzazione dei mercati e presuppone, percio', che un mercato esista e che l'apparato pubblico debba assicurare le regole di competitivita' tra le imprese. In questi termini vale, al riguardo, la competenza esclusiva dello Stato, oltre che l'incombente e prevalente normativa comunitaria. La privatizzazione delle risorse pubbliche, invece, ha come sua ragione giustificativa la miglior utilizzazione di tali risorse e, quindi, si impone per ragioni del tutto estranee alla tutela della concorrenza: la quale invece, dovra' essere assunta come metodo per pervenire alla privatizzazione (una volta che la si sia per altra ragione decisa), affinche' questa non favorisca determinati operatori, a scapito di altri. La privatizzazione non ricade in specifiche competenze ne' della Comunita' europea, ne' dello Stato: ne', d'altronde, e' una vera materia, trattandosi invece di una modalita' di gestione di un bene, servizio o attivita'. Inoltre, trattandosi di un trasferimento ai privati di risorse costituite a spese della collettivita', e' un processo che va attentamente valutato in termini di benefici di ritorno alla collettivita' stessa. Essa, dunque, si giustifica soltanto la' dove l'ingresso del privato sia una garanzia di maggiore efficienza della gestione del bene privatizzato. Se cio' e' vero, lo Stato non puo' imporre la privatizzazione con la propria legge, per ragioni attinenti ad un'astratta valutazione dell'efficienza del servizio, a meno che non si tratti di tutelare i livelli essenziali delle prestazioni (come non accade certo nel presente caso: v. supra). L'efficienza, infatti, deve essere valutata in concreto dagli enti esponenziali della collettivita' che gestiscono il servizio, mentre disciplinarne le forme di esercizio in via generale ed astratta non puo' che contravvenire al principio di sussidiarieta', oltre che al riparto delle materie che a quel principio si ispira. Lo Stato, dunque, puo' legiferare: a) per assicurare la concorrenza la' dove l'ente competente decida di aprire il servizio ai privati; b) per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni; c) ponendo norme di principio sul coordinamento finanziario, la' dove si tratti di limitare il costo dei servizi rispetto al bilancio pubblico. Per il resto, le modalita' di erogazione dei servizi pubblici locali devono rientrare nella competenza e responsabilita' politica delle comunita' territoriali, alle quali compete la scelta anche delle modalita' di erogazione e dei modelli di gestione. Le norme impugnate sovrappongono e dunque confondono i due piani, che vanno, invece, mantenuti nettamente distinti. La confusione, a sua volta, nasce da un presupposto concettuale che si ritiene profondamente errato: che i principi della tutela della concorrenza comportino la necessaria privatizzazione delle risorse pubbliche, allo scopo di favorire l'insorgere di mercati concorrenziali, anche la' dove essi attualmente non ci siano. Questo, a ben vedere, non significa tutelare la concorrenza, ma favorire la presenza di operatori privati, affidando loro le risorse pubbliche che sono patrimonio delle collettivita' territoriali. Cosi' si contravviene a un ordine logico che, almeno per quanto riguarda i settori su cui non e' gia' presente un mercato concorrenziale (ad es. servizio idrico), dovrebbe muovere dall'obiettivo fondamentale e irrinunciabile della qualita' dei servizi (il livello di diffusione, il livello delle prestazioni, il livello delle tariffe, la trasparenza della gestione, la democraticita' dei controlli e degli indirizzi, ecc.). Sotto questo profilo, le norme sul superamento della gestione in house sono palesemente orientate a favorire un ingiustificabile processo di «svendita» (trattandosi di vendita obbligatoria e quindi fuori dalle condizioni di mercato) del patrimonio pubblico capitalizzato nel valore delle societa' pubbliche che hanno avuto in affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle conseguenze che questo processo avrebbe sulla qualita' dei servizi. Questo non corrisponde al principio comunitario di tutela della concorrenza, ma ad un «credo ideologico» circa la migliore capacita' delle imprese private di gestire non l'impresa in se', ma gli interessi pubblici. Questa opzione e' meramente ideologica, in quanto essa e' estranea sia alla costituzione comunitaria - nella quale e' indiscusso il diritto delle amministrazioni di gestire direttamente i propri servizi pubblici, sia alla Costituzione italiana, nella quale - fermo il diritto di iniziativa economica privata - e' pienamente ammessa l'impresa pubblica, in particolare finalizzata alla gestione dei servizi pubblici: al punto che non solo la Costituzione non contiene alcuna limitazione, ma addirittura prevede (art. 43) che per ragioni di utilita' generale (cioe' di interesse pubblico) possano addirittura essere trasferiti alla gestione pubblica imprese gia' in regime di iniziativa privata. E', peraltro, evidente l'interesse della Regione ad impugnare tali disposizioni: su un piano generale ad opporre ad una visione ideologica, priva di qualsiasi riscontro oggettivo, una diversa interpretazione degli interessi della propria comunita'; sul piano piu' direttamente giuridico, a realizzare la propria competenza legislativa in materia di servizi pubblici, che e' lo strumento con cui la Costituzione garantisce la sua autonomia politica, nonche' la propria vocazione a rappresentare gli interessi delle amministrazioni locali della propria comunita' (su cio' v. le sentt. n. 298/2009, punto 7.2, n. 169/2007, punto 3; n. 95/2007, 417/2005, 196/2004 e 533/2002). Dunque, anche il nuovo art. 23bis, comma 8, lettera a) e lettera d) viola l'art. 117, comma 1 (per contrasto con la Carta europea dell'autonomia locale), comma 2 (per erronea interpretazione dei confini dei poteri statali ivi previsti) e comma 4 (per violazione della potesta' legislativa regionale piena in materia di servizi locali e organizzazione degli enti locali), e l'art. 118, comma 1 e 2, Cost. (per violazione del principio di sussidiarieta' e della titolarita' comunale di funzioni proprie), per le ragioni esposte nel punto 1. Ancora, il nuovo art. 23-bis, comma 8, lettera a) e lettera d) lede l'autonomia finanziaria degli enti locali (art. 119 Cost.), dato che impone ad essi di cedere rilevanti quote delle societa' da essi controllate (e, come detto, l'obbligatorieta' della vendita rende difficile ottenere le condizioni di mercato). La Regione e' legittimata a far valere tale lesione (si vedano le decisioni di codesta ecc.ma Corte costituzionale richiamate poco sopra). In subordine, esso e' illegittimo in quanto regola nel dettaglio le quantita', le modalita' ed i tempi di tali cessioni, per le ragioni gia' esposte al punto 1) del presente ricorso, la' dove si e' contestato il comma 2, lettera b), per la regolazione in dettaglio dell'affidamento alla societa' mista (e il comma 8, lettera a), rinvia appunto al comma 2, lettera b).
P.Q.M. La Regione Liguria, come sopra rappresentata e difesa; chiede voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera b) e lettera d) del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita' europee, convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 2009, n. 166. Padova-Roma, 21 gennaio 2010 Avv. Giandomenico Falcon - Avv. Luigi Manzi